Prof. Diego Manetti
Filosofia
Karl Marx
(Treviri, 1818 – Londra 1883)
I giovani hegeliani e Feuerbach
Dopo la morte di Hegel, i discepoli si dividono in due correnti, opposte sull’interpretazione del
rapporto tra filosofia hegeliana e religione e tra filosofia hegeliana e stato.
La destra hegeliana afferma piena conciliazione tra religione cristiana e filosofia in quanto
entrambe colgono, pur in forme diverse, lo stesso spirito assoluto. Per quanto riguarda lo stato, si
propende per la sua legittimazione in quanto realtà storica determinata (stato prussiano) in virtù
della conciliazione hegeliana tra reale e razionale.
La sinistra hegeliana ribadisce invece l’inadeguatezza della ‘rappresentazione’ religiosa e la
necessità del suo superamento nel momento più alto della filosofia; in merito allo stato, ne
denunciano l’irrazionalità e arretratezza, invocandone il superamento rivoluzionario in nome di
una dialettica hegeliana intesa come critica del reale piuttosto che come sua comprensione.
Tra i giovani hegeliani di sinistra, si distingue Ludwig Feuerbach (1804 – 1872) che nell’Essenza
del cristianesimo (1841) elabora il concetto di alienazione: l’essenza umana appare all’uomo
stesso come ‘altro da sé’ in quanto proiettata nella figura trascendente e indipendente di Dio.
Negli attributi divini l’uomo oggettiva la proprie potenzialità e aspirazioni, al punto che si può
affermare che conoscendo Dio si conosce in realtà la vera essenza dell’uomo: ‘la teologia è
un’antropologia rovesciata’.
L’alienazione politica
Marx nasce in Renania nel 1818 da famiglia borghese di origine ebraica; laureatosi in filosofia,
si dedica al giornalismo politico. Giovane hegeliano di sinistra e seguace di Feuerbach, riprende
da quest’ultimo il concetto di alienazione religiosa, estendendolo alla sfera politica. Lo stato di
diritto nato dalla rivoluzione francese rappresenta infatti un’uguaglianza solo immaginaria e
astratta, ma dietro alla figura universale del ‘cittadino’ si cela la vera realtà di un soggetto privato
che persegue i propri interessi: il ‘borghese’.
Hegel aveva denunciato il contrasto tra il particolarismo della società civile e la sfera universale
dello stato, illudendosi che tale contraddizione dovesse essere superata nello stato stesso;
secondo Marx, finché permane la reale disuguaglianza tra cittadini, continuerà a prevalere la
società come aggregato di individui egoistici. Similmente, i cristiani sono uguali in cielo (in
Paradiso sono tutti ‘fratelli’) ma continuano a restare disuguali in terra. Il comunismo,
realizzando l’uguaglianza tra gli uomini in terra, sopprimendo la proprietà privata, è la vera
soluzione in quanto non ha più bisogno di proiettare al di sopra della società un’apparente
uguaglianza tra individui.
Se lo stato produce questa coscienza capovolta del mondo (e la religione con essa, come ‘oppio
dei popoli’), allora per superare l’alienazione politica (e quella religiosa) in quanto prodotto
sociale non è sufficiente la pura critica filosofica (come voleva invece Feuerbach) ma occorre
trasformare la pratica di quei rapporti sociali che generano l’alienazione politica e religiosa.
Prof. Diego Manetti
Filosofia
Dall’amicizia con Friedrich Engels (1820 – 1895) Marx trae stimoli per studi di economia
politica, fino a elaborare il concetto di lavoro alienato. L’operaio mette la propria vita
nell’oggetto prodotto e questa non gli appartiene più; in cambio del proprio lavoro riceve un
salario che è la minima parte della ricchezza prodotta, in quanto il prezzo della forza - lavoro è
un salario di pura sussistenza. Secondo Marx, il grande limite dell’Idealismo è di aver
dimenticato che l’uomo non si realizza solo su un piano spirituale (arte, religione, filosofia) ma
anche materiale: nel lavoro l’uomo dovrebbe esprimere liberamente la propria essenza e non
limitarsi a lavorare per la semplice sopravvivenza biologica. In questo senso, solo il
cambiamento pratico favorito dal comunismo permetterà all’uomo di riappropriarsi della propria
essenza.
La concezione materialistica della storia
Nel 1848 Marx ed Engels pubblicano il Manifesto del Partito Comunista. In esso emerge chiara
una denuncia: l’idealismo tedesco si è limitato a interpretare il mondo (Hegel ritiene i conflitti
sociali risolvibili nel procedere storico della dialettica razionale), mentre ora si tratta di
cambiarlo con un’azione politica concreta. Non basta parlare dell’uomo in generale (Feuerbach)
ma occorre rivolgersi agli individui concreti e socialmente determinati.
Alla storia hegeliana dello spirito si oppone la storia dei rapporti materiali e sociali: per ‘fare
storia’ gli uomini devono anzitutto produrre i mezzi per vivere e questa è la prima azione storica.
La produzione avviene entro determinati rapporti sociali di produzione, tanto che la storia umana
può essere letta come storia dei modi di produzione. In ogni società la classe dominante controlla
i mezzi di produzione (terra, strumenti, capitali) e si oppone alla classe lavoratrice (i lavoratori
stessi sono una forza produttiva, accanto a tecniche, strumenti e conoscenze), determinando
l’opposizione padroni/schiavi, capitalisti/salariati. Quando le forze produttive (lavoratori)
entrano in conflitto con i modi di produzione, allora si genera la rivoluzione sociale, che
modifica questi stessi modi (ad esempio, alla nobiltà feudale è subentrata la borghesia). La storia
di ogni società è dunque storia di lotte di classi, fin da quando, nell’originaria comunità
omogenea primitiva, la divisione del lavoro ha prodotto la scissione della società in classi. Anche
la borghesia non è immune da questa lotta e anzi il modo di produzione capitalistico prepara esso
stesso le condizioni per il proprio superamento.
‘Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, al contrario, è il loro essere
sociale che determina la loro coscienza’. Nella società, il modi produzione determina la struttura
della società, la sua base reale; le sovrastrutture politiche, giuridiche, religiose, morali, culturali
discendono da questa struttura (come dal modo di produzione capitalistico discende l’idea di
stato moderno o di uguaglianza giuridica tra cittadini). ‘Ideologia’ è una coscienza distorta di
questo rapporto, quando si ritiene che le idee di un popolo siano indipendenti dai rapporti sociali.
Ma se le idee derivano dai modi di produzione, non si genera alcun cambiamento con una
semplice critica intellettuale: ‘non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia’. Le
idee dominanti in una società non sono altro che le idee della classe dominante e dunque
espressione dei rapporti materiali dominanti: da qui la critica di Marx alla ‘ideologia tedesca’ e
alle filosofie idealiste della storia.
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La teoria del modo di produzione capitalistico
Durante il soggiorno londinese, Marx scrive Il Capitale. Critica dell’economia politica (1867).
In esso accusa la scienza economica di considerare ‘naturali’ (atemporali e immutabili) quelli
che in realtà sono solo rapporti storici e sociali: il lavoro umano non è per essenza lavoro
salariato, né le leggi degli economisti posso pretendere di valere come leggi universali ma solo
entro un certo modo di produzione, storicamente circoscritto.
Nell’elaborare la sua teoria economica, Marx distingue il valore d’uso (tipico di ogni prodotto
quando ha le qualità per soddisfare uno specifico bisogno umano) dal valore di scambio (è ciò
che rende merce un prodotto in quanto gli assegna un determinato rapporto quantitativo in
funzione della possibilità di scambio con altre merci). Il prodotto (l’abito che il sarto confeziona
per sé) diviene merce (l’abito che il sarto confeziona per venderlo) quando si scambia con altra
merce. In condizioni di equilibrio tra domanda e offerta, il rapporto quantitativo dello scambio è
determinato dal valore della merce, dipendente a sua volta dalla quantità di lavoro in essa
contenuta. Le merci, che hanno dunque valore d’uso diverso in quanto prodotti, assumono valori
di scambio commensurabili in virtù della quantità di lavoro socialmente necessario a produrle.
Il feticismo delle merci esprime in Marx la situazione tipica della società capitalistica in cui le
merci prodotte dagli operai si rivoltano contro di essi, acquisendo una propria autonomia e
superiorità sugli artefici.
Nella società mercantile semplice, le transazioni sono finalizzate unicamente la consumo,
secondo la formula M – D – M: produco una merce e la vendo per avere il denaro per acquistare
altra merce che mi serve per vivere. Si ha lo scambio tra valori equivalenti.
La circolazione capitalistica segue invece il ciclo D – M –D¹: il capitalista compra le merci
necessarie alla produzione (materie prime, macchine, lavoro salariato) e rivende poi per denaro
le merci prodotte. Lo scopo non è il semplice consumo ma l’accrescimento del capitale investito:
D¹ > D, dove la differenza è il plusvalore, cioè la valorizzazione del capitale iniziale.
Tra le merci acquistate dal capitalista, materie prime e strumenti sono il capitale costante, mentre
il capitale variabile è quello investito per acquistare forza lavoro. La forza lavoro, come ogni
merce, ha un valore che equivale la lavoro socialmente necessario per produrla e in questo caso
corrispondente ai mezzi necessari per la sussistenza dell’operaio. Acquistata la forza lavoro, il
capitalista la può usare liberamente per tutta la giornata; è a questo punto che emerge la
differenza tra il valore della forza lavoro pagato col salario e il valore prodotto dall’operaio con
una giornata di lavoro: nella prima parte della giornata il lavoratore ‘ripaga’ il proprio salario,
ma nella restante offre un plus-lavoro non retribuito che fornisce la capitalista il plusvalore, cioè
l’aumento del capitale iniziale. L’uguaglianza giuridica formale tra i soggetti dello scambio (il
capitalista compra la forza lavoro del proletario pagandola secondo il suo valore) cela la
disuguaglianza reale: il salariato è costretto a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere e
di questo si avvantaggia il padrone dei mezzi di produzione.
Il plusvalore viene investito per un nuovo e più ampio ciclo produttivo; in questo processo, la
concorrenza spinge il capitalista a sempre maggiori investimenti e all’associazione di grandi
gruppi monopolistici. Col tempo aumenta la ricchezza accumulata, diminuiscono i capitalisti (la
concorrenza è spietata), aumenta il numero dei proletari in condizioni sempre più disperate. Le
battaglie sindacali per la riduzione dell’orario di lavoro fanno sì che il capitalista veda ridursi il
margine di plusvalore sulla forza lavoro; l’industriale cerca dunque di rimediare con una maggior
produttività garantita da macchine sempre più efficienti, col risultato però di peggiorare ancor
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più la condizione degli operai. La concentrazione di vaste masse di operai in unità produttive
omogenee e compatte unifica il proletariato e ne rafforza la coscienza di classe (dal ‘fatto’ alla
‘idea’). A un certo punto diviene inevitabile la rivolta degli operai contro la classe capitalista,
classe che dunque ‘ha prodotto da sé i propri seppellitori’.
Rivoluzione e comunismo
La chiusura del Manifesto (‘Proletari di tutto il mondo, unitevi!’) fa capire come Marx non miri a
miglioramenti delle condizioni lavorative operaie ma punti deciso alla rivoluzione. Fedele
all’insegnamento hegeliano, Marx ritiene che il capitalismo produca da se stesso la propria
negazione (vedi sopra) e dunque che il comunismo non sia altro che l’esito necessario di un
processo storico che va svolgendosi attraverso e nonostante la classe capitalista.
Nella prospettiva marxista, la classe operaia non dovrà sostituirsi alla classe borghese ma
sostituire ad essa la dittatura del proletariato, fase di transizione necessaria e obbligata prima di
approdare a quella società senza classi in cui lo stato stesso - con buona pace di Hegel e di quanti
ne idolatravano l’universalità – dovrà scomparire.
Nella società comunista le forze produttive sapranno coordinarsi da sole, offrendo dapprima a
ognuno una retribuzione secondo la misura del suo lavoro e poi giungendo alla regola ‘Ognuno
(lavori) secondo le sue capacità, a ognuno (sia dato) secondo i suoi bisogni’.
Tra i diversi limiti della teoria comunista, innanzitutto il fatto che Marx auspichi la
semplificazione della stratificazione sociale (pochi capitalisti opposti a moltitudini di salariati)
come condizione imprescindibile per l’avvento del comunismo, mentre sarà smentito dalla
complessità sociale (tecnici, amministrativi) generata dallo sviluppo tecnologico, fatto che
impedirà il compattarsi del proletariato in un unico soggetto rivoluzionario.
In secondo luogo, Marx ha il difetto di ridurre la conflittualità sociale alla conflittualità
economica, trascurando elementi della realtà sociale ben più complessi e meno materiali
(trasformazioni culturali, qualità della vita, economia globale).