Trent’anni per la cultura dell’handicap e l’integrazione: beneficenza pubblica alla crisi dello stato sociale dalla Fonte: Orizzonti aperti Numero 4/5/6 luglio-dicembre 1987 ….In questo autunno del 1987, ho l'impegno di proporre un discorso complessivo sui trent'anni di storia dell'ANIEP, che rappresentano la maggior parte del mio lavoro politico e culturale e sociale, e risulta difficile essere distaccati ed evitare l'autoanalisi, attenersi ai dati oggettivi, sottrarsi ai toni «celebrativi». Ho affidato ad una specie di «repertorio cronologico» gli avvenimenti e le loro scadenze, adesso vorrei soltanto sviluppare alcuni ricordi di questi trent'anni di lotte per i diritti civili degli handicappati. Gli anni difficili È difficile descrivere e rendere conto della situazione degli invalidi in quei tempi; alcune categorie erano protette (invalidi di guerra, del lavoro, ciechi, sordomuti) ma la maggior parte degli handicappati (i cosiddetti invalidi civili) non avevano alcun tipo di assistenza e di riconoscimento dei diritti costituzionali. Vi erano solo due leggi, una del 1940 per l'assistenza sanitaria ai «poliomielitici, poveri e recuperabili» ed una analoga del 1954 per i discinetici (spastici), secondo le quali poteva essere consentito il ricovero e alcuni interventi di riabilitazione e la fornitura di protesi. Vi erano ancora epidemie di poliomielite che, a partire dal 1936, colpivano in media 3.500 persone all'anno; molti morivano per la mancanza dei polmoni d'acciaio o restavano gravemente invalidi per la carenza di strutture e di terapie sanitarie adeguate. L'isolamento e l'abbandono sociale erano altrettanto gravi: gli invalidi giudicati non recuperabili sopravvivevano con l'accattonaggio o erano «assistiti» in base al Testo Unico delle leggi comunali e provinciali, che fra le spese obbligatorie prevede il «mantenimento degli inabili al lavoro e... delle persone che, per infermità cronica e per gravi difetti fisici, non possono procacciarsi i mezzi di sussistenza». Questa legislazione era rivolta più che ai bisogni della persona, alla tutela del «decoro nazionale», come dimostra il Regolamento del Testo Unico della Legge di Pubblica Sicurezza (tuttora vigente), in cui si stabilisce: «Qualora un inabile di cui è stato ordinato il ricovero, non intenda stabilirsi nell'istituto o se ne allontani arbitrariamente, vi è accompagnato con la forza». La beneficenza era quindi ispirata al mantenimento dell'ordine pubblico e alla lotta contro la mendicità. I ricoveri comunali e gli ospedali provinciali per cronici e le analoghe istituzioni di carattere privato (IPAB), erano spesso ex conventi o costruzioni ottocentesche con grandi sale da 70 letti, separati gli uni dagli altri da 50 centimetri di spazio, con scarso personale, sporcizia, mancanza di impianti di riscaldamento, dove un handicappato poteva entrare bambino e restarvi tutta la vita (alcuni di questi istituti avevano il cimitero annesso); e se uno non era in grado di alzarsi doveva restare a letto, se era sporco o aveva bisogni corporali doveva aspettare il «turno del mattino», se non sapeva mangiare da solo doveva mettersi d'accordo con un altro degente perché lo imboccasse. Così un giorno dopo l'altro, un anno dopo l'altro, guardando sempre dalla stessa finestra, a contatto con tutti i tipi di malattie, privati di ogni dignità. Sembra il racconto di un viaggiatore del 700, ma era proprio cosi e vivono ancora uomini e donne che sono entrati in queste strutture nella prima infanzia e che adesso si chiamano «ex istituzionalizzati»: non sanno scrivere, non sanno leggere, non sanno parlare, hanno subito traumi irreversibili (quando non c'era posto negli ospedali per cronici poteva essere utilizzato anche il manicomio). Altri, i più fortunati, chiedevano l'elemosina davanti alle chiese, erano assistiti dalla «San Vincenzo», ricevevano pacchi dono dai patronati femminili delle Prefetture, la legna dall'ECA, partecipavano ai pranzi di Natale... Eppure nell'arco degli anni '60 l'Italia aveva già superato la fase della ricostruzione, c'era stato il boom economico, era stato istituito il Ministero della Sanità e i patrimoni ecclesiastici destinati alla beneficenza erano ingenti, ma per «l'assistenza gratuita» si spendevano 100 miliardi. Ho vissuto in prima persona queste situazioni e questo tempo, ma non saprei dire come avvenne il cambiamento: ho soltanto dei riferimenti mnemonici, il centrosinistra, Marcuse, Goffman, Basaglia, il '68, la protesta e la denuncia che trovano finalmente soluzioni politiche, culturali e istituzionali. Anche per quanto riguarda l'attività dell'ANIEP ho ricordi incerti: era una associazione di categoria che agiva secondo i modelli di quei tempi, chiusa in se stessa, impegnata nella beneficenza e nel pietismo, schiacciata dallo strapotere politico e organizzativo della LANMIC (la più grande associazione di invalidi che si cercava inutilmente di contrastare o di emulare), stretta da difficoltà finanziarie che impedivano il dispiegarsi di ogni programma, spesso bloccata da tensioni e lacerazioni interne. Ma l'ANIEP svolse anche in quegli anni un ruolo positivo mediante l'affermazione e la testimonianza che il miglioramento delle condizioni assistenziali e sociali degli handicappati doveva essere conseguito nel quadro dei diritti costituzionali e non come concessione pietistica e soprattutto nel rispetto della dignità delle persone. In quegli anni la LANMIC organizzò diverse «marce del dolore» (effettuate in maggior parte da falsi invalidi, braccianti del sud, disoccupati) con le quali riuscì a strappare alcuni interventi assistenziali e sanitari ed una legge sul collocamento al lavoro. Ma la logica era di tipo corporativo, secondo lo schema della, categoria giuridica e le provvidenze furono concesse in termini di «privilegio e di attenuazione delle tensioni», piuttosto che in un contesto di sicurezza sociale e di solidarietà. Questo fatto compromise le prospettive dell'integrazione e comunque definì una separazione, in termini giuridici. fra gli invalidi e la società. Forse era un prezzo necessario e nessuno può disconoscere il significato di quelle prime conquiste, ma proprio perché non derivavano da precise posizioni ideologiche, più che di una crescita civile si trattò di una burocratica omologazione del gruppo degli invalidi civili alle altre categorie (seppure con grandi differenze quantitative). La caratteristica sociologica è stata comunque quella della «tutela» e della eterogestione dei problemi degli invalidi, non riconoscendo ad essi le capacità di operare in proprio per la promozione dei loro diritti. Contro questa impostazione si protestò e si affermò l'autonomia sociale e la responsabilità politica dei portatori di handicap. Questo fu il presupposto necessario degli sviluppi futuri. La conquista dell'identità La legge 118 del 1971 costituisce insieme l'uscita per gli handicappati dalla logica della «beneficenza pubblica» e il primo esempio di una legislazione sociale che recupera alcuni principi del welfare state: non più soltanto sopravvivenza, ma libertà dal bisogno e inserimento nella vita attiva e sociale. I bisogni degli invalidi, che erano stati individuati esclusivamente in termini sanitari e di povertà, vengono integrati con l'affermazione del diritto all'istruzione, alla formazione professionale, alla assistenza economica soggettiva, alla eliminazione delle barriere architettoniche, alla riabilitazione. Contestualmente l'ANIEP, che ha ispirato e sostenuto la legge 118, trova una propria identità che si definisce nell'affermazione che l'unico obiettivo da perseguire per gli handicappati, risolti i problemi socio sanitari, è quello dell'integrazione sociale, dell'uguaglianza di opportunità, della partecipazione alla vita politica, culturale ed economica del Paese; ciò deriva da una nuova definizione dell'handicappato inteso insieme come portatore di deficit biofisici e come soggetto esposto a dinamiche di emarginazione sociale. Questo indirizzo ha avuto due conseguenze operative, da una parte ha innescato una critica totale ai modelli tradizionali dell'assistenza (con le sue radici ottocentesche) e all'immagine collettiva dell'invalido (malato, inutile, incapace, oggetto passivo di pietà), dall'altra ha aperto una discussione politica e istituzionale su tutte le strutture e le condizioni sociali nella prospettiva che diventassero accessibili e possibili anche per gli handicappati. All'assistenzialismo si sostituisce il progetto e l'impegno della socializzazione non in termini di imposizione rivendicativa, ma come comunicazione, reciprocità, solidarietà, riscatto. In termini concreti cominciò allora la lotta contro gli «enti inutili» (ONPI, ONMI, ENAOLI, IPAB), contro i manicomi, contro ogni forma di repressione e di controllo dei diversi, contro la competitività del sistema produttivo, contro la selettività della scuola, la meritocrazia e tutti gli autoritarismi reali o immaginari. Nel contesto di questo clima che ebbe la maggiore emergenza agli inizi degli anni '70, l'ANIEP non operò scelte di campo ideologiche o partitiche, ma propose e sviluppò il problema della riabilitazione sociale degli handicappati soprattutto in termini istituzionali e organizzativi, senza perdere di vista le dinamiche psicologiche e sociologiche che determinano l'esclusione. La battaglia contro gli «enti inutili» non fu soltanto una contestazione agli sprechi e ai centri di potere politico che in quegli enti avevano radici e ragioni, ma soprattutto una protesta contro la burocratizzazione e l'eterogestione dei diritti che in essi venivano «rappresentati e tutelati», senza nessuna forma di controllo democratico. D'altra parte la riforma dell'assistenza, cioè l'affermazione giuridica del diritto alla libertà dal bisogno, aveva come presupposto l'eliminazione degli enti autarchici e corporativi, derivati dal periodo fascista, che frenavano per ragioni di autoconservazione l'evoluzione della sicurezza sociale. Welfare state all’italiana Dopo l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario e fino al 1978, anno della riforma sanitaria, sembra svilupparsi un sistema di welfare coerente e arricchito, rispetto ad altri esempi occidentali, da specifiche caratteristiche di solidarietà e di coinvolgimento dei cittadini. In una prima fase il dibattito politico si svolge soprattutto sui temi del trasferimento alle Regioni e agli Enti locali delle funzioni statali in materia di assistenza socio-sanitaria. Sembrava che il decentramento dei servizi e l'attribuzione alle Regioni delle relative competenze legislative costituisse una condizione tecnica indispensabile per avvicinare cittadini all'esigibilità delle prestazioni e per garantire il controllo. Questo disegno si completò, dopo lunghe lotte, nel 1977 col D.P.R. n. 616 che attribuiva ai Comuni «tutte le attività che attengono, nel quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione di servizi gratuiti o a pagamento o di prestazioni economiche... a favore dei singoli odi gruppi ...». Era inoltre previsto che le funzioni, il personale e i beni delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, venissero trasferite ai Comuni. L'anno dopo, con la legge 883/'78, fu istituito il Servizio Sanitario Nazionale e si completava la territorializzazione dei servizi e l'enunciazione dei principi e delle modalità secondo i quali dovevano essere erogati. Per quanto riguarda gli handicappati, all'articolo 26 della riforma si legge: «Le prestazioni sanitarie dirette al recupero funziona-le e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, sono erogate dalle Unità Sanitarie Locali...». L'ANIEP è stata l'unica associazione di handicappati che si è impegnata nella promozione nel dibattito di queste riforme .nella consapevolezza che i problemi dei portatori di handicap dovevano essere affrontati in un contesto di legislazione generale (quindi non settoriale o specifica), considerando ciò una condizione dell'uguaglianza. Tuttavia in concomitanza con l'attuazione dei principali obiettivi della sicurezza sociale (quali l'universalità delle prestazioni, la garanzia del minimo vitale, l'istituzione dei servizi personali, l'eliminazione degli interventi repressivi), si è verificato un dissolversi delle consapevolezze culturali e delle tensioni politiche che li avevano determinati. Cominciò allora, alla fine degli anni '70, il predominio degli aspetti tecnici e finanziari del welfare state sui contenuti della solidarietà civile e morale. L'integrazione sociale non può essere imposta ma richiede il coinvolgimento e l'adesione dei cittadini; risulta evidente quindi l'importanza della strategia politica e organizzativa della partecipazione, del volontariato e del privato sociale. La linea partecipativa, con i suoi presupposti di pluralismo, di democratizzazione e controllo dei meccanismi decisionali e di politica del territorio, risultò soccombente sia rispetto alla logica tradizionale della gestione del potere politico e amministrativo, sia in rapporto a criteri di «razionalità». Per quanto riguarda la dimensione politica si può affermare che ha finito con il prevalere nettamente la partecipazione istituzionale (definita dalle nomine dei partiti e dei gruppi) sulla partecipazione per identificazione (adesione spontanea ai valori e impegno civile). La tesi partecipazionista è stata inoltre negata quando si è posto il problema della razionalità delle scelte: i problemi e i fatti tecnici, infatti, non possono essere sottoposti ai meccanismi della partecipazione. La dominanza dell'agire razionale rispetto allo scopo sull'agire comunicativo e simbolico non caratterizza più soltanto la produzione e lo sviluppo economico ma anche il «lavoro sociale». Per questa indebita estensione dell'impostazione tecnologica, l'handicappato viene sempre più spesso ridotto ad una questione tecnica, competenza di operatori, di psicologi, di sociologi, di pedagogisti e di burocrati. Il periodo si conclude con la celebrazione «dell'Anno internazionale dell'handicappato, un'ultima e formalistica corsa in avanti prima dell'inizio di una fase chiaramente regressiva quando i governi a guida laico-socialista cominciano ad imputare la crisi economica del paese ai costi della sicurezza sociale. La proposta dell'assistenzialismo Gli handicappati richiedono contestualmente prestazioni e servizi e una nuova cultura che li renda accettati e uguali, infatti bisogna garantire insieme le condizioni della sopravvivenza (assistenza), della riabilitazione (uguaglianza di opportunità) e della partecipazione (integrazione sociale). Quando i bisogni sono così articolati e interdipendenti è facile mistificare e alternare soluzioni contraddittorie che traggono spunto ora dal materialismo storico, ora dal neoliberismo, ora dal pragmatismo istituzionale. Negli ultimi 6 anni si sono registrate nei con fronti degli handicappati due tendenze soltanto in apparenza opposte: in un primo momento sono state fortemente aumentate le prestazioni assistenziali (garanzia del minimo vitale ai totalmente inabili), in un secondo momento si è voluto escludere gli invalidi dal lavoro e si sono affermate le soluzioni dell'intervento assistenziale. Attraverso una confusa vicenda di decreti, di leggi e di atti amministrativi e giurisdizionali, si è limitato il diritto al lavoro, si è messo in discussione l'inserimento scolastico, sono stati ridotti i servizi sul territorio, si è riproposta la separazione fra le prestazioni sanitarie e quelle sociali, si è diffusa la psicologia dei falsi in-validi e dello spreco delle spese sanitarie e assistenziali, determinando atteggiamenti di incomprensione e di rigetto sociale. L'indennità di accompagnamento (legge 18/1980), che pub essere concessa solo a chi rinuncia al lavoro, il decreto Craxi del 1983 che cercava di limitare il collocamento degli handicappati (per due volte proposto e respinto), l'atto di indirizzo dell'agosto 1985 (che propone il finanziamento di istituti o ospizi e nega le spese per i servizi di integrazione), le sentenze che vietano l'inserimento lavorativo degli irregolari psichici, rappresentano le tappe principali di questo processo di progressiva involuzione. Tale tendenza si verifica però anche nella legislazione regionale, nell'attività degli enti locali e delle U.S.L. che di fatto non riescono a realizzare i principi della riforma sanitaria, soprattutto nell'ambito della prevenzione e della riabilitazione, e che rischiano di trasformarsi in organismi di gestione e di decentramento autarchico di finanziamenti statali. Pur nell'incertezza delle intenzioni e delle soluzioni (assistenza sociale come diritto o ritorno all'assistenzialismo), per gli handicappati risulta sempre più chiaro che se vogliono ottenere o conservare pensioni e indennità debbono rinunciare all'inserimento sociale ed essere disponibili al ricovero in istituti, centri specializzati, case protette. Nella stessa situazione si trovano gli anziani, i malati mentali, i tossicodipendenti. L'integrazione sociale richiede una attività complessa di tipo tecnico, culturale e politico, l'erogazione di un sussidio o l'internamento in un istituzione speciale costituiscono invece una semplificazione amministrativa e finanziaria che se da una parte umilia la dignità degli utenti, dall'altra è funzionale alle politiche del consenso, crea nuovi posti di lavo o per gli operatori e soprattutto placa la coscienza del cittadino che non viene investito di responsabilità e di rapporti che vadano oltre la tolleranza. Contrastare questa tendenza non significa soltanto chiedere l'approvazione di nuove leggi (riforma dell'assistenza, una nuova disciplina sul collocamento, legge quadro sugli handicappati, l'integrazione dei servizi sanitari e sociali, la riforma delle autonomie locali), ma soprattutto riconquistare la consapevolezza della solidarietà e delle lotte per i diritti sociali. Non si tratta quindi di risolvere i conflitti, reali o strumentali, fra Stato e mercato, fra liberismo, marxismo e welfare state, di dominare la complessità del consenso o della crisi del sovraccarico, di risolvere i problemi di efficienza e di tollerabilità economica dei servizi (mediante la selettività), ma si tratta di rendersi conto che lo Stato può assicurare più beni materiali accentuando nello stesso tempo l'emarginazione. Si è verificata quindi una situazione di tipo «scandinavo» che in ambito politico si configura come una impossibile conciliazione fra l'uguaglianza in senso socialdemocratico, e la libertà individuale, in senso liberale. Le trasformazioni tecnologiche compromettono e confondono gli equilibri fra Stato e mercato, fra Stato e società e rendono difficile la definizione di un qualsiasi modello di sviluppo economico che derivi dalle ideologie o da un qualunque sistema teorico, laico o religioso, razionale o metafisico. Dal punto di vista sociologico risulta sempre più difficile rispettare contestualmente l'uomo naturale e l'uomo sociale: il soddisfacimento dei bisogni naturali sembra però comportare la perdita della solidarietà civile e morale, una sorta di incapacità sempre più diffusa di identificarsi con gli altri e di percepirne le difficoltà. Si sostenta l'uomo naturale, ma si lascia morire l'uomo come soggetto di relazione, di giustizia e di amore. E non si tratta soltanto di una ignoranza conoscitiva dei bisogni degli altri, ma di una cultura dell'individualismo che appiattisce i doveri sociali al conformismo, alla propria famiglia, al proprio gruppo. Gli handicappati con la loro presenza e con i loro bisogni di partecipazione evidenziano questa realtà complessiva di frammentazione sociale e di povertà di ideali: i problemi della sopravvivenza sono stati risolti, il rispetto formale della dignità è garantito, i servizi e le prestazioni essenziali sono realizzati, ma intanto è aumentata la distanza psicologica con la società e l'isolamento (che è una con-dizione generale) diventa per loro sofferenza. Le modalità di emarginazione non sono più quelle della reclusione fisica, ma della mancata legittimazione della appartenenza e della comunicazione sociale. Al termine di trent'anni di lotte per i diritti civili ci accorgiamo che abbiamo ancora bisogno di giustizia, di libertà e di solidarietà e che si tratta di tradurre questi bisogni in linguaggio e in azione politica. Poiché siamo consapevoli che le nostre difficoltà sono comuni a tutti i cittadini (o che comunque con l'invecchiamento sono nel futuro di tutta la popolazione) dobbiamo ancora insistere con la necessità del dialogo: ma l'ambiente è sordo e ottuso e i condizionamenti allo scambio del benessere individuale con il consenso e il silenzio sono forti come mai si è verificato nella storia del mondo occidentale. Allora bisogna ricominciare con le vecchie armi dell'umanesimo cattolico e marxista e dell'utopia laica: chiediamo lavoro, chiediamo rispetto, chiediamo una società che abbia come riferimento l'uomo e non le sue abilità o utilità. Gianni Selleri