CAPITOLO 8: Il modello neoclassico di crescita economica

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CAPITOLO 8: Il modello neoclassico di crescita economica
In questo e nei capitoli 9, 11 e 12 centreremo la nostra attenzione su diversi modelli di crescita
economica. Crediamo sia opportuno farli precedere da tre considerazioni metodologiche.
1. Illustreremo qui dei modelli teorici che tentano di spiegare la crescita economica piuttosto
che lo sviluppo. La crescita economica, tanto quella dei paesi ricchi quanto quella dei paesi
poveri, consiste nell’aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL), ovvero nell’incremento
della quantità di beni e servizi complessivamente prodotti da una data economia in un
determinato periodo. Poco importa, da questo punto di vista strettamente materiale, quale
sia la distribuzione fra classi ed individui di questi beni e servizi; quali prezzi si siano
pagati, per esempio in termini ambientali, per realizzare la maggior produzione materiale;
infine, quali costi sociali – conflitti, allentamento o persino rottura di relazioni
comunitarie consolidate, ecc. – un paese sopporti a causa o quantomeno in concomitanza
di un processo di crescita. Prendere in considerazioni questi ulteriori elementi rispetto al
dato puramente materiale significa, appunto, parlare di sviluppo. Ciò detto, non è certo
priva di fondamento l’idea secondo cui la crescita economica costituisca condizione
necessaria, per quanto non sufficiente, alla realizzazione di un processo di sviluppo latu
sensu: la maggior disponibilità di risorse materiali, infatti, allarga lo spettro di opportunità
fra cui una comunità può decidere il proprio destino, moltiplica per tutti – almeno
potenzialmente – le possibilità di condurre una vita complessivamente (materialmente e
non) migliore1. Per questa ragione nessun libro sullo sviluppo può prescindere da una
approfondita riflessione sulla crescita. Tanto più che, come abbiamo avuto modo di
vedere (inserire riferimento specifico), gli indicatori di sviluppo umano sono
generalmente migliori laddove più alto è il reddito pro capite.
2. Nei capitoli 8, 9, 11 e 12 analizzeremo dei modelli teorici, quindi delle astrazioni dalle
condizioni concrete di determinati paesi, anche di quelli ricchi. Ciò può apparire
insoddisfacente, ma in realtà la teoria deve necessariamente semplificare realtà complesse
e spesso differenti cercando gli elementi che più facilmente possono accomunare le
economie. Ad esempio la bassa crescita dell’Inghilterra nel dopoguerra potrebbe essere
spiegata da fenomeni simili a quelli che spiegano la mancata crescita dell’Africa o il
rallentamento della crescita in America Latina negli ultimi venti anni. Più in generale, se la
teoria non semplificasse, se non cercasse di cogliere lo scheletro dei fenomeni reali e, per
così dire, li fotografasse per intero, ebbene non sarebbe più teoria. Una fotografia non è
una spiegazione delle diverse realtà, ma una loro pura e semplice riproduzione.
Ovviamente i modelli di crescita sono assai numerosi; qui presenteremo solo quelli più
noti e che hanno avuto e ancora hanno una rilevanza per le politiche economiche spesso
adottate per favorire la crescita economica.
3. Infine, in questi capitoli si possono incontrare alcune difficoltà legate al fatto che i modelli
che esamineremo sono spesso caratterizzati da un certo grado di formalizzazione
matematica e, a volte, da una certa complessità di ragionamento. Vi sono almeno tre
ragioni per cui vale la pena di affrontare questa (relativa) complessità matematica. In
primo luogo, è compito dell’economia politica, tra l’altro, cercare di spiegare relazioni fra
variabili quantitative (inflazione, PIL e sue variazioni, occupazione, ecc.) ed è perciò
semplicemente necessario ricorrere ad una qualche formalizzazione algebrica.
Secondariamente, alcuni dei modelli formalizzati di crescita che illustreremo sono alla
base di politiche più o meno ortodosse di stabilizzazione economica suggerite ai PVS da
alcune organizzazioni internazionali, e vanno perciò presentati e studiati con estrema
attenzione. Se le due sin qui illustrate sono ragioni tutto sommato superficiali, ve ne è una
Per un punto di vista diverso, secondo cui lo sviluppo sarebbe meglio garantito da un processo di de-crescita, si
vedano i lavori più recenti di Serge Latouche (inserire riferimenti specifici)
1
2
terza assai più profonda, in virtù della quale è sensato studiare modelli formalizzati di
crescita economica. E’ bensì vero che la crescita economica storicamente sperimentata ha
prodotto innanzitutto straordinari cambiamenti qualitativi – movimenti di massa dalle
campagne alle città, produzione di nuovi beni e nuovi servizi spesso neppure
immaginabili solo pochi anni prima della loro stessa creazione – ma è altrettanto vero che
la crescita economica riproduce le medesime relazioni sociali di base su scala
quantitativamente sempre crescente2. Nel sistema economico capitalistico, quali che siano i
beni prodotti e le tecnologie a ciò necessarie, il lavoro e il capitale sono assemblati
all’interno di ciascuna unità produttiva per trasformare input produttivi (beni intermedi)
in un output da vendere sul mercato. La differenza fra valore dell’output e valore degli
input, il valore aggiunto, prende la forma di salari con cui si remunerano i lavoratori e di
profitti, interessi e rendite che costituiscono il reddito dei capitalisti detentori delle
macchine, del risparmio finanziario e delle risorse naturali. La crescita economica è
finanziata dalla decisione dei capitalisti di reinvestire parte del loro reddito affinché la
produzione possa realizzarsi su più larga scala. Questo non significa che le teorie della
crescita non debbano considerare i cambiamenti qualitativi cui abbiamo fatto cenno;
significa invece che lo debbono fare se e in quanto essi aiutino a spiegare il modificarsi
delle relazioni sociali del sistema capitalistico nel quale viviamo. Così ad esempio, come
abbiamo visto nel capitolo 7, il modello di Lewis illustra il processo di crescita come il
progressivo affermarsi dei settori formali, prevalentemente urbani e capitalistici a
discapito di quelli informali, prevalentemente rurali e pre-capitalistici. Il passaggio da
un’economia prevalentemente agricola ad una di tipo manifatturiero interessa allora non
come fatto merceologico, ma in quanto con esso si generalizzano le relazioni sociali
proprie del capitalismo. O, ancora ad esempio, alcuni modelli di crescita endogena che
studieremo nel capitolo 9 considerano esplicitamente la creazione di nuove varietà di
beni, ma lo fanno poiché essa, incrementando il potere di monopolio degli inventori,
modifica sia i rapporti economici fra capitalisti che quelli fra capitalisti e lavoratori.
8.1 Il modello di Solow e Swan
Robert Solow e T.W Swan svilupparono indipendentemente, nel 1956, un modello di
crescita economica teso a dimostrare che l’economia capitalistica può crescere in equilibrio di
piena occupazione pur in assenza di intervento pubblico. Prima di illustrare il modello e capire il
senso di questa affermazione è opportuno tentare un minimo di contestualizzazione storica,
enfatizzare il radicale spostamento di prospettiva operato da Solow e Swan rispetto alla tradizione
keynesiana. Uno dei maggiori esponenti di questa tradizione era un economista di Oxford, Roy
Harrod, che propose il suo modello nel 1939, in piena epoca keynesiana e successivamente alla
grande depressione del 1929-32. Egli si preoccupava perciò non solo di spiegare perché le
economie crescessero a tassi più o meno elevati, ma anche (soprattutto) come mai si potessero
produrre nei sistemi capitalistici gravi fenomeni di instabilità. La conclusione di Harrod, come
vedremo con precisione nel capitolo 11, è che la crescita economica capitalistica sia in essenza
instabile e che solo l’intervento pubblico, una politica economica saggiamente amministrata,
possa attenuare tale instabilità e garantire nel tempo una crescita equilibrata con piena
occupazione e perciò inclusiva, i cui frutti siano cioè goduti da tutta la classe lavoratrice. A tale
conclusione Harrod arriva attraverso un modello intrinsecamente keynesiano, che poggia cioè
sull’importanza di distinguere le decisioni di risparmiare – decisioni prese dai capitalisti detentori
di ricchezza – dalle decisioni di investire (di acquistare nuovi beni capitale utili al processo
produttivo), prese dagli imprenditori. Capitalisti sono tutti coloro che dispongono di una qualche
ricchezza (risparmio accumulato nel tempo) e devono decidere come impiegarla (depositi bancari,
obbligazioni ed azioni emesse da imprese, titoli di stato, beni immobili, ecc.); imprenditori sono
2
Sul punto in questione si confronti il lavoro di D.R.Foley e T.R.Michl (1999), cap.1
3
solo coloro che organizzano i fattori della produzione, decidono cosa produrre, quanto produrre
e, appunto, quanti e quali nuovi beni capitali acquistare in un certo periodo per realizzare la
produzione nei periodi successivi. Naturalmente le figure del capitalista e dell’imprenditore
possono anche coincidere in un’unica persona fisica, ma ciò non toglie che la distinzione
funzionale fra di esse sia tale da determinare una potenziale differenza fra risparmi decisi dagli uni
e investimenti pianificati dagli altri. Si tratta di una distinzione totalmente ignorata sia dagli
economisti classici (con la rilevante eccezione, lo abbiamo visto nel capitolo 6, di Karl Marx) che,
come vedremo in questo stesso capitolo, da quelli neoclassici per i quali i risparmi coincidono
necessariamente, ex-ante e non soltanto ex-post, con gli investimenti. Detto in altri termini: per
classici e neoclassici l’unica buona ragione per risparmiare (per consumare di meno) nel presente
consiste nell’acquisto di beni capitali con i quali poter produrre e quindi consumare di più in
futuro. Un sacrificio oggi in vista di un premio domani.
Il modello di Solow e Swan non solo abbraccia questo punto di vista neoclassico ma, nel
campo specifico degli studi sulla crescita, ne costituisce certamente il riferimento intellettuale per
eccellenza. Di fatto i due autori non distinguono la figura dell’imprenditore da quella del
capitalista e assumono che i risparmi vengano automaticamente investiti, destinati all’acquisto di
beni capitale. Si tratta di una ipotesi molto forte che, a ben pensarci, in sé già contiene un risultato
altrettanto forte: l’economia cresce sempre in equilibrio macroeconomico (senza bisogno di alcun
intervento pubblico, senza dover combattere alcuna instabilità congenita) e quel che resta da
dimostrare è che tale equilibrio sia anche di piena occupazione.
Dal punto di vista economico una tecnica produttiva può essere descritta specificando di quanto
capitale è dotato ciascun lavoratore all’inizio di ogni periodo, quanto output viene prodotto da
ciascun lavoratore alla fine di ogni periodo e quanto capitale si deteriora nel corso del periodo
produttivo. Formalmente, una tecnica produttiva si può perciò descrivere con tre numeri: il
rapporto capitale/lavoro, k, la produttività di ciascun lavoratore, y, e il tasso di deprezzamento
del capitale, δ. L’ipotesi neoclassica è che k e y siano legati fra di loro da una funzione continua e
ben conformata. Tale funzione definisce una tecnologia, ovvero un continuum di infinite tecniche
produttive tra cui le imprese possono esercitare la propria scelta. Vediamo come.
Si definisce innanzitutto una funzione di produzione aggregata3 che mostra l’output aggregato
Y che si può produrre utilizzando una quantità arbitraria di capitale, K, e di lavoro, L:
Y = F (K,L)
(8.1)
Nella (8.1), che si assume essere continua e continuamente differenziabile, il capitale K e il
prodotto finale Y hanno lo stesso prezzoo. In sostanza, trattandosi di una funzione di produzione
aggregata, si può pensare che l’economia produca un solo bene, il PIL diciamo, e che tale bene
possa poi essere utilizzato a scopo di consumo o a scopo di investimento. Al di là degli aspetti
tecnico-formali, qui importa rilevare la sostanza economica dell’ipotesi di continua
differenziabilità. Essa comporta che una medesima quantità di output possa essere prodotta da
infinite combinazioni capitale-lavoro. In altri termini, è tecnicamente possibile sostituire capitale
con lavoro (e viceversa) per produrre una certa quantità di output. Se il costo del lavoro, w, è alto
relativamente a quello del capitale, r, le imprese sceglieranno tecniche capital-intensive (“tanto”
capitale e “poco” lavoro); viceversa, sceglieranno tecniche labour-intensive4. Vedremo che è proprio
su questa idea di sostituibilità che poggia l’argomento di Solow e Swan teso a dimostrare la
convergenza dell’economia alla crescita equilibrata e di piena occupazione. A prima vista l’idea
che capitale e lavoro possano sostituirsi per produrre la medesima quantità del medesimo output
pare difficilmente contestabile: non è forse vero che, per esempio, in un’officina di riparazioni
Nel capitolo 10 discuteremo un punto molto importante di teoria economica, la critica alla nozione stessa di
funzione di produzione aggregata.
4 Il costo del lavoro, w, è dato dal saggio di salario per unità di tempo (giornaliero, mensile, annuale, ecc.). Il costo del
capitale, r, si deve più correttamente definire costo d’uso del capitale riferito a quella stessa unità di tempo, e
corrisponde alla somma dei costi che le imprese sostengono per utilizzare lo stock di capitale nel periodo in
questione (giorno, mese, anno, ecc.): costo-opportunità, obsolescenza, senescenza.
3
4
meccaniche di Monaco di Baviera si impiegano molti e sofisticati macchinari insieme con pochi
lavoratori specializzati mentre le stesse riparazioni si effettuano a Calcutta impiegando molti
lavoratori non qualificati spesso dotati di strumenti piuttosto rudimentali? Questo è certamente
vero, ma si tratta di un fatto che può essere letto diversamente: per gli economisti classici ed in
generale di scuola non neoclassica le tecniche produttive più capital-intensive sono il risultato di un
processo storico di innovazione tecnologica (di invenzione di nuove tecniche e/o assorbimento e
adattamento di tecniche già esistenti in altri contesti); l’impiego di una funzione di produzione
neoclassica, invece, implica che un intero spettro di tecniche – dalle più capital-intensive alle più
labour-intensive – sia già stato inventato e simultaneamente disponibile in ogni periodo storico.
Solow e Swan ipotizzano inoltre che la funzione di produzione esibisca rendimenti costanti di
scala, ovvero che sia possibile incrementare la produzione di un certo ammontare (per esempio
raddoppiarla) aumentando entrambi gli input produttivi del medesimo ammontare
(raddoppiandoli). L’idea di rendimenti costanti di scala sembra essere logicamente inoppugnabile:
se possiamo produrre Y tonnellate di grano utilizzando L unità di lavoro e K unità di capitale,
allora potremo semplicemente replicare questo processo e così, utilizzando 2L unità di lavoro e
2K unità di capitale, produrre 2Y unità di grano. In realtà le cose non sono così semplici e, come
vedremo nel cap. 9 discutendo di crescita endogena, vi è una significativa evidenza empirica
secondo cui la produzione è soggetta a rendimenti di scala crescenti. Per ora, tuttavia,
manteniamo l’ipotesi di rendimenti di scala costanti. Essa ci consente di riscrivere la funzione di
produzione nella sua forma intensiva:
y
Y
K L
 F ( , )  F (k ,1)  f (k )
L
L L
(8.2),
dove y indica il prodotto per lavoratore (la produttività del lavoro) e k il rapporto capitale/lavoro.
Come si diceva, è chiaro dalla (8.2) che secondo l’ipotesi neoclassica k e y non sono
semplicemente due numeri che individuano una tecnica produttiva, ma due variabili: la funzione
che le lega definisce una tecnologia, ovvero un continuum di infinite tecniche produttive tra cui le
imprese possono esercitare la propria scelta. Non soltanto la tecnologia (la funzione F o, in modo
del tutto equivalente, la funzione f) è continua, continuamente differenziabile e a rendimenti di
scala costanti, ma – ipotesi cruciale per il discorso neoclassico – essa presenta rendimenti
marginali positivi e decrescenti sia del capitale che del lavoro, ovvero FK > 0, FKK < 0, FL > 0 e
FLL < 0, dove Fi e Fii indicano rispettivamente la derivata parziale prima e la derivata parziale
seconda della funzione di produzione rispetto all’input i-esimo. L’ipotesi che il capitale manifesti
rendimenti marginali decrescenti implica che un aumento del capitale impiegato nel processo
produttivo incrementi la produzione complessiva in misura tanto maggiore quanto minore è, per
ogni data disponibilità di lavoro, la quantità di capitale di cui già si dispone 5. Queste ipotesi
equivalgono a dire che fk > 0 e fkk < 0. Il modo più semplice per convincersene è di studiare il
caso specifico della funzione di produzione Cobb-Douglas, funzione su cui torneremo
frequentemente in seguito. Avremo:
Un esempio può essere utile a capire il senso dell’ipotesi di rendimenti decrescenti del capitale. Immaginiamo due
lavoratori incaricati di pulire un capannone industriale. Senza l’ausilio di alcun macchinario ci impiegheranno,
diciamo, sei ore. Poi pensiamo all’acquisto di un macchinario “AspiraTutto”: a turno i due lavoratori potranno
avvalersene, così che il tempo impiegato per pulire il capannone si riduce a 4 ore (la produttività del lavoro è
cresciuta del 33%). Poi si introduce un altro macchinario e non c’è più bisogno di fare i turni. Il tempo necessario a
terminare il lavoro scende a, diciamo, due ore (con un incremento della produttività del lavoro pari al 50%: fino a
questo punto i rendimenti del capitale sono crescenti). Continuiamo nell’esperimento, e acquistiamo il terzo
“AspiraTutto”: possiamo pensare che, nel caso si guasti uno degli altri due, i lavoratori non saranno costretti a
tornare alle loro nude mani, ciò che riduce il tempo complessivo di lavoro a un’ora e cinquanta minuti, con un
incremento della produttività pari a circa l’8.3%. Ed è chiaro che se acquistassimo un quarto macchinario
mantenendo invariata la quantità di lavoro, l’incremento della produttività del lavoro sarebbe ancora inferiore: la
legge dei rendimenti marginali decrescenti del capitale ha cominciato ad operare.
5
5
Y  F (K , L)  K  L1
con 0    1
(8.3)
e dunque la forma intensiva
y
Y
 K  L  K L   k 
L
(8.4)
Il parametro α nella Cobb-Douglas ha un significato preciso. Esso, nell’ipotesi che i mercati del
prodotto finale e dei fattori produttivi siano perfettamente concorrenziali, misura la quota dei
profitti sul valore aggiunto, che è osservabile nei dati macroeconomici. Simmetricamente, (1 – α)
misura la quota dei salari sul valore aggiunto. Infatti, per definizione avremo:
Quota dei profitti = (Tasso di profitto x K)/Y.
Nell’ipotesi di mercati perfettamente concorrenziali le imprese utilizzeranno una quantità di
capitale tale che il prodotto marginale del capitale sia eguale al tasso di profitto. Ne segue che:
Quota dei profitti  (
F
K
K) / Y 
K
 1 1
L
K
Y

Y
 ,

che è esattamente quel che volevamo dimostrare. Come si vede dalla Tabella 8.1, la quota dei
profitti nelle economie avanzate è piuttosto stabile nel tempo e si aggira intorno al 30-35%
USA
Francia
Germania
Olanda
Regno Unito
Giappone
Tabella 8.1: la quota dei profitti nelle economie avanzate
1960-73
1974-79
1980-89
33.0
32.2
33.2
31.8
29.8
32.2
30.7
29.4
31.5
32.3
29.5
35.8
30.7
29.9
30.7
40.6
30.3
31.5
1990-95
33.7
38.4
34.5
38.2
29.1
33.2
Fonte: Foley e Michl (1999), p.29
Dalla (8.4) è immediato verificare che
y
 f k  k  1  0
k
e
2 y
 f kk   ( 1)k  2  0 ,
2
k
ovvero che: a) un aumento del rapporto capitale-lavoro (k) fa crescere la produttività del lavoro
(y) e ciò avviene in buona sostanza perché ciascun lavoratore dispone in media di una maggior
quantità di capitale (“macchine”) su cui esercitare le proprie abilità; b) l’aumento della produttività
del lavoro è tuttavia meno che proporzionale rispetto all’aumento del rapporto capitale/lavoro a
causa dell’operare della legge dei rendimenti marginali decrescenti.
Graficamente, avremo:
6
y = Y/L
y*
k*
k = K/L
Figura 8.1: La funzione di produzione
La funzione di produzione riportata nella Figura 8.1 (la linea continua) rispetta tutte le proprietà
sin qui discusse. Un punto su di essa, per esempio il punto di coordinate (k*, y*), costituisce una
tecnica produttiva. L’inclinazione del segmento che unisce l’origine degli assi con il punto in
questione (segmento tratteggiato nella Figura 8.1) è pari a
Y L Y
1
 b
K L K
v
(8.5),
dove v = K/Y non è altro che l’inverso della produttività media del capitale. E’ chiaro che
muovendosi lungo la funzione di produzione, ovvero selezionando una tecnica caratterizzata
da un diverso rapporto capitale/lavoro, v = K/Y si modificherà. In particolare, a tecniche più
capital-intensive corrisponde un valore di v più elevato, a tecniche più labour-intensive
corrisponde un valore di v più basso. Vedremo che sono proprio le variazioni di v, secondo
Solow e Swan, a garantire che l’economia cresca in equilibrio di piena occupazione. In realtà
nel quadro analitico di Solow e Swan la crescita in equilibrio è una assunzione del modello,
c’è poco da dimostrare: abbiamo già sottolineato che assumere che i risparmi coincidano exante con gli investimenti equivale ad assumere che l’economia si trovi sempre in uno stato di
equilibrio macroeconomico. La domanda aggregata coincide sempre con l’offerta aggregata e
dunque il processo di crescita sarà sempre equilibrato. Resta invece da dimostrare quale sia il
meccanismo attraverso cui le variazioni di v garantiscano che la crescita non sia soltanto
equilibrata, ma anche di piena occupazione. Crescere in equilibrio “di piena occupazione”
significa in sostanza che nel tempo l’economia, crescendo, riesce a fornire posti di lavoro sia a
coloro che di periodo in periodo si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro sia a
coloro vi si ripresentano in quanto espulsi nei periodi precedenti in seguito all’introduzione di
tecniche più moderne e risparmiatrici di lavoro. In termini un poco più rigorosi: l’output di
una economia si può sempre esprimere come prodotto fra unità di lavoro impiegate e
produttività del lavoro: output totale = (produttività del lavoro) x (quantità di lavoro
impiegata). Quando in un determinato periodo tutta la forza lavoro che si offre sul mercato del
lavoro è occupata l’economia produce il suo massimo output realizzabile, il suo output
potenziale. Ora, è evidente da questa semplice formulazione che se da un periodo all’altro,
grazie al progresso tecnico, la produttività cresce del 3% e per via della dinamica demografica
la forza lavoro cresce dell’1%, allora l’output dell’economia dovrà crescere del 4% (3 + 1)
affinché ciascuno trovi un impiego produttivo. Se così non fosse e per esempio l’economia
crescesse soltanto del 2%, questo significherebbe che qualcuno non riuscirà a trovare lavoro,
7
non serve più al processo produttivo. In formule: indicando con n il tasso di crescita (esogeno)
della popolazione e con  il tasso di progresso tecnico (di variazione della produttività del
lavoro), il tasso di crescita dell’economia necessario a garantire nel tempo il mantenimento
della piena occupazione sarà pari a n + . Ciò che Solow e Swan dimostrano è esattamente
questo, che le variazioni di v decise dagli imprenditori sono tali che il tasso di crescita
dell’economia sia tendenzialmente pari a n + . Vediamo perché, e per pura semplicità
assumiamo che non vi sia progresso tecnico (π = 0).
Innanzitutto, nel modello si suppone che il risparmio sia una frazione fissa del reddito prodotto e
distribuito in ogni periodo6:
S = sY.
L’ipotesi, già discussa, che risparmi ed investimenti si eguaglino ex-ante e non soltanto ex-post
implica che la variazione dello stock di capitale di periodo in periodo sia pari all’eccesso dei
risparmi sul deprezzamento del capitale (variabile, quest’ultima, che sino a qui abbiamo omesso
per semplicità). Formalmente avremo (d’ora in avanti per brevità e salvo diverso avviso
ometteremo l’indice temporale “t”. Il valore che una variabile Z assume al tempo t si indicherà
semplicemente con Z, il valore che essa assume al tempo (t + 1) si indicherà con Z+1, ecc.):
K 1  K  K  I
ovvero
K 1  K  sY  K ,
ricordando che con  indichiamo il tasso di deprezzamento del capitale. Dividendo entrambi i lati
per K otteniamo il tasso di accumulazione del capitale, gK:
gK 
sY
s
  
K
v
(8.6)
Il tasso di crescita della forza lavoro, n, si assume essere esogenamente dato, sostanzialmente
determinato da fattori demografici e di ordinamento legale-istituzionale (età pensionabile, obbligo
scolastico, ecc.). Conoscendo sia il tasso di accumulazione del capitale, gK, che il tasso di crescita
dell’occupazione, n, è immediato calcolare il tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro:
K 1 K

L1 L 1  g K
gk 

1  g K  n ,
K
1 n
L
dove l’approssimazione è tanto più precisa quanto più piccoli sono i valori di g K e n. Inserendo in
quest’ultima equazione la (8.6) otteniamo la cosiddetta equazione fondamentale del modello di
crescita di Solow e Swan:
s
gk  (  )  n
v
(8.7)
In altri modelli neoclassici le decisioni di risparmio vengono razionalizzate diversamente, in modo certamente più
raffinato. In particolare, si assume frequentemente che gli “agenti” (non solo non si distingue fra comportamento
degli imprenditori/investitori e comportamento dei risparmiatori, ma non si distingue neppure fra comportamento di
risparmio dei percettori di redditi da capitale e dei percettori di reddito da lavoro) massimizzino una funzione di
utilità intertemporale e perciò decidano quanto risparmiare non solo sulla base del reddito percepito, ma anche sulla
base dei tassi di interesse che si aspettano prevalere in futuro. Nel caso in cui la funzione di utilità intertemporale
assuma una forma Cobb-Douglas si dimostra che il risparmio costituisce una frazione fissa non del reddito corrente,
ma della ricchezza accumulata nel tempo (si veda in proposito il capitolo ? DA INSERIRE CAPITOLO PRECISO).
6
8
Nel caso specifico della Cobb-Douglas (dunque con v=k1-ά) l’equazione fondamentale diventa
g k  sk  1    n 


1 
1
sk  k (n   )  sy  k (n   )
k
k
(8.8)
E’ proprio l’equazione fondamentale a farci capire che l’economia descritta dal modello di Solow
e Swan giunge ad uno “stato stazionario” (capiremo tra poco il significato preciso di questa
espressione) nel quale l’economia cresce stabilmente in equilibrio di piena occupazione. E’ chiaro
infatti che quando il tasso di accumulazione del capitale – ovvero il termine fra parentesi tonda
nella (8.7) – eccede il tasso di crescita della popolazione, il rapporto capitale/lavoro aumenta. Più
precisamente: l’offerta di capitale cresce più velocemente dell’offerta di lavoro. Di conseguenza,
per una data domanda dei fattori produttivi, anche il rapporto fra il prezzo del lavoro e il prezzo
del capitale, w/r, aumenta, ciò che a sua volta rende più profittevole l’impiego di tecniche
produttive più capital-intensive, caratterizzate da un k più elevato (e dunque come sappiamo da un v
più elevato). In sintesi: quando gK > n, è ottimale per le imprese che cercano di massimizzare i
profitti adottare tecniche produttive con un k (v) più elevato. Questa situazione è illustrata, per il
caso specifico della Cobb-Douglas, nella Figura 8.2 (l’equazione fondamentale cui guardare sarà
perciò la (8.8))
y
y
(n     )k
y*
sy
k
k0
k
*
k1
Figura 8.2: Lo stato stazionario nel modello di Solow-Swan
Se il rapporto capitale-lavoro è pari a k0 allora, come risulta evidente dalla Figura 8.2, sy > (n +
δ)k (o, il che è lo stesso, gK > n )7. La (8.8) ci dice che in tal caso gk > 0: k cresce giacché, come
abbiamo visto, le imprese sono incentivate ad impiegare tecniche produttive più intensive in
capitale. La freccia orientata verso destra nella Figura 8.2 sta appunto ad indicare questo
movimento di k. E cosa accadrebbe se il rapporto capitale-lavoro fosse pari a k1? In questo caso
Il termine (n + δ)k indica l’investimento necessario a mantenere costante nel tempo lo stock di capitale per
lavoratore. Ovviamente esso è tanto maggiore quanto più velocemente la popolazione cresce e il capitale stesso si
deprezza.
7
9
sy < (n + δ)k (o, il che è lo stesso, gK < n ). La (8.8) ci dice che in tal caso gk < 0: k diminuisce
poiché questa volta le imprese saranno incentivate ad impiegare tecniche produttive più intensive
nell’uso di lavoro, il fattore produttivo che, diventando relativamente più abbondante, diventa
anche relativamente meno costoso. La freccia orientata a sinistra indica questo tipo di
movimento. Dunque: quale che sia il rapporto capitale-lavoro che caratterizza l’economia, essa si
muoverà in ogni caso verso k*, quel particolare rapporto capitale-lavoro in corrispondenza del
quale sy = (n + δ)k (o, il che è lo stesso, gK = n ) e perciò gk = 0. In k* l’offerta di lavoro e di
capitale crescono allo stesso tasso, w/r resta costante e le imprese non hanno più alcun incentivo
a modificare le tecniche in uso, k e v restano costanti. L’economia, si dice, ha raggiunto uno stato
stazionario: una sorta di stato di quiete nel quale, periodo dopo periodo, essa si ripeterà sempre
uguale a se stessa. Nello stato stazionario il rapporto capitale/lavoro è costante (al livello k*) e
quindi anche la produttività del lavoro sarà costante, al livello (continuiamo a considerare il caso
specifico della Cobb-Douglas)
y*  (k*)
(8.9).
Se il prodotto per lavoratore, y, è costante al livello di stato stazionario, y*, ciò significa che nello
stato stazionario il prodotto totale dell’economia, Y, cresce allo stesso tasso della forza lavoro, n.
Si tratta precisamente di ciò che intendevamo dimostrare: non solo l’output dell’economia cresce
al tasso garantito (che è una ipotesi del modello di Solow), ma quest’ultimo eguaglia quello
naturale: g = s/v = n. L’economia capitalistica, grazie all’incentivo delle imprese ad adottare le tecniche
produttive che massimizzano i profitti, cresce in equilibrio stabile e di piena occupazione.
Nel caso specifico della Cobb-Douglas possiamo risolvere esplicitamente l’equazione
fondamentale e, ponendo gk = 0, determinare il valore di stato stazionario del rapporto capitaleprodotto e del prodotto per lavoratore:

1
 s  1
k*  

 n  
 s  1
y*  

 n  
e
(8.10)
Nello stato stazionario il prodotto per lavoratore, e verosimilmente il reddito pro capite, sarà
tanto più alto quanto maggiore è il tasso di risparmio e quanto minori sono il tasso di crescita
della popolazione e di deprezzamento del capitale. Come avremo modo di discutere nel seguito
questo risultato è importante ai fini della comprensione di alcune politiche che si ritiene aiutino la
crescita di un paese.
Al di là dei risultati di stato stazionario, è interessante cercare di capire che cosa accade durante la
transizione che conduce l’economia da k0 a k*. Possiamo pensare per esempio ad una economia
“povera”, caratterizzata dall’impiego di tecniche produttive ad elevata intensità di lavoro
(k0,appunto) e perciò da una bassa produttività del lavoro e verosimilmente da un basso reddito
pro capite. Bene, osserviamo innanzitutto che il prodotto marginale del capitale e il prodotto
marginale del lavoro dipendono proprio dal valore di k. Nel caso specifico della Cobb-Douglas
essi sono pari a:
FK  k  1
e
FL  (1   )k 
(8.11)
Ora, dal momento che le imprese massimizzano i profitti, il prodotto marginale del lavoro sarà
uguale al salario reale, mentre il prodotto marginale del capitale eguaglierà il tasso di profitto (il
costo d’uso del capitale8). Ma, come si vede dalla (8.11), il prodotto marginale del capitale è
Costo d’uso del capitale e tasso di profitto coincidono per via della concorrenza fra capitalisti. Se in un qualche
settore dell’economia il tasso di profitto dovesse eccedere il costo d’uso del capitale, ciò attirerebbe nuovi capitalisti
8
10
funzione decrescente di k, mentre il prodotto marginale del lavoro cresce con k. Ne segue che,
nella transizione da k0 a k*, il salario reale crescerà e il tasso di profitto diminuirà. Ora, in generale
(al di là cioè del caso specifico della Cobb-Douglas), l’impatto di questi cambiamenti sulle quote
distributive dipende dal grado di sostituibilità fra capitale e lavoro (tecnicamente, dall’elasticità di
sostituzione fra capitale e lavoro). Se è “molto facile” sostituire capitale con lavoro l’aumento di
w/r determinerà una tale riduzione dell’occupazione che la quota dei salari sul reddito nazionale
diminuirà. Al contrario, se questa sostituzione è “molto difficile”, l’aumento dei salari ridurrà in
misura marginale l’occupazione, col che si registrerà un aumento della quota dei salari sul reddito
nazionale. Nel caso specifico della Cobb-Douglas le quote distributive sono un parametro fisso e
non si modificano (α): ciò significa che, nella transizione da k0 a k*, wL/Y resta invariato e la
riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto (L/Y) è esattamente compensata dalla
crescita del salario reale9. Il fatto che nell’esperienza storica di alcuni paesi avanzati le quote
distributive siano sostanzialmente stabili (vedi Tabella 8.1) può indurre a ritenere che la CobbDouglas sia una buona descrizione della tecnologia che essi adottano, delle effettive possibilità di
sostituzione fra capitale e lavoro. Ma, ancora una volta, è importante saper relativizzare le
evidenze empiriche. Anche nello schema teorico degli economisti classici (si veda il cap.6), infatti,
le quote distributive restano costanti nel tempo, ma la ragione è completamente diversa. Non si
tratta di una ragione tecnologica, ma di una ragione socio-politica: per esempio, la pressione dei
sindacati e in taluni casi le stesse normative sul mercato del lavoro (tempi di lavoro, salario
minimo, ecc.) sono tali che i salari reali crescano allo stesso ritmo della produttività del lavoro10.
In definitiva il modello di Solow propone una visione armonica del processo di crescita: esso
avviene senza gli squilibri macroeconomici paventati dagli economisti di scuola keynesiana su cui
ci conentreremo nel capitolo 1111, ad un ritmo tale che la forza lavoro sia sempre pienamente
impiegata e, last but not least, in maniera tale che i salari reali crescano allo stesso ritmo della
produttività del lavoro12.
Il progresso tecnico nel modello di Solow
L’idea che l’economia raggiunga uno stato stazionario in cui cresce stabilmente in equilibrio di
piena occupazione regge anche in presenza di progresso tecnico. Come già sappiamo, si tratta in
questo caso di dimostrare che g = s/v = π + n, dove π > 0 indica il tasso di progresso tecnico.
Il progresso tecnico che qui consideriamo è quello neutrale nel senso di Harrod (Harrod-neutral),
ovvero quel tipo particolare di cambiamento tecnico che lascia invariato il rapporto capitaleprodotto. Il fatto che il rapporto capitale-prodotto resti costante è ritenuto da alcuni una
regolarità empirica così solida da assurgere al rango di “fatto stilizzato”. In realtà esistono anche
autorevoli opinioni discordi (citare da Oreiro), ma ciò che qui preme enfatizzare è un punto che
va molto al di là di questa diatriba. Indipendentemente dal fatto che il progresso tecnico sia
Harrod-neutral piuttosto che Hicks-neutral piuttosto che, ancora, factor-neutral, resta il fatto che
inserirlo in una funzione di produzione come ci apprestiamo a fare (seguendo Solow) significa
assumere che tutte le tecniche che compongono una tecnologia – dalla più primitiva alla più
in quel settore e perciò, per via della maggior competizione, il tasso di profitto si ridurrebbe e il costo d’uso del
capitale aumenterebbe fino al punto in cui le due grandezze si eguagliano.
9 Nel caso della Cobb-Douglas l’elasticità di sostituzione fra capitale e lavoro è unitaria.
10 Vale la pena di ricordare che la quota dei salari si può sempre esprimere come rapporto fra salari reali e
produttività del lavoro.
11 Questa visione così armonica è ovviamente incompatibile con l’esistenza del ciclo economico. Non a caso la
tradizione neoclassica ha dovuto, per dare conto di un ciclo che comunque si osserva, ricorrere ad una spiegazione
piuttosto bizzarra – la cosiddetta teoria del ciclo reale – secondo cui il ciclo è unicamente dovuto agli shock che di
tanto in tanto colpiscono le economie, e non invece alle leggi proprie dell’economia capitalistica (inserire riferimento
a Advanced Macroeconomics, Roemer).
12 Quest’ultimo risultato, lo abbiamo appena detto, è sostenuto anche dagli economisti classici, e sia pure per ragioni
completamente diverse. Un risultato diverso, e molto interessane, è invece quello derivante dal modello di Lewis
(vedi cap. 7) dove nelle prime fasi del processo di sviluppo e crescita economica i salari reali non traggono alcun
beneficio dagli aumenti di produttività del lavoro.
11
avveniristica – aumentano di produttività nella medesima misura percentuale. L’avanzamento
tecnologico (lo spostamento verso l’alto della funzione di produzione), per tornare al nostro
esempio precedente, è tale che la produttività dell’officina di riparazioni meccaniche di Calcutta
aumenti in misura percentualmente identica a quella dell’officina di Monaco di Baviera. Si tratta
evidentemente di una ipotesi piuttosto eroica, che tuttavia è funzionale al discorso neoclassico
sulla crescita. Prendiamola per buona: la funzione di produzione che rappresenta il progresso
tecnico Harrod-neutral si scrive come:
Yt  F ( K , (1   ) t L)
(8.12)
La (8.12) indica che l’output al tempo t non dipende solo dalla quantità di capitale e di lavoro
impiegati, ma anche, appunto, dal tasso di progresso tecnico13. Nel caso specifico della CobbDouglas la (8.12) diventa:


1
Yt  K  1   t L
(8.13)
La quantità (1 + π)tL indica le unità di lavoro effettivo in essere al tempo t. Per capire il senso di
questa definizione, consideriamo un semplice esempio numerico. Se al tempo t = 0 vi sono L =
10 unità di lavoro tout court (misurate come si preferisce: ore di lavoro, numero di lavoratori,
ecc.) e π = 10%, ciò significa che nel periodo t = 1, a parità di unità di lavoro tout court, ci
saranno però 11 unità di lavoro effettivo. In altri termini, in t = 1, grazie al progresso tecnico, 10
lavoratori producono una quantità di output per produrre la quale ci sarebbero voluti, nel periodo
precedente, 11 lavoratori. E così via nel tempo. Bene, la (8.13) si può riscrivere in termini di unità
di lavoro effettivo dividendo entrambi i lati per (1 + π)tL. Otteniamo così la Cobb-Douglas con
cambiamento tecnico nella sua forma intensiva:
~
y


1
~
K  1   t L
K


k

(1   ) t L
(1   ) t L
(1   ) t L


Y

(8.14),

che è evidentemente del tutto simile alla (8.4), la sola differenza essendo che qui non si
considerano più il prodotto e il capitale pro capite (y e k), ma il prodotto e il capitale per unità di
~
lavoro effettivo ( ~y e k ), le cui definizioni risultano chiare dalla (8.14).
A questo punto è facile replicare i passaggi che ci hanno condotto all’equazione fondamentale del
modello di Solow, utilizzando tuttavia le grandezze per unità di lavoro effettivo invece di quelle
pro capite. Poiché, come si evince dalla (8.14), il capitale per unità di lavoro effettivo si può
esprimere come
~
k
K
(1   ) t L

k
,
(1   ) t
ne segue che il tasso di crescita del capitale per unità di lavoro effettivo sarà pari a
g ~  gk  
k
(8.15).
Dalla (8.12) si vede che, con L costante, il termine (1+π)tL cresce al tasso π. Ora, se anche K cresce al tasso π segue
dall’ipotesi di rendimenti di scala costanti che l’output Y crescerà anch’esso al medesimo tasso. Ovvero: output e
capitale crescono allo stesso tasso e perciò il loro rapporto resta invariato, che è proprio la definizione di neutralità
nel senso di Harrod.
13
12
Inserendo la (8.7) nella (8.15) si giunge all’equazione fondamentale del modello di Solow con
progresso tecnico Harrod-neutral:
s
g ~  (   )  (n   )
k
v
(8.16).
La (8.16) è del tutto simile alla (8.7) e da essa si evince che anche in presenza di progresso tecnico
l’economia giungerà ad uno stato stazionario (anche se in questo caso, come vedremo fra un
attimo, è più opportuno parlare di crescita stazionaria). Ancora una volta è utile riscrivere la (8.16)
nel caso specifico della Cobb-Douglas e studiare la dinamica dell’economia:

 
~
~
~
1 ~
1
g ~  sk  1    n    ~ sk   k (n     )  ~ s~
y  k (n     )
k
k
k

(8.17).
La rappresentazione grafica della dinamica descritta dalla (8.17) è del tutto simile a quella già
riportata nella figura 8.2:
~
y
~
(n     )k
~y *
s~
y
~
k0
~
k*
~
k1
~
k
Figura 8.3: la crescita stazionaria nel modello con progresso tecnico
La Figura 8.3 chiarisce la dinamica di aggiustamento. Ipotizziamo che lo stock di capitale per
~
unità effettiva di lavoro sia pari a k 0 . Come risulta evidente dal grafico in questo caso avremo
~
s~
y  (n     )k
13
e quindi la (8.17) ci dice che lo stock di capitale per unità effettiva di lavoro aumenterà (freccia
orientata verso destra). Viceversa, qualora lo stock di capitale per unità effettiva di lavoro fosse
~
pari a k , lo stesso ragionamento ci induce a concludere che esso diminuirà (freccia orientata
1
verso sinistra). In sintesi: quale che sia lo stock iniziale di capitale per unità effettiva di lavoro,
~
~
l’economia convergerà verso k  k * . Nel caso specifico della Cobb-Douglas avremo:
1
 1

n






~ 
k* 
s
e

 1

n







~
y*  
s
(8.18).
Come interpretare questo risultato? La (8.18) ci dice che il capitale e l’output per unità di lavoro
effettivo sono costanti nell’equilibrio di lungo periodo. Ciò significa che l’output per lavoratore e il
capitale per lavoratore non sono costanti, ma crescono al tasso di progresso tecnico π. Ne segue,
ancora, che poiché la forza lavoro cresce per ipotesi al tasso n, l’output aggregato dell’economia,
Y, cresce nell’equilibrio di lungo periodo al tasso (n + π), ovvero al tasso naturale di crescita. Con
o senza progresso tecnico, l’economia – grazie alla sostituibilità fra capitale e lavoro – cresce in
equilibrio ad un ritmo tale che la forza lavoro sia sempre pienamente impiegata. Se si accettasse
questo punto di vista, le preoccupazioni degli economisti keynesiani su cui centreremo
l’attenzione nel cap.11 risulterebbero infondate. Le forze spontanee del mercato, e non un
qualche tipo di intervento pubblico, garantiscono che l’economia capitalistica cresca in equilibrio
di piena occupazione.
Al di là delle formalizzazioni matematiche su cui era omunque indispensabile soffermarci, qual è
la ragione profonda di questo ottimismo? E soprattutto: ma come si può ragionevolmente
sostenere una simile, ottimistica visione delle cose se ciò che osserviamo nel mondo reale è un
processo di crescita che quasi mai garantisce la piena occupazione? Per rispondere a queste
domande è utile ricordare quale fosse la ratio in virtù della quale nel modello di Solow e Swan
l’economia giunge comunque nello stato stazionario. Una duplice ratio: da un lato, il rapporto fra
i prezzi dei fattori produttivi risponde senza frizioni (“flessibilità”) agli eccessi di domanda
(offerta) relativa dei fattori stessi. Come dire: il salario e il costo d’uso del capitale vengono
liberamente determinati sui mercati del lavoro e del capitale senza che regolamentazioni o vincoli
di un qualche tipo (“rigidità”) impediscano di raggiungere l’equilibrio fra la domanda e l’offerta.
Dall’altro lato, le imprese reagiscono alle variazioni del prezzo relativo dei fattori produttivi
modificando con grande rapidità (“istantaneamente”, muovendosi lungo un isoquanto di
produzione) le tecniche produttive (un punto che verrà sottoposto a severa critica, come
vedremo nel capitolo 12, dagli economisti strutturalisti). Come dire: il modello di Solow e Swan
non va interpretato in senso positivo, semmai ad esso si deve attribuirre una valenza normativa.
Se si lasciano funzionare liberamente i mercati, senza irrigidirli con vincoli e regolamentazioni di
varia natura, allora l’economia capitalistica può crescere in equilibrio macroeconomico e
garantendo a tutti un’occupazione. C’è, in questo senso, una precisa indcazione politica: le
autorità di governo devono astenersi da un eccessivo interventismo in economia. A patto di farlo
funzionare, ci pensa il mercato.
8.2: La contabilità della crescita
Secondo il modello di crescita neoclassico che abbiamo appena analizzato, il reddito pro capite
cresce nel tempo per due ragioni: il progresso tecnico (lo spostamento verso l'alto della funzione
di produzione) e l'incremento dello stock di capitale pro capite (lo spostamento lungo la funzione
di produzione). E' importante allora poter disporre di un sistema contabile in grado di separare
queste due fonti di sviluppo, così da poter capire di volta in volta in che direzione orientare le
politiche economiche volte al miglioramento degli standard di vita delle persone. Consideriamo
una generica funzione di produzione aggregata, Y = F (K, L, T), dove il progresso tecnico è
14
rappresentato dall'aumento nel tempo del valore di T, variabile che sta ad indicare lo stato della
tecnologia. Il differenziale totale di questa funzione è:
ΔY  FK ΔK  FL ΔL  FT ΔT
dove FK e FL indicano il prodotto marginale del capitale e del lavoro, e FT indica la variazione
dell'output aggregato indotta da una variazione infinitesimale dello stato della tecnologia.
Ponendo T = 1 (considerando cioè variazioni unitarie dello stato della tecnologia) e dividendo
per Y otteniamo:
Y FK K K FL L L FT



Y
Y
K
Y L
Y
o, con simboli oramai familiari,
gY 
FK K
F g
F
gK  L L  T
Y
Y
Y
(8.19)
Ora, come abbiamo più volte sottolineato, secondo la teoria neoclassica il prodotto marginale del
lavoro eguaglia il salario reale, mentre il prodotto marginale del capitale eguaglia il tasso di
profitto. Se si accetta questa teoria, il termine FKK/Y corrisponde perciò alla quota dei profitti sul
reddito totale, mentre il termine FLL/Y corrisponde alla quota dei salari. La (8.19) si può dunque
riscrivere come
gY  (1  ) g K  g L  FT Y
(8.20)
dove  indica la quota dei salari sul prodotto totale. La (8.20), nota come scomposizione di Solow, è
una espressione molto importante per le analisi empiriche. Essa ci dice che la crescita del PIL
reale di una economia (il termine a sinistra del segno di uguaglianza) si può scomporre in tre parti,
corrispondenti ai tre termini a destra del segno di eguaglianza. Le prime due parti corrispondono
alla crescita degli input produttivi (capitale e lavoro), mentre il terzo termine rappresenta la
crescita dell'output spiegata dal progresso tecnico. Naturalmente quest'ultimo termine non si
osserva empiricamente, ma è facile determinarlo come residuo. Per questa ragione esso è spesso
denominato residuo di Solow. Per esempio, immaginiamo una economia in cui il tasso di crescita
dell'output sia del 5%, il tasso di accumulazione del capitale del 3%, la crescita della forza lavoro
pari all'1% e la quota dei salari sul prodotto totale al 70%. Dalla (8.20) è immediato calcolare che
FT/Y= 5% - (30% x 3%) - (70% x 1%) = 3.4%
In questa ipotetica economia, cioè, gran parte della crescita è spiegata dal progresso tecnico (3.4
punti su 5, ovvero il 68% della crescita complessiva), mentre solo l'1.6% si spiega con
l'accumulazione di capitale e lavoro. Ma da cosa dipende il progresso tecnico? Solow non offre
una risposta a questo interrogativo e, anzi, individua nel residuo di Solow "una misura della
nostra ignoranza". Il progresso tecnico nel modello di Solow è del tutto esogeno a ciò che
avviene nell'economia, casca sull'economia come nella Bibbia la manna sui Figli di Israele: un
meraviglioso regalo. Come vedremo nel prossimo capitolo, l'ipotesi di esogenità del progresso
tecnico verrà rifiutata dai teorici della crescita endogena che, riprendendo in questo le tradizioni
dell'economia politica classica (e anche di Schumpeter) guardano al progresso tecnico come al
risultato di espliciti investimenti da parte dei capitalisti intesi a battere la concorrenza e, in ultima
analisi, guadagnare più profitti.
15
Nel caso in cui si utilizzi una funzione di produzione con progresso tecnico neutrale nel senso di
Harrod (equazioni (8.12) e (8.13)) e si indichi con Le  (1 + )tL il numero di unità di lavoro
effettivo, la scomposizione di Solow si può scrivere come:
Y  FK K  FLE LE
e dunque, svolgendo i medesimi passaggi svolti in precedenza,
g Y  (1   ) g K  g LE
Ora, utilizzando la definizione di unità di lavoro effettivo, otteniamo
gY  (1  ) g K  g L  
(8.21)
La (8.21) si distingue dalla (8.20) per il solo fatto che ora, grazie all'ipotesi di progresso tecnico
Harrod-neutral, il residuo di Solow è un termine più precisamente definito, pari al prodotto fra la
quota dei salari e il tasso di progresso tecnico (esogeno). La (8.20) per il caso generale e la (8.21)
per il caso specifico del progresso tecnico Harrod-neutral possono essere impiegate per definire un
altro tipo di scomposizione estremamente utile, quella che consente di individuare in che misura
l'aumento della produttività del lavoro sia attribuibile all'aumento dello stock di capitale per
lavoratore (alla pura accumulazione di capitale, dunque) e al progresso tecnico. Infatti, limitandosi
per brevità alla (8.21) e ricordando che per definizione il tasso di crescita della produttività del
lavoro è pari a gy = gY - gL e il tasso di crescita del capitale per lavoratore è pari a gk = gK - gL, la
(8.21) si riscrive come:
g y  (1   ) g k  
(8.22)
Una formula come la (8.22) può essere utilizzata per affrontare questioni molto spinose, per
esempio per cercare di capire come mai il tasso di crescita della produttività del lavoro
statunitense sia crollato dopo il 1973 dal 2.9% all'1.0%. Per una insufficiente accumulazione di
capitale (le famiglie nordamericane risparmiano troppo poco, il governo federale spende troppo,
ecc.) oppure per un brusco rallentamento del tasso di progresso tecnico? La Tabella 8.2 riporta i
dati essenziali alla comprensione del problema:
gy
gk
 (%)
(1-)gk

Tabella 8.2: la produttività statunitense (variazioni %)
1948-1973
1973-1990
2.9
1.0
2.8
2.4
68
71
0.93
0.29
1.97
0.71
Variazione
- 1.9
-0.4
+3
- 0.64
- 1.26
Fonte: elaborazione degli autori su dati Bureau of Labour Statistics (1996)
Dalla Tabella (8.2), in cui le cifre che compaiono nell’ultima riga sono state derivate dalla (8.22), si
vede che su 1.9 punti percentuali di riduzione nella crescita della produttività, ben 1.26 punti
(circa il 66% del totale) si spiegano con il rallentamento del progresso tecnico piuttosto che con
una insufficiente formazione di capitale. Questo risultato sarebbe ulteriormente rafforzato se si
16
ipotizzasse che il progresso tecnico fosse Hicks-neutral. In tal caso, come mostrato da Foley e
Michl (1999), ben il 90% della riduzione della crescita della produttività del lavoro sarebbe da
imputare al minor tasso di progresso tecnico14.Se ne deve concludere che misure volte a favorire
l'accumulazione di capitale non produrrebbero un impatto significativo sulla crescita della
produttività del lavoro. L'importanza che empiricamente sembra doversi attribuire al ritmo di
progresso tecnico rende tuttavia ancora più insoddisfacente l'ipotesi che esso sia esogeno. Sarà
perciò interessante cercare di capire come i teorici della crescita endogena cerchino di spiegare
questa variabile cruciale.
Alcuni esercizi di dinamica comparata
Il rallentamento del progresso tecnico
Se come sembra il rallentamento del tasso di progresso tecnico è la causa principale del declino
della crescita della produttività statunitense (e di altri paesi) a partire dal 1973, diventa interessante
cercare di capire quali siano gli effetti di questo rallentamento sul percorso di crescita stazionaria
nel modello di Solow-Swan.
Dal punto di vista grafico la riduzione del tasso di progresso tecnico si rappresenta come nella
Figura 8.4, dove π’ < π:
~
y
~
y **
~
(n     )k
~y *
~
(n     ' )k
s~
y
~
k*
~
k **
~
k
Figura 8.4: il rallentamento del progresso tecnico
Dalla Figura 8.4 si vede che la rotazione in senso orario della curva che rappresenta
l’investimento necessario a mantenere costante lo stock di capitale per unità di lavoro effettivo
(cfr. nota 7) produce un nuovo stato stazionario per questa stessa variabile. Evidentemente nel
nuovo stato stazionario sarà
La ragione per cui abbiamo preferito non utilizzare la nozione di progresso tecnico Hicks-neutral sta nel fatto che
essa è incompatibile con l'esistenza di uno stato stazionario (si veda Valdès, riferimento preciso). Per dovere di
completezza è opportuno ricordare che, nell’ipotesi di progresso tecnico Hicks-.neutral, il residuo di Solow prende il
nome di “produttività totale dei fattori”.
14
17
~
~
k **  k *
e
~
y **  ~
y*.
Sia il capitale per unità di lavoro effettivo che il prodotto per unità di lavoro effettivo vengono
aumentati dal rallentamento del progresso tecnico. Occorre tuttavia prestare attenzione
all’interpretazione di questo risultato apparentemente bizzarro, distinguendo precisamente le
grandezze per unità di lavoro effettivo dalle grandezze pro capite. Prendiamo ad esempio la (8.13)
e calcoliamo il prodotto marginale del lavoro; è immediato derivare con semplici passaggi che:
Y
 (1   )(1   ) t ~
y
L
(8.23)
Dalla (8.23) si evince che in seguito alla diminuzione di π il prodotto marginale del lavoro, e
perciò il salario reale pro capite, crescerà nel nuovo stato stazionario (ovvero dal momento in cui
~
y~
y ** ), ad un tasso inferiore (π’ < π). In altri termini: è bensì vero che il rallentamento del
progresso tecnico accresce lo stock di capitale per unità di lavoro effettivo e perciò il prodotto per
unità di lavoro effettivo, ma ciò è dovuto ad un effetto di natura “contabile”: se il progresso tecnico
rallenta allora, per definizione, le unità di lavoro effettivo crescono più lentamente e, ceteris paribus,
ciascuna di esse potrà usufruire di una fetta di prodotto più grande. Ma in termini di lavoratori
concreti, di persone fisiche per intenderci, il rallentamento del progresso tecnico è all’origine di
una più lenta crescita delle retribuzioni reali. Lo stesso dicasi per l’output: quello per unità di
lavoro effettivo è maggiore nel nuovo stato stazionario, ma quello pro capite crescerà ad un ritmo
inferiore.
Un aumento del tasso di risparmio
Nel 1994 i consiglieri economici del presidente degli Stati Uniti cercarono di stimare gli effetti
sulla crescita del paese di una serie di misure volte a ridurre il deficit federale. Nel modello di
Solow non compare una variabile che si riferisca esplicitamente al settore pubblico, ma si può
assumere che un deficit più contenuto, ovvero un aumento del risparmio pubblico, serva ad
aumentare il risparmio complessivo15 e dunque la propensione aggregata al risparmio, s. Gli
economisti statunitensi calcolarono che il pacchetto di austerità fiscale proposto avrebbe
aumentato la propensione a risparmiare dal 13% al 14% del PIL. Gli effetti di un simile
cambiamento si possono dedurre dall’analisi della Figura 8.5, nella quale s’>s:
Si tratta di una assunzione ragionevole, ma pur sempre di una assunzione. Potrebbe darsi il caso, keynesianamente,
che l’aumento del risparmio pubblico produca una recessione dell’economia e per questa via una riduzione del
risparmio privato. Ma è pur vero che una simile possibilità non si dà all’interno dello schema neoclassico.
15
18
~
y
~
y **
~
(n     )k
~y *
s' ~
y
s~
y
~
k*
~
k **
~
k
Figura 8.5: un aumento della propensione al risparmio
Lo spostamento verso l’alto della curva del risparmio per unità di lavoro effettivo produce ancora
una volta uno stato stazionario nel quale il capitale e il prodotto per unità di lavoro effettivo sono
maggiori di quanto non fossero nello stato stazionario precedente. Ma cosa accade al livello e al
tasso di crescita del prodotto pro capite (y)? Il tasso di crescita del prodotto pro capite non viene
influenzato, giacché come già sappiamo esso coincide con il tasso di progresso tecnico e questo
non ha subito per ipotesi alcun cambiamento. Il livello del prodotto pro capite sarà invece
certamente maggiore nel nuovo stato stazionario. Infatti, dalla definizione
~
y
y
(1   )
scende che, essendo invariato il ritmo di progresso tecnico, la crescita del prodotto per unità di
lavoro effettivo comporta necessariamente la crescita del prodotto pro capite. Secondo le stime
dei consiglieri del presidente degli USA, per esempio, l’aumento dal 13% al 14% della
propensione al risparmio avrebbe causato un aumento del prodotto pro capite di circa il 3.75%.
Naturalmente questo miglioramento non si sarebbe realizzato istantaneamente, ma avrebbe
richiesto tempo: il tempo necessario a convergere dal vecchio al nuovo stato stazionario (da
~
~
k * a k ** ), secondo queste stime, sarebbe stato pari a circa 50 anni. Un tempo così lungo ci porta
necessariamente a considerare la cosiddetta dinamica di transizione del modello di Solow-Swan,
ovvero quel che avviene al di fuori dello stato stazionario.
La dinamica di transizione e la convergenza fra paesi ricchi e paesi poveri
Il modello di Solow-Swan consente di fare tre previsioni rilevanti circa la crescita economica al di
fuori dello stato stazionario. Esse sono piuttosto chiare una volta che si guardi attentamente
all’equazione fondamentale (8.17). In primo luogo, se si considera un gruppo di economie che
dispongono della medesima tecnologia (per esempio una Cobb-Douglas con lo stesso parametro
α, o comunque una medesima funzione y = f (k)) e nelle quali il comportamento di risparmio (s),
19
la durata media del capitale (δ) e la crescita della popolazione (n) siano molto simili, allora vi sarà
fra queste economie una tendenza a raggiungere il medesimo stato stazionario, ovvero a registrare
livelli di reddito pro capite sostanzialmente identici. E naturalmente, come si vede dalla Figura
8.2, a crescere più velocemente fra queste economie saranno quelle più distanti dal (comune)
stato stazionario. Questa proposizione, nota come proposizione di convergenza assoluta, spiega per
esempio perché se si considerano economie già relativamente avanzate (e perciò con parametri
simili fra di loro), a crescere più velocemente sono quelle per così dire “un po’ meno avanzate”;
ma, appunto, destinate a raggiungere le altre.
La seconda previsione, detta di convergenza condizionale, è quella secondo cui, se si considerano
economie che hanno accesso alla medesima tecnologia ma in cui differiscono i tassi di risparmio e
di crescita demografica, si osserverà ancora una tendenza per le economie più povere a crescere
più velocemente, ma soltanto dopo aver controllato per quelle differenze. In altri termini, questa
volta non si afferma che crescono più velocemente le economie più distanti da un comune stato
stazionario, ma che un’economia cresce tanto più velocemente quanto più è distante dal proprio
stato stazionario. Anche questa previsione sembra essere confermata dai dati a disposizione.
Prima di analizzare la terza previsione è opportuna una pausa di riflessione, onde evitare
interpretazioni eccessivamente meccaniche dei meccanismi di convergenza, veri o presunti che
siano. La ragione di fondo per cui una economia distante dallo stato stazionario (comune ad altre
economie o suo proprio qui non importa) cresce più velocemente di quanto accade in prossimità
dello stato stazionario si ritrova nell’ipotesi di rendimenti marginali decrescenti del capitale. In
una economia molto povera nella quale la dotazione di capitale per lavoratore è scarsa,
l’investimento in capitale è massimamente redditizio. Ma si può essere sicuri che, a bassi livelli di
sviluppo, il maggior prodotto realizzato grazie all’investimento verrà poi venduto sul mercato?
Siamo sicuri, in altri termini, che in una economia povera non si diano problemi di domanda?
Ancora: pur ammettendo che a bassi livelli di sviluppo l’investimento in capitale è potenzialmente
molto produttivo, non si dovrebbe riconoscere che la realizzazione effettiva di tali potenzialità
dipende, per esempio, dalla disponibilità di beni pubblici (o comunque di beni che generano forti
esternalità positive) e dall’esistenza di uno stock di capitale umano sufficientemente sviluppato?
Per tornare alla metafora della nota 5: che senso avrebbe (che incentivo ci sarebbe a) acquistare il
primo “AspiraTutto” se nessuno lo sa usare, se la rete elettrica è soggetta a continue interruzioni
nell’erogazione del servizio, ecc.? Il modello di Solow-Swan non offre risposte a questi
interrogativi. Meglio: esclude a priori l’esistenza di un qualsivoglia problema di domanda (la
relazione tra fattori di domanda e crescita di lungo periodo è un tema indagato con rigore dalla
moderna macroeconomia strutturalista, vedi cap.12) e non tiene conto del fatto che le
precondizioni per la redditività dell’investimento privato (beni pubblici, capitale umano, ecc.)
possono configurare casi di rendimenti marginali costanti o addirittura crescenti dello stock di
capitale aggregato (si veda in proposito il capitolo 9, dedicato alla teoria della crescita endogena, e
anche la critica di Sachs illustrata successivamente in questo stesso capitolo).
La terza previsione attiene alla velocità di convergenza verso lo stato stazionario. L’equazione
fondamentale del modello di Solow è difficile da stimare poiché essa è in forma non lineare. La si
può tuttavia linearizzare usando i logaritmi ed esprimere nella forma:
(ln ~
y )   (ln ~
y *  ln ~
y)
(8.24),
dove
  (n     )(1   ) .
La (8.24), per la cui derivazione precisa si rimanda all’Appendice Matematica, ha un significato
molto chiaro. Essa ci dice che il tasso di crescita del reddito per unità di lavoro effettivo è una
funzione della differenza fra il valore di stato stazionario e il valore corrente di questa stessa
20
variabile (ciò che peraltro è molto evidente dai grafici sin qui utilizzati). Il parametro  misura
perciò la velocità con cui l’economia si avvicina allo stato stazionario. Le stime della (8.24)
conducono generalmente ad un valore di  intorno allo 0.02. Se, seguendo una prassi molto
diffusa, si considerano i seguenti valori: n = 2%, π = 2% e δ = 3%, ne segue che  = 0.02
implicherebbe una quota dei profitti, α, pari a circa il 71%. Un valore del tutto inconsistente con i
dati della gran parte delle economie reali, dove la quota dei profitti è generalmente compresa fra il
25% e il 40% (cfr. tabella 8.1). Alcuni autori neoclassici, Gregory Mankiw, David Romer e David
Weil (1992), hanno cercato di giustificare una simile, forte discrepanza usando il seguente
argomento. Se ciò che risulta dalla contabilità nazionale è che per ogni 100 € di redditi circa 30-35
sono redditi da capitale (profitti) e i restanti 65-70 sono redditi da lavoro, ebbene questo è,
appunto, un fatto puramente contabile. Economicamente, tuttavia, le cose stanno in modo
diverso: i “redditi da lavoro”, infatti, non sono in realtà pura remunerazione del lavoro, ma
comprendono la remunerazione del capitale umano. Se un lavoratore non qualificato guadagna 10
per un certo tempo di lavoro ed un lavoratore qualificato guadagna 18 per lo stesso tempo di
lavoro, se ne deve inferire che la differenza, (18 – 10) = 8, non remunera il tempo di lavoro, ma
gli skill acquisiti negli anni dai lavoratori qualificati. Il loro capitale umano, appunto. La quota dei
profitti, se calcolata economicamente (ovvero tenendo conto tanto della remunerazione del
capitale fisico quanto della remunerazione del capitale umano), sarebbe allora consistente con i
calcoli effettuati a partire dal modello di Solow-Swan.
La “riabilitazione” del modello di Solow-Swan operata da Mankiw et.al deve tuttavia essere
interpretata con cautela, soprattutto considerando la letteratura sul “technology gap” che si è
sviluppata a partire dal lavoro di Nelson e Phelps (1966). Per intenderci, sia Solow-Swan che
Mankiw et.al. spiegano le enormi differenze nello standard di vita di diversi paesi in questo modo:
tutti i paesi dispongono delle medesime tecnologie, ma alcuni investono molto nei fattori
propulsivi (capitale fisico e capitale umano), giungendo così a livelli di reddito pro capite di stato
stazionario particolarmente elevati; altri, invece, investono poco nei fattori propulsivi, col che non
soltanto avranno bassi livelli di reddito pro capite di stato stazionario, ma, se si trovano “già”
vicini ad esso, anche il tasso di crescita del reddito pro capite si attesterà su livelli insoddisfacenti.
Se si dà credito a questa interpretazione, è del tutto naturale che ci si chieda, come fanno Topel
(1999) e D’Antonio et.al. (2002), perché mai paesi con livelli tecnologici simili abbiano preso
decisioni così diverse circa la porzione di reddito da destinare all’investimento in capitale fisico ed
umano. La risposta ad una simile domanda è quasi obbligata: l’investimento sub-ottimale deriva
da errori di politica economica, istituzioni inefficienti, imposte eccessive ed eccessivamente
distorsive, protezionismi, insufficiente tutela dei diritti di proprietà, ecc.. Benché questo punto di
vista abbia una sua ragionevolezza e in parte contribuisca a spiegare le deboli performance di
alcuni paesi, esso non è certamente sufficiente. Esso è infatti viziato da due assunzioni cruciali dei
modelli di Solow-Swan e Mankiw et.al. (e da tutti i tentativi di stima empirica che da quei modelli
derivano): l’ipotesi che tutti i paesi dispongano della medesima tecnologia e, secondariamente,
l’ipotesi che tale tecnologia esibisca rendimenti del capitale decrescenti. Se si rimuovesse la prima
ipotesi, pur mantenendo l’idea che una tecnologia si possa rappresentare attraverso una funzione
di produzione (ciò che di per sé, come abbiamo visto, è già abbastanza problematico), le
conseguenze sarebbero quelle illustrate nella Figura 8.6.
21
~
y
~
yR
~
yP
~
(n     )k
s~
yR
s~
yP
~
k P*
~
k R0
~
k R*
~
k
Figura 8.6: Il caso di paesi con diversa tecnologia
Nella figura, null’altro che la ormai nota rappresentazione del modello di Solow, si illustra il caso
di due paesi, uno ricco (R) ed uno povero (P). I due paesi si distinguono esclusivamente per le
tecnologie in uso: R dispone di una tecnologia avanzata (funzione di produzione più alta), P di
una tecnologia arretrata (funzione di produzione più bassa). Per il resto i parametri rilevanti dei
due paesi – crescita della popolazione, progresso tecnico, deprezzamento del capitale e
propensione al risparmio - sono identici. Naturalmente il livello di stato stazionario del reddito
pro capite sarà maggiore nel caso del paese ricco. Ma non basta. Immaginiamo che in un certo
punto del tempo il paese povero si trovi nel proprio stato stazionario e quello ricco disponga
~
invece di uno stock di capitale per unità di lavoro effettivo pari a k R0 , inferiore a quello di stato
stazionario. Ora è del tutto evidente che, in seguito ai ragionamenti svolti in precedenza, il reddito
pro capite del paese povero crescerà al tasso di progresso tecnico π, mentre il reddito pro capite
del paese ricco, che non ha ancora raggiunto il suo stato stazionario, crescerà più rapidamente.
Dunque: non solo il paese ricco è caratterizzato da uno stato stazionario con un livello più
elevato di reddito per unità di lavoro effettivo, ma: a) per un certo periodo di tempo, il tempo
necessario affinché raggiunga il proprio stato stazionario, il paese ricco cresce più velocemente di
quello povero (divergenza); b) quando entrambi i paesi si trovano nel loro rispettivo stato
stazionario, essi crescono al comune tasso di progresso tecnico. Ciò significa che il gap assoluto fra
il reddito pro capite del paese ricco e di quello povero continua a crescere (il gap relativo resta
invece invariato). E tutto ciò accade, si badi, benché il comportamento di risparmio del paese
povero sia per ipotesi identico a quello del paese ricco (nessuna inefficienza, nessun
protezionismo, nessuna “cattiva” politica economica). In altre parole: se mai il paese povero
volesse raggiungere il medesimo stato stazionario di quello ricco dovrebbe risparmiare ed
investire di più, oppure “importare” le tecnologie avanzate di cui dispone il paese più ricco. Ma
22
cosa significa “importare” tecnologie avanzate? Qui si apre evidentemente un tema vastissimo, e
lo affronteremo parzialmente nel cap. 12. Fin da ora tuttavia è il caso di dire che importare
tecnologie straniere e adattarle al contesto locale è un processo che richiede, pure esso, risparmi
ed investimenti: per la formazione della forza lavoro che deve essere in grado di leggere manuali
tecnici, per acquistare quei beni capitali che incorporano le nuove tecnologie, eccetera. Per
riassumere: se si rifiuta l’ipotesi che tutti i paesi dispongano della medesima tecnologia e si ritiene
invece che per ragioni storiche di un qualche tipo ve ne siano alcuni con una tecnologia
inferiore16, se ne deve necessariamente concludere che crolla l’idea stessa di convergenza
condizionale. Se anche il paese arretrato risparmia come quello ricco, ciò non implica alcuna
convergenza. Al paese povero toccherebbe essere più virtuoso di quello ricco, un fatto di cui
tenere conto se non altro per esprimere giudizi equilibrati e non imputare tutte le discrepanze nel
tenore di vita ai vizi della politica economica.
L’altra debolezza dei ragionamenti sulla convergenza fin qui sviluppati, dicevamo, consiste
nell’ipotesi che le comuni tecnologie esibiscano rendimenti decrescenti del capitale. La critica a
questa ipotesi e le conseguenze legate alla sua rimozione verranno illustrate nel cap.9, dedicato
alla teoria della crescita endogena, ma vale la pena introdurre fin da ora questo tema attraverso
l’espozsizione delle critiche di Sachs al modello di Solow (Sachs, 200?). Queste critiche, come ci
accingiamo a vedere, non si riferiscono esclusivamente all’ipotesi di rendimenti decrescenti del
capitale ma, più in generale, a tutte quelle ipotesi del modello neoclassico di crescita che per
definizione portano ad escludere la possibilità che tra paesi ricchi e paesi poveri si allarghino
sistematicamente i divari di reddito.
8.3 La critica di Sachs
Il lavoro di Sachs cui facciamo riferimento (Sachs, 200?) si concentra sulle economie dell’Africa
subsahariana, ma, come si può osservare dalla figura 8.7, il problema della mancata convergenza
riguarda anche le economie dell’America Latina e dei Caraibi: negli ultimi trent’anni, dal 1975 al
2005, il tasso di crescita del PIL in Africa e in America Latina è stato sitematicamente al di sotto
della media dei paesi ricchi (con l’eccezione del periodo 1995-2005 per le economie africane), con
la ovvia conseguenza che, data la dinamica demografica, il gap in termini di reddito pro capite si
e’ ulteriormente allargato.
RIPORTARE QUI L’ISTOGRAMMA 4C DEL WDI 2007, P.186 (SEZIONE “ECONOMY”)
CE L’HO SULLA PENNETTA COLOMBIANA. SI CHIAMERA’ FIGURA 8.7
Evidentemente si pone il problema di emendare il modello neoclassico di crescita per cercare di
dar conto di queste dinamiche di divergenza, dinamiche recentemente riconosciute dalla stessa
Banca Mondiale (2007):
“Ci si aspetta che le economie in via di sviluppo crescano piu’ rapidamente di quelle ad alto reddito. La sorpresa
sta nel fatto che che non sia così. Il surplus di lavoro e i più elevati rendimenti del capitale nelle economie in via di
E’ utile tornare a riflettere su cosa significhi “disporre di una tecnologia”. Una tecnologia non è mai soltanto una
ricetta: un po’ di input x e u po’ di input y da mischiare in questo o quell’altro modo a seconda del loro prezzo
relativo. Può darsi infatti che a parità di prezzo relativo due paesi (più in generale, due produttori) combinino
diversamente i fattori produttivi perché, per esempio, in uno di essi – benché la tecnologia in questione sia
conosciuta in astratto (si sa, cioè, che gli input produttivi possono essere combinati in quel determinato modo) –
nessuno sia ancora capace di realizzare concretamente alcune fra le possibili combinazioni di input. Né vale obiettare
che in tal caso si manifesta semplicemente una scarsità di lavoro qualificato e perciò, coerentemente con
l’impostazione neoclassica, si adottano combinazioni di input che lo impiegano in misura relativamente ridotta.
Questo sarebbe un ragionamento puramente statico, mentre il problema, evidentemente, è dinamico: occorre tempo, il
tempo necessario alla formazione della forza lavoro, affinché alcune combinazioni di input non siano più
semplicemente conosciute in astratto, ma praticabili nel concreto. Le analisi empiriche sulla convergenza effettuate a
partire dall’ipotesi che la medesima tecnologia sia simultaneamente disponibile nei diversi paesi si rivelano perciò
logicamente molto deboli.
16
23
sviluppo, così come l’accesso alle tecnologie già sviluppate nei paesi ricchi, sono tra le ragioni per cui ci si attende
che le economie meno avanzate crescano più rapidamente e, nel lungo periodo, olmino il divario di reddito con le
economie ricche. Ma fino ai giorni nostri solo poche economie in via di sviluppo hanno conosciuto prolungati
periodi di crescita sostenuta e sono ancora di meno quelle che hanno raggiunto il medesimo tasso di crescita delle
economie più avanzate17” [la traduzione è degli autori].
La spiegazione proposta da Sachs si fonda su tre lacune del modello di Solow:
1) il tasso di risparmio non dovrebbe essere considerato esogeno, ma endogeno. Esso
dipende positivamente dal livello del reddito pro capite18;
2) nel lungo periodo, che è l’orizzonte temporale di riferimento del modello di Solow, la
dinamica demografica dovrebbe anch’essa essere trattata endogenamente. In particolare,
per le ragioni che vedremo tra poco, si deve assumere che il tasso di crescita della
popolazione diminuisca all’aumentare del reddito pro capite;
3) il capitale – e riprendiamo qui il punto con cui avevamo terminato il paragrafo precedente
– esibisce rendimenti crescenti piuttosto che costanti.
Vediamo in che modo ciascuno di questo tre cambiamenti può generare delle vere e proprie
trappole della povertà.
In linea di principio è del tutto sensato ipotizzare che il tasso di risparmio dipenda positivamente
dal reddito pro capite e perciò, come abbiamo visto, dallo stock di capitale pro capite. A bassi
livelli del redddito pro capite (del capitale pro capite) risparmiare è difficile, le necessità di
sussistenza assorbono gran parte del proprio reddito e perciò, per ogni data configurazione delle
preferenze interteporali, i tassi di risparmio tenderanno ad essere molto bassi. Nel caso della
Cobb-Douglas senza progresso tecnico (si veda la (8.8)), l’equazione fondamentale del modello di
Solow dovrà essere riscritta come
g k  s ( k ) k  1    n 
1

s ( k ) k   k ( n   )  s ( k ) y  k ( n   )
k
k
1
(8.25),
dove viene messa in evidenza la dipendenza del tasso di risparmio (s) dal livello del capitale pro
capite (k). Per le ragioni appena illustrate s(k) è una funzione crescente e con derivata seconda
negativa (il tasso di risparmio aumenta con il reddito pro capite, ma meno che
proporzionalmente) e perciò si può dare il caso in cui la rappresentazione grafica del modello di
Solow diventi come quella riportata nella figura 8.7:
Il lettore avrà certamente notato come il pensiero della Banca Mondiale sia fortemente influenzato dall’eredità
intellettuale di Lewis e Solow.
18 L’idea di endogenità del tasso di risparmio non è certo attribuibile al solo Sachs. King e Rebelo (1993), Ros () e
certamente altri autori offrono interessanti riflessioni in proposito.
17
24
y
y
(n     )k
s (k ) y
k
k0
k
*
Figura 8.7: Trappola della povertà con tasso di risparmio endogeno
Per capire la meccanica della trappola della povertà descritta nella figura 8.7 è cruciale dar conto
delle ragioni per cui ora la curva s(k)y, a differenza di quanto osservato in tutte le figure
precedenti, presenta un punto di flesso e perciò cambia concavità. Dapprima, fino al livello di
capital pro capite k0, la concavità è rivolta verso l’alto; da quel punto in poi è rivolta verso il
basso. Dal punto di vista economico la spiegazione è la seguente. Prima che introducessimo
l’ipotesi di endogenità del tasso di risparmio, quest’ultima grandezza era una costante. Al crescere
di k, perciò, l’espressione sy(k) cresceva necessariamente in modo sempre men che
proporzionale, rispettando la legge di evoluzione di y(k), ovvero la legge dei rendimenti marginali
decrescenti. Ora invece, avendo introdotto l’idea di endogenità del tasso di risparmio,
l’espressione s(k)y(k) cesce in modo sistematicamente men che proporzionale solo dal momento
in cui s(k) si è stabilizzato, ovvero per livelli relativamente elevati di k, lo stock di capitale pro
capite. Prima, a partire da livelli più bassi di k, la crescita di k, pur facendo aumentare sia s che y
in modo men che proporzionale, ne fa aumentare il prodotto in modo più che proporzonale 19: la
legge dei rendimenti marginali decrescenti del capitale, che pure contunua a valere, vede annullati
i propri effetti dall’aumento del tasso di risparmio.
Le conseguenze dell’endogenità del tasso di risparmio sono dirompenti. Consideriamo un paese
povero, diciamo molto povero, con un livello di capitale pro capite inferiore a k0. Evidentemente
per tale paese vale la condizione s(k)y < (n +  + )k e perciò, in base alla (8.25), siamo
certamente in grado di dire che il capitale e il reddito pro capite di questo paese povero
diminuiranno ulteriormente, come indicato dalla freccia. Il risparmio, così esiguo per via del
basso reddito pro capite, non riesce neppure a comprare beni capitale in misura sufficiente a
rimpiazzare i macchinari non più utilizzabili e a dotare tutti i lavoratori, aumentati di numero per
Un banalissimo esempio numerico può aiutare a cogliere il punto. Ocnsideriamo il prodotto 5x3 = 15. Facciamo
ora crescere entrambi i fattori del prodotto senza giungere tuttavia a farli raddoppiare. Il 5 diventa 8 e il 3 diventa 5.
Il nuovo prodotto 5x8 = 40 è più che raddoppiato rispetto al precedente. In termini più rigorosamente analitici, il
lettore interessato può verificare da sé che la derivata prima rispetto a k dell’espressione s(k)y(k) è sempre
positiva,mentre la derivata seconda è positiva fino a un certo valore di k e negativa da quello specifico punto in poi.
19
25
via della crescita demografica, della medesima quantità media di macchinari di cui ciascuno
disponeva prima che la demografia manifestasse i suoi effetti. La povertà (l’incapacità di
risparmiare) genera ulteriore aumento della povertà: una trappola appunto, un circolo vizioso che
rende l’inizio dei processi di sviluppo economico così complicato.
Un altro meccanismo che secondo Sachs può intrappolare un’economia in un circolo vizioso di
povertà è costituito dalla dinamica demografica. L’idea è che in questo caso sia il tasso di crescita
demografica a dover essere endogenizzato, quantomeno nel contesto di un’analisi di lungo
periodo come quella di Solow. Sul piano storico è certamente vero, e sul piano logico del tutto
ragionevole, che il tasso di crescita demografica tenda a diminuire con l’incremento del reddito
pro capite. A bassi livelli del reddito pro capite, infatti, i tassi di natalità sono particolarmente
elevati per varie ragioni, prime fra tutti quelle di ordine economico: i figli sono una sorte di
pensione per la vecchiaia, consentono di diversificare il rischio (chi resta in campagna, chi emigra
in città, chi studia e chi lavora) laddove non ci si può permettere di correrne troppi, ecc.. Ora,
senza questa volta entrare nei dettagli analitici, è chiaro che per bassi livelli del reddito pro capite
un elevato tasso di crescita demografica può compromettere anche il piu’ generoso sforzo di
risparmio: la popolazione cresce così velocemente che ancora una volta il risparmio non riesce a
comprare beni capitale in misura sufficiente a rimpiazzare i macchinari non più utilizzabili e a
dotare tutti i lavoratori, aumentati di numero così rapidamente, della medesima quantità media di
macchinari di cui ciascuno disponeva nei periodi precedenti. Il capitale pro capite si riduce e così
si innesta una spirale perversa di diminuzione del reddito pro capite, una nuova trappola della
povertà.
Infine, il terzo meccanismo di trappola della povertà è legato all’esistenza di rendimenti crescenti
del capitale. E’ un discorso importante, che ci introduce per di più all’approccio teorico della
crescita endogena che studieremo nel prossimo capitolo. In quella sede affronteremo il discorso
dei rendimenti marginali del capitale in modo senz’altro piuù rigoroso. Qui ci limitiamo ad un
accenno, a quel che basta per capire il punto di vista d Sachs. La legge dei rendimenti marginali
decrescenti del capitale ci dice che una unità addizionale di capitale, un ivestimento per intenderci,
è tanto più produttivo quanto minore è il capitale di cui si dispone e a cui si aggiunge quell’unità.
La ratio di questa legge è già stata illustrata nella nota 5. Ma ora è giunto il momento di metterla
in discussione. L’idea di Sachs è che essa valga soltanto “da un certo punto in poi”, quando lo
stock di capitale complessivamente a disposizione di un’economia ha superato un certo livello di
soglia. Proviamo a spiegarci. Consideriamo due imprese, l’una operante in un paese a reddito
molto basso e l’altra in un paese a reddito medio. Supponiamo che le due imprese compiano lo
stesso tipo di investimento, per esempio l’acquisto di alcuni computer. E’ plausibile pensare che
nel paese a reddito medio, dove lo stock di capitale esistente è più elevato – e parliamo qui di
capitale in senso ampio: capitale umano (la capacità dei lavoratori di utilizzare quei computer),
capitale infrastrutturale (una rete elettrica ben funzionante che permetta ai computer di
funzionare con regolarità), ecc. – il rendimento dell’investimento non meno, ma più elevato. Quei
medesimi computer apportano di più al prodotto sociale di quanto non facciano nel paese a
basso reddito. E’ soltanto da un certo momento in poi, da quando le condizioni esistenti in
termini di capitale umano e capitale infrastrutturale sono sostanzialmente le medesime, che si può
applicare la legge dei rendimenti dcrescenti del capitale. Prima vale esattamente il contrario, il
nuovo capitale è più produttivo laddove ce n’è già di più. I rendimenti del capitale sono crescenti
fino al punto in cui un paese non si sia dotato di uno stock minimo di capitale umano,
infrastrutturale e sociale; da quel punto in poi diventano decrescenti. Se le cose stanno in questi
termini, la funzione di produzione che abbiamo tracciato nei grafici precedenti deve cambiare la
propria forma. La concavità non è più sistematicamente rivolta verso il basso, na sarà dapprima
rivolta verso l’alto (rendimenti crescenti del capitale) e poi verso il basso (rendimenti decrescenti).
Corrispondentemente, la rappresentazione grafica del modello neoclassico di crescita rifletterà
questo cambiamento:
26
y
y
(n     )k
sy
k
k0
k
*
Figura 8.8: La trappola della povertà dovuta ai rendimenti crescenti del capitale
La funzione di produzione, tratteggiata nella figura 8.8, presenta le caratteristiche che
abbiamo appena descritto e ciò dà luogo ad una curva di risparmio, la sy, con una forma del
tutto simile a quella della figura 8.7, ma questa volta per ragioni diverse: il cambio di
concavità non è più determinato dal comportamento endogeno del tasso di risparmio, ma dalle
caratteristiche tecnologiche, dal fatto che il capitale registri, fino al livello k0, rendimenti
crescenti. E’ solo da k0 in poi che torna a valere la legge dei rendimenti decrescenti del
capitale. Le conseguenze sono tuttavia le stesse: ancora una volta se un’economia è molto
povera, con uno stock di capitale iniziale inferiore a k0, essa tenderà a diventare sempre più
povera. Infatti, dalla figura 8.8 si vede bene che, per ogni k < k0, s(k)y < (n +  + )k e, come
indicato dalla freccia, lo stock di capitale pro capite tende a ridursi nel tempo. Il meccanismo
economico che intrappola l’economia in un equilibrio di povertà questa volta non è legato né alla
dinamica demografica né alla scarsa capacità di risparmiare. Esso, semmai, è legato agli
insufficienti incentivi a risparmiare ed investire a bassi livelli di reddito e capitale pro capite:
perché risparmiare, rinunciare al consumo corrente (ad un consumo che con ogni probabilità è
essenziale quando si è poveri) per realizzare investimenti così poco produttivi? Perché
studiare da infermiere (capitale umano) se non ci sono ospedali (capitale fisico,
infrastrutturale) in cui lavorare? Perché comprare un computer se il pessimo stato della rete
elettrica ne aumenta siginificativamente il costo d’uso?
E’ molto importante sottolineare una differenza fondamentale fra la trappola della povertà
generata dal comportamento endogeno del tasso di risparmio e quella spiegata dai rendimenti
crescenti del capitale. Mentre la prma è in linea di principio superabile dalla liberalizzazione
dei movimenti di capitale, la seconda non lo è. Infatti, e il ragionamento che segue sta tutto
dentro al paradigma neoclassico, in un’economia povera (con un livello di capitale pro capite
inferiore a k0) che funzioni secondo quanto descritto nella figura 8.7, la capacità di risparmio
sono molto scarse, ma – data l’ipotesi di rendimenti decrescenti del capitale – gli incentivi ad
27
investire sono massimamente elevati, più elevati di quanto non siano nelle economie già
ricche. Il rendimento potenziale degli investimenti è tanto più alto quanto minore è lo stock di
capitale esistente. In queste condizioni, la risposta di politica economica necessaria a
fuoriuscire dalla trappola della povertà è molto semplice. E’ sufficiente lasciare che i
risparmiatori stranieri, dei paesi ricchi – attratti dalla redditività potenziale degli investimenti
– impieghino i propri risparmi nel paese povero in questione. E’ sufficiente liberalizzare i
movimenti di capitale. Ciò consentirà di realizzare effettivamente gli investimenti potenziali, i
quali a loro volta, data la elevata redditività che li caratterizza, genereranno le risorse
necessarie a restituire i prestiti ricevuti dai creditori stranieri. Si tratta evidentemente di una
visione fin troppo armonica dei meccanismi di indebitamento e delle logiche di
funzionamento della finanza internazionale (aspetti sui quali torneremo diffusamente nei
capitoli 13, 17 e 18), ma ciò che conta enftizzare in questo contesto è un altro punto. Conta
sottolineare che se una trappola di povertà è generata dai rendimenti crescenti del capitale,
essa non è superabile ricorrendo al capitale privato straniero. In questo caso infatti il problema
sta nella bassa redditività degli impieghi di capitale che caratterizza le economie povere. Non
c’è nessun incentivo per un risparmiatore di un paese ricco ad impiegare i propri risparmi in
un paese con capitale pro capite inferiore a k0, meglio destinarli ad economie più ricche dove i
rendimenti sono più elevati. Nessuno sposta i propri fondi verso un paese poverissimo
dell’Africa subsahariana. Una delle tentazioni nelle quali la globalizzazione finanziaria può
farci cadere è infatti quella di ritenere che i mercati finanziari privati, i capitali privati possano
da soli finanziare le economie in via di sviluppo che di capitale, per definizione, sono assai
bisognose. [DA QUI IN AVANTI C’E’ UNA PARTE EVIDENZIATA IN GIALLO IN CUI
VANNO RIVISTI E AGGIORNATI TUTTI I DATI]In fondo, si potrebbe sostenere, i flussi
di capitale privato che si sono mossi dai paesi sviluppati ai PVS sono oggi superiori a 250
miliardi di dollari, cioè di una cifra che eccede di 6 volte quella prevalente agli inizi degli anni
’90. Basti pensare, solo per citare qualche esempio, che i capitali privati che si sono diretti
verso l’India nella forma di investimenti di portafoglio sono passati dai 320 milioni di dollari
del 1985 ai 4.035 milioni di dollari del 1997; in Egitto il salto è stato da 10 a 1.813 milioni di
dollari; in Indonesia da 0 a 3.417; e così via. In definitiva, la globalizzazione finanziaria
potrebbe indurre a ritenere che i capitali di fonte privata siano sufficienti a finanziare la
crescita delle economie povere. Si tratta in realtà di un errore, un abbaglio evidente non
appena si esaminino i dati con maggior attenzione. Infatti, è bensì vero che negli anni ’90 i
flussi di capitale dal Nord al Sud del mondo sono sensibilmente cresciuti, ma è altrettanto
vero che sono cresciuti rispetto ad un livello, quello degli anni ’80, mai così basso nella storia
del secondo dopoguerra. Gli anni ’80 furono quelli della crisi del debito, quelli durante i quali
nessuna banca, nessun fondo di investimento o fondo pensione rischiava denari nelle fragili
ed indebitate economie del Sud del mondo. Un interessante studio condotto di recente
dall’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) dimostra che, se si
esclude la Cina, i flussi di capitale privato che si sono mossi dal Nord al Sud del mondo sono
stati negli anni ‘90, in termini reali (cioè di effettiva capacità di acquisto di beni e servizi),
inferiori a quelli degli anni ’70. A ciò bisogna aggiungere che in realtà sono pochi i paesi
verso cui il capitale privato si sta effettivamente dirigendo: la Tabella 3 elenca i venti PVS (su
un totale di più di cento) che raccolgono da soli il 94% dei flussi di portafoglio provenienti dal
Nord del mondo20:
Tabella 4: Flussi di portafoglio, 1997, dollari correnti
Brasile
18.495
Naturalmente per questi paesi “globalizzazione” non significa soltanto avere accesso ai capitali privati
provenienti dai paesi ricchi; significa anche esporsi al rischio che tali capitali, alla ricerca costante di rendimenti
più elevati, “scappino” in modo improvviso e subitaneo. Le crisi finanziarie che di recente hanno colpito molti di
questi paesi ne sono evidente testimonianza. E’ un aspetto sul quale torneremo nel capitolo 17.
20
28
Messico
Tailandia
Argentina
Indonesia
Cina
Malaysia
Russia
Turchia
Colombia
India
Repubblica Ceca
Filippine
Cile
Venezuela
Perù
Romania
Sudafrica
Slovenia
16.028
11.181
10.132
10.070
9.920
7.596
4.975
4.913
4.417
3.817
3.459
3.192
2.712
2.411
2.273
1.551
1.281
1.033
Fonte: Rapporto 1999 sullo Sviluppo Umano, “La Globalizzazione”, United Nations Development Programme
Se e quando c’è una trappola della povertà generata dai rendimenti crescenti del capitale non è
allora saggio confidare sulla liberalizzazione dei movimenti di capitale. Superare la trappola
della povertà richiede, secondo Sachs, un sostanzioso apporto di capitali pubblici – di capitali
che si muovano per scopi diversi dalla ricerca del profitto. Evidentemente l’allusione è al
ruolo della cooperazione internazionale, tema cui dedicheremo il capitolo 16. Sul piano
strettamente teorico-quantitativo possiamo tuttavia fare una osservazione importante fin da
ora. Se in un paese intrappolato in un circolo vizioso di povertà, con un livello di capitale pro
capite inferiore a k0, arrivano capitali della cooperazione internazionale in misura
insufficiente a raggiungere quel livello di soglia, questi capitali non basteranno ad innescare
una dinamica virtuosa di aumento del reddito pro capite. Per quanto essi possano essere ben
utilizzati, orientati a progetti sensati, ecc., l’economia, con un capitale pro capite ancora
inferiore a k0, si troverebbe comunque, una volta esauritusi gli effetti dei progetti, a
fronteggiare l’inevitabile, strutturale tendenza alla riduzione del reddito pro capite. O
l’apporto della cooperazione è massiccio, o è inutile. Si tratta di una conclusione che richiama
il punto di vista di alcuni fra i primi grandi economisti dello sviluppo – Rosenstein-Rodan
(1943), Nurske (1953), poi ripresi in un famoso articolo di Murphy, Shleifer e Vishny (1989)
– i quali pure credevano che lo sviluppo economico dovesse cominciare con uno sforzo di
scala massiccia, un big push che solo avrebbe potuto innescare il motore dello sviluppo.
Molto famoso al riguardo è un illuminante esempio di Rosenstein-Rodan. Consideriamo un
paese molto povero in cui vi sia un potenziale imprenditore che, disponendo già del capitale
necessario, sta valutando se aprire o meno una fabbrica di scarpe. Il livello di sviluppo del
paese è così basso che non è ragionevole pensare di poter esportare queste scarpe, o le si
vende sul mercato interno o restano invendute. Immaginiamo pure che il paese in questione
sia al punto zero del processo di sviluppo economico, che la potenziale fabbrica di scarpe sia
la prima ad essere impiantata. Immaginiamo anche che gli abitanti di questo paese abbiano
bisogno di due beni per vivere, le scarpe e il pane (ma se invece del pane pensassimo a un
bene composito che possiamo chiamare “tutto il resto”, le conclusioni del ragionamento
sarebbero identiche), e che ciascuno di essi desideri spendere la metà del proprio reddito in
scarpe e la metà del proprio reddito in pane. Bene, ipotizziamo (controfattualmente, come
vedremo fra un attimo) che il potenziale imprenditore di scarpe decida di aprire la fabbrica e
29
che produca scarpe per un valore comlessivo pari a 100. Di questo valore, 30 è l’ammontare
utilizzato per pagare i fornitori di materie prime, 50 per pagare i salari e 20, l’ammontare
residuo, è trattenuto come profitto. Ora, le preferenze di spesa degliindividui sono tali che la
domanda complessiva di scarpe sarà pari a (30 + 50 + 20)/2 = 50. Metà della produzione
resterebbe invenduta e dunque il potenziale imprenditore deciderà di non aprire la fabbrica di
scarpe. Supponiamo ora che nel medesimo paese i potenziali imprenditori, dotati di capitale,
siano due: un potenziale produttore di scarpe e un potenziale produttore di pane. Assumiamo
che anche il produttore di pane, se dovesse decidere di aprire la fabbrica, potrebbe realizzare
un valore complessivo pari a 100 (30 di materie prime, 50 di salari, 20 di profitti). Qual è, in
queta nuova situazione, la domanda di pane (scarpe) che il potenziale produttore di pane
(scarpe) si aspetta di dover fronteggiare qualora anche il potenziale produttore di scarpe
(pane) decidesse di realizzare effettivamente il proprio investimento? I conti sono presto fatti:
la domanda poteniale di pane (scarpe) sarà pari alla metà dei salari complessivamente pagati
nell’economia più la metà dei profitti complessivamente pagati nell’economia più la metà dei
costi delle materie prime complessivamente sostenuti nell’economia: ½ (50+50) + ½ (20+20)
+ ½ (30+30) = 100. Il valore del pane (delle scarpe) sarebbe interamente realizzato sul
mercato, nulla resterebbe invenduto così che sia il produttore di scarpe che quello di pane
decideranno di aprire le rispettive fabbriche. La morale di questo esempio è chiara e non è
altro che un diverso modo di raccontare la storia dei rendimenti crescenti del capitale: lo
sviluppo non può cominciare con un piccolo investimento (una fabbrica soltanto), ma con un
grande investimento, con un big push (le due fabbriche della metafora di Rosenstein-Rodan).
E chi, venendo al mondo concreto dove i beni rilevanti non sono due ma molti di più, si
incarica di cordinare i potenziali investitori, produttori della molteplicità di beni e servizi di
cui un’economia necessita? L’idea di Rosenstein-Rodan e Nurske era che fosse lo Stato
l’unico soggetto in grado di compiere uno sforzo così massiccio di investimento articolato, ed
alcuni casi storici come il Giappone del MITI e l’Italia dell’IRI sembrano essere
un’applicazione di questa idea. Sachs pone invece l’enfasi sugli attori della cooperazione
intrnazionale – agenzie delle Nazioni Unite, Ong, ecc. – ma in un caso come nell’altro il
messaggio politico è chiaro. Laddove esistono rendimenti crescenti del capitale, è ben difficile
che sia il capitale privato ad innescare dinamiche di fuoriuscita dalla trappola della povertà.
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