CRESCITA E SVILUPPO ECONOMICO

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CAP. 7 – LA TEORIA DELLA CRESCITA E DELLO SVILUPPO
ECONOMICO
1. La crescita e lo sviluppo economico.
Nel capitolo precedente abbiamo analizzato la teoria della
determinazione del reddito e dell’occupazione (1), le cause delle
fluttuazioni del reddito e le politiche per farvi fronte. Di seguito
analizziamo un ulteriore obiettivo di politica economica: la crescita del
sistema economico. E’ un obiettivo di medio – lungo periodo che consiste
nel favorire la crescita del potenziale produttivo (misurata come aumento
del Pil reale o del Pil reale pro-capite). L’aumento della domanda
aggregata non è sufficiente ad assicurare una crescita elevata per un certo
numero di anni, occorre una parallela espansione dell’output potenziale
senza la quale la crescita della produzione effettiva è destinata a finire.
Quando la produzione è al suo livello potenziale e tutti i fattori sono
completamente utilizzati, un’ulteriore crescita del prodotto si può
determinare a seguito di una maggiore disponibilità di fattori produttivi
(risorse umane, risorse naturali e capitale) o di una migliore capacità di un
loro utilizzo che ne determina un aumento della produttività (innovazione
tecnologica e progresso tecnico).
La crescita del prodotto nazionale non va confusa con il concetto di
sviluppo. I due concetti sono abbastanza simili, ma contengono differenze
sostanziali. Il primo è prettamente quantitativo, mentre il secondo
comprende anche elementi qualitativi. Per crescita economica intendiamo
l’aumento nel tempo del reddito pro-capite reale, e per teoria della crescita
economica ci si riferisce alla crescita del prodotto potenziale; mentre per
sviluppo economico intendiamo riferirci ai fenomeni economici, sociali e
culturali che si accompagnano alla crescita del reddito pro-capite e per
misurarlo occorre fare riferimento, oltre al reddito pro-capite, ad indicatori
quali la distribuzione del reddito, l’istruzione, il tasso di alfabetizzazione,
ecc. La crescita economica è dunque un elemento dello sviluppo
economico; essa comporta molti benefici, ma anche alcuni costi che
possono essere rilevanti e comprometterne le possibilità future, ad esempio
l’esaurimento delle risorse naturali e l’inquinamento dell’ambiente.
L’analisi economica ha affrontato questo problema proponendo come
soluzione un nuovo modello di sviluppo compatibile con l’ambiente: lo
sviluppo economico sostenibile, e cioè uno sviluppo in grado di
soddisfare i bisogni delle attuali generazioni e di quelle future, uno
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sviluppo basato non solo sul criterio dell’efficienza, ma anche dell’equità
distributiva. E’ questo il terzo obiettivo di politica economica che si
aggiunge a quello dell’occupazione e della stabilità dei prezzi analizzati nel
capitolo precedente.
Nella letteratura si ritrovano anche termini quali, ad esempio, green
economy (crescita verde). I termini vengono utilizzati per indicare nuovi
modelli di sviluppo economico, compatibili con l’ambiente e non vanno
considerati in contrapposizione o alternativi allo sviluppo sostenibile ma ne
costituiscono un elemento, essi accentuano gli aspetti ambientali dello
sviluppo sostenibile.
Altri modelli ancora propongono soluzioni di stato stazionario o di
sviluppo zero. Altri ancora propongono la decrescita economica. Alla base
di questi modelli vi è la considerazione che lo sviluppo, basato
sull’aumento del Pil e quindi dei consumi, non possa continuare nel futuro
a causa dell’impatto sull’ambiente e dello sfruttamento delle risorse
naturali.
2. La teoria della crescita.
Esistono vari modelli di crescita economica e fra di essi vi sono
significative differenze. Di seguito facciamo riferimento a quella
tradizionale, il modello neoclassico attribuito a Robert Solow (Solow,
1956); esso permette di dimostrare come la crescita dello stock di capitale,
la crescita della forza lavoro e il progresso tecnologico interagiscano nel
sistema economico influenzando la crescita della produzione aggregata di
beni e servizi.
Per analizzare il contributo di questi fattori al processo di crescita viene
utilizzata una funzione di produzione aggregata, che mette in relazione il
prodotto con lo stock di capitale e la forza lavoro. La funzione di
produzione presenta dei rendimenti decrescenti: successive quantità di
capitale, aggiunte a una offerta di lavoro fissa, provocano un aumento via
via minore del Pil. L’economia cessa di svilupparsi.
Nel modello viene sottolineata la necessità di aumentare nel corso del
tempo la quantità di capitale per lavoratore e cioè la sua intensità (il
capitale aumenta più rapidamente della forza lavoro). Nel lungo periodo il
rapporto capitale/lavoro cesserà di aumentare: l’economia entrerà in una
condizione di stato stazionario in cui l’aumento dell’intensità del capitale
si blocca, la crescita dei salari reali si arresta e i rendimenti del capitale e i
tassi interesse rimangono costanti. In realtà, questo risultato non sembra
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essere vero, soprattutto alla luce dei notevoli incrementi di produttività che
si sono registrati nel XX secolo. Infatti, oltre a considerare l’aumento
dell’intensità di capitale occorre tenere conto del progresso tecnologico
che ha determinato un aumento del prodotto per lavoratore e il conseguente
aumento dei salari; non solo, ma occorre tenere presente che l’innovazione
accresce la produttività del capitale e compensa la tendenza al calo dei tassi
di profitto.
Il modello di Solow considera il progresso tecnologico un fenomeno
determinato esogenamente e dimostra come il sistema economico converge
verso un sentiero – detto di stato stazionario (steady state) – raggiunto il
quale il reddito pro-capite cresce ad un tasso pari al tasso di crescita delle
conoscenze tecniche. Una volta che il sistema economico ha raggiunto lo
steady state, non vi può essere crescita a meno che non si tratti della
crescita esogena di un aggregato esterno: la crescita tende cioè ad esaurirsi.
Il processo per il quale le economie continuano a crescere nonostante i
rendimenti decrescenti è esogeno; è dato dalla creazione di nuove
tecnologie (progresso tecnologico) che consentono di produrre di più con
meno risorse. Ed infatti, analisi empiriche hanno messo in evidenza che la
crescita del Pil non poteva essere imputata esclusivamente all’aumento del
lavoro e del capitale, ma vi era un parte non spiegata, definita residuo di
Solow, che si ipotizzò essere causato dal progresso tecnologico derivante
dall’innovazione. Il progresso tecnologico causa un aumento della
produttività marginale: lo stesso ammontare di lavoro e di capitale produce
una maggiore quantità di Pil.
Il modello di Solow si fonda sull’ipotesi semplificata che esista un solo
tipo di capitale, costituito dagli impianti e dalle attrezzature. Ugualmente
importante è quello pubblico, costituito dalle infrastrutture, il capitale
umano, e cioè le competenze e le conoscenze che i lavoratori acquisiscono
attraverso l’istruzione e la formazione. Gli investimenti in capitale umano,
se alimentano la capacità di produrre innovazioni, se incoraggiano la
propensione ad assumere rischi calcolati, servono a prevenire
l’obsolescenza delle skills lavorative. Queste forme di capitale si
accumulano al pari del capitale fisico e rendono i lavoratori più produttivi.
Tuttavia, a differenza del capitale fisico, quello umano presenta rendimenti
crescenti e, pertanto, i rendimenti del capitale nel suo complesso (inteso
come investimento che è finalizzato all’aumento dello stock di capitale
fisico o umano) sono costanti. L’economia, così, non raggiunge mai lo
stato stazionario. Il processo di crescita, e il suo tasso di incremento,
dipende dunque dal capitale in cui un paese investe.
I responsabili della politica economica che vogliono stimolare la crescita
devono stabilire quale sia la forma di capitale di cui il paese ha più
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bisogno; in altre parole, quale forma di capitale abbia il prodotto marginale
più elevato. Si può fare affidamento sul mercato per allocare il risparmio
disponibile tra diversi tipi di investimento: i settori con più alto prodotto
marginale del capitale saranno quelli più disponibili a indebitarsi ai tassi di
interesse di mercato per finanziare nuovi investimenti. In alternativa, viene
suggerito che sia lo Stato a dover incentivare l’investimento in particolari
forme di capitale.
Un motivo per cui i paesi possono avere diversi livelli di efficienza
produttiva è la presenza di istituzioni e di leggi diverse che regolano
l’operare degli individui e per guidare l’allocazione delle risorse. Ad
esempio, una di queste istituzioni è il sistema giuridico del paese. La
qualità delle istituzioni è una determinante fondamentale della performance
del sistema economico. Dove i diritti di proprietà sono adeguatamente
tutelati, gli individui hanno un più forte incentivo a realizzare gli
investimenti che favoriscono la crescita economica.
La spiegazione esogena della teoria neoclassica solowiana ha dato luogo
ad una serie di vari contributi teorici volti ad “endogenizzare” la
tecnologia: i modelli di crescita endogena. Questi modelli cercano di
spiegare le differenze di crescita tra paesi riconducendole al progresso
tecnologico causato dalle attività di R&S e ad altri fattori che incidono sul
comportamento degli individui, e alle istituzioni.
La crescita economica è garantita dalla presenza di esternalità positive
derivanti dalla conoscenza tecnologica che comportano rendimenti di scala
crescenti anche in presenza di produttività marginale decrescente dei
fattori. La funzione di produzione tipica di questi modelli è: Y= F(A,K,L)
dove A sono le conoscenze tecnologiche e i rendimenti di scala si hanno
solo se si considera la presenza di A.
Le conoscenze tecnologiche possono avere diverse forme: conoscenze
incorporate nel capitale fisico attraverso il learning by doing ed imitabili
da altre imprese (Romer 1986), capitale umano (Lucas, 1988), stock di idee
prodotte dall’attività dio R&S (Romer, 1990).
3. I fattori alla base della crescita e le politiche per la crescita.
Possiamo affermare che il Pil reale ottenuto in un qualsiasi anno è pari
alla quantità di lavoro utilizzata (misurata come numero di ore lavorate)
moltiplicata per la produttività del lavoro (misurata come prodotto per ora
lavorata).
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L’input di ore lavorate dipende dalla dimensione della forza lavoro
occupata e dalla lunghezza della settimana lavorativa media. L’entità della
forza lavoro dipende a sua volta dal numero di persone in età lavorativa e
dal tasso di partecipazione alla forza lavoro. Importante è la qualità del
fattore lavoro, l’abilità e le conoscenze, e cioè il capitale umano. Questo
dipende dai livelli di educazione scolastica e di esperienza sul lavoro.
Pertanto, un aumento della popolazione attiva, dovuto a un più elevato
tasso di partecipazione (ad esempio quella femminile) oppure,
alternativamente, a un aumento della popolazione totale, dovrebbe
determinare un aumento del prodotto potenziale. Tuttavia, a causa della
legge dei rendimenti marginali decrescenti, ad ogni incremento della forza
lavoro si avrà un aumento via via minore del Pil, e alla fine non solo il
prodotto marginale del lavoro decrescerà, ma anche la produzione media.
La produttività dipende dal grado di sviluppo tecnologico, dalla quantità
di beni capitali che i lavoratori hanno a disposizione, dalla qualità della
manodopera stessa e dall’efficienza con cui le risorse vengono allocate e
gestite. In altri termini, la produttività aumenta se migliora la salute, la
professionalità, l’istruzione e la motivazione dei lavoratori migliorano; la
quantità e la qualità dei macchinari e delle risorse naturali che i lavoratori
hanno a disposizione; e se la produzione viene organizzata e gestita in
modo migliore.
Nel terzo capitolo abbiamo visto che la occorre calcolare la produttività
totale dei fattori produttivi (PTF), che dipende dalla quantità dei fattori
lavoro e capitale e dal modo in cui sono combinati e da altri fattori, anche
esterni alle imprese. Per quanto riguarda l’Italia, se osserviamo i settori
produttivi vediamo che l’agricoltura è il settore che ha ottenuto grossi
aumenti di produttività (introduzione delle macchine agricole, nuovi tipi di
seminativi, fertilizzanti, ecc.). Ma l’agricoltura conta nel Pil solo il 2%
circa. Nel settore delle costruzioni e in genere dell’industria non è
aumentata di molto. Ma è nei servizi che si sono registrati i risultati
peggiori tenendo conto che il settore costituisce la parte preponderate del
Pil. Le cause sono molteplici: insufficiente qualità del capitale umano a sua
volta dovuta alla scarsa qualità del sistema educativo; eccesso di
regolamentazione che ha limitato la concorrenza nel settore.
Va osservato che in genere nei paesi emergenti la produttività cresce
come processo di aggancio (catching up) attraverso l’importazione di
capitale e di tecnologie dai paesi sviluppati. Ma è difficile spiegare la
minore produttività dell’Europa occidentale rispetto agli USA. Per alcuni
paesi ciò è dovuto ad una accumulazione più bassa del capitale umano, e
ad altri fattori come la rigidità del mercato del lavoro e del mercato dei
beni, la cultura, le regolamentazioni sbagliate, ecc.
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Un ruolo fondamentale è dato dal capitale fisico, dalle infrastrutture e
dalle attrezzature che servono alla produzione ma, come già osservato, non
meno importante è quello pubblico, umano e quello sociale.
E’ ormai acquisizione comune della scienza economica che lo sviluppo
di ogni Paese dipende in maniera cruciale dalla qualità tanto delle sue
istituzioni economiche formali quanto delle sue istituzioni informali.. Il
fenomeno della globalizzazione dei mercati ha messo in evidenza come
l’apertura del commercio internazionale sono sia di per sé un fattore
sufficiente di sviluppo economico per ogni Paese coinvolto, ma che i Paesi,
che sono maggiormente cresciuti in seguito all’espansione dei mercati
internazionali sono quelli che hanno le migliori istituzioni, economiche e
non economiche. Le principali istituzioni formali sono costituite dal
sistema educativo e il sistema di della protezione dei cittadini e degli attori
economici dall’incertezza che è tipicamente generata da un’economia
molto aperta e con tassi di evoluzione. Le istituzioni informali sono date
invece da tutti gli enti, associazioni che agiscono sui comportamenti dei
cittadini e, in genere, degli attori economici.
Fig. 7.1 – I fattori che determinano il prodotto reale.
-
Quantità di lavoro (ore uomo)
Dimensioni forza lavoro occupata
Ore lavoro lavorate in media in un anno
-
Produttività del lavoro (prodotto medio per ora uomo)
Grado di sviluppo tecnologico
Quantità di capitale
Istruzione e formazione professionale
Efficienza allocativa
Altri fattori
La fig.7.1 riassume le determinanti dell’offerta che rendono possibile la
crescita economica. Dallo schema risulta che sono due i modi fondamentali
attraverso i quali una società può accrescere il proprio prodotto reale: 1)
aumentando la quantità di risorse utilizzate nella produzione e 2)
aumentando la produttività di tali risorse.
Le politiche per la crescita - Se si accetta l’idea che la crescita è
auspicabile, occorre affrontare il problema della scelta delle politiche più
indicate per stimolarla. Queste possono incidere sia dal lato della domanda
sia dal lato dell’offerta.
a) Un tasso di crescita ridotto è spesso conseguenza di una domanda
aggregata insufficiente, per cui occorre intervenire con adeguati
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provvedimenti di politica fiscale e monetaria in grado di incentivarla.
L’obiettivo è di accrescere la domanda aggregata, ma senza alimentare
l’inflazione. La riduzione dei tassi interesse (politica monetaria espansiva)
fa aumentare la spesa per investimenti che, a sua volta, rende possibile
l’accumulazione del capitale, che accresce la capacità produttiva del
sistema economico.
b) Le politiche dal lato dell’offerta hanno per oggetto i fattori che sono
in grado di accrescere il prodotto potenziale del sistema economico. Tra le
politiche dal lato dell’offerta importanti sono quelle tributarie che mirano a
stimolare il risparmio, l’investimento e le iniziative imprenditoriali.
Lo sviluppo economico di un paese è dunque influenzato dal
meccanismo risparmio/investimento, nonché dal tipo di investimenti che si
effettuano. Quanto più elevato è l’investimento, tanto più rapido sarà lo
sviluppo di un paese. Per accelerare lo sviluppo in condizioni di piena
occupazione è necessario aumentare la capacità produttiva. Quando questa
si espande, se si vuole mantenere il pieno impiego, la domanda aggregata
dovrà aumentare nella stessa misura. Ma il primo intervento da compiere è
quello di accrescere la capacità aumentando, ad esempio, l’efficienza
dell’attività economica.
A parte i provvedimenti di questo tipo, che accrescono la produzione
permettendo all’economia di funzionare con maggiore efficienza,
praticamente tutte le misure volte ad accelerare lo sviluppo in condizioni di
pieno impiego richiedono lo spostamento delle risorse da usi che non
contribuiscono allo sviluppo, a usi che lo favoriscono. Cioè richiedono che
il consumo corrente venga ridotto e che le risorse rimaste inutilizzate per
effetto di questa riduzione vengano impiegate in qualche altra forma di
investimento. Quindi, i provvedimenti rivolti a questo scopo devono essere
in grado di mantenere la domanda aggregata approssimativamente
invariata a livello di piena occupazione e di modificare la composizione
della domanda stessa, spostandola dal consumo all’investimento o, in altri
termini, il risparmio totale dovrebbe essere accresciuto, e questo
incremento dovrebbe essere bilanciato da quello dell’investimento.
Un aumento del risparmio nazionale può essere determinato da un
aumento del risparmio pubblico, o da quello privato o da una
combinazione dei due. Il modo più diretto con cui i governi possono
influenzare il risparmio nazionale è attraverso il risparmio pubblico
(imposte - spesa). Il governo può comunque stimolare il risparmio privato
mediante opportuni incentivi; ad esempio mediante la sostituzione della
tassazione sul reddito con quella sul consumo. Nel contempo la pubblica
amministrazione dovrebbe intervenire adottando:
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- una politica monetaria espansiva da parte della Banca centrale, che riduca
i tassi di interesse in modo da aumentare gli investimenti in nuovi impianti
o l’applicazione di incentivi fiscali che possano raggiungere lo stesso
obiettivo;
- un aumento della spesa pubblica sia direttamente sia attraverso aiuti
concessi agli enti pubblici statali e locali – per l’istruzione e
l’addestramento o altre forme di investimento in capitale umano;
- un aumento della spesa pubblica per promuovere il progresso scientifico
attraverso la ricerca o per introdurre, attraverso sussidi o agevolazioni
fiscali, nuovi incentivi alla crescita della spesa privata per la ricerca
scientifica;
- un aumento della spesa pubblica per l’investimento in attività quali la
costruzione di autostrade, lo sviluppo urbano e la valorizzazione delle
risorse naturali.
Quando queste misure si traducono in un aumento della capacità
produttiva, è necessario prendere provvedimenti per assicurare
un’espansione della domanda aggregata che permetta di utilizzare
l’accresciuta capacità e di mantenere la piena occupazione.
4. Lo sviluppo sostenibile.
Uno dei limiti che incide sensibilmente sulle possibilità di sviluppo
riguarda la scarsità delle risorse e la produzione di sostanze inquinanti. La
crescita continua della produzione comporta la degradazione di quantità
crescenti di materia/energia, oltre alla diffusione nell’ecosistema di
sostanze inquinanti.
La pressione delle attività economiche sull’ambiente dipende da tre
fattori:
- dalla crescita della scala delle attività economiche che aumenta per
effetto della crescita della popolazione e della crescita del prodotto procapite;
- dalla struttura produttiva;
- dallo sviluppo della tecnologia che definisce l’impatto sull’ambiente delle
diverse attività economiche.
Gli effetti sull’ambiente possono essere ridotti o compensati mediante
una riduzione del coefficiente aggregato di impatto sull’ambiente per unità
di Pil che dipende dalla struttura del sistema produttivo e dal ruolo del
progresso tecnologico. La struttura del sistema produttivo dipende
essenzialmente dall’evoluzione della struttura della domanda, mntre il
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progresso tecnologico dalle politiche di regolazione ambientale e dalle
politiche di innovazione tecnologica.
Per tenere conto di questi aspetti è stato proposto un nuovo modello
economico, in grado di prendere in considerazione la compatibilità tra
attività economiche e ambiente naturale. Il modello si basa sull’idea che
attraverso la conservazione delle risorse o la loro sostituibilità si possa
avere una crescita che duri nel tempo, purché si tenga conto
dell’interdipendenza tra attività economiche e ambiente naturale. E’ questo
il concetto di sviluppo sostenibile divulgato dal Rapporto Bruntland
(1987): «l’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè
far sì che esso soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza
compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro».
A differenza della crescita economica, che si riferisce esclusivamente
all’incremento nel tempo del prodotto nazionale reale pro-capite, il
concetto di sviluppo sostenibile comprende anche finalità sociali, di
giustizia redistributiva, di equità intergenerazionale. Il concetto di
sostenibilità è stato tradotto in varie proposizioni che fanno riferimento ad
alcuni elementi o azioni comuni:
- integrare la dimensione economica, sociale ed ambientale dello sviluppo;
- attenuare gli squilibri tra aree economiche e garantire anche alle
generazioni future la possibilità di soddisfare i propri bisogni (equità
infragenerazionale o redistributiva e intergenerazionale);
- considerare lo sviluppo sia a livello globale sia a livello locale (think
globally, act locally);
- coinvolgere i vari attori costituenti la società nella definizione degli
obiettivi e delle priorità da perseguire.
Il riconoscimento che le generazioni future debbano avere le stesse
opportunità di quelle presenti comporta una serie di vincoli intertemporali
che possono assumere varie forme e che riguardano a) il concetto di
capitale utilizzato nell’ambito del processo produttivo e b) la sostituibilità
tra i fattori della produzione.
Il rapporto tra ambiente e crescita economica e l’esigenza di ripensare ad
un nuovo modello di sviluppo economico era stato in precedenza
analizzato agli inizi degli anni settanta dal Club di Roma che nel rapporto
The Limits to Growth (trad ital. Meadows et al., 1970) aveva sottolineato i
limiti alla crescita derivanti dall’offerta di risorse naturali. A causa della
scarsità di esse, dell’inquinamento e dell’aumento della popolazione, i
paesi industrializzati avrebbero trovato limiti assoluti alla crescita
economica.
Il rapporto, nonostante gli errori di previsione e di costruzione delle
variabili, ha avuto il pregio di suscitare una profonda discussione sulla
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compatibilità tra sviluppo economico e ambiente e di porre all’attenzione
del mondo politico tale tema. Più precisamente, esso ha messo in
discussione la capacità del mercato di allocare in modo efficiente le risorse
e di assicurare un adeguato sviluppo economico anche per il futuro.
In realtà, secondo un’altra corrente di pensiero, i sistemi economici
evolverebbero verso una maggiore compatibilità ambientale. Questo
aspetto viene tradotto in termini formali mediante la curva di Kuznets
ambientale: poiché l’ambiente è un bene superiore, la domanda nei suoi
confronti aumenta all’aumentare del reddito per cui, affinché ci sia una
elevata qualità dell’ambiente, occorre un elevato livello di benessere ed un
adeguato tasso di crescita. La correlazione positiva fra livello di sviluppo
economico e livello di inquinamento verrebbe così ad essere
controbilanciata da una tendenza ad investire una parte crescente del
benessere materiale nella salvaguardia della qualità ambientale. La tesi di
base è che, come rappresentato nella fig. 7.2, all’aumentare del reddito procapite, l’ammontare totale dell’impatto ambientale delle attività
economiche inizialmente cresce, raggiunge un massimo e quindi
diminuisce.
Fig. 7.2 – La curva di Kuznets.
Infatti, inizialmente, l’incremento del Pil, dovuto allo spostamento della
forza lavoro dal settore agricolo a quello industriale, causa un aumento
dell’inquinamento; in secondo luogo, con l’aumento del settore industriale
si verificano livelli più alti di crescita economica, un aumento
dell’occupazione nel settore terziario e, grazie all’aumento della domanda
nei confronti del bene ambiente, un miglioramento delle condizioni
ambientali; infine, il progresso tecnologico e, quindi, l’introduzione di
tecnologie più pulite determinate dallo sviluppo economico si traduce in
una migliore qualità dell’ambiente.
272
La diminuzione dell’impatto ambientale in termini di minori emissioni
inquinanti e minore consumo di risorse avverrebbe dunque per tre motivi:
- miglioramento delle tecnologie che diventano più efficienti e permettono
di produrre più beni e servizi con minore consumo di risorse naturali;
- cambiamenti strutturali dell’economia, con l’affermarsi di settori
industriali tecnologicamente più avanzati a minore impatto ambientale;
- aumento della domanda di qualità ambientale conseguente all’aumento
del reddito.
L’importanza della curva di Kuznets ambientale risiede nelle sue
implicazioni: la crescita economica è uno strumento attraverso il quale si
può raggiungere la protezione ambientale. In realtà, la curva di Kuznets
non è in grado di interpretare tutte le situazioni. Innanzitutto, pur dando
una descrizione degli effetti della crescita economica sulla riduzione di
alcune forme di inquinamento, sembra inadeguata a spiegarne altre. In
particolare, non si ha evidenza per credere che essa si applichi all’uso
dell’energia; la dimensione degli impatti dovuti all’energia sembrano
crescere linearmente con il reddito pro-capite.
La curva di Kuznets può essere dovuta a fenomeni temporanei riflettenti
la sostituzione di risorse e le possibilità tecniche disponibili nel passato
recente, e non è detto che le possibilità di sostituzione siano facilmente
ottenibili anche nel futuro. Rimane il fatto che il progresso tecnologico ha
trasformato la natura delle relazioni fra i settori produttivi, in particolare: il
declino dei settori produttivi tradizionali (il tessile, la trasformazione dei
metalli non ferrosi, la siderurgia, la produzione di cemento), e
l’apparizione di nuovi settori industriali a più alta intensità tecnologica ed
organizzativa (l’informatico, la chimica fine, l’elettronica, ecc.).
L’incremento dei costi dovuti alle politiche ambientali, unitamente ad
altri fattori, ha inoltre condotto alla delocalizzazione delle attività pesanti
nei paesi con bassi costi della manodopera e abbondanza di energia e di
materie prime. Nei paesi Ocse la produzione dell’acciaio è stata ridotta
drasticamente. La produzione dell’alluminio si è concentrata
progressivamente nei paesi ricchi in elettricità (Australia, Brasile, Canada,
Venezuela). L’industria petrolchimica e, in particolare, la produzione di
ammoniaca, etilene e metanolo tende a localizzarsi nei paesi produttori di
gas o di petrolio (America del Nord, Arabia Saudita, Cina, Norvegia,
Olanda, ecc.).
La delocalizzazione delle attività economiche ha contribuito a
determinare il cosiddetto carbon leakage, termine che descrive la
situazione che si può verificare quando in seguito alle politiche ambientali,
le attività economiche vengono trasferite in altri paesi che hanno minori
273
vincoli ambientali e ciò può determinare ad un aumento dell’inquinamento
totale.
Nelle economie avanzate si è riscontrata una tendenza alla diminuzione
del rapporto tra quantità di risorse e produzione di beni e servizi (prodotto
interno lordo); si è registrata una scissione tra crescita economica e utilizzo
delle risorse materiali, che ha determinato la dematerializzazione del
processo economico. Questo processo, che deriverebbe da una spontanea
evoluzione del mercato (innovazione tecnologica e evoluzione dei servizi),
non è comunque immune da critiche. Ad esempio, il minor consumo di
risorse e le minori emissioni dovute a miglioramenti tecnologici sarebbero
compensate dalla crescita complessiva dell’economia. La separazione tra
sviluppo economico ed inquinamento (decoupling) si osserva nei paesi con
economie più sviluppate e riguarda le sostanze (anidride solforosa,
particolato, piombo, DDT) sottoposte a interventi limitativi di legge e, in
qualche caso, addirittura al bando. Altri inquinanti, come gli ossidi di azoto
e l’ozono troposferico, rimangono su livelli elevati nonostante le
regolamentazioni, perché legati a settori economici (come i trasporti) che
non procedono spontaneamente verso il minore impatto ambientale.
4.1 Sviluppo sostenibile e sostituibilità dei fattori produttivi.
Lo sviluppo sostenibile mette l’accento non solo sulla disponibilità dei
fattori produttivi, ma anche sulla composizione del capitale necessario per
la crescita e sulla sostituibilità tra i vari tipi di capitale. E’ infatti intorno al
concetto di capitale e al suo ruolo che lo sviluppo sostenibile può essere
variamente configurato. L’economia ha dato rilevanza a quello manufatto,
ma non ha sufficientemente considerato quello naturale, poiché ritenuto
erroneamente abbondante.
a) Secondo una prima interpretazione, ciò che rileva è lo stock totale di
capitale (quello naturale e quello prodotto dall’uomo), che non deve
diminuire. E’ questo il concetto di sviluppo sostenibile debole. E’
irrilevante che il capitale naturale diminuisca, purché un ammontare
equivalente di capitale prodotto dall’uomo sia in grado di rimpiazzarlo. E’
dunque importante che esista perfetta sostituibilità tra il capitale naturale e
quello prodotto dall’uomo.
La società nel suo insieme può migliorare le proprie condizioni mediante
lo sfruttamento delle risorse naturali e dei beni ambientali, a condizione
che utilizzi i proventi di tale sfruttamento per costituire uno stock di altri
274
beni. Pertanto, lo stock di beni naturali può diminuire, purché la crescita
del capitale prodotto dall’uomo compensi tale diminuzione.
b) Per alcuni economisti non esiste perfetta sostituibilità fra il capitale
naturale e quello manufatto, per cui occorre fare in modo che lo stock di
capitale naturale non venga intaccato: si parla in questo caso di sviluppo
sostenibile forte. La differenza rispetto alla definizione precedente è data
dal fatto che la prima attribuisce importanza a tutto il capitale, mentre la
seconda evidenzia il ruolo del capitale naturale.
La sostenibilità forte comporta condizioni più restrittive sui trasferimenti
intergenerazionali delle risorse naturali. Infatti, la possibilità di mantenere
un potenziale di crescita o di benessere anche per le generazioni future
esige l’applicazione di principi di gestione specifici ad ognuna delle
componenti del capitale. Data l’importanza dello stock di capitale naturale,
ai fini dello sviluppo economico sostenibile è stata proposta come regola di
sostenibilità che il consumo del capitale naturale non superi un determinato
livello critico. Il problema nei confronti di questa regola è dato dalla
misurazione del capitale naturale.
c) In ultima analisi, la teoria dello sviluppo sostenibile fa dipendere il Pil
(Y) dal capitale K, dal lavoro L e dalle risorse naturali/ambientali (E). Se si
vuole mantenere costante E (sostenibilità forte), e il capitale ha rendimenti
marginali decrescenti, K e Y devono crescere nel tempo ad un tasso
sempre più piccolo e tendere ad un valore stazionario. Nel lungo periodo,
la sostenibilità ambientale implica la stazionarietà economica.
La sostenibilità ambientale costituirebbe dunque un vincolo alla crescita,
poiché impone tendenzialmente crescita zero. Altrimenti, si può crescere
sostituendo E (che diminuisce) con K (sostenibilità debole), ma con
rendimenti decrescenti di K si ha comunque tendenziale crescita zero. Il
problema consiste allora nel cercare di mantenere costante E, e allo stesso
tempo fare in modo che Y cresca ad un tasso positivo e non decrescente.
La soluzione risiede nel progresso tecnico environmental saving, che
consente alla produttività di E, (Y/E) di crescere continuamente. Ciò può
essere realizzato assumendo che gli investimenti, cioè la crescita del
capitale, contengano una tecnologia superiore, quindi permettano di
ottenere lo stesso output Y con un livello di inquinamento o consumo della
risorsa E minore.
Esiste un problema evidente nell’impostare la crescita sostenibile in
questo modo molto semplificato. Se infatti è possibile un tasso di crescita
non decrescente con E costante, rimane il problema di come far sì che E
rimanga costante. La soluzione sembra risiedere in un prezzo crescente di
275
E (ad esempio una tassa crescente su E al crescere di K e Y) per
contenerne la domanda. Le condizioni fondamentali per la crescita
sostenibile sono dunque:
- progresso tecnico environmental saving. Anche se il contenuto di risorse
materiali del reddito reale si ridurrà in conseguenza dell’innovazione
tecnologica, l’impatto globale delle attività economiche sull’ambiente sarà
destinato ad aumentare. Non solo, ma poiché l’innovazione tecnologica
non agisce sui beni irriproducibili, come quelli ambientali, lo sviluppo
economico avrà inevitabilmente effetti irreversibili sull’ambiente;
- tasso di crescita del prezzo di E pari al tasso di crescita dell’economia.
Prezzi crescenti per l’uso dell’ambiente indurranno a comportamenti più
responsabili e parsimoniosi e a innovazioni tecnologiche per ridurne la
pressione sull’ambiente per unità di prodotto.
Poiché ambiente e sviluppo non possono più essere considerati fattori
disgiunti, ma strettamente interdipendenti, appare evidente l’importanza di
un’analisi approfondita dei modelli di gestione delle risorse. Il
raggiungimento della compatibilità tra esigenze ambientali ed esigenze
economiche richiede profonde modifiche nei modelli di consumo e di
produzione dei beni e servizi. Modificare questi modelli significa
intervenire nell’impiego delle risorse in modo da ottimizzarne gli usi e
quindi ridurne gli sprechi.
Ciò presuppone l’uso di una tassazione favorevole all’ambiente e cioè
per garantire comunque le entrate dello Stato, a parità di gettito, la
sostituzione della tassazione delle persone (imposte sul reddito) con quella
sulle cose (tassazione ambientale). L’effetto di questa strategia è la
realizzazione di un doppio dividendo, e cioè un beneficio per l’ambiente
(diminuzione del consumo delle risorse ambientali) e un beneficio per il
sistema economico dovuto alla riduzione delle imposte sul lavoro che sono
inefficienti (su questo aspetto cfr. cap.8).
5. Sviluppo sostenibile, crescita verde, stato stazionario o decrescita?
Secondo alcuni teorici la strategia della sostenibilità è semplicemente
un tentativo di aggiungere alla crescita economica soltanto una
componente ecologica; lo sviluppo sostenibile cerca di ridurre
progressivamente l’impatto ecologico e l’incidenza del prelievo delle
risorse naturali in modo da raggiungere un livello compatibile con la
capacità di carico accertata del pianeta. Tuttavia, oggi questo risultato,
secondo una delle critiche allo sviluppo economico, ha provocato solo il
276
cosiddetto “effetto rimbalzo”(rebound effect): l’efficienza ambientale ha
determinato un incremento dei consumi delle risorse. L’effetto rimbalzo è
stato descritto per la prima volta ancora nell’800 (da Jevons,nel 1865 nel
suo libro The coal question) quando si osservò che l’invenzione in Gran
Bretagna di un motore a vapore più efficiente fece sì che l’utilizzo del
carbone diventasse più economicamente conveniente per numerosi usi per
cui si verificò un aumento della domanda di carbone, incrementando così il
consumo globale di carbone.
A causa di ciò, una delle proposte che sono state avanzate è la crescita
verde che accentua gli aspetti ambientali dello sviluppo sostenibile. La
crescita verde richiede trasformazioni molto complesse dell’attuale
modello di sviluppo. Occorre agire sulla tecnologia e sulla struttura della
domanda e dei consumi. Il concetto alla base dell’idea di crescita verde è
quello di “decoupling”, della separazione tra crescita economica e
pressione sulle risorse. Occorre però distinguere tra decoupling relativo ed
assoluto ed è quest’ultimo che è rilevante. Il primo si riferisce alla
diminuzione dell’intensità d’uso delle risorse ecologiche per unità di
prodotto: l’impatto delle risorse si riduce relativamente al Pil, ma può
crescere in termini assoluti. Il secondo, quello assoluto, richiede che
l’attività economica non superi i limiti ecologici determinati dalla capacità
naturale di autorigenerazione e resilienza.
Si tratta di contrastare l’effetto di aumento della scala dell’attività
economica implicato dalla crescita economica con una riduzione della
pressione aggregata sull’ambiente per unità di Pil, maggiore della crescita
del Pil stesso. Soluzione difficile da realizzare poiché comporta la modifica
della struttura produttiva che dipende dalla struttura della domanda
(modelli di consumo) e dal progresso tecnologico nei diversi settori
produttivi.
In genere i modelli alternativi di sviluppo ecocompatibili che sono stati
proposti nella letteratura partono dal presupposto che è la quantità limitata
di risorse naturali non rinnovabili e la velocità di rigenerazione della
biosfera per le risorse rinnovabili che viene ignorata dall’economia che non
tiene conto delle leggi della fisica. Georgescu-Roegen (The entropy law
and the economic process, 1971) sostenendo che il processo economico
avesse natura entropica e, poiché la biosfera è un sistema chiuso in quanto
scambia energia ma non materia con l’ambiente, concludeva che
l’obiettivo fondamentale del processo economico, ossia la crescita
illimitata della produzione basata sull’impiego di risorse energetiche e
materiali non rinnovabili, risultava in contraddizione con le leggi
fondamentali della termodinamica.
277
Secondo Roegen l’uso di materiali ed energia in ogni attività è regolato
dalle due leggi della termodinamica: 1) materia ed energia non vengono
create né distrutte; in un sistema chiuso l’ammontare totale di energia e
materia è costante; 2) in ogni attività fisica l’entropia del sistema può solo
aumentare o rimanere costante. Questa seconda legge implica che ogni
attività che comporta l’uso di materia ed energia e la produzione di rifiuti
implica anche l’aumento dell’entropia cioè della disorganizzazione, o del
disordine, del sistema.
I principi della termodinamica li ritroviamo nel modello di stato
stazionario (steady state) proposto da Herman Daly (Daly, 2006) che si
basa sull’idea di mantenere costante il flusso di materia ed energia che
proviene dall’ambiente (throughput) e che si metabolizza attraverso il subsistema economico della produzione e del consumo per ritornare
all’ambiente come rifiuti. Daly riconduce l’importanza de limite delle
risorse sul potenziale dello sviluppo a tre condizioni:
- il tasso di utilizzazione delle risorse non rinnovabili non deve essere
superiore al loro tasso di rigenerazione;
- l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell’ambiente non deve
superare la capacità di carico dell’ambiente stesso;
- lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.
Anche il movimento della decrescita si rifà alle leggi della
termodinamica sostenendo appunto che in base al primo principio della
termodinamica il processo di rigenerazione spontanea della biosfera, anche
se assistito dall’uomo, non è più in grado di sostenere i ritmi forsennati
richiesti dall’attuale economia mondiale e non può in nessun caso restituire
nella stessa misura la totalità delle risorse degradate dall’attività
industriale.
Lo stesso è valido per il secondo principio, secondo cui anche la materia
che può essere riciclabile a differenza dell’energia non può mai essere
recuperata integralmente. Questo è anche il paradosso del progresso
tecnologico; da un lato rende l’utilizzo delle risorse più efficiente,
dall’altro ne stimola un maggior consumo. Non nega sicuramente che le
attuali tecnologie siano capaci di produrre reddito con un minor impiego di
risorse naturali, anzi è per questo, sostiene, che mentre i consumi di
numerose risorse per unità di prodotto sono effettivamente diminuiti nei
paesi più avanzati, tuttavia i consumi assoluti di risorse continuano ad
aumentare. In particolare, gli innumerevoli oggetti da cui siamo circondati
diventano oggi, grazie al progresso tecnico, da un lato relativamente meno
costosi e, dall’altro, sempre nuovi e qualitativamente differenziati. È
proprio questa trasformazione che alimenta l’aumento dei consumi, che più
che compensa la riduzione nell’utilizzo di risorse legato alla maggior
278
efficienza, portando a un aumento nell’uso delle materie prime e a un
maggior impatto sugli ecosistemi.
La decrescita non va considerata come una crescita negativa, ma va letta
come una rinuncia a crescere sempre e comunque. Pertanto, è necessario
abbandonare l’idea secondo cui l’unica finalità della vita è consumare di
più e ripensare la società con nuovi valori, nuove strutture. L’obiettivo
primario consiste nell’abbandonare il Pil come indicatore del benessere, di
svincolare cioè il benessere soggettivo dall’aumento statistico della
produzione materiale. Va però osservato che il semplice rallentamento
della crescita economica provocherebbe delle crisi nella società in termini
di disoccupazione.
I teorici della decrescita non ammettono nessun possibile tentativo di
conciliare la crescita e il rispetto dell’ambiente. Essi individuano nel
modello neoliberista la causa dell’attuale crisi del sistema economico
mondiale, in quanto l’accumulazione capitalistica ha prodotto una quantità
tale di beni da portare la parte dei più ricchi alla soglia di saturazione,
procurando una tale varietà di danni ecologici, psicologici, da mettere in
discussione la sua stessa capacità di generare benessere, e quindi la propria
legittimazione.
In conclusione, un aumento della quantità di beni consumati, e dunque
del flusso di beni prodotti, comporterà un’alterazione negli equilibri dei
sistemi coinvolti nel processo di creazione del benessere.
6. Il sottosviluppo economico.
Uno degli elementi che caratterizzano la crescita economica riguarda la
difficoltà di acceso ad un dato livello di benessere da parte dei paesi che
attualmente hanno livelli di reddito molto bassi: i paesi in via di sviluppo
(pvs). I pvs, comprendono circa due terzi della popolazione mondiale. La
loro struttura produttiva è caratterizzata da quote elevate di occupazione in
agricoltura e la produttività per addetto è estremamente bassa.
La scarsità di capitale e la sua debole crescita è, al tempo stesso, causa ed
effetto del basso livello di reddito. E’ causa perché, come si è visto in
precedenza, l’accumulazione di capitale è una condizione essenziale per lo
sviluppo. Ed è effetto perché il basso livello del reddito pro capite
impedisce la formazione del volume di risparmio che occorre per dotare i
paesi arretrati di attrezzature e di infrastrutture più moderne. Il basso
livello del reddito pro capite porta infatti con sé un basso volume di
risparmio. Si è in presenza del cosiddetto circolo vizioso della povertà.
279
La fig.7.3 rappresenta questo problema. I bassi redditi determinano bassi
livelli di risparmio; i bassi livelli di risparmio ritardano la crescita del
capitale; il capitale insufficiente impedisce la rapida crescita della
produttività; la bassa produttività determina bassi redditi. Anche gli altri
elementi della povertà si auto rafforzano; la povertà è accompagnata da
bassi livelli di abilità e alfabetismo i quali, a loro volta, impediscono
l’utilizzo di nuove e migliori tecnologie.
L’avvio di un processo di sviluppo richiede la rottura del circolo vizioso
della povertà. Per fare ciò occorre introdurre una serie di trasformazioni,
non solo economiche ma anche sociali e politiche, che permettano ai pvs di
combinare in modo adeguato gli elementi che sono alla base del progresso.
→
Bassi livelli di risparmio →
↑
e investimenti
↓
Bassi salari medi
Basso tasso di accumulazione
di capitale
↑
↑
←
Bassa produttività
←
Fig.7.3 - Il circolo vizioso della povertà.
I fattori alla base della crescita economica nei pvs non sono diversi da
quelli che determinano la crescita nei paesi industrializzati: 1) le risorse
che si hanno a disposizione devono essere impiegate in maniera più
efficiente; 2) l’offerta di risorse produttive deve essere accresciuta
(incremento delle materie prime, capitale fisso, manodopera e conoscenze
tecnologiche, ecc.). Il progresso economico si fonda dunque sugli stessi
quattro fattori: risorse umane, risorse naturali; formazione di capitale;
tecnologia.
Le strategie di sviluppo – Nel tempo si sono succedute varie strategie di
sviluppo. A livello macroeconomico, la crescita di un’economia può essere
vincolata dalla disponibilità di risparmio interno, necessario a finanziare gli
investimenti in capitale fisico ed umano, oppure dalla disponibilità di
valuta straniera, necessaria all’importazione di beni intermedi e beni
capitali non prodotti internamente.
a) Il modello scelto da molti pvs è stato quello autarchico, basato sulla
guida statale e non sulla libertà di mercato. Gli elementi di questa strategia
erano sostanzialmente due: la sostituzione delle importazioni; la proprietà
pubblica di una buona parte dell’apparato produttivo.
280
La sostituzione delle importazioni si basa sull’idea che un paese che si
vuole sviluppare deve riuscire a fare crescere le proprie industrie
manifatturiere. Non lo può fare se non al riparo della concorrenza
internazionale (i paesi più sviluppati possiedono infatti tecnologie più
avanzate e lavoratori più produttivi). La necessità quindi di impedire o
limitare le importazioni di prodotti industriali.
Questa strategia si presta a varie critiche. Innanzitutto, nessun paese
produce beni se, poi, in presenza di produzione straniere più avanzate, non
riuscirà a venderli; in secondo luogo, si ha una riduzione del benessere
complessivo della società. All’aumento dei benefici per il governo (entrate
dovute ai dazi doganali) e per i produttori locali (profitti) fa riscontro una
diminuzione del benessere dei consumatori (scelta limitata dei prodotti e
prezzi più alti), che più che compensa i benefici degli altri soggetti. Infine,
una terza critica, di carattere empirico, riguarda i risultati ottenuti dai paesi
che hanno applicato questa strategia. L’Argentina e i paesi africani hanno
sperimentato un peggioramento del tenore di vita. In realtà, va detto che si
sono avuti anche casi di successo: il Brasile e le cosiddette “tigri asiatiche
(Corea del Sud, Malesia, Taiwan, Singapore, Cina, Indonesia).
In genere, la letteratura indica nell’industrializzazione la strada
obbligata da percorrere per eliminare i differenziali di crescita esistenti fra
i paesi. Questa é stata la strada percorsa da quasi tutti i paesi
industrializzati nelle fasi di decollo, i quali hanno cercato di importare
nuove tecnologie dai paesi già sviluppati. L’acquisto di tecnologia e
l’imitazione dei processi produttivi sono stati gli elementi usati anche
dall’Italia per seguire i modelli di sviluppo anglosassoni in seguito alla
rivoluzione industriale. Il vantaggio di questo modo di procedere è che
consente di saltare alcuni fasi del progresso tecnologico e di ricorrere alle
tecniche più moderne senza dover sopportare i costi della ricerca. La
mancanza di risorse finanziarie, unitamente a quelle umane nel settore
della ricerca, impedisce infatti a molti dei pvs di raggiungere quella soglia
minima necessaria ad innescare uno sviluppo locale della scienza e della
tecnologia che permetterebbe loro di affrancarsi dalle importazioni e dalle
imitazioni di tecnologie dai paesi sviluppati.
I nuovi modelli devono quindi essere determinati sull’assunto che lo
sviluppo non deve basarsi necessariamente sugli incentivi finanziari, ma su
politiche atte a favorire gli investimenti in ricerca e sviluppo e la
formazione manageriale e scientifica.
b) La strategia alternativa, quella imposta dagli organismi internazionali,
è invece di tipo liberista e consiste nel reintrodurre la logica del mercato:
libero commercio internazionale invece di import substitution,
privatizzazioni invece di proprietà pubblica, libertà dei movimenti di
281
capitale. Essa si basa sull’accettazione dei prezzi di mercato come
strumento per l’allocazione delle risorse, il che comporta un abbandono sia
dei sussidi sia delle regolamentazioni.
Uno degli aspetti più importanti è il riconoscimento del ruolo positivo
della concorrenza come strumento di tutela dell’interesse pubblico e di
stimolo dell’innovazione. Un secondo aspetto riguarda la limitazione
dell’intervento pubblico. Allo Stato spettano soprattutto due tipi di
interventi: assicurare le condizioni che consentano all’economia di mercato
di operare e, in secondo luogo, risolvere i conflitti d’interesse, per gestire i
fallimenti del mercato e per redistribuire il reddito coerentemente alle idee
di giustizia sociale diffuse tra la popolazione.
Gli investimenti esteri sono una importante fonte di capitale che porta
con sé la tecnologia avanzata che sarebbe difficile da sviluppare nelle
economie arretrate. Su un lungo periodo di tempo gli investimenti esteri
diretti danno origine a molte esternalità sotto forma di benefici accessibili a
tutta l’economia, di cui le imprese non possono appropriarsi come parte del
loro stesso reddito. Questi benefici comprendono trasferimenti di
conoscenze generali e di specifiche tecniche di produzione e di
distribuzione, un miglioramento della qualità industriale, esperienze
lavorative formative per le forze lavoro e il miglioramento delle
telecomunicazioni.
6.1. Risorse naturali e sottosviluppo.
L’esistenza di un flusso circolare produzione-consumo avente
caratteristiche di autosufficienza non risulta necessariamente valido,
soprattutto quando, come nel caso dei pvs, le risorse naturali, nella maggior
parte dei casi destinate all’esportazione, vengono a mancare. Inoltre,
l’eccessivo sfruttamento delle risorse, quali ad esempio la terra agricola,
può compromettere il suo futuro utilizzo e, quindi, anche quei livelli di
reddito di sussistenza che caratterizzano le attuali economie in via di
sviluppo.
La sostituibilità tra fattori riproducibili e risorse esauribili, che è alla
base dei moderni sistemi economici, può venire meno nei pvs a causa della
mancanza di tecnologie innovative. Ad esempio, la produzione agricola nei
pvs viene generalmente aumentata mediante la messa a coltura di nuovi
terreni e investimenti tesi ad incrementarne la produttività (irrigazione
delle terre, nuovi macchinari, ecc.). Tuttavia, i modelli di sviluppo agricolo
che vengono proposti, ad alta intensità di capitale, non sembrano essere
validi per le realtà locali, completamente diverse da quelle delle economie
282
avanzate. L’aumento dell’intensità del capitale in agricoltura poco si
addice alle piccole aziende agricole a conduzione familiare aventi
abbondanza di lavoro manuale e scarsa disponibilità di mezzi finanziari.
Sempre in relazione ai problemi di sviluppo nei pvs e al trade-off
sviluppo-ambiente, va considerato un ulteriore elemento: la tendenza a
localizzare in questi paesi (raramente per ragioni ambientali) le produzioni
maggiormente inquinanti quali la produzione di alluminio, la raffinazione
del petrolio, ecc. In base alla tradizionale teoria pura del commercio
internazionale, questi trasferimenti sono giustificati e determinano vantaggi
per tutti, poiché i paesi si specializzerebbero in ragione del loro vantaggio
comparato: è razionale dal punto di vista economico localizzare un
impianto inquinante in una zona deserta in cui l’inquinamento non disturba
nessuno, piuttosto che in un agglomerato sovrappopolato, nel quale occorre
mettere in opera costose misure di prevenzione. L’industrializzazione si
realizzerebbe così ad un costo globale minimo. In realtà non è sempre così.
Infatti, non è assolutamente certo che i paesi in via di sviluppo siano
caratterizzati da un ambiente capace di sopportare l’inquinamento meglio
di quello dei paesi industrializzati. L’assenza di un inquinamento
accumulato non significa automaticamente che non sussistano rischi.
L’evidenza più chiara negli ultimi decenni è che esiste un inquinamento
da povertà. Povertà e degrado ambientale si rafforzano a vicenda: per
cercare di uscire dalla miseria si adottano soluzioni che degradano
l’ambiente e, quindi, consumano il principale potenziale di possibile
crescita futura, cioè le risorse agricole-naturali. Numerosi sono gli esempi
di questi meccanismi perversi:
- fame di terra: deforestazione, desertificazione, perdita di biodiversità
- fame di città: AIDS/HIV, emergenza idrica, cambiamento abitudini
alimentari)
I paesi in via di sviluppo sono in molti casi esportatori di materie prime.
Gli indici di prezzo di molte materie prime (ad esempio caucciù, cacao,
caffè, ecc.) sono molto volatili e questo ha come conseguenza che il
reddito dei pvs è molto instabile. Poiché la domanda per i prodotti primari
è rigida, ogni volta che l’offerta aumenta, a causa di un raccolto
abbondante, il prezzo si riduce più che proporzionalmente, causando un
crollo dei ricavi; viceversa, quando c’è scarsità di raccolto, il prezzo sale
più di quanto sia caduta l’offerta e quindi il ricavo totale aumenta. Per
questa ragione la diversificazione della produzione e delle esportazioni è
per molti paesi l’obiettivo più importante di politica economica. In questo
senso molti paesi si sono dedicati alla lavorazione dei prodotti, che sono
meno soggetti alle fluttuazioni di prezzo.
283
Vi sono stati tentativi di controllare i prezzi delle materie prime
attraverso cartelli dei paesi produttori: caffè, cacao, stagno, petrolio.
L’obiettivo di questi accordi non è solo di ridurre la variabilità dei prezzi
dei beni esportati e, quindi, dei redditi dei paesi produttori, ma anche
quello di mantenere i relativi prezzi a livelli elevati, per favorire
trasferimento di reddito dai paesi industrializzati ai paesi produttori poveri.
Ma i cartelli soffrono di alcuni noti problemi: i paesi che non partecipano
hanno l’incentivo a rimanerne fuori e, in secondo luogo, i paesi che vi
aderiscono, hanno l’incentivo a produrre di più di quanto concordato.
La difficoltà ad applicare i programmi di stabilizzazione e di sostegno dei
prezzi delle materie prime hanno indotto molti paesi a cercare di
indirizzare le proprie esportazioni verso i beni manufatti. Molti paesi
mediante dazi doganali e il razionamento delle importazioni hanno cercato
di sviluppare una politica industriale. Dapprima la politica industriale era
stata avviata con una progressiva sostituzione delle importazioni.
Anche se l’industrializzazione non teneva conto dei vantaggi comparati,
vanno considerati due aspetti: il vantaggio comparato va considerato in una
prospettiva dinamica e, in secondo luogo, l’industrializzazione, seppur
costosa in termini di allocazione delle risorse, ha un effetto stabilizzante
poiché riduce la dipendenza dai singoli raccolti o prodotti.
Comunque, la sostituzione delle importazioni come strategia di
sviluppo rimane controversa soprattutto per gli aspetti connessi
all’inefficienza produttiva. Rimane il fatto che l’industrializzazione ha
avuto in alcuni casi successo e molti di questi paesi hanno abbandonato la
politica di sostituzione delle importazioni con quella basata sulla crescita
delle esportazioni. Tra questi paesi figurano i paesi di nuova
industrializzazione, i Nic (Newly industrialized countries) (Brasile,
Messico, Hong Kong, Corea, Singapore), che hanno quote di esportazioni
del commercio internazionale ormai superiori all’1 per cento ciascuno.
6.2. Risorse umane: popolazione e crescita.
Una delle minacce alla crescita deriva dall’aumento della popolazione.
Secondo le stime attuali ha raggiunto 7.2 miliardi nel 2010, raggiungerà
8.5 miliardi nel 2025 e aumenterà di un altro miliardo nel venticinquennio
successivo. Circa il 97% della crescita della popolazione mondiale da oggi
al 2050 avverrà nei paesi in via di sviluppo (la popolazione dei paesi
industrializzati si è quasi stabilizzata), ma a quella data la popolazione avrà
raggiunto 10 miliardi (fig. 7.3).
284
La teoria maltusiana della popolazione (Malthus, 1798) postula una
tendenza universale della popolazione a crescere in modo esponenziale o in
progressione geometrica. Secondo Malthus, poiché la terra è fissa mentre
gli input di lavoro aumentano costantemente, i generi alimentari
tenderebbero a crescere in progressione aritmetica (a causa dei rendimenti
decrescenti), mentre la popolazione ha la tendenza a raddoppiarsi ogni
venticinque anni, aumentando secondo una progressione geometrica. La
discrepanza dunque tra crescita della popolazione e crescita dei beni
alimentari.
Con l’estensione della coltivazione a terre sempre meno fertili e meno
produttive, i prezzi dei prodotti agricoli sarebbero aumentati, vi sarebbe
stata scarsità, carestie e un aumento del tasso di mortalità che avrebbe
riportato la popolazione al livello preesistente. Perché l’equilibrio tra
produzione e popolazione possa realizzarsi senza che si renda inevitabile
un aumento del tasso di mortalità, sarebbe necessario procedere al
controllo delle nascite (“astenersi dal matrimonio, conservando la castità” e
abolire forme private e pubbliche di assistenza ai poveri). Molti paesi per
far fronte alla trappola maltusiana hanno finanziato programmi di
istruzione per il controllo delle nascite. La Cina ha adottato un programma
di limitazione delle nascite molto restrittivo, stabilendo severi limiti al
numero di nascite e sanzioni economiche.
Fig. 7.4 - L’evoluzione della popolazione a livello mondiale.
Le previsioni di Malthus si sono rivelate sbagliate nella maggioranza dei
casi, soprattutto per due ragioni:
- veniva sottovalutata l’importanza del progresso tecnologico, che ha
aumentato la produttività nell’agricoltura ad un tasso di gran lunga
285
superiore a quello con cui è cresciuto il fabbisogno alimentare nei paesi più
industrializzati;
- veniva sottovalutata l’entità delle limitazioni volontarie alla crescita della
popolazione, derivanti dall’ampia diffusione delle tecniche di controllo
delle nascite.
Ha avuto luogo la cosiddetta transizione demografica: quando il reddito
aumenta e la mortalità infantile diminuisce come conseguenza dei
progressi della scienza medica, gli individui riducono volontariamente il
tasso di natalità in seguito ad un maggior livello di istruzione e in quanto
non hanno più bisogno di forza lavoro nel settore agricolo. In questo senso
Messico, Cina e Taiwan hanno assistito a una rapida diminuzione dei tassi
di natalità.
Il modello della transizione demografica sintetizza il passaggio da un
livello di crescita della popolazione ad uno di decrescita, e consente di
valutare il cambiamento demografico come causa ed effetto del
cambiamento sociale, economico, produttivo del Paese. Il modello
prevede tre fasi (fig. 7.4).
Fig. 7.4 – La transizione demografica.
In quella iniziale, l’andamento dei tassi di natalità e di mortalità, che
presentano valori elevati, si riflette sulla debole crescita della popolazione,
condizione che si registra nei Paesi fortemente legati al settore primario.
Nella seconda fase di sviluppo si osserva la diminuzione del tasso di
mortalità, mentre permane ancora un elevato tasso di natalità. Queste
tendenze sono dovute all’effetto congiunto dei miglioramenti
nell’agricoltura, dell’accumulazione dei capitali e dell’avvio dei processi
industriali, con importanti trasformazioni che implementano
l’affermazione urbana, il reddito disponibile, il livello di consumo, i
modelli culturali. Nella terza fase di consolidamento dello sviluppo si
evidenzia un ulteriore calo delle nascite e un rallentamento dei tassi di
286
mortalità (diffusione dei vaccini e degli antibiotici): il progresso ha
garantito ulteriori miglioramenti e lo stile vita è profondamente
trasformato.
Peraltro, non si può trascurare il ruolo svolto dal sistema culturale
nell’andamento della natalità. Un esempio emblematico è offerto dalle
culture musulmane che riconoscono al numero della prole un significato
diverso e opposto rispetto alle culture occidentali e, pertanto, all’aumentare
del reddito la popolazione non diminuisce, ma aumenta.
Il modello classico della transizione demografica si conclude con una
crescita zero della popolazione. Va evidenziato come l’ultima fase si
caratterizzi per un progressivo invecchiamento della popolazione, da cui
discende la riduzione delle capacità produttive e innovative di un Paese,
l’aumento della spesa pubblica (aumento della spesa previdenziale ed
assistenziale) e la diminuzione della disponibilità di lavoro e di mercato
per le imprese.
La transizione demografica non è avvenuta in tutti i paesi. Per molti paesi
poveri la tendenza della crescita della popolazione a superare quella della
produzione alimentare rende le previsioni malthusiane una minaccia reale.
Il problema della popolazione riguarda infatti, più che l’evoluzione del
tasso globale, le differenti dinamiche demografiche delle aree del
mondo, e cioè la mancanza di uniformità dei tassi di crescita. I paesi
dell’America latina, dell’Africa, dell’Asia hanno visto raddoppiare il loro
peso negli ultimi trenta anni. Per questi paesi, poiché i tassi di crescita
della popolazione sono quasi uguali a quelli del prodotto lordo, il loro
tenore di vita è appena superiore a quello che avevano cent’anni fa. I paesi
più poveri consumano buona parte dell’aumento del loro reddito
nell’aumento della popolazione.
Il controllo del tasso di crescita della popolazione è dunque a tutti gli
effetti una misura di politica economica. Una crescita demografica più
lenta e popolazioni totali meno numerose possono contribuire alla
sostenibilità in due modi: attraverso una più lenta crescita della domanda di
risorse esauribili e rinnovabili e di spazio aggiuntivo da acquisire a spese di
altre specie, e con un aumento controllato della produzione di rifiuti e
dell’inquinamento.
Un elemento importante dell’evoluzione demografica è quindi la
struttura per età della popolazione, il fatto cioè che cresca o diminuisca
il numero di individui in una determinata fascia di età. Nella maggior parte
dei paesi, un elemento chiave della transizione è che il tasso di mortalità
decresce prima di quello di natalità, determinando un periodo temporaneo
di incremento demografico e un conseguente aumento della popolazione
indotto da una più alta percentuale di sopravvivenza dei nuovi nati.
287
L’aumento della popolazione finisce quando declina anche il tasso di
natalità.
Alla fine della transizione demografica, quando i tassi di natalità e
fertilità si sono attestati su livelli bassi e la gente vive di più, i paesi
sperimentano un generalizzato invecchiamento della popolazione. Questi
mutamenti possono essere osservati nelle “piramidi demografiche”, che
mostrano la percentuale di popolazione per ogni fascia di età. Nel periodo
1970-2010 il fattore dominante è stato l’incremento delle persone in età da
lavoro; nel periodo 2010-2050, sarà invece l’invecchiamento della
popolazione.
A livello mondiale, gli ultrasessantenni sono passati dall’8% del totale
del 1950 a circa l’11% odierno. Entro il 2050 il numero di anziani
aumenterà al 22% (circa 2 miliardi di persone). L’invecchiamento della
popolazione rappresenta una fonte aggiuntiva di capitale sociale in termini
di esperienza; tuttavia si possono avere problemi di sostenibilità dei sistemi
pensionistici e sanitari
6.3. La teoria della convergenza economica.
Una previsione chiave dei modelli neoclassici di sviluppo è che i livelli di
reddito dei Paesi poveri tenderanno ad avvicinarsi e raggiungere (catching
up) o a convergere verso i livelli di reddito dei Paesi ricchi. I paesi arretrati
possono recuperare terreno rispetto a quelli sviluppati (crescendo più
rapidamente di quelli ad alto reddito) aumentando la qualità dei fattori di
convergenza e cioè il capitale umano, il capitale fisico, le infrastrutture, la
qualità delle istituzioni, il capitale sociale e l’accesso alla rete. Le tendenze
in atto sembrano confermare questa previsione. I tassi di crescita dei paesi
meno ricchi sono in genere molto più alti di quelli dei paesi ad alto reddito.
Sempre in base alla teoria della convergenza, anche le divergenze tra
Nord e Sud all’interno dei singoli paesi, quindi anche per il nostro,
dovrebbero ridursi. Infatti, secondo la teoria, due regioni che hanno
all’inizio un livello diverso del Pil pro capite dovrebbero tendere nel tempo
a convergere verso un livello comune, sempre che abbiano accesso alla
stessa tecnologia (con rendimenti decrescenti), che non vi siano
imperfezioni di mercato e che i rispettivi abitanti abbiano le stesse
preferenze. In altre parole, le aree convergono spontaneamente, basta
lasciare libere le forze della concorrenza e dare tempo al tempo. Come tutte
le teorie economiche, anche questa si basa su modelli molto semplificati,
che trascurano importanti aspetti della realtà.
288
Nel Mezzogiorno le differenze di reddito si sono ridotte, anche se
nell’ultimo quarto di secolo il meccanismo sembra avere smesso di
funzionare. Infatti, il modello basato sulle forze spontanee del mercato
presuppone l’esistenza di alcune condizioni: la flessibilità nella
remunerazione dei fattori produttivi (lavoro e capitale) e la loro mobilità.
La fiducia nel riequilibrio del sistema economico lascia poco spazio
all’intervento dello Stato. Quest’ultimo è giustificato da due interpretazioni
alternative: la prima presuppone che ogni area abbia accesso alla stessa
tecnologia, ma il concetto di tecnologia comprende qualunque condizione,
esterna rispetto alle decisioni imprenditoriali, che influenzi la produttività
dei fattori. Vi rientrano dunque, oltre alla tecnologia produttiva in senso
stretto, elementi quali la dotazione di infrastrutture (strade,
telecomunicazioni, ecc.) e l’efficienza dell’amministrazione pubblica
locale. Se le aree possiedono alcuni di questi elementi in misura
permanentemente diversa, esse convergono verso livelli di prodotto pro
capite diversi, il che significa che non convergono.
La seconda interpretazione è fornita da teorie radicalmente diverse a
quelle del riequilibrio automatico di mercato, che possono essere
raggruppate sotto l’etichetta di “causazione cumulativa”: se un’area
possiede un vantaggio iniziale tenderà a mantenerlo e ad accrescerlo. L’idea
della “causazione cumulativa” è stata, negli anni sessanta e settanta alla
base della creazione nel Mezzogiorno di “poli di sviluppo” basati su
grandissime imprese (acciaierie, impianti chimici e simili) nell’illusione che
in questo modo si determinassero le condizioni per un decollo locale.
Un elemento importante dell’intervento è sempre consistito nella
concessione di incentivi, più o meno generalizzati, all’attività di
investimento (agevolazioni fiscali, mutui a tassi agevolati, contributi diretti,
ecc.). Si è però constatato che, in assenza di sufficienti economie di scala,
l’attribuzione di incentivi a un solo fattore della produzione (il capitale),
modificando i prezzi relativi, si sarebbe risolta a danno dell’altro (il lavoro),
aumentando il problema della disoccupazione. Perciò, a partire dagli anni
settanta si adottarono provvedimenti anche per la riduzione generalizzata
del costo del lavoro, principalmente tramite la fiscalizzazione degli oneri
sociali. Il sistema degli incentivi non sembra avere funzionato. Essi hanno
indotto le imprese a prendere le iniziative che hanno maggiori probabilità di
essere destinatarie di fondi pubblici, piuttosto che verso quelle che hanno
maggiori probabilità di incontrare il favore di mercato.
L’esperienza internazionale suggerisce che siano i meccanismi di mercato
il principale fattore di sviluppo nel lungo periodo: tra i paesi arretrati, quelli
che hanno seguito logiche esclusivamente protezionistiche sono per lo più
rimasti indietro. Le sovvenzioni, se consentono di difendere produzioni non
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competitive, non giovano allo sviluppo. La strada da preferirsi è dunque
quella di dare maggiore spazio ai meccanismi di mercato. Una maggiore
flessibilità. In particolare l’idea di un unico salario, anche se comprensibile
di fronte all’equità, è insostenibile dal punto di vista dell’allocazione
efficiente delle risorse. Si tratta di togliere spazio all’applicazione rigida di
contratti collettivi nazionali e darne di più all’introduzione di legami tra
remunerazione e produttività, nel quadro di standard minimi di protezione.
Ampi investimenti in infrastrutture e istruzione, abbattimento di barriere
legali al funzionamento del mercato, soprattutto con riferimento al mercato
del lavoro, repressione dell’illegalità, insieme al recupero di efficienza
nell’amministrazione pubblica dovrebbero costituire parte degli interventi
per l’eliminazione dei divari.
7. La competitività di un paese.
A livello intuitivo la nozione di competitività di un paese è legata al
confronto relativo tra i tassi di crescita o di performance e all’evoluzione
dei pattern di commercio internazionale e dei vantaggi competitivi.
Si hanno due accezioni principali di competitività. Competitività di
prezzo di breve periodo (aumento del tasso di cambio reale; diminuzione
dei costi unitari di produzione) e competitività di lungo
periodo/tecnologica.
Competitività di prezzo. Si ricorda che il tasso di cambio nominale è il
prezzo della valuta estera in termini di valuta nazionale, mentre il tasso di
cambio reale ® è il rapporto tra il prezzo del bene di produzione estrera,
espresso in valuta locale, e il prezzo del bene di produzione nazionale,
anch’esso espresso in valuta locale
R = EP1 / P2.
Dove P1 è il prezzo del bene di produzione estera in valuta estera (es. $); P2
il prezzo del bene di produzione nazionale in valuta nazionale (es. €); E il
tasso di cambio nominale (es. €/$)
R crescente indica un aumento della competitività internazionale di
prezzo del produttore locale e R decrescente indica una riduzione della
competitività internazionale di prezzo del produttore locale.
La competitività di prezzo può essere ottenuta con: un deprezzamento del
cambio nominale (E); una diminuzione del prezzo dei beni di produzione
locale (P2) ottenuta mediante riduzione dei costi unitari.
290
Il deprezzamento del cambio si può ottenere con una riduzione del debito
(diminuzione del debito comporta una diminuzione del tasso di interesse
che, a sua volta, determina un aumento degli investimenti all’estero e una
valuta diminuzione del valore della valuta nazionale). Non è una strategia
sostenibile nel lungo periodo, infatti: aumentano i prezzi dei beni importati,
aumenta l’inflazione, diminuiscono gli investimenti interni e diminuisce la
produttività. La riduzione dei costi unitari è una strategia più sostenibile (i
costi diminuiscono, aumentano le esportazioni e si verifica un
apprezzamento del cambio).
Competitività tecnologica di lungo termine. E’ determinata
dall’innovazione, che implica un aumento della produttività e delle
esportazioni.. E’ compatibile con: prezzi dei prodotti più elevati (indicatori
di maggiore qualità) e un valore più elevato della valuta nazionale.
E’ compatibile con l’idea che le relazioni fra paesi possano essere
caratterizzate come un “gioco a somma positiva” piuttosto che un “gioco a
somma zero” (crescita, aumento della dimensione della torta, maggiori
possibilità di benessere). Come aumentare la competitività di lungo periodo
è, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la domanda che si pone la
teoria della crescita.
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Note
(1) Fra i principali contributi della teoria della crescita figurano quelli keynesiani dovuti
ad Harrod & Domar e Kaldor, quelli neoclassici esogeni (Solow € Swan) e endogeni
(Romer, Alghion & Howitt) e quelli riguardanti l’approccio evolutivo/
neoschumpeteriano.
La questione della crescita era fondamentale nel pensiero degli economisti classici
(Smith, Ricardo, Malthus e Mill). Il motore della crescita è l’investimento; esso è
possibile se il prodotto generato dalla produzione consente di pagare rendite e salari, di
rimborsare il capitale circolante iniziale e di generare un surplus rispetto al valore delle
risorse impiegate. Il surplus coincide con il profitto dei capitalisti e può essere investito
incrementando di anno in anno il capitale impiegato al fine di espandere la produzione.
In un’economia agricola esiste un fattore fisso, la terra, che determina l’arresto nel
corso del tempo del processo di sviluppo. Secondo Riccardo, a) l’espansione della
produzione conseguente all’accumulazione del capitale fa sì che terre sempre meno
fertili siano messe a coltura; b) la produttività marginale del capitale decresce con
l’accumulazione ed arriva al punto in cui nessun profitto viene generato.
L’economia è destinata a raggiungere uno stato stazionario in cui la crescita si
interrompe se gli altri fattori non intervengono a contrastare la produttività marginale
decrescente del capitale. Il progresso tecnico sostiene la crescita dopo il suo avvio.
Secondo Smith l’introduzione di nuove tecnologie (ad esempio una maggior divisione
del lavoro) è possibile quando esiste una domanda effettiva sufficientemente ampia.
Indicazione di policy: la politica economica deve occuparsi principalmente di
incoraggiare l’investimento.
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