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Fabio Mazzocchio
Il pensiero dell'essere come «etica originaria» in
Martin Heidegger
Negli ultimi anni si è delineata una manifesta tendenza critica, in virtù della quale il
pensiero di Martin Heidegger è stato sempre più posto in relazione con le problematiche
della filosofia pratica. Riteniamo che tale interesse non sia stato mosso primieramente da
esigenze filologico-interpretative, le quali seguendo un ideale di completezza ermeneutica,
dopo aver indagato sul momento esistenzialista e su quello ontologico, si siano soffermate
sulla valenza della componente pratica della speculazione heideggeriana, ma dal tentativo
di discernere la vicinanza tra le sue scelte etico-politiche e le sue posizioni filosofiche.
Esplicita testimonianza ne sono il moltiplicarsi di saggi, convegni e quant'altro sulla
spinosissima questione del suo rapporto con il nazismo1 e le sue matrici culturali.
Nella consapevolezza che Heidegger, pur essendo, forse, il più noto e studiato tra i filosofi
contemporanei, rimane per molti versi difficilmente comprensibile, spesso enigmatico,
riteniamo che si possa porre la questione della presenza di un'etica nella sua opera; di
questo egli non parlerà esplicitamente o, meglio, sistematicamente ma si trova quasi
filigrana di problematiche ad esso care e fondamentali: l'essenza della tecnica, il
nichilismo, l'umanismo ed ultimativamente la quaestio sull'essere.
Il problema dell'essere, infatti, avvolge e alimenta da cima a fondo ogni passo del
cammino, meglio, del sentiero (troppo spesso interrotto) del pensatore tedesco.
Stando, poi, alla distinzione hegeliana tra eticità e moralità, si potrebbe affermare che la
riflessione filosofica sull'agire si svilupperebbe nei momenti di crisi della eticità ovvero
quando un intero mondo di valori si incrina, viene superato o addirittura capovolto:
questo scenario, ci pare, sia manifesto anche, in questo nostro tempo contemporaneo;
contemporaneità in cui Heidegger ha vissuto e di cui Nietzsche aveva profeticamente e
violentemente annunciato le sorti: il tempo del Requiem aeternam Deo.
1. Heidegger e l'etica
1.1 Vi è un'etica in Heidegger?
Questo è sicuramente uno dei nodi più complessi del pensiero heideggeriano; basterebbe
scorrere alcune delle posizioni degli studiosi per rendersene conto.2
Siamo convinti che sia possibile rintracciarvi un'etica, forse irriconoscibile dato il suo
status post-metafisico,3 un'etica anteriore all'etica canonica che la storia del pensiero
occidentale ci ha consegnato sotto le spoglie di una sorta di metafisica specialis4 o di
disciplina ricavata dalle distinzioni scolastiche avutesi già con i platonici e cristallizzatesi
con Aristotele: «ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica5». Heidegger
ricorda che la divisione fra theoria e praxis cosi come la partizione del pensiero in
discipline non è originaria ma appartiene a quel destino decadente del pensiero aurorale
con la conseguente affermazione impositiva della metafisica: «nomi come logica, etica,
fisica, compaiono quando il pensiero originario volge alla fine»,6 è una «interpretazione
tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e Aristotele»; l'esito è funesto,
«l'essere, come elemento del pensiero, è abbandonato».7 Queste disciplinarizzazioni
risultano, al Nostro, fortemente estrinseche e non adeguate alla cosa stessa del pensiero
che è tale quando «all'essere appartiene».8 «Prima di questo tempo i pensatori non
conoscevano né una logica, né un'etica [...] eppure il loro pensiero non è né illogico né
immorale».9 Non esiste, quindi, in Heidegger una meditazione sull'agire che diventa studio
sistematico della condotta dell'uomo, dei criteri di giudizio sui comportamenti e le scelte in
riferimento ha orizzonti valoriali:10 voler trovare un'etica siffatta riteniamo sia un artificio
ermeneutico, una forzatura e una patente incapacità di lettura dei suoi scritti.
Vi è un'etica, in qualche modo, prima dell'etica;11 prima del dogmatico irrigidimento
disciplinare, prima «della divisione dei compiti della filosofia»,12 prima dell'erranza
metafisica, prima della grande dimendicanza: quella dell'essere e della sua verità.
Guadagnato questo piano secondo cui una morale stricto sensu non si manifesti e non
possa necessariamente esservi nel Nostro, vogliamo, continuando questo sentiero, far
emergere un'etica originaria proprio riproponendo la questione radicale, forse l'unica
realmente fondamentale, quella dell'essere13 e di un pensiero adeguato al suo appello.
Un'etica non umanistica, distinta e distante da quella disciplina umana troppo umana che
ha posto il soggetto e la sua volontà come contrappunto alla responsabilità nell'agire.14 La
ricaduta potrebbe essere una morale antiumana o disumana non è così, giungiamo invece
ad un'ethos del pensiro che ridefinendo l'essenza dell'uomo, lo assegna all'ascolto della
parola o del linguaggio dell'essere,15 lo consegna al suo limite; interpellato da questo
Altro, egli (il Dasein) diviene «pastore dell'essere»16 «nell'e(k)-statico stare-dentro nella
verità dell'essere»:17 una nuova ritrovata autenticità, un nuovo essenziale radicamento
«nella radura (Lichtung) dell'essere».18 In tale con-vocazione dell'uomo al rapporto
fondante con l'essere nell'ascolto memorante19 del suo linguaggio, riteniamo la
speculazione heideggeriana profondamente etica: se «con questo nome si pensa il
soggiorno dell'uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell' essere come elemento
iniziale dell'uomo in quando e(k)-sistente è già in sé l'etica originaria».20
Il suggestivo detto eracliteo «ethos anthropo daimon»21 viene così tradotto da Heidegger
con «il soggiorno (solito) è per l'uomo l' ambito aperto per il presentarsi del dio
(dell'insolito)»:22 rispetto a questo soggiornare ed a questa apertura un' etica originaria
viene fondata ed in questa fondazione (termine heideggerianamente infelice) trova la sua
vincolatezza nella virtù suprema, quella di un pensiero che pensa (fa memoria di) ciò che è
essenzialmente da pensare, l'essere ovvero del cercato.23
Se rimanessimo ancorati al giudizio comune dell'assenza di un prospettiva propriamente
etica e se sostenessimo con Heidegger che «la dottrina di un pensatore e ciò che (in questa)
rimane non detto»24 la conclusione, ci pare, sarebbe affermare la presenza di un ethos che
anima dal profondo (una profondità spesso inattingibile) la sua ricerca instancabile sul
senso dell'essere, insomma una sorta di spina nella carne.
Tuttavia si rimarrà sempre perplessi rispetto ad affermazioni come queste: «le tragedie di
Sofocle nascondono nel loro dire l'ethos in modo più iniziale delle lezioni di Aristotele
sull'etica»;25 tale giudizio ci pare sbrigativo rispetto a quelle lezioni che risulteranno essere
l'apice della filosofia pratica classica e uno dei monumenti della storia del pensiero
occidentale.26 Peraltro alla speculazione aristotelica Heidegger non mancò di attingere a
piene mani,27 testimonianza ne sono i corsi tenuti a Friburgo (1919-23) e a Marburgo28
(1923-28). È, poi, sorprendente notare come a tali corsi parteciparono alcuni tra coloro che
daranno vita, tra gli anni Sessanta e Settanta in Germania, a quel fenomeno culturale che
Karl-Heinz Ilting definì Riabilitazione della filosofia pratica29 ovvero quell'ampio
dibattito intorno ai problemi della prassi,30 nato come reazione alla incapacità delle
scienze umane di fornire un fondamento razionale all'etica ed alla politica.31
Ci riferiamo a H. G. Gadamer, Hannah Arendt, Joachim Ritter, Hans Jonas; indiscussi
protagonisti di questo dibattito, sono stati annoverati con intento marcatamente critico al
così detto neo-aristotelismo; esso indubbiamente rappresenta una forte presenza del
pensiero dello Stagirita nel nostro secolo.
La riscoperta e la riproposizione della filosofia pratica aristotelica da parte del giovane
Heidegger può, quindi, esser letta come l'origine32 lontana della Riabilitazione o
quantomeno una forte influenza;33 ed è pur vero che la messa a frutto dell'insegnamento
heideggeriano va nei suoi allievi in una direzione diversa rispetto a quella da lui
originariamente intesa. Egli nell'appropriarsi delle categorie fondamentali della pratica
dello Stagirita le ontologizza neutralizzandone la rilevanza strettamente morale,
facendone, fin da Essere e tempo, determinazioni costitutive dell'essere del Dasein.34
1.2 Etica, Metafisica, Umanismo
La disciplina che Aristotele chiamò etica rimanendo chiusa nel circolo della metafisica ne
subisce lo stesso rifiuto; un rifiuto pesante, frutto del giudizio complessivo e senza appelli
che Heidegger da allo sviluppo della filosofia in occidente: essa è, da Platone fino al
compimento nietzscheiano, storia dell'oblio dell'essere35 e della sua verità,36 del
privilegiamento della dimensione temporale della presenza,37 della riduzione dell'essere ad
ente,38 «della posizione dell'uomo a fundamentum inconcussum veritatis»39 attraverso
una ragione rappresentativa e calcolante che si muove verso l'assicurazione dominante
del mondo.40
L'etica viene considerata una disciplina umanistica41 ed in quanto tale metafisica: «ogni
umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una
metafisica».42 L'umanismo pone, secondo Heidegger, la domanda sull'essenza dell'uomo
tradizionalmente, esso «presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente,
l'interpretazione dell'ente, senza porre la questione della verità dell'essere».43 L'umanismo
rimane imbrigliato nello strutturarsi della metafisica occidentale come onto-teo-logia,44 ne
condivide questi tre errori: essere «onto», cioè rappresentando l'essere lo rende
disponibile al soggetto (tale disponibilità si sostanzia nell'era atomica nello sfruttamento
tecnico/cibernetico45); «teo», perché dalla ricerca dei fondamenti e delle giustificazioni
principiali si passa a quella del fondamento primo, al Super ente,46 a Dio; è «logica»
perché il pensare è ragionare e il pensiero non è distinto dalla ratio.47 Ci si muove nella
notte dove l'essere è obliato e con esso il fondamentale rapporto che lo lega all'uomo nella
sua e(k)-sistenza;48 «esiliato dalla verità dell'essere ovunque l'uomo gira attorno a se
stesso come animale razionale»49 . La filosofia finitistica ed immanentistica che
l'umanismo rappresenta non va oltre questo piano meramente antropologico, «esso non
pone l'humanitas dell'uomo a un livello abbastanza elevato».50 Dunque, quale concezione
avere di tale humanitas?
La lettera del Beaufret51 propone la questione, in un tempo storico in cui i disastri della
guerra e gli orrori di Auschwitz impongono una decisa domanda di senso, una meditazione
della vita offesa;52 diventa per Heidegger la necessità di salvare l'essenza dell'uomo
tenendo desto il pensiero, oltre l'impoverimento, lo svanimento53 ed il disorientamento
contemporaneo, nella consapevolezza che morali e virtù sarebbero oramai inadeguate
all'agire planetario dell'umanità.54 La domanda «che fare?» cede il posto alla radicalità
necessaria, in questo tempo preoccupante, della domanda sul pensare e della sua
adeguatezza rispetto all'eventuarsi dell'essere; «prima della questione che "prima facie" è
la più prossima ed è la sola ad apparire pressante, ovvero "cosa dobbiamo fare? ", ci
chiediamo: "come dobbiamo necessariamente pensare?».55 È evidente come la prospettiva
ontologica sovrasti in maniera travolgente quella pratica fin da Essere e tempo.
L'umanismo non domanda della verità dell'essere e meno ancora dell'appartenenza a
questa dell'esserci; l'uomo è ridotto ad un ente tra gli altri, «è definitivamente cacciato
nell'ambito essenziale dell'animalitas»;56 posto come categoria nella padronanza dell'ente,
perde il riferimento autentico della sua humanitas ovvero lo stare nell'aperto dell'essere.
Questo pensare metafisico non coglie nella situatività ("ci") dell'esserci la fondamentale
apertura che lo rende custode e pastore dell'essere. L'appello dell'essere alla sua custodia
diventa un richiamo all'autenticità della risposta; qui, forse, vi sono i margini per una
problematizzazione della scelta: Heidegger non andrà oltre preoccupandosi di non cadere
nella riduzione dell'essere a valore:57 errore tipico di ogni prospettiva morale.
Rispetto alla definizione classica della humanitas centrata sulla specificazione data dalla
ragione, l'umiltà del pastore risulta essere un plus, «la cui dignità consiste nell'esser
chiamato dall'essere stesso a custodia della sua verità»;58 una convocazione co-essenziale
alla gettatezza del progetto che l'esser-ci risulta essere.59 Affiora la fondante relazione
ontologica che lega l'uomo all'essere e l'essere all'uomo: «L'uomo, nella sua essenza
secondo la storia dell'essere, è quell'ente il cui essere, in quanto e-sistenza, consiste
nell'abitare nella vicinanza dell'essere».60
Nella traduzione heideggeriana del frammento eracliteo (Ethos anthropo daimon), il
soggiorno dell'uomo è apertura per la manifesta vicinanza all'insolito, ma non è forse
«l'essere ciò che è più vicino all'uomo di qualunque ente [...] eppure questa vicinanza resta
per l'uomo ciò che è più lontano».61 Un ethos del soggiornare, ci pare, sia in qualche modo
tracciato, non una morale ordinaria ne un'etica tout court, queste subirebbero il destino
nichilistico della metafisica in quanto ad essa coappartenenti. Emerge qui come altrove
l'esigenza dello Heidegger maturo di considerare queste questioni tentando un nuovo
inizio, ripercorrendo l'arcaicità del principio, ridefinendo i compiti della filosofia stessa,
nella certezza che il «corrispondere iniziale, compiuto propriamente, è il pensiero»,62
infatti «solo se l'uomo attende alla verità dell'essere come pastore dell'essere, può
attendere un avvento del destino dell'essere senza scadere nella mera volontà di sapere».63
La nostra, già dichiarata, prospettiva con la quale riteniamo di dover trattare la questione
dell'etica in Heidegger e dei suoi rapporti con la prassi, ci ha portato a sostenere la
presenza di un'etica sui generis, originaria, consistente nel pensiero stesso dell'essere, un
pensiero che pensa essenzialmente la verità dell'essere. Indubbiamente, questa lettura
risulta sbilanciata verso la produzione heideggeriana post-Kehre, la quale ci pare più che
un capovolgimento uno svolgimento e una radicalizzazione, su un piano differente, delle
posizioni precedenti manifestate dal Nostro.64
Un piano in cui non c'e' immediatamente e prevalentemente l'esserci ma innanzitutto
l'essere e la sua verità; «nella "svolta" si illumina d'un baleno la radura dell'essenza
dell'essere. [...] si svolge la verità dell'essenza dell'essere».65
In questa produzione non solo si radicalizza l'indagine sull'essere66 ma compaiono
tematiche (per es.: il problema della tecnica, l'umanismo, il nichilismo, etc.) legate a
doppio filo con le questioni tipiche dell'etica. Vi è, anche, la trasfigurazione di attenzioni
già presenti nell'Opera Prima di Heidegger. Nella svolta «il pensiero che là (in Essere e
Tempo) veniva tentato, raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione a partire
dalla quale era stata fatta l'esperienza di Sein und Zeit come esperienza fondamentale
dell'oblio dell'essere».67
Essere e tempo al suo primo apparire diede l'impressione di essere una nuova grande
antropologia (a suo modo lo è: è come se l'ontologia si legasse a filo doppio con
l'antropologia, la condizione del Dasein è inserita nel contesto dell'essere, ma
rispettivamente al senso dell'essere si perviene solo attraverso l'analitica esistenziale;
«quando noi ci interroghiamo sul senso dell'essere, [...] non fa (l'esserci) che interrogarsi
su di esso in quanto rientra nel dominio della comprensibilità dell'Esserci».68
Impressione successivamente fugata non solo per la dichiarata avversità heideggeriana per
ogni prospettiva meramente antropologica ma anche e sopratutto per la sua manifesta
volontà di interpretare in chiave ontologica il problema della costituzione fondamentale
della vita umana intesa come esserci69 (Dasein) e della sua necessaria appartenenza ad un
mondo: non una antropologia ma l'intento di delineare le modalità dell'esistenza
contestualmente alla ricerca del senso dell'essere ed alle condizioni di unificazione con
questo. Ancor più criticabile sarebbe una lettura strettamente morale di Sein und Zeit:
Heidegger non farà altro che smentire passo passo tale posizione dichiarandone la
estraneità rispetto al piano assunto dalla trattazione. Risulta, a proposito, emblematico
questo passaggio:
è opportuno incominciare con la chiarificazione dell'apertura del Si quale ha luogo in taluni
fenomeni, [...]. Al qual proposito è forse opportuno far presente che l'interpretazione ha un intento
puramente ontologico, ed è del tutto estranea ad ogni critica moralizzante dell'Esserci quotidiano e
lontana dalle aspirazioni della "filosofia della cultura".70
Convinti che in Essere e tempo l'ontologia71 regga una possibile dimensione pratica, non si
può altresì non tener conto dell'implicita rilevanza e origine morale di alcuni passaggi e
persino della terminologia72 ivi usata (esempio lampante, i termini: angoscia, cura,
essere-per-la morte, deiezione e caduta, autentico/inautentico, coscienza , etc.).
L'impatto con Essere e tempo può esser quello di rintracciarvi una indubbia «forza etica
[...] ma della quale si può deplorare la carenza morale».73
Rispetto a questo mare magnum di questioni, vorremmo far emergere, specularmente
all'economia di questo lavoro, la presenza in Essere e tempo non solo di una tensione etica
ma anche e sopratutto di una prassi originaria, la quale certamente muterà i suoi
connotati dopo la svolta,74 ma che comunque manterrà il suo intrascendibile riferimento
al rapporto fondamentale essere/uomo, il solo capace di introdurci alle posizioni del Brief
ovvero il luogo più esplicito in cui Heidegger tematizza sia la domanda sull'uomo sia quella
sul bisogno etico, sullo sfondo dell'ormai acquisita posizione della Kehre. Queste linee
percorribili risultano un autentico orizzonte rispetto alla domanda «quando scriverà
un'etica?».75 Come afferma Heidegger stesso «Essere e tempo [...] è solo una via e la
questione decisiva [...] non vi è ancora sviluppata».76
Vi troviamo una apertura d'orizzonte nella misura in cui diventa un presupposto
necessario per tentare di seguire lo Heidegger maturo tra e per i suoi accidentati sentieri;
quei «sentieri che costringono il viandante a salire verso l'inesplorato o a ritornare sui suoi
passi. Ma la vetta rimane»;77 «restiamo dunque in cammino, come viandanti, diretti nella
vicinanza dell'essere».78
2. La prassi originaria
2.1 Il Dasein: costituzione ontologica e prassi originaria
In una delle lettere al Beaufret (23 novembre 1945) Heidegger non mancò di sottolineare
come Dasein fosse uno dei termini chiave del suo pensiero, il quale «dà perciò luogo a
gravi fraintendimenti».79 L'interpretazione che qui vogliamo dare presuppone il
contributo, ormai internazionalmente riconosciuto, di studiosi come il Volpi o il
Tugendhat; essi hanno il merito (per vero non sono i soli, risultano comunque dei
battistrada) di aver sottolineato l'incidenza del pensiero aristotelico in Heidegger e
l'attenzione particolare del Nostro verso la filosofia pratica dello Stagirita.
Le nuove acquisizioni testuali80 fanno emergere come il decennale silenzio che intercorre
tra la pubblicazione della tesi di libera docenza (La dottrina delle categorie e del
significato in Duns Scoto, del 1916) alla pubblicazione di Essere e tempo (1927), sia
lastricato da un confronto incessante quanto impegnativo con Aristotele e da una vorace
assimilazione della pratica aristotelica. Questo periodo coincide con i già ricordati corsi
dell'insegnamento friburghese81 (1919-1923) e marburghese (1923-1928).82 In questi corsi
si ha una appropriazione-trasformazione di alcuni temi tipicamente aristotelici in
connessione con il proprio orizzonte speculativo e le problematiche da questo emergenti.
Il problema centrale di Essere e tempo83 ovvero la costituzione ontologica dell'essere
indagato attraverso l'ermeneutica della fatticità o analitica esistenziale, si realizzerebbe,
quindi, attraverso il connubio tra la prospettiva fenomenologica84 e l'influenza aristotelica.
Heidegger trova, attraverso il IV libro dell'Etica a Nicomaco, una fenomenologia degli atti
scoprenti più ricca di quella husserliana: tre modi scoprenti fondamentali85 quali la
poiesis, la praxis, la theoria (e tre disposizioni corrispondenti: tecne, phronesis, sofia).
L'ipotesi fondamentale del Volpi è che l'accento venga posto sulla praxis, in quanto, come
per Aristotele86 la vita umana nel suo insieme ha il carattere della prassi, così per
Heidegger la prassi sia l'atteggiamento determinante della struttura ontologica del
Dasein87 (nello Stagirita però manca una concezione del tempo non naturalistica, una
temporalità vista come radice ontologica unitaria dell'esistenza umana, «la temporalità
quale essere dell'esserci che comprende l'essere»88).
Viene quindi tolta l'accezione pratico-morale verso una ontologizzazione che fa degli
atteggiamenti scoprenti suddetti, modalità costitutive dell'esserci.89 Il Dasein risulta
essere prassi in senso originario, la sua modalità d'essere pare ricavata da un orizzonte
eminentemente pratico: «l'uomo è il più alto grado del vivente e il modo fondamentale del
suo muoversi è l'agire: praxis».90 Sicuramente questa ontologizzazione porta con sé la
perdita di aspetti che in Aristotele sono propri della prassi: la sua interpersonalità e il suo
radicamento in una koinonia, quindi la sua dimensione politica.91
Questa impostazione può certo peccare di unilateralità,92 ma vi è una certa concordanza
tra gli studiosi nel rilevare nella costituzionale gettatezza dell'esistenza e nella apertura
alle proprie possibilità, la manifestazione di una prassi originaria; discorso a parte
andrebbe fatto per chi muove dalla convinzione che non vi sia nessuna ripresa (più o meno
forte) della impostazione aristotelica.93
La radice ontologica dell'uomo, in qualche modo, gli assegna il suo carattere
fondamentalmente pratico. Questo agire originario, la praxis, deve esser compreso per se
stesso fuori da ogni prefigurazione metafisico-antropologica; essa è una determinazione
ontologica originaria; l'apertura esistenziale non ha alcun fine né come causa né come
fondamento, «l'esserci è il nullo fondamento di una nullità»;94 la sua libertà è l'apertura
stessa al mondo e alle possibilità che esso racchiude.95
La questione del senso dell'essere e quella della costituzione fondamentale dell'esserci
risultano congiunte nell'orizzonte di quella libertà gettata, di quell'esser progetto che
assume su di sé il peso delle proprie possibilità.96 Infatti «la possibilità come esistenziale è
la determinazione ontologica positiva dell'esserci, la prima e la più originaria. [...]
possibilità gettata da cima a fondo. [...] per il più proprio poter-essere».97
Infatti, «in quale ente si dovrà cogliere il senso dell'essere?»,98 in quell'«ente che noi stessi
sempre siamo»,99 «ente avente la possibilità dell'esistenza».100 L'esistenza è dunque
apertura al senso dell'essere progettando/comprendendo quell'essere sempre mio,101 in
vista del proprio avere-da-essere.
Il Dasein si rapporta, quindi, a se stesso non secondo un atteggiamento di tipo riflessivo o
teoretico ma di tipo pratico, «l'esserci e essenzialmente la sua possibilità», è «l'ente a cui
nel suo essere ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua
possibilità più propria».102 L'esserci è un avere-da-essere, il suo carattere strutturale è
eminentemente pratico. Questo esser libero per le proprie possibilità non assegna alla
libertà una valenza assoluta, essa non viene scelta, è fatticità, una sorta di predicazione
ontologica del proprio essere (esistenza), indipendentemente dalla volontà o da ogni atto
decisionale.103
La praxis, nel senso che abbiamo cercato di descrivere, non è assimilabile coi i singoli
praxeis (atti pratici particolari), essa è con-data con l'evento fondamentale della gettatezza
dell'esserci: la sua esistenza è in sé praxis in senso assolutamente originario. Ad essa
possono, anche, essere ricondotti e meglio compresi gli essenziali rapporti che l'esserci ha
con gli altri, con le cose e la loro utilizzabilità: rispettivamente l'aver-cura ed il prendersi
cura.
Il Dasein è nel mondo nella forma del progetto, è un poter-essere, la sua esistenza ha
costituzionalmente la forma dell'apertura comprendente e della possibilità.
Su questo sfondo argomentativo gli studiosi hanno rintracciato anche una possibile lettura
morale del problema centrale dell'autenticità e del proprio dell'esistenza; percorrendo
sostanzialmente due vie interpretative. La prima di queste muove dalla considerazione
dell'esistenza autentica come fedeltà all'originario rispetto alla quotidiana dispersione, alla
sua evasione, alla sua regressione al livello ontico, all'azione spersonalizzante del Si.
La seconda via possibile104 s'incentra sull'«impostazione del problema esistenziale del chì
dell'esserci»,105 sottolineando che «l'esserci è quell'ente che io sempre sono, l'essersempre-mio»106 e vedendo un richiamo ad una autonomia morale nel fatto che l'esserci è
autenticamente "mio" solo se si mantiene identico.
Rimaniamo dubbiosi! Heidegger sulla interpretazione dell'autenticità è icastico ed è alla
sua maniera definitivo: «"autenticità" e "inautenticità", non significano una differenza né
morale-esistentiva né "antropologica"».107
Tutto conferma, per dirla con Ricœur, «l'accento ontologico108 senza cancellare la
risonanza etica»,109 nella certezza che Heidegger non prolunghi l'analisi della prassi
originaria «in una teoria della pratica, e cioè nel rapporto che la praxis ha con la teoria
della preferenza, della scelta».110
2.2 La trasfigurazione del problema
«Ciò che va pensato prima di ogni altra cosa perché finora è rimasto nascosto alla filosofia,
cioè il riferimento "e-statico" dell'essere umano alla verità dell'essere».111
La lettura di Essere e tempo, che fin qui abbiamo tentato, è sicuramente essenziale per
poter comprendere le posizioni espresse nel Brief. Proprio nella Lettera Heidegger ricorda
come, dopo la pubblicazione di Sein und Zeit, gli fosse stata posta da un giovane amico la
domanda quando scriverà un'etica?,112 in risposta egli parlerà di un'esigenza etica; le
posizioni espresse negli anni '20 sono qui, ormai, lontane, trasformate o meglio
trasfigurate dalla forza avvolgente della Svolta.
La domanda sul senso dell'essere113 diventa quella sulla sua verità:114 in ciò, il Dasein
come prassi originaria non potrebbe più configurarsi. Il carattere aperturale dell'esserci
in quanto essere-nel-mondo era definito come comprensione e possibilità. Adesso l'uomo
diviene il «pastore dell'essere»,115 viene ri-compreso secondo l'orizzonte in cui esso da
sempre è immerso: l'esistenza perde i connotati della possibilità per assumere quelli dell'estatico «stare nella radura (Lichtung) dell'essere», dello «stare-dentro nella verità
dell'essere».116
Tale dimensione secondo Heidegger è già presente in Essere e tempo «là dove esperisce
l'esistenza estatica come "cura"»,117 questo ci pare discutibile perché la cura rimane, in
qualche modo, inficiata dall'inautenticità e, quindi, dalla non verità.
Nel carattere aperturale dell'esistenza, non più come avere-da-essere ma come star-fuori
nella radura, ogni traccia di quella prassi originaria che il Dasein rappresentava viene
smarrita. L'essere-nel-mondo viene trasfigurato nel soggiornare; in esso si «custodisce
l'avvento di ciò a cui l'uomo appartiene nella sua essenza». Il soggiorno è «la regione
aperta dove abita l'uomo».118 Un nuovo agire ugualmente originario compare in questo
orizzonte oramai "aperto", lo testimonia immediatamente l'incipit del Brief:
noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l'essenza dell'agire», essa è «il portare a
compimento [...]. Il pensiero (stesso) porta a compimento il riferimento (Bezug) dell'essere
all'essenza dell'uomo». «Il pensiero agisce in quanto pensa».119 Se dunque, «agire» significa dare
una mano all'essenza dell'essere, allora il pensiero è l'autentica manualità.120
Ogni piano umanistico è definitivamente abbandonato; il piano è quello dell'«engagemant
par l'être pour l'être».121 Il pensiero è agire originario, l'agire «più semplice e nello stesso
tempo il più alto, perché riguarda il riferimento dell'essere all'uomo».122 Questo pensiero
che mantiene l'uomo al riferimento essenziale della verità dell'essere «è già in sé l'etica
originaria».123
3. Etica e pensiero
Se la Kehre è uno svolgimento radicalizzante delle posizioni ad essa precedenti, non si può
non tener conto del punto di vista che, con e attraverso di essa, viene acquisito; un punto di
vista secondo il quale «nella determinazione dell'umanità dell'uomo come e-sistenza, ciò
che importa è allora che l'essenziale non sia l'uomo, ma l'essere come dimensione
dell'estaticità».124 È solo con tale sfondo che viene aperto l'accesso verso la comprensione
del pensiero stesso come agire originario, prassi autentica, il vero «portare a
compimento»125 il riferimento dell'essere all'essenza dell'uomo, il vero lasciarsi
«reclamare per dire la verità dell'essere».126 Heidegger è convinto che per portarsi nella
essenza di questo pensare bisogna necessariamente liberarsi dalla posizione di ogni
pensiero tecnico. «Nell'interpretazione tecnica del pensiero l'essere, come elemento del
pensiero, è abbandonato».127
Necessita per l'autenticità del pensare128 che esso non sia ridotto allo schema artificiale
dell'esattezza adeguante ma che si apra a ciò che ne fa l'engagemant par l'Être pour l'Être.
Il pensiero è così distinto dalla ratio ed ogni pensare distinto dal rappresentare. Ha titolo
per essere definito pensiero dell'essere quel pensiero «fatto avvenire (ereignet)
dall'essere»129 ad esso appartenente nell'ascolto memorante.
L'epoca moderna si caratterizza per la posizione assoluta assunta dal soggetto e dal
conseguente smarrimento dell'uomo verso un agire impositivo nella dimenticanza del
fondante rapporto che lo lega all'essere, «proprio questo rapporto dell'essere con l'essenza
umana, in quanto relazione di questa essenza con l'essere, non è stato pensato quanto alla
sua essenza e alla sua origine essenziale»;130 in questo smarrimento si perde anche il
vincolo che lo lega all'essente, ormai ridotto a oggetto pianificabile attraverso l'atto
calcolante, «la ragione propone fini, impone regole, dispone mezzi e adatta ogni cosa ai
modi dell'azione. [...] la ragione si dispiega in questo molteplice porre che è ovunque e in
primo luogo un porre-innanzi, un rappresentare (vor-stellen)».131 È questa per Hiedegger
la forza inquietante della ragione e del suo dominio.
La domanda sull'essere dell'essente scompare, scompare in ogni rappresentazione
metafisica del mondo; risultiamo non ancora capaci «di porci in modo adeguato la
domanda sull'essere dell'essente, di porcela cioè in modo tale che essa metta in questione
la nostra essenza»132 problematizzandone il suo invalicabile rapporto all'essere. Emerge il
bisogno di un pensiero "desto", un pensiero ritrovato e ricondotto verso la sorgività del suo
riferimento. È un necessario incamminarsi verso il pensi ero, un pensiero che si fa sentiero
e tracciato di autenticità: «ogni cammino del pensiero va già sempre entro l'intera
relazione tra essenza umana ed essere, altrimenti non sarebbe un pensiero».133
La domanda pratica «che fare?» rimane inevitabilmente preceduta da quella sul «cosa
pensare?» e sul «come pensare?»; ed allora v'è risposta alla richiesta di un'etica del
giovane ed ingenuo amico ricordato nel Brief? Quando l'esigenza di una indicazione
vincolante diventerà norma per l'uomo che vuole vivere in «conformità al suo destino»?134
Ad Heidegger ogni indicazione e riferimento morale pare inadeguata rispetto al governo
dell'agire planetario ed al mondo atomico. Rimane, comunque, forte l'esigenza etica
rispetto all'aumento smisurato del «disorientamento dell'uomo».135 Heidegger è
fermamente convinto che «per quanto importanti siano le questioni economico-sociali,
quelle politiche, quelle morali e persino quelle religiose, [...] non arrivano mai al nucleo
costitutivo della cosa».136 In tali ambiti il pensiero rimane messo da parte, non utilizzato,
svilito: «la volontà di agire, di fare e di realizzare, ha travolto il pensiero. [...] l'uomo
tradizionale ha agito troppo e pensato troppo poco».137
L'organizzazione della vita sociale, di quella culturale, e l'edificazione di queste in senso
morale non riescono «più ad arrivare fino a ciò che è», rimangono rimedi penultimi perché
la definizione «di fini, di mete e di mezzi [...] è sin dall'inizio incapace di aprirsi a ciò che
è».138 Heidegger sarà costantemente premuroso nel rivendicare la non appartenenza delle
sue analisi sulla contemporaneità ad ogni letteratura e/o cultura della crisi, poiché queste
pur nello sforzo minuzioso di descrivere lo stato attuale delle cose, rimangono su un piano
estrinseco, «descrivono ciò che per sua essenza è indescrivibile, giacché vorrebbe soltanto
essere considerato nel pensiero».139 Ogni prospettiva che valuti l'epoca moderna come
'malata', 'decadente', in 'declino', 'senza centro', gli è estranea; «in tali giudizi l'elemento
decisivo non è tanto che essi valutino negativamente ogni cosa, quanto piuttosto che in
generale essi valutino. Essi determinano il valore, quasi il prezzo dell'epoca».140 In questa
posizione il Nostro sottolinea fermamente il rifiuto di ogni prospettiva o posizione di tipo
valutativo in quanto sempre pregiudizievole e inficiata dalla soggettità. Gli intenti
valutativi sono legati alla ragione 'egologica' che la tradizione ci consegna. Le analisi
antropologiche141 o di intento morale vanno superate, esse sono impotenti
se l'uomo non perviene dapprima ad un diverso rapporto fondamentale con l'essere, se l'uomo di
sua iniziativa, nella misura in cui può dipendere da lui, non si eleva fino a tenere finalmente aperta
la sua essenza nei rapporti essenziali con l'essere.142
È qui palese la considerazione del pensiero come riferimento dell'uomo all'essere, come
capacità di cogliere e di situarsi nell'apertura, di essere etica originaria. Il pensare è un
"fare" e un "agire" che supera ogni contrapposizione di teoria e prassi; contrapposizione
umanistica che preclude ogni autentica comprensione, perché «pensare non è inattività,
ma è di per se stesso e in sé quell'agire che sta nel dialogo con il co-mando universale».143
Il pensiero in cammino ci ha portati alla domanda radicale sul pensare,144 la domanda
sulla sua intima essenza, sul suo ineliminabile riferimento, sul suo statuto; dunque, cosa
significa pensare?, nel tempo della "metafisica compiuta", della "organizzazione totale",
della "pianificazione" tecnologico-cibernetica, della sottrazione di ogni solido abitare? .
«Lo sradicamento dell'uomo che qui si compie è la fine di tutto, a meno che (ancora una
volta) il pensare e il poetare non prendano il potere con la loro forza non violenta».145
Heidegger, stesso, rileverà come le sue lezioni sul pensiero (i corsi universitari di Friburgo
del 1951-52), fra tutti gli scritti, «siano quelle meno lette, è forse un altro segno dei nostri
tempi».146 Con la domanda sul pensiero ci poniamo, dunque, in cammino verso e nel
«pensiero, sulla via del pensiero».147
3.1 Che cosa ci chiama al pensiero?
Nella Kehre si manifesta il passaggio dall'analisi, in qualche modo preparatoria, di Essere e
tempo alla rinnovata questione del senso dell'essere problematizzandone la verità
attraverso il concetto di evento («dal 1936 "evento" -- Ereignis -- è la parola guida del mio
pensiero»148). Il problema filosofico di Essere e tempo, quello del senso dell'essere
indagato attraverso l'analitica dell'esistenza umana, diventa interrogazione diretta
dell'essere (Seinsfrage), attenzione alla sua verità nella sua storicità epocale.149
Porsi la domanda sul pensiero è già un meditare sull'essere stesso e sulle modalità con le
quali esso si eventua: ogni analisi funzionalistica e psicologistica del pensiero è inadeguata,
parziale e solamente accessoria; «il pensiero non è quindi preso come un processo il cui
andamento è osservabile psicologicamente. [...] il pensiero in quanto pensiero è qualcosa
di essenzialmente chiamato».150 Non è attività che fa riferimento a norme e a valori, può
rivolgersi a questi «soltanto se è già in se stesso chiamato, rinviato a ciò che va
pensato».151 Esso non è attività di cui l'uomo disponga arbitrariamente, come se tutta la
devianza che Heidegger rintraccia nella storia della filosofia sia ascrivibile solamente ad
errori dei singoli pensatori o 'scolastiche': tale giudizio non pensa ancora adeguatamente
l'essere e il suo darsi epocale, la sua storia come destino.
Il pensiero dell'essere non è un prodotto dell'uomo, «non si fonda su una capacità
dell'uomo»,152 è «pensiero soltanto nella misura in cui resta riferito all'essere ed inserito in
esso».153 L'uomo nel suo abitare in un mondo, in ogni suo fare ed in ogni sua scelta,
presuppone come essenziale costituzione l'essere aperto all'ascolto pensosamente
memorante dell'essere.154 L'evento dell'essere apre nel 'getto' un'apertura in cui l'uomo è
autenticamente se stesso, dunque «il soggiorno terreno poggia sul pensiero»;155 con
l''evento' il rapporto uomo/essere è stabilito come relazione di appartenenza
appropriante.156 È errato pensare l'essere come qualcosa che destini estrinsecamente
l''evento', egli stesso è manifestazione aprentesi nell''evento'; nella struttura dell'evento si
dispiega la verità dell'essere. Questa concezione 'destinale' dell'essere è, ovviamente, in
polare contrapposizione con la concezione metafisica dell'essere quale semplice presenza e
oggetto; questo rappresentare, secondo Heidegger impedisce di pensare l'essere ed il suo
evento.
È falsa una concezione dicotomica del rapporto uomo/essere secondo lo schema di
soggetto-oggetto157 o come degli in sé che secondariamente si rapportano; invece nel suo
darsi storicamente epocale, l'essere, determina l'epoca e l'essenza dell'uomo. Diciamo poco
e male se nel dire «essere, tralasciamo il suo presentarsi all'essere umano [...]; anche
dell'uomo diciamo troppo poco se, dicendo l'essere, poniamo l'uomo per se stesso; [...] già
nell'essere umano è insita la relazione con ciò che è determinato come essere».158
Solo su questo sfondo teoretico Heidegger può porre la domanda sull'essenza del pensiero,
radicadizzandola a tal punto da far di essa una via necessaria della Seinsfrage.
La sentenza è forte: «noi ancora non pensiamo; [...] benché la situazione del mondo diventi
sempre più preoccupante»159, non si tratta di una carenza strutturale dell'uomo o soltanto
di una mancata deliberazione ma deriva dal fatto che ciò «che va pensato si distoglie, già
da lungo tempo»,160 esso si mantiene in tale distoglimento da gran tempo. Ciò che ci affida
il pensiero come nostra determinazione essenziale ci dà da pensare. Imparare a pensare è
rivolgersi a ciò che deve essere essenzialmente pensato; questo, umanamente può attuarsi
solo se «disimpariamo radicalmente l'essenza del pensiero che è durata fino ad oggi»,161
disimparare dunque le forma del pensare moderno e la sua essenza 'assicurante'. Possiamo
imparare nella misura in cui portiamo il nostro «fare e non fare a corrispondere a ciò che ci
viene detto di essenziale».162 La situazione contemporanea sembra esigere che l'uomo
agisca immediatamente e con efficacia, la convinzione del Nostro è che solo meditando sul
tempo presente è abbandonandosi a questa pietas del pensiero si possa tentare di arrivare
ad una condizione umana consona ad esperire l'essenza dell'era tecno-logica come nulla di
tecnico e nell'inquietante del mondo atomico anche ciò che salva; solo così si può tentare
un nuovo radicamento per il soggiornare dell'uomo.
Le esigenze che il pensiero 'tradizionale' credeva di soddisfare si manifestano nella loro
inevitabile caducità e fallacia; l'altro pensiero «non porta al sapere come vi portano le
scienze, non comporta una forma di saggezza utile alla vita, non risolve gli enigmi del
mondo, non procura immediatamente forze per l'azione».163 Domandando del pensiero
rimaniamo messi in questione radicalmente, poiché interroghiamo circa la nostra
determinazione essenziale; ciò che ci chiama al pensare ci rinvia al pensiero e cosi «ci
affida la nostra essenza»;164 nella risposta all'appello dell'essere ne va della nostra essenza
stessa, essenza che la filosofia ha ritenuto risiedesse nella razionalità in quanto differenza
specificante rispetto al sostrato animale. La filosofia non ha prestato ascolto e tanto meno
corrisposto «al reclamo in cui l'essere si destina al pensiero. Noi siamo destinati
dall'essere, e stiamo, secondo la nostra essenza, in una radura dell'essere».165 Solo lo stare
in questa apertura fa dell'uomo un essere pensante, ovvero un ente che nel suo essere esistente corrisponde all'ingiunzione fondamentale e costitutiva dell'essere. Il pensiero è per
Heidegger «ciò che accade ad opera dello spirito umano»166 nella misura in cui esso si
apre al reclamo dell'evento di ciò che ci chiama a pensare essenzialmente.
Quali caratteri ha questo pensiero altro? Esso è memoria ovvero il raccogliersi del pensiero
verso ciò che dà da pensare, un ricordare che tutto raccoglie e medita, l'interiore
raccoglimento verso il più considerevole. La memoria abita nella serbanza167 (ciò che
preserva dalla dimenticanza e dall'oblio). Il pensiero è contemporaneamente
«ringraziamento. Nel ringraziamento l'animo commemora ciò che esso ha ed è».168 Ogni
ringraziare è sempre rivolto a qualcosa, questo non è per sua natura proveniente da noi
stessi è «il dono più alto che ci viene fatto, quello che autenticamente dura, è la nostra
essenza, grazie alla quale siamo quelli che siamo».169 È forte la differenza tra questa
concezione del pensiero e la forma che questo ha assunto nell'età moderna. La ragione è
l'emblema della posizione assoluta assunta dal soggetto nel mondo. La modernità è il
tempo in cui l'incubazione del principio di ragione finisce; esso quale principio sommo
della filosofia necessita il pensiero alla fornitura del fondamento in riferimento «al
conoscere come rappresentare (vor-stellen, porre davanti) ciò che sta di fronte».170 Tutto
ciò che si incontra diviene oggetto per l'io conoscente, tutta la realtà ha un fondamento
sufficiente; su questo terreno poggia la scienza moderna anche l'era atomica si fonda sulla
potenza delle resa del fondamento. Solo un pensiero rammemorante può cogliere l'essere
stesso come fondamento infondato (Ab-Grund), «ogni fondazione rimane inadeguata
all'essere come fondamento; ogni fondazione non può che ridurre l'essere ad ente».171
Solamente attraverso queste considerazioni possiamo ritenere coerente l'affermazione, per
noi, più radicale del Brief: «il pensiero che pensa la verità dell'essere come elemento
iniziale dell'uomo in quanto e-sistente è già in sé l'etica originaria».172
3.2 Il «compito» del pensiero nell'età della tecnica
L'attenzione di Heidegger alla ratio quale forma tipica del pensiero moderno è
fondamentale per capire il giudizio sul mondo della tecnica quale compimento della
metafisica e quale estrema conseguenza della posizione del soggetto a fundamentum
inconcussum veritatis.173 La tecnica è l'intimo 'destino' della metafisica moderna, essa
dominata dalla perdita dell'essere darà, nel tempo del principium reddendae rationis,174
sempre più conto dell'ente nel senso di sottoporlo all'azione dominante della ragione
colcolatrice; l'era della fissione nucleare è costituita dal potere giustificante di ogni atto
impositivo del soggetto sulla realtà: la tecnica dispone, ormai, di ogni ordine su scala
planetaria, «nell'imperialismo planetario dell'uomo organizzato tecnicamente, il
soggettivismo dell'uomo raggiunge il suo culmine più elevato».175 Ogni meraviglia per
l'imprevedibile e l'incalcolabile sorgività dell'essere è obliata dalla necessaria assicurazione
dell'ente. Il cammino della Seinsfrage si fa domanda sul destino del tempo della tecnica e
dell'esistenza umana ad essa coinvolta, nel tentativo di arrivare all'essenza dello
smarrimento, dell'angoscioso disorientamento della coscienza davanti a forze dal potere
profondamente incalcolabile e sconosciuto. Il tentativo è quello di porsi nell'atteggiamento
idoneo e utile per cogliere la verità e l'essenza nascosta dell'era atomica aldilà d'ogni fuga
verso mitiche e incontaminate età dell'oro o verso bucolici sogni; insomma un interesse
verso il fondo della questione e non la fuga entro orizzonti etnologici secondo la ripresa di
un fantomatico stato di natura. L'uomo 'tecnologico' incosciente della propria spaesatezza
continua, sicuro di sé, nello sfruttamento di ogni risorsa e nella riduzione di tutto a non
senso. L'era contemporanea si configura, quindi, come verità della metafisica del soggetto;
esso pago di sé, ma non del suo dominio, non avverte di aver perso la signoria dell'ente ad
opera dell'azione onnipotente della cibernetica: «tutto funziona. Questo è appunto
l'inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore
funzionare e che la tecnica strappa e sradica l'uomo sempre più dalla terra».176 Il
paesaggio del mondo odierno è quanto mai inquietante: produttivismo consumistico,
alterazione degli equilibri naturali, riduzione dell'uomo stesso a 'materiale d'impiego',
deresponsabilizzazione e non senso. L'era della chimica nucleare è il tempo del Ge-stell
ovvero di «ciò che tiene insieme quel porre (stellen) che pone (stellt) l'uomo a disvelare il
reale come fondo nel modo dell'impiegare [...] quello che così è provocato».177 Esso è
l'impianto su cui si erge la volontà assoluta, volontà oltremodo provocante.
Questa lettura del mondo contemporaneo alla luce del darsi epocale dell'essere annienta
ogni possibile concezione meramente antropologico/strumentale della tecnica come frutto
solamente dell'azione umana senza la necessaria considerazione riguardo all'eventuarsi
storico destinale dell'essere. Su questo un passo dal discorso sulla Galassenheit è
oltremodo preciso: «le potenze che ovunque [...] assediano e opprimono l'uomo, sono da
gran tempo cresciute al di là della volontà e della capacità di decisione dell'uomo». 178
La tecnica non indica principalmente l'apparato produttivo fondato sulle macchine e sui
cervelli elettronici: il tempo della tecnica è il tempo del compimento della metafisica; «la
rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e una attività dell'uomo,
può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica».179
L'atteggiamento assunto dall'uomo contemporaneo è quello che muove dal tentativo di
piegare la tecnica ai bisogni dell'umanità, la si vuol dominare, senza aver capito che se non
si preparano le condizioni per un nuovo darsi dell'essere ciò è destinato a rimane puro
vaneggiamento. La via maestra è quella del pensiero, un pensiero più sobrio
dell'irrefrenabile dilagare della razionalizzazione e della furia sradicatrice della cibernetica.
La tecnica nella concezione heideggeriana non è nulla di demoniaco non è opera del
diavolo. Per sintonizzarsi su tali giudizi bisogna, secondo il Nostro, fare un passo indietro:
dalla sintomatologia dei fenomeni del mondo tecnico alla loro essenza; «la tecnica, dunque
non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento»:180 Heidegger ci
trasporta nell'ambito della sua concezione della verità come aletheia. Ogni produzione
(poiesis) non è solamente fabbricazione artigianale ma è legata al disvelamento. «Anche la
phisis, il sorgere-di-per-sé, è una produzione (nel senso più alto)»:181 ogni produrre è un
condurre fuori dal nascondimento alla manifestazione; nel disvelamento si fonda la
possibilità di ogni fabbricazione producente. Tecnica è «ciò che appartiene alla técne [...]:
la técne è qualcosa di poietico»;182 il tratto caratteristico della técne (classicamente intesa)
non è il maneggiare ed il fare attraverso mezzi ma il disvelamento, «in quanto tale, essa, è
un produrre».183 Attraverso questa lettura della técne si può giungere a scoprire l'essenza
della tecnica: essa è un modo del disvelare, «la tecnica dispiega la sua essenza nell'ambito
in cui accadono disvelare e disvelatezza, dove accade l'aletheia, la verità».184 Tuttavia il suo
disvelare non è una produrre poietico «è un pro-vocare il quale pretende dalla natura che
essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata»:185 solamente su
tale base si istituisce ogni sfruttamento incontrollato delle energie nascoste della natura.
Questo disvelamento «ha il carattere dello stellen, del richiedere pro-vocante»;186
l'assicurazione e l'impiego calcolante di ogni fondo (Bestand) ne è il tratto principale: il
fondo non è la semplice scorta, è il modo con cui è presente ciò che ha rapporto al
disvelamento provocante, «esso non ci sta più di fronte come oggetto.»187
La domanda che si pone a questo punto è: chi compie la pro-vocazione? forse l'uomo?
Certamente, però «sulla disvelatezza entro la quale il reale si mostra o si sottrae, l'uomo
non ha alcun potere».188 La tecnica non è un operare puramente umano è il tempo del
Gestell come «appello pro-vocante che riunisce l'uomo nell'impiegare come "fondo" ciò che
si disvela»,189 questo impianto (Gestell) è il disvelamento caratteristico della tecnica
moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico. L'essenza di ogni epoca si determina
a partire da «quel mandare che solo porta l'uomo su una via del disvelamento (il
'destino')».190 Nell'aprirsi in maniera autentica all'essenza della tecnica «ci troviamo
inaspettatamente richiamati ad un appello liberatore»,191 bisogna orientarsi verso la
direzione dell'originario, esperendo l'appartenenza all'apertura del disvelamento aletheico
come propria essenza; ciò coincide anche con la libertà fondamentale dell'esserci192 (una
libertà non connessa originariamente alla volontà, essa è legata piuttosto alla verità; essa
«custodisce ciò che è libero nel senso del disvelato»193).
Il pericolo sta nel disvelamento se esso non è colto principialmente, ovvero quando l'uomo
si veste orgogliosamente della figura di signore della terra nella convinzione che tutto è da
esso gestito. In tale condizione l'uomo smarrisce la propria essenza, non percepisce la provocazione come appello, egli «si lascia sfuggire i modi secondo i quali ek-siste nell'ambito
dell'appellare».194 La minaccia non sono le macchine in sé ma che «all'uomo possa essere
negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così
l'appello di una verità più principiale».195 Arrivano in aiuto le parole del poeta menzionate
da Heidegger stesso «là dove c'é il pericolo cresce/Anche ciò che salva»: il termine salvezza
qui è da intendere come il condurre all'essenza; proprio nel Gestell che minaccia di
annientare l'uomo e di disperderne ogni radicamento si manifesta l'intima e originaria
appartenenza dell'uomo alla verità dell'essere. È necessario «che noi meditiamo su questo
sorgere e lo custodiamo rimemorandolo».196 Heidegger sente forte il bisogno di un
pensiero adeguatamente attento, un pensiero meditante197 diverso da ogni sapere della
scienza; solo questo pensiero ci pone sulla via «verso il luogo del nostro soggiornare [...]; è
il tranquillo abbandono a ciò che è degno di essere domandato».198 Questo pensiero
radicale è senza effetti, lascia-essere l'essere perché ad esso vocato; si stacca dal pensiero
rappresentativo della metafisica «non lo rigetta, ma apre la lontananza all'appello della
verità dell'essere».199
3.3 Tecnica e politica: alcune considerazioni
La questione politica, che negli anni '90 ha movimentato il dibattito intorno al caso
Heidegger, ed il silenzio su Auschwitz pesano come un macigno sulla biografia del Nostro
aldilà delle postume possibili smentite di una sua vicinanza organica con la politica del
Fürher e con le idee forti del nazionalsocialismo;200 il dubbio rimane e non basta il
moltiplicarsi degli scritti e degli interventi per dirimerne il fondamento.201 Alcune
domande inquietanti rimangono sullo sfondo: possiamo separare biografia e pensiero? vita
e filosofia?; il rifiuto di tematizzare un'etica organica ed articolata può legittimare
l'apparente distanza da un ancoraggio valoriale che supporti le scelte di fondo della propria
esistenza?; la lettura della storia in termini di "destino dell'essere" non è forse una
abdicazione a forze umanamente incontrollabili (la Tecnica)?
Lungi dal voler ripercorrere le posizioni degli studiosi su tali annose perplessità tentiamo
di soffermarci sull'ultimo degli interrogativi, questo ci pare più in sintonia con i motivi
sollevati da questo nostro lavoro.
Per Heidegger il problema della tecnica e della volontà di potenza che ne corrobora il
fondamento sono via di accesso alla comprensione profonda non solo del
nazionalsocialismo ma di ogni sistema politico contemporaneo. Nell'ormai famoso e
discusso discorso sulla sua assunzione della carica di rettore dell'università di Friburgo
parlando dell'opera di Ernest Jünger Il milite del lavoro trova modo di affermare che al
«dominio della volontà di potenza nella storia, vista in una prospettiva planetaria [...] va
oggi ricondotto tutto -- lo si chiami comunismo, fascismo o democrazia».202 L'impressione
lampante è di un mancato o non voluto interesse per le ragioni interne di ogni sistema
politico, tutto ci pare con Adorno dimenticanza di ogni reale processo storico e di un
orizzonte adeguatamente idoneo per una ermeneutica dell'esistente politico. Forse la
tensione alla ontologizzazione, specifico della speculazione heideggeriana, rispetto alla
pagina più tragica della storia dell'uomo moderno, è incapace o non decisiva per un
giudizio sulle responsabilità politiche della Germania nazista. Si potrebbe, a ragion veduta,
sollevare un'ulteriore domanda: è la struttura stessa che la filosofia heideggeriana assume
a proibire un'analisi morale degli eventi legati al Terzo Reich o le simpatie politiche più o
meno nascoste del Nostro? È nostra convinzione che vi sia una sostanziale intersezione di
questi piani.
Il richiamo ad un'etica originaria ed a un pensiero desto possono essere un primo
fondamentale inizio su cui però necessariamente costruire, o meglio, edificare una morale
articolata: le società complesse dell'oggi planetario necessitano, comunque, aldilà dei
proclami sulle impossibilità di trovare fondamento all'etica, di linee di condotta e di criteri
di giudizio, ogni abdicazione può risultare un perdersi nel non senso.
Ritorniamo alla questione, per noi più interessante, ovvero quella della concezione della
tecnica come cifra ermeneutica per cogliere l'essenza del nazismo.
Il mondo dei processi cibernetici non è dovuto alla semplice decisione umana: la tecnica è
un modo del disvelamento è il denominatore comune con cui indichiamo l'insieme
dell'ente nel tempo della volontà di dominio; la tecnica è una delle epoche dell'essere,
l'epoca della metafisica compiuta. Nel dispiegamento globale del tecnologico, l'ente non è
più colto quale presenza emersa nel disvelamento secondo la concezione della phisis che
Heidegger rintraccia nel pensiero pre-socratico.203 Nel tempo della tecnica l'essente perde
anche i caratteri di oggetto che ha assunto fin dall'epoca di Cartesio. L'essente adesso è
ridotto a riserva energetica su cui agire impositivamente e pro-vocatoriamente (termini
che definiscono il tempo del Gestell). L'uomo stesso diviene «materiale d'impiego»204 . Il
tecnico assume il carattere di fenomeno autonomo è sempre più incontrollabile. Per
Heidegger le società e i loro assetti economico/politici sono al loro fondamento epifanie di
questa situazione mondiale: tanto la democrazia a sistema capitalista dell'occidente che le
forme pianificate delle politiche comuniste e sovietiche. Il nazionalsocialismo si inserisce
in tale elenco; su tale forma estrema di dittatura e di crimine contro l'umanità Heidegger
riesce a trovare parole che testimoniano la sua iniziale fiducia ed adesione (manifestate ai
primi degli anni trenta)205 ma che segnano un distacco da esso e dalle sue estreme
conseguenze dovuto alla incapacità del movimento nazista di agire il pensiero:
io non vedo la posizione dell'uomo nel mondo della tecnica planetaria come una sventura
inestricabile, anzi: vedo proprio il compito del pensiero nel dare una mano affinché l'uomo riesca a
conquistare un rapporto sufficiente con l'essenza della tecnica. Il nazionalsocialismo andava bensì
in questa direzione; ma questa gente era troppo sprovveduta dal punto di vista del pensiero. 206
Ancora più inquietante è l'appiattimento dello sterminio ebraico con gli esiti di un mondo
tecnico ormai alla deriva:
l'agricoltura è adesso un'industria alimentare motorizzata, nella sua essenza la stessa cosa della
fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa dei blocchi [...],
la stessa cosa della fabbricazione di bombe all'idrogeno.207
Il tentativo di andare a fondo, alle condizioni di possibilità degli atti e degli eventi della
storia secondo la prospettica della storia dell'essere tipica di Heidegger, ci pare, proprio in
questo caso, inadeguato alla cosa stessa: l'atto criminale rimane sostanzialmente
ingiudicato. Il silenzio resta, forse anche quello del pensare. Probabilmente dopo
Auschwitz non è più possibile fare poesia, ma la necessaria reattività del filosofo di fronte
all'inumano dovrebbe pur sempre accendersi o dovremmo mestamente accontentarsi del
fatto che «la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato
attuale del mondo. E che questo non vale solo per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è
mera intrapresa umana».208 Se questo davvero ha un fondamento allora la sentenza è più
tragica di ogni V atto: «ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità,
quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del Dio».209
3.4 Critica del concetto di valore e nichilismo
La storia della metafisica è storia della dimenticanza dell'essere e quindi storia del
nichilismo, storia dell'oblio della differenza, del «restar via dell'essere come tale».210
La metafisica inizia, secondo Heidegger, con Platone e la sua riduzione dell'essere a idea;
proprio il termine idea è fondamentale per cogliere il significato stesso di valore così come
la tradizione morale lo ha inteso e specularmente utilizzato. Nei confronti della filosofia di
Platone, il Nostro muove dalla convinzione che l'idea sia l'aspetto in cui l'essere si renda
intellegibile, è l'entità stessa dell'ente, la sua essenza «è di rendere idoneo, cioè di rendere
possibile l'ente in quanto tale».211 L'idea si pone quale condizione di possibilità o a priori
condizionante. L'intendimento platonico del concetto di bene (agathon) quale idea
suprema fa di questa propriamente la condizione per l'idoneità «dell'ente a essere ente.
L'essere si mostra nel carattere del rendere possibile e del condizionare».212 È l'inizio
decisivo per lo metafisica; Nietzsche che ne rappresenta l'estremo compimento, concepirà
«i valori come condizioni della possibilità della volontà di potenza, cioè del carattere
fondamentale dell'ente».213 L'essere dell'ente in Nietzsche viene, secondo Heidegger,
esperito con i caratteri del valore; l'insurrezione nietzscheiana contro la metafisica rimarrà
in questa imbrigliata, il suo scagliarsi contro Platone quale archetipo della metafisica
stessa nella sua sostituzione del mondo reale con quello ideale resterà un pensare secondo
valori, solo una sorta di rovesciamento del platonismo; Nietzsche «pensa l'essere
assolutamente in senso platonico e metafisico proprio in quanto sovvertitore del
platonismo».214 Tutta la sua speculazione diviene riduzione della verità e dell'essere a
valore, una metafisica dei valori.
La nozione di valore appare nel XIX secolo come conseguenza di una concezione della
verità quale adequatio, essa sostanzialmente è «l'ultimo derivato dell'agathon [...]; il valore
è alla base della metafisica di Nietzsche e ciò nella forma assoluta della trasvalutazione di
tutti i valori».
La filosofia heideggeriana si pone in maniera reattiva nei confronti di ogni speculazione
morale e/o filosofica che abbia come fondamento o riferimento un orizzonte valoriale
poiché il valore e ciò che ha valore divengono il surrogato positivo del metafisico. È suo
preciso intendimento ritenere che un pensiero che si oppone ai valori non giudica privo di
valore o non valore ciò che la modernità ha definito tale, piuttosto quando si definisce
come valore qualcosa «ciò che è cosi valutato viene privato della sua dignità»215 poiché la
misura è data dalla stima e dal giudicare del soggetto; tanto che ogni valutazione è una
soggettivazione, «essa non lascia essere l'ente ma lo fa valere solo come oggetto del proprio
fare»;216 il valutare è un atto di antropomorfizzazione del reale tipico del pensiero
occidentale e soprattutto delle sue caratteristiche moderne: la presunta oggettività del
valore è stabilita soltanto dal metro umano.
Heidegger sottolinea come tra i cinque capisaldi del pensiero di Nietzsche (la
trasvalutazione di tutti i valori, il nichilismo, il superuomo, la volontà di potenza, l'eterno
ritorno)217 l'accento vada posto sulla intima relazione ed unità tra volontà di potenza e
l'eterno ritorno; infatti «il carattere fondamentale dell'ente in quanto volontà di potenza si
determina al tempo stesso come l'eterno ritorno dell'uguale».218 La suprema volontà di
volontà consiste nell'atto sommo di tale pensiero cioè nel dare al divenire i caratteri
dell'essere; pensare l'essere dell'ente come volontà di potenza significa legarlo all'eterno
ritorno. Nietzsche compie l'estremità finale della metafisica facendo della volontà il
fondamento di tutto il reale l'essenza stessa dell'essere di ogni ente.
Nel tragitto della storia della filosofia oltre alla base platonica vanno indicate, per capirne
l'esito finale, le vie percorse nella modernità dal pensiero. La modernità è il tempo
(l'epoca) in cui il soggetto rende il «mondo immagine», fa del reale un oggetto attraverso
gli atti rappresentativi-oggettivanti, la filosofia di Nietzsche iscrivendosi in questo percorso
si fa metafisica della «soggettività assoluta», essa in quanto volontà di dominio «pensa
ogni cosa nell'orizzonte dei valori: del volere i valori, del venir meno dei valori, del
capovolgimento dei valori»219 . Da qui l'esito estremo del pensiero occidentale dimentico
ormai delle sue origini: solo una volontà assoluta può porre valori, essi «sono riferiti alla
volontà di potenza ne dipendono».220 La volontà stessa è un principio cosciente di una
nuova posizione di valori; il valore è nella sua essenza un punto di vista, un angolo visuale
legato alle modalità stesse di ogni rapporto del soggetto con il mondo, «il punto di vista di
condizioni di conservazioni e di potenziamento».221 Questo è nichilismo compiuto,
nichilismo che eliminando il luogo stesso del valore ovvero il sovrasensibile in sé, pone
pertanto «i valori in modo diverso»222 capovolgendoli. Heidegger è convinto che Nietzsche
pur atteggiandosi a perfetto nichilista (colui che ha vissuto in sé totalmente la forza del
nichilismo) rimane nella dimenticanza dell'essenza stessa del nichilismo come ogni
pensatore prima di lui; la sua concezione del nichilismo, in quanto legata al valore, è una
concezione nichilista.
Interrogarsi sul nichilismo è per il Nostro porre la questione decisiva: quella dell'essere e
del suo rapporto con il nulla, questo stesso è un proiettarsi nell'essenza del nichilismo.
Storicamente la domanda sul ni-ente è rimasta non svolta nella sua radicalità, è proprio
questo non pensare al niente se non in termini logico/razionali la causa stessa del
nichilismo. È necessario chiedersi circa l'apertura epocale che ha reso possibile il tempo
della volontà incondizionata dell'uomo e del Gestell. Il destino del nichilismo per
Heidegger ha il suo luogo proprio nell'essere e nel suo eventuarsi storico. Ogni tentativo di
superamento è destinato a fallire perché «invece di voler oltrepassare il nichilismo
dobbiamo prima raccoglierci nella sua essenzialità».223
Ritorna forte il compito, la vocazione, la chiamata del pensiero, forma inusitata di
responsabilità del pensare che ha i tratti del cor-rispondere. Dunque l'atteggiamento
heideggeriano contro i valori «non vuol dire sbandierare l'assenza di valori e la nientità
dell'ente, ma portare la radura della verità dell'essere davanti al pensiero, contro la
soggettivazione dell'ente ridotto a mero oggetto».224
Evidentemente non è il tempo di formulazioni etiche o di virtù adeguate all'era atomica,
ma il tempo in cui bisogna farsi carico della responsabilità del pensiero il quale solo può
produrre una accelerazione del nichilismo, il lasciar-essere l'evento in modo che la grande
potenza del nulla si dispieghi pienamente, solo così nel loro compimento essenziale il
tempo dell'ospite più inquietante potrà volgere alla fine nell'attesa di un altro inizio
secondo un pacato abbandono.
La 'verità', il 'destino', l''apertura', la 'radura' parlano di un essere e di un appello radicale a
cui l'uomo è strutturalmente coinvolto nel suo agire originario quale «condurre a
compimento»,225 in ciò proprio il pensiero è sommamente interpellato esso «porta a
compimento il riferimento dell'essere all'essenza dell'uomo».226
Note
1.
Il dibattito ha preso la mosse dall'ormai famoso scritto di V. Farias, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri,
Torino 1988: noto è il suo pesantissimo giudizio sulla compromissione di Heidegger con il Terzo Reich.
Interessanti, sull'argomento, risultano: P. Bourdieu, Führer della filosofia? L'ontologia politica di Martin
Heidegger, (a cura di) G. De Michele, Il Mulino, Bologna1989; E. Nolte, Heidegger e la rivoluzione
conservatrice, Sugarco, 1997; J. Habermas, Il filosofo e il nazista, in Micromega, 1988, n. 3; J. F. Lyotard,
Heidegger e gli "Ebrei", Feltrinelli, Milano 1989; K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933,
Milano 1988; H. Arendt, Martin Heidegger a ottant'anni, in Micromega, 1988, n. 2; O. Pöggeler, Heidegger e la
politica, in F. Bianco (a cura di), Heidegger in discussione, Angeli, Milano 1992. Cfr. per altre, essenziali,
indicazioni bibliografiche F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Bari 1997.
2.
Originale, quanto suggestiva, è la tesi del Volpi su Essere e tempo: «una versione in chiave moderna dell'Etica
Nicomachea», cfr. F. Volpi, L'etica rimossa di M. Heidegger, in Micromega, 1996, n. 2, p. 141. P. Ricœur è
convinto che di Essere e tempo «non si può negare la forza etica ma della quale si può deplorare la carenza
morale», cfr. P. Ricœur, Il problema etico in "Essere e tempo", in F. Bianco (a cura di), op. cit., p. 50. A. Jacob
sostiene che nei testi heideggeriani «l'etica non è tematizzata che in prima approssimazione», addirittura «ce n'è
poca ed è enigmatica [...] la ricerca ontologica le volge le spalle» tiene occulta la "dimensione di alterità", cfr. A.
Jacob, Heidegger e la questione etica, in F. Bianco (a cura di), op. cit., p. 108. Interessante risulta la posizione di
R. Schürmann: esaminando il rapporto tra essere ed agire in Heidegger, attraverso una complessa analisi della
contemporaneità ovvero di una epoca in cui il pensiero non pone più un fondamento razionale alla conoscenza,
sostiene che l'agire si trova sospeso, la prassi (visto il tramonto dei principi) non potra più legittimarsi rispetto
ad un'arché e allora «l'agire si svelerà, nella sua essenza, an-archico», cfr. R. Schürmann, Dai principi
all'anarchia, Il Mulino, Bologna 1995, p. 28. Il francese J. L. Nancy, sottolineando con Essere e tempo che
nell'esistenza non vi è un senso predefinito, afferma che l'etica non è rispetto di norme o modelli valoriali ma
piuttosto la condotta stessa del Dasein che si espone fra e con gli altri nel fare senso di sé, dunque «l'etica
originaria è il nome più appropriato dell'ontologia fondamentale», cfr. J. L. Nancy, L'etica originaria, Cronopio,
Napoli 1996, p. 36. L'Aubenque afferma: «sembra che Heidegger si sia rifiutato di trarre esplicite considerazioni
pratiche dai suoi rinnovati interrogativi sul senso dell'essere», P. Aubenque, Heidegger e il problema del
criterio, in P. Di Giovanni (a cura di), Heidegger e la filosofia pratica, Flaccovio, Palermo 1994: in questo stesso
volume si possono trovare altre interessanti riflessioni sul rapporto ontologia/prassi nel Nostro. Ruggenini è
convinto che la tecnica dischiuda una grande possibilità «di carattere etico, nel momento in cui rende possibile
una ripresa radicale del discorso sull'essere dell'uomo e del suo destino terreno», di qui propone una lettura
della Lettera sull'umanismo di Heidegger, cfr F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger , op. cit., p. 233.
3.
Cfr P. De Vitiis, Heidegger e la fine della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1974.
4.
A proposito di B. Spinoza, Heidegger afferma: «che questa metafisica -- cioè la scienza dell'ente nella sua totalità
-- si caratterizzi come Etica esprime il fatto che l'agire e il comportamento dell'uomo hanno un'importanza
capitale per [...] fondare questo sapere», M. Heidegger, Schelling. Il Trattato del 1809 sull'essenza della libertà
umana, Guida, Napoli 1994 p. 77.
5.
Aristotele, Metafisica, E 1025 b 25-27, trad. it. G. Reale, Rusconi, Milano 1993. La distinzione aristotelica sarà
presente mutatis mutandis in tutta la storia della filosofia. È opinione accreditata che sia stato proprio lo
Stagirita per primo a parlare di una teoria etica, Analitici II, 89 b 9.
6.
M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, trad. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 35.
7.
Ivi, p. 33.
8.
Ivi, p. 35.
9.
Ivi, p. 90.
10. Per tale definizione del termine «etica», cfr E. Lecaldano, Etica, Tea, Milano 1996.
11. Un'etica prima dell'etica come etica dell'ascolto e del cor-rispondere viene tratteggiata da Caterina Resta in La
terra del mattino, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 7- 56.
12. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano 1986, p. 4.
13. Cfr. E. Junger -- M. Heidegger, Oltre la linea, trd. it. A. La Rocca e F. Volpi, Adelphi, Milano 1989.
14. «Un'umanità che, come subiectum, è a fondamento di tutto l'ente», Ibidem, p. 125. Emerge un altro polo
polemico, quello contro la soggettità ovvero contro la posizione assoluta del soggetto e della sua egoità nel
cosmo (ormai entificato), segno della sua incontrastata volontà di potenza.
15. «Nel pensiero l'essere perviene al linguaggio. Il linguaggio e la casa dell'essere. Nella sua dimora abita
l'uomo», M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 31.
16. Ivi, p. 73.
17. Ivi, p. 48.
18. Ivi, p. 46.
19. «Il raccoglimento del pensiero che rivolge verso ciò che è da pensare noi lo chiamiamo memori», M. Heidegger,
Cosa significa pensare? (vol. II), trad. it. U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1971, p. 32.
20. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 93.
21. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, trad. it. C. Diano e G. Serra, Mondadori, Milano 1996, Fr. n. 91:
Demone a ciascuno è il suo modo di essere. «Un detto di Eraclito, che si compone di sole tre parole, dice
qualcosa di così semplice che ne viene immediatamente in luce l'essenza dell'ethos», M. Heidegger, Lettera
sull'umanismo, op. cit., p. 90.
22. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 93.
23. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. P. Chiodi, Longanesi, p. 21.
24. M. Heidegger, Dell'essenza della verità, in Segnavia, tra. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1987.
25. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 90.
26. Cfr. C. Mazzarelli, Introduzione a, Aristotele, Etica, Rusconi, Milano 1993.
27. Egli stesso ha sottolineato in diverse occasioni la presenza della filosofia aristotelica e della sua importanza nello
sviluppo del suo abito speculativo: Cfr. ad. es. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. A.
Caracciolo, Mursia, Milano1973, p. 87. Volpi è addirittura convinto che il pensiero heideggeriano rappresenti
uno dei momenti più significativi della presenza di Aristotele nel nostro secolo. Cfr. F. Volpi, Essere e tempo:
una versione dell'Etica Nicomachea? , in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit.
28. Interessante a proposito, ci pare, la testimonianza di Gadamer: si doveva sedere nell'aula di Heidegger in questi
primi «anni a Marburgo, per poter valutare l'ampiezza in cui Aristotele era presente nel pensiero di Heidegger in
quel periodo», cfr. Heidegger e i Greci, «Verifiche», 8, 1979, p. 7.
29. Molto interessante su questo tema risulta il saggio di F. Volpi, Tra Aristotele e Kant: orizzonti prospettive e
limiti del dibattito sulla «riabilitazione della filosofia pratica», in C. A. Viano, Teorie etiche contemporanee,
Boringhieri, Torino 1990.
30. Il Pöggeler ha recentemente dimostrato come Heidegger non volle avere niente a che fare con tali tendenze
culturali; cfr., O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di M. Heidegger, Guida, Napoli 1991, p. 414.
31. Cfr. E. Berti, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, in Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987.
32. Tale tesi è lucidamente proposta e sostenuta dal Volpi: Gadamer nel capitolo di Verità e metodo, «Attualità
ermeneutica dell'etica aristoelica», ha proposto una riabilitazione della phronesis. La Arendt in Vita activa, ha
sostenuto una riabilitazione della praxis aristotelica e della sua capacità di comprensione del Politico nei suoi
tratti costitutivi. Ritter negli studi Metafisica e politica ha inoltrato una riabilitazione dell'ethos. Anche Jonas,
seppur più debolmente, mette a frutto la lettura heideggeriana della filosofia pratica di Aristotele, nel suo Il
principio responsabilità, riabilitando il concetto di bene (agathon), distinguendolo dal moderno valore. Cfr. F.
Volpi, L'etica rimossa di Heidegger, op. cit.
33. Il Berti (in analogia con il Volpi) sostiene che l'influenza sui neo-aristotelici, conduca ad una triplice riduzione
della pratica aristotelica, rispettivamente a phronesis (Gadamer), ethos (Ritter) e praxis (Arendt). Cfr. E. Berti,
L'influenza di Heidegger sulla «Riabilitazione della filosofia pratica», in P. Di Giovanni, op. cit.
34. Cfr. F. Volpi, Essere e tempo: una versione dell'Etica nicomachea? , in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit.
35. Cfr. M. Heidegger, Introduzione a Che cos'è metafisica, in Segnavia, op. cit., p. 323. Cfr. M. Heidegger, Il
nichilesmo europeo, in Nietzsche, trad. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.
36. «La verità dell'essere, obliata nella metafisica e proprio a causa della metafisica», cfr. M. Heidegger, Lettera
sull'umanismo, op. cit. p. 43.
37. «Ciò che caratterizza il pensiero metafisico, che scandaglia l'essente ricercandone il fondo riposa in questo, che
esso, partendo da ciò che è presente, lo rappresenta nella sua presenza e così lo presenta -- a partire dal suo
fondamento -- come fondato», cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere, trad. it. E. Mazzarella, Guida, Napoli 1998,
p. 174.
38. Heidegger le imputa l'incapacità di cogliere o di aprirsi alla differenza ontologica.
39. Cfr. M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti, trad. it. P. Chiodi, La Nuova Italia,
Firenze 1968, p. 94.
40. Cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991.
41. Quando l'essere diviene idea (Platone) inizia l'umanismo; Cfr. M. Heidegger, La dottrina platonica della verità,
in Segnavia, op. cit., p. 190.
42. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 42.
43. Ivi, p. 42.
44. Cfr. M. Heidegger, La concezione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza.
45. Identificando tecnica e scienza, Heidegger individua l'essenza del sapere scientifico nella esclusiva
considerazione degli enti come strutture calcolabili matematicamente con assoluta certezza e li rende,
conseguentemente, manipolabili secondo metodi rigorosi, allo scopo di spremere programmaticamente le
energie contenute nella natura. Cfr. A. Crescini (a cura di), Umanesimo e scienza nell'era atomica, La Scuola,
Brescia 1988.
46. «Il contenuto di questa teologia deve ridursi all'asserzione che il mondo deve avere una causa prima [...]. La
metafisica occidentale è teologica». Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 585-586.
47. «La Ratio fin dai tempi antichi, non significa soltanto "conto" e "resa del conto" nel senso di ciò che giustifica, e
cioè fonda, qualcosa d'altro. Ratio significa, al tempo stesso [...], calcolarlo come sussistente a ragione, come
corretto, ponendolo al sicuro mediante tale calcolo»; cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 203.
48. «Pensare propriamente l'essere esige che si abbandoni l'essere come il fondamento dell'essente a favore del dare
che gioca nascosto nel disvelamento, cioè a favore dello "Es gibt". L'essere non è (ist), Essere si dà (gibt Es) in
quanto disvelamento». Cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere, op. cit., p. 109.
49. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 73.
50. Ivi, p. 56. D'altronde la metafisica non domanda «in che modo l'essenza dell'uomo appartenga alla verità
dell'essere», p. 44.
51. Inviata ad Heidegger il 10 novembre del 1946, nella sua brevità solleva questo ed altri interrogativi: il rapporto
dell'ontologia con un'etica possibile, l'irrazionalismo, il problema della coscienza in Kant, la teoria dei valori.
52. Cfr. T. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994.
53. «Lo svenimento [...], si tratta di un processo che intacca il tutto e che alla fine lascia dietro di sé paesaggi quanto
mai sterili, squallidi o perfino devastati». Cfr. E. Junger, Oltre la linea, in E. Junger e M. Heidegger, Oltre la
linea, op. cit., p. 77.
54. Questa conclusione ci pare ancor più radicale della wittgensteiniana informulabilità dell'etica («l'etica non può
formularsi», Tractatus logico-philosophicus, <6. 421>), essa segna la sconfitta stessa di una possibile
normatività e/o prescrittività morale adeguata a questa nostra contemporaneità ovvero al tempo in cui il deserto
del nichilismo continua a crescere e ad essere l'ospite più inquietante.
55. Cfr. M. Heidegger, La svolta, trad. it. M. Ferraris, Il melangolo, Genova 1990, p. 15.
56. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 45.
57. È nel secolo XIX che il parlare di valori diviene corrente e il pensare per valori abituale. Il valore e ciò che ha
valore divengono il surrogato del metafisico. cfr. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche, in Sentieri interrotti,
op. cit. «Il pensiero che si pronuncia contro i "valori" non sostiene che tutto ciò che viene dichiarato come
"valore", la "cultura", l'"arte", la "scienza", la "dignità umana", il "mondo" e "Dio", siano senza valore. [...]
quando si caratterizza qualcosa come "valore", ciò che è cosi valutato viene privato della sua dignità», M.
Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 82.
58. Ivi, p. 73.
59. «Questa chiamata avviene con il getto (Wurf) da cui scaturisce l'esser-gettato dell'esser-ci», ibidem.
60. Ivi, p. 74.
61. Ivi, p. 57.
62. Cfr. M. Heidegger, La svolta, op. cit., p. 17.
63. Ivi, p. 19.
64. Per una lettura di questo tipo del senso della Svolta, cfr.: U. Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger,
Mursia, Milano 1988. Il Ferraris afferma: «I maggiori commentatori heideggeriani, da Pöggeler a Werner Marx,
da Vattimo a Gadamer, concordano nel segnalare il senso della svolta proprio nell'imporsi dell'idea di verità
come non nascondimento», cfr.: M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, in M. Hiedegger, La svolta, op. cit., p.
55.
65. M. Heidegger, La Svolta, op. cit., p. 23.
66. Il Volpi sostiene che «Heidegger abbia sempre privileggiato i problemi dell'ontologia a quelli della filosofia
pratica e si è coerentemente concentrato sull'unica questione che ha rivendicato come propria: quella
dell'essere», cfr. L'etica rimossa di Heidegger, op. cit., p. 140.
67. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 52.
68. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., cfr. par. 31 e 32.
69. Essenzialmente tre i problemi fondamentali al centro di Essere e Tempo: I) La condizione ontologica
dell'Esserci, II) Il problema della verità come apertura e scoperta di senso, III) La temporalità originaria come
costituzione dell'esistenza nel suo poter- essere.
70. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p. 211.
71. «Una grande ontologia che, nondimeno, nella stessa movenza argomentativa, si dispiega come una grande
etica»; P. Ricœur, Il problema etico in Essere e tempo, op. cit., p. 62.
72. J.-Fr. Courtine sostiene che in Essere e tempo vi sia una «ripresa secolarizzante di categorie etico/religiose»
tipiche della tradizione teologica (Lutero, Pascal e sopratutto Kierkegaard), cfr. La voce (estranea) dell'amico.
Richiamo e/o dialogo, in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit., p. 118.
73. P. Ricœur, op. cit., p. 50.
74. Il Nancy è convinto che la svolta in fondo corrisponda ad una accentuazione e ad un aggravarsi del motivo etico;
cfr. L'etica originaria di Heidegger, op. cit., p. 8.
75. La domanda del Brief è per il Vitiello il segnale della distanza che separa Heidegger dai suoi contemporanei,
anche quelli a lui più vicini; in Essere e tempo «non aveva fatto altro che scrivere un'etica», un'etica particolare;
cfr. V. Vitiello, Heidegger e la morale kantiana, in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit., p. 273.
76. M. Heidegger, Lettera a Sartre del 28 ottobre del 1945; pubblicata assieme (in appendice) alla Lettera
sull'umanismo nella edizione cit., p. 109.
77. H. G. Gadamer, Maestri e compagni, Queriana, 1980, p. 176.
78. M. Heidegger, Lettura sull'umanismo, op. cit., p. 76.
79. M. Heidegger, Lettera a J. Beaufret del 23/11/1945; pubblicata in app. alla Lettera sull'umanismo, op. cit., p.
108.
80. Per una dettagliata esposizione di queste nuove basi testuali cfr. F. Volpi, L'etica rimossa di Heidegger, op. cit.,
pp. 141-143.
81. In questi corsi, tra l'altro, egli svilupperà una interpretazione fenomenologica di Aristotele: cfr. il corso del
semestre invernale del 1921-22 (Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca
fenomenologica, trad. it. M. De Carolis, Guida, Napoli 1990).
82. Importante il corso invernale del 1924-25 sul Sofista di Platone (ivi contenuta una interpretazione del VI libro
dell'Etica Nicomachea).
83. Le tappe teoretiche che portano a Essere e tempo sono per U. Regina cosi distinguibili: I) individuazione (1919)
del "mondificare" come coinvolgimento dell'uomo con la totalità del significare; II) la scoperta (1920-21) del
nesso tra tempo "cairologico" e "effettività dell'esistenza"; III) la semantizzazione del senso dell'essere (1921-22)
e impredicabilità del senso dell'essere a prescindere dalla temporalità; IV) la morte come proposta di
autenticità; V) la verità come "dis-velamento" (1924-25: sul Sofista); cfr. U. Regina, La virtù della verità, in
Con-tratto, nn. 1-2, 1993.
84. Il Volpi rintraccia una insufficienza della prospettiva husserliana della soggettività trascendentale (e del suo
conseguente privileggiamento di atti di tipo teoretico) verso i problemi che la fenomenologia aveva sollevato: da
qui Heidegger giungerebbe ad assegnare alla prassi una funzione fondatrice. Cfr. L'etica rimossa di Heidegger.
op. cit., p. 145.
85. A tal proposito il Boeder nel suo Agire e/o dimorare, sostiene che l'interesse di Heidegger nella ripresa di
Aristotele sia solo questo e che lo specifico manchi ovvero la tematizzazione del " bene umano". Cfr. op. cit., p.
133.
86. Cfr. Aristotele, Politica, I, 4, 1254 a 7.
87. Cfr., F. Volpi, L'etica rimossa di H., op. cit., p. 147.
88. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p 35.
89. L'ontologizzazione della Poiesis e della Theoria segna la loro rispettiva corrispondenza con la Zuhandenheit
(essere utilizzabile e disponibile) e la Vorhandenheit (la semplice presenza). Esse indicherebbero nella lettura
del Volpi modi dell'essente a seconda che il Dasein si disponga nei suoi confronti in maniera osservativa oppure
produttiva manipolante.
90. M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 590.
91. Cfr.: J. Fr. Courtine, op. cit., pp. 102-103. Per Ruggiu Heidegger riprende Aristotele mediato da Kant: in Kant la
soggettività trascendentale esclude la politica e la Koinonia. Cfr.: Praxis e poiesis. una questione ancora aperta
in Heidegger, in P. Di giovanni (a cura di), op. cit., p. 226.
92. È questa la critica mossa dal Ruggenini in Comprensione, linguaggio, prassi. . ., op. cit. p. 176.
93. Luigi Ruggiu ha espostoto tale convinzione nel suo Praxis e poiesis., op. cit. Egli afferma che non vi è nessuna
autonomia della praxis, come richiesto dalla impostazione aristotelica: essa non ha un suo oggetto altro rispetto
da quello della theoria o da quello della poiesis. Si dovrebbe piuttosto parlare di poiesis trascendentale. pp. 214215.
94. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p. 343.
95. Questa lettura della libertà in Essere e tempo è sostenuita da V. Vitiello, Heidegger e la morale kantiana, op.
cit., p. 297.
96. Il Ruggenini concorda con questa lettura, muovendosi verso una fondazione pratico-esistenziale della questione
ispiratrice delle analisi di Essere e tempo e leggendo il «progetto del mondo come prassi originaria». Cfr. M.
Ruggenini, Il soggetto e la tecnica. Heidegger interprete inattuale dell'epoca presente, Bulzoni, Roma 1978, P.
I, cap. II.
97. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p. 183.
98. Ivi, p. 22.
99. Ivi, p. 23.
100. Ivi, p. 58.
101. Ivi, p. 64.
102. Ivi, p. 65.
103. Posizione espressa dal Ricœur, op. cit., p. 53.
104. Paragr. 25 di Essere e tempo.
105. Ivi, p. 149.
106. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit. p. 59.
107. Una delle voci più autorevoli in campo etico, quella di E. Lévinas: ha sostenuto fermamente l'incompatibilità tra
etica e ontologia: l'ontologia heideggeriana sarebbe incapace di comprendere la portata etica della relazione con
l'altro (tendenza che per Lévinas si aggraverà ancor più con la svolta). Lévinas con fermezza non accetta una
filosofia del Neutro e dell'impersonale.
108. P. Ricœur, op. cit., p. 53.
109. Ivi, pp. 51-52.
110. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 59.
111. Ivi, p. 88.
112. Il Nancy è convinto che «il pensiero di Heidegger si è concepito, interamente, come un'etica fondamentale», in
modo che «l'ontologia è fin dall'inizio condotta del senso». «Il fatto d'essere del Dasein ha come tale la struttura
del fare senso o dell'agire». «Ciò che l'uomo è, in quanto ha da agire, non è un aspetto particolare del suo essere,
ma è il suo essere stesso». Cfr. «L'etica originaria» di Heidegger, op. cit., pp. 9, 15, 19, 10.
113. H. Boeder è convinto che in questo passaggio una possibile filosofia pratica risulti congedata per sempre. Cfr. H.
Boeder, op. cit., p. 127.
114. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 56.
115. Ivi, p. 46 e 48.
116. Ivi, p. 56.
117. Ivi, p. 90.
118. Ivi, pp. 31-32.
119. M. Heidegger, La svolta, op. cit., p. 15.
120. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 32. i.
121. Ibidem.
122. Ivi, p. 93.
123. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, p. 61.
124. Ivi, p. 31.
125. Ivi, p. 32.
126. Ivi, p. 33.
127. Per Galimberti, Heidegger ha modificato in modo sostanziale la nozione di pensiero rispetto a tutta la tradizione
della logica tradizionale; «si tratta di un pensiero che rovescia le prescrizioni della logica [...], essa ha sviluppato
solo un pensiero «prensile» e perciò concettuale». Cfr. Invito al pensiero di Heidegger, op. cit., p. 130-131.
128. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 35.
129. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? , Sugarco, Milano 1971, vol. I, p. 98.
130. Ivi, p. 73.
131. Ivi, p. 136.
132. Ivi, p. 137.
133. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, p. 88.
134. Ibidem.
135. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. I, p. 113.
136. Ibidem.
137. Ivi, p. 125.
138. Ivi, p. 63.
139. Ivi, p. 56.
140. Il Galimberti, nel rileggere la prospettiva che Heidegger ha della storia della filosofia, sostiene che,
nell'instaurarsi di un punto di vista solamente umano ogni filosofia, e più in generale ogni espressione culturale
dell'occidente, diviene antropologia; cfr. U. Galimberti, op. cit., p. 67.
141. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. I, op. cit., p. 84. Compare una delle convinzioni più discusse dello
Heidegger maturo, quella della dipendenza dell'uomo e della sua storia dall'evento destinale dell'essere: «il
destino dell'essere rimane in sé la storia essenziale dell'uomo occidentale, nella misura in cui l'uomo storico
viene fruito nell'edificante abitare la radura dell'essere. In quanto sottrazione destinale, l'essere è già in sé
riferimento all'essenza dell'uomo». Egli sottolineerà come non bisogna cadere nell'errore di umanizzare l'essere
(attraverso una sua oggettificante considerazione); infatti è l'essenza dell'uomo che in virtù di questo
riferimento si trova nel proprio abitare fondamentale ovvero nella località dell'essere: Cfr. M. Hidegger, Il
principio di ragione, op. cit., p. 160.
142. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, pp. 144-145.
143. G. Vattimo ha affermato che tutto il pensiero heideggeriano si muove tra questi tre grandi poli emblematici: I) la
gettatezza storica del progetto e la temporalità dell'essere; II) il significato del pensare; III) la concezione del
linguaggio come «casa dell'essere». Cfr. introduzione a Che cosa significa pensare?, in vol. I, op. cit., p. 11.
144. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, op. cit., p. 134.
145. Ivi, p. 145.
146. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? , op. cit., vol. I, p. 53.
147. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 35.
148. Per il Crescini il significato profondo della svolta va ricercato nel fatto che l'uomo, secondo l'analitica del
Dasein, progettava se stesso, adesso viene progettato dall'essere, «la temporalità dell'esserci si allarga allora a
una temporalità più vasta, quella dell'essere stesso». Cfr. Umanesimo e scienza nell'era atomica, op. cit., p. 40.
149. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, op. cit., vol. II, p. 134.
150. Ibidem.
151. Ivi, p. 35.
152. Ivi, p. 110.
153. Il motivo dell'ascolto assume, per il Volpi, grande rilevanza nell''ultimo' Heidegger «in funzione dello sforzo che
egli compie per mettere a fuoco la peculiarità di quel pensiero che non intende più praticare le forme, i generi e
le tecniche della filosofia tradizionale, ma intende piuttosto sperimentare vie alternative per arrivare ad
'avvertire' e a 'sentire' ciò che alla metafisica rimane precluso». Cfr. F. Volpi, Nota a Il principio di ragione, op.
cit., p. 230.
154. Ivi, p. 45.
155. Heidegger più volte sottolineerà l'etimo di Ereignis ovvero 'eigen' (proprio): esso immediatamente rinvia ad una
relazionalità fondata su una reciproca appropriazione. Va evitata ogni significazione comune di 'evento', non è
semplicemente identificabile con accadimento o avvenimento.
156. Secondo il Crescini, «il compito fondamentale di un'autentica filosofia rimane per Heidegger quello di superare
la contrapposizione soggetto/oggetto in cui si muove tutta la filosofia moderna». Cfr. op. cit., p. 42.
157. M. Heidegger, La questione dell'essere, op. cit., p 141.
158. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? , vol. I, op. cit., p. 38.
159. Ivi, p. 40.
160. Ivi, p. 42.
161. Ivi, p. 38.
162. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. II, op. cit., p. 132. Heidegger nelle pagine iniziali del II volume di
Che cosa significa pensare? dirà che la domanda ivi posta ha quattro fondamentali modi per essere svolta,
chiedendosi ulteriormente: a) cosa significa il termine pensiero? ; b) quali sono le forme tradizionali del
pensiero? ; c) quali requisiti occorrono per poter pensare? ; d) che cosa ci chiama ad entrare nel pensiero? .
L'ultima domanda è quella essenziale essa dona la tonalità per la lettura delle precedenti.
163. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. II, op. cit., p. 120.
164. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 147.
165. M. Heidegger, Che significa pensare, vol. II, op. cit., p. 20.
166. Cfr. Ibidem, pp. 27-36.
167. M . Heidegger, Che cosa significa pensare, op. cit., p. 30. Il volgere attenzione all'ingiunzione dell'essere è
fondamentalmente ringraziamento (Danken); la memoria (An-Denken) è il raccogliersi dell'anima secondo la
verità dell'essere.
168. Ivi, p. 31.
169. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 47.
170. Ivi, p. 189.
171. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 93.
172. M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, op. cit., p. 94.
173. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 47.
174. M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, op. cit., p. 97.
175. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, op. cit., p. 134.
176. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it. G. Vattimo, Mursia, Milano 1980, p. 17-18.
177. M. Heidegger, L'abbandono, Il Melangolo, Genova 1992, p. 19. Il Mazzarella solleva, a tal proposito, il problema
di una possibile lettura della speculazione heideggeriana sulla tecnica come disimpegno dalla storia e dalla
comune esperienza mascherato da un impegno più profondo del pensiero. Cfr. Metafisica e tecnica, Guida,
Napoli 1987, p. 226.
178. M. Heidegger, La questione della tecnica, op. cit., p. 5.
179. Ibidem, p. 9.
180. Ibidem.
181. Ivi, p. 10.
182. Ibidem.
183. Ibidem.
184. Ivi, p. 11.
185. Ivi, p. 12.
186. Ibidem.
187. Ivi, p. 13.
188. Ivi, p. 14.
189. Ivi, p. 18.
190. Ivi, p. 19.
191. Il Nancy ha sostenuto che dopo Heidegger il tema della libertà non è stato tematicamente considerato almeno
come argomento guida della filosofia (nel cammino heideggeriano si produce già tale cesura). «Questione
fondamentale della filosofia, nella quale anche la questione dell'essere ha la sua radice». Lo stesso Heidegger
avrebbe poco considerato il termine libertà, tanto che l'avrebbe impiegato senza articolarne una autentica e
precisa nozione. Cfr.: J. -L. Nancy, Lo spazio lasciato libero da Heidegger, in Con-tratto, op. cit., pp. 99-114.
192. M. Heidegger, Segnavia, op. cit., p. 21.
193. M. Heidegger, La questione della tecnica, op. cit., p. 21.
194. Ibidem.
195. Ivi, p. 25.
196. Il Mazzarella ha sostenuto che se la Seinsfrage non ha prodotto un'etica articolata, ha però sicuramente
delineato il suo nocciolo centrale e fondamentale proprio nel pensiero dell'essere. Cfr. Tecnica e metafisica, op.
cit., p. 282.
197. M. Heidegger, Scienza e meditazione, in Saggi e discorsi, op. cit., p. 43.
198. M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, op. cit., p. 123.
199. Per una ricostruzione degli eventi degli anni dell'adesione al nazismo e dell'accettazione della carica di rettore
all'universita di Friburgo, cfr. M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare e Il rettorato 1933/34.
200.
Su alcuni dei saggi e degli interventi, cfr. nota 1.
201. M. Heidegger, Il rettorato 1933/34, Il Melango, Genova 1989, p. 35.
202.
La traduzione con natura dei latini del termine arcaico phisis ne smarrisce, per Heidegger, il significato
essenziale quello di essere: phisis è ciò che sboccia da se stesso indipendentemente dall'intervento della
soggettività, l'essere è la presenza di ciò che appare, una presenza che si apre e sboccia da sé, una manifestazione
entro l'ambito di ciò che è disvelato.
203.M. Heidegger, La questione della tecnica, op. cit., p. 13.
204.
Propendiamo per motivazioni ideali o filosofiche e meno per una adesione velata dello Heidegger alla
cosiddetta Rivoluzione conservatrice; lo storico E. Nolte sulla base di alcuni tratti del pensiero heideggeriano
quali la critica alla civilizzazione mondiale, dell'americanismo e il silenzio rispetto agli orrori nazisti, è convinto
che si possa annoverare Heidegger alla rivoluzione conservatrice. Cfr. Heidegger e la rivoluzione conservatrice,
op. cit., p. 24. È condivisibile la convinzione che le simpatia naziste di Heidegger avessero una ispirazione
filosofica anche se fondate su una interpretazione deviata del nazionalsocialismo. Cfr. J. Herf, Il modernismo
reazionario, Boringhieri.
205.M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, op. cit., p. 146.
206.
Sono espressioni di Heidegger pronunciate nel 1949 che comprensibilmente hanno fatto indignare gli
studiosi e la società civile; fanno parte di una conferenza inedita del ciclo Einblick in das, was ist riportata da
Ph. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, Il Melangolo, Genova 1991, p. 52.
207. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, p. 136.
208.
Ibidem.
209.
M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 849.
210. Ivi, p. 718.
211. Ivi, p. 719.
212. Ibidem.
213. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», in Saggi e discorsi, op. cit., p. 208.
214. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 38.
215. Ibidem.
216. Cfr., M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 563 .
217. Ivi, p. 568.
218. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio e Morto», op. cit., p. 218.
219. M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 609.
220.
Ivi, p. 620.
221. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», op. cit., p. 206.
222. M. Heidegger, La questione dell'essere, op. cit., p. 162.
223. M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, op. cit., p. 31.
224. Ibidem.
225. Ibidem.
Sandro Gorgone
Heidegger e il kairós. Alle origini della concezione
heideggeriana della temporalità come Ereignis
Resti immobile, splendida nell'animo
Tu grande orante del tempo della fede invincibile.
Come ti illumina lo splendore del giorno
quando a lungo indugia incandescente il suo chiarore,
così voglio pregare e custodire il sacro
che tu irradi nella lotta
e voglio essere una torre nell'oscurità,
che porta la luce con cui il mondo rifiorisce.
E se in una grande tempesta
dovessi cadere,
sia il mio un sacrificio
perché ancora si elevino torri
e perché il mio popolo
diventi la fiaccola della verità.
Ma tu non cadrai, mia adorata torre.
Anche quando ti colpiranno i fulmini dell'apocalisse,
ti innalzerai in estrema preghiera
su questa terra.
R. Schneider, Alla torre del duomo di Friburgo.1
1. «Una stella caduta» -- Il fallimento
La sera del 27 novembre 1944 le squadriglie dei bombardieri anglo-americani sferrano un
violentissimo attacco contro la città di Friburgo; solo il duomo, se pure gravemente
danneggiato, resta in piedi e la sua torre, miracolosamente intatta, diviene da allora il
simbolo della resistenza e della speranza, muta e solenne sentinella della verità e del sacro
nella «grande tempesta» che travolge la Germania e l'Europa intera. Pochi giorni dopo
Martin Heidegger; sulla via che da Friburgo, la città che lo aveva visto raggiungere la
notorietà e il prestigio accademico, lo conduce a Meßkirch, il paese natale nel cuore dello
Schwarzwald, chiede accoglienza ad un suo allievo, Georg Picht, che così riferisce di questa
singolare ed inaspettata visita:
Un giorno, nel dicembre 1944, bussarono alla nostra porta quando era già buio. Fuori c'erano
Heidegger, la nuora e la sua assistente. Erano in fuga da Friburgo, bombardata e minacciata
dall'ingresso degli alleati, verso Meßkirch. Non c'erano mezzi di trasporto. Ci chiesero di poter
alloggiare da noi quella notte. Trascorremmo una serata tranquilla e distesa. Per desiderio di
Heidegger, mia moglie eseguì la sonata postuma in si bemolle-maggiore di Schubert. Quando la
musica finì, egli mi guardò e disse: «Questo noi non possiamo farlo con la filosofia».2
In quella notte angosciosa solcata da oscuri ed infausti presagi ed in cui le traiettorie
luminose dei bombardieri squarciavano il cielo come «fulmini dell'apocalisse», Heidegger
mestamente esprime, nell'ultimo svanire delle note della sonata postuma di Schubert, il
senso di un fallimento ormai sentito con lucida ed inequivocabile consapevolezza: il suo
fallimento, il fallimento del pensatore che aveva creduto, prima, di poter assumere la guida
spirituale di un movimento politico rivoluzionario suscitando, sulla scorta dei versi di
Hölderlin, il risveglio del popolo tedesco, poi, di poter circoscrivere, con la sola potenza del
pensiero, la violenza e l'aberrante deriva del nazionalsocialismo nell'ambito metafisico
della scatenata volontà di potenza -- sono questi gli anni del tormentato confronto con il
pensiero di Nietzsche -- e dell'intera tradizione filosofica occidentale. Insieme al fallimento
del pensatore risuona, poi, in quelle sibilline parole di Heidegger, anche il fallimento
dell'uomo e del credente: il congedo dal «sistema del cattolicesimo» che egli aveva
annunciato per la prima volta all'amico sacerdote Krebs nel 19193, lungi dall'essere
solamente una pregiudiziale ateistica necessaria per ogni retto filosofare, è, ormai,
divenuto una 'decisione' irrevocabile.
Ma un altro ben più grave fallimento si annuncia negli ultimi concitati accordi della sonata
schubertiana: il 'fallimento' del pensiero stesso. Al cospetto della armonia aphanes della
musica, il pensiero fa esperienza del suo intimo 'fallimento'; qui, tuttavia, fallimento non
va inteso nel senso di esito negativo, insuccesso o errore, ma, secondo l'etimologia latina,
come insolvenza, mancanza, e soprattutto come venir meno, rimanere nascosto4.
Il «pensiero dell'essere», che, se pure in una formula sommamente equivoca, può
caratterizzare l'intera meditazione heideggeriana, non sarebbe altro, allora, che il
'fallimento' del pensiero al cospetto dell'armonia invisibile dell'essere che solo la musica
riuscirebbe a percorrere ed illuminare? Il destino del pensiero, rivelatosi in un istantaneo
baleno nei frammenti dell'antichissimo inizio greco, e, poi, ripetutamente coperto e
rimosso dal trionfale incedere della filosofia e della scienza moderna, sarebbe quello di
perire, andare in rovina5, svanire, estinguersi nell'attraversamento dell'essere? Il «cuore
che non trema» dell'aletheia, confitto nell'origine sempre a-venire dell'umanità greca ed
occidentale, sarebbe, allora, la lontana ed ineluttabile condanna al tramonto e alla morte
che reclama la sua apocalittica esecuzione nei giorni ultimi della modernità?
Quella notte di dicembre del 1944, in quelli che allora sembravano gli «ultimi giorni
dell'umanità», Heidegger scrive nel libro degli ospiti della famiglia Picht queste parole: «Il
tramontare è diverso dal perire. Ogni tramonto resta al sicuro nel sorgere»6. Tramontare è
l'estrema accettazione e l'intimo superamento del fallimento; il pensiero si ritrae
nell'invisibile, sprofonda nel ventre della terra, assentandosi dal mondo. Non si tratta di
una vile ritirata, di una fuga opportunistica che rimette ogni responsabilità e sacrificio a chi
resta sul campo di battaglia dove imperversa la morte; è qui, piuttosto, in gioco una posta
ancora più alta e rischiosa: la dignità stessa dell'uomo, che nessuna arma può ferire, si
misura nella disponibilità con cui egli, ed il pensiero che in lui agisce, riescono a seguire il
caduco dispiegarsi ed il 'fallimentare' destinarsi [Schicken], fecondo di storicità
[Geschichtlichkeit], dell'essere stesso, accordandosi, così, alla sua fuga musicale.
Il destino ineludibile d'Europa, allora come ancora oggi, è il fallimento inteso come
tramonto. Nei Beiträge zur Philosophie, l'opera segreta cui Heidegger lavorò nella seconda
metà degli anni Trenta, destinandola ad una pubblicazione postuma -- opera ab origine
'fallita' --, nella sezione dedicata agli Ad-venienti [Zu-künftige], si legge: «La nostra è
l'epoca del tramonto [Unsere Stunde ist das Zeitalter des Untergangs]. Tramonto [Untergang], inteso in senso essenziale, è il passo [Gang] che conduce alla silenziosa
preparazione del veniente [des Künftigen], dell'attimo e del luogo, in cui cade [fällt] la
decisione sull'avvento o il rimanere assente degli dèi. Questo tramonto è il primissimo
inizio«7. Condurre il pensiero al proprio tramonto-fallimento significa, esaurite le
possibilità storiche della filosofia -- che per Heidegger si identifica con la metafisica --,
ritornare alla decisione-apertura [Entschlossenheit] iniziale che dischiude quel versante in
ombra e sempre a-venire dell'origine che solo da ultimo si mostra;8 cercare un altro
passaggio [Übergang] che trasformi il tramonto in trapasso verso l'altro inizio. I
tramontanti [Untergehende] possono divenire gli Ad-venienti [Zu-künftige] solo in
quanto, nell'inquieto contegno del loro interrogare, assecondano il tramonto, decidendosi
per esso.9
Per discendere nella oscurità densa di presagi del tramonto è, quindi, necessario ri-volgersi
all'origine, ri-orientarsi verso quella dimensione mattutina che, significativamente, parla
dal frammento nietzscheano sull'avvenire dell'Europa;10 è necessario attraversare la notte,
percorrere fino in fondo, fino alla rovina, il «viaggio al termine della notte» che l'intero
Novecento ha messo drammaticamente in scena, per scorgere, infine, la stella del mattino.
Il ritorno all'origine [Heimkunft], cui tende ogni esodo, è un lento e periglioso
attraversamento delle estranee profondità della notte, un cammino di svuotamento e di
rinuncia, in cui iniziano ad apparire i segni di un altro pensiero.
Tutto il pensiero di Heidegger si potrebbe interpretare come il tentativo di approssimarsi
all'origine, di raggiungere l'archi-originario attraverso un continuo oltrepassamento dei
bordi, sempre più dilatati, della metafisica, alla ricerca di un 'proprio' [Eigene] del
pensiero, della cosa del pensiero [Sache des Denkens] stesso balenata forse solo nei
frammenti dei presocratici. Ma sarebbe sbagliato pensare ad una vertigine
dell'appropriazione; essa è, al contrario, ciò che vi è di più estraneo al pensiero dell'essere e
al suo andamento [Gang], dal momento che l'origine, verso cui questo pensiero è sempre
in cammino, è costitutivamente inappropriabile in quanto radicale scissione, fenditura,
squarcio 'polemico', scaturigine di tutte le opposizioni essenziali.
Nessuna patria, in quanto fissa e rassicurante dimora, è concepibile e quindi nessuna idea
di nostos è davvero sostenibile; Ulisse non conclude mai le sue peregrinazioni ed il
«ritorno a casa» è solo ritorno nella vicinanza dell'origine. Il luogo in cui poter sentirsi a
casa [die Heimat] non è, dunque, l'origine, ma «il luogo della vicinanza al focolare e
all'origine».11 Tornare in patria significa divenire di casa [heimlich] nella vicinanza
all'origine inappropriabile ed irraggiungibile, abitare nella vicinanza dell'essere.12
2. L'Apocalisse -- Heidegger lettore di Paolo
È soprattutto nella lettura di Paolo, svolta nei corsi friburghesi sulla Fenomenologia della
vita religiosa del 1920-2113, che Heidegger, per la prima volta, incontra un esempio
concreto di questa esperienza esistenziale della 'vicinanza'. Per le prime comunità
cristiane, infatti, il compimento dell'esistenza risiedeva nell'abitare la vicinanza della fine
dei tempi, nell'attesa del supremo 'fallimento', il 'fallimento' del mondo e del tempo: ego
vici mundum (Gv 16, 33), «il tempo [kairós] è vicino» (Ap 22, 10). Il tempo, di cui si
attende la fine, è il tempo del mondo, il tempo della creazione che già declina verso il
tramonto e che sta per 'compiersi'; il tempo che si avvicina, il tempo la cui imminenza ed
incombenza segna le esistenze sospese dei primi cristiani è, invece, il tempo senza tempo
del Regno che sarà inaugurato dal definitivo ritorno del messia ed in cui si adempiranno
tutte le promesse escatologiche. Nel 'fallimento' del tempo creaturale si avvicina il tempo
apocalittico e si annuncia la parusia; nel tragico naufragio del mondo si illumina il Regno.
In modo analogo, per il pensiero dell'essere, che proprio a partire dal tema della 'vicinanza'
sarà rivolto a tracciare una «topologia dell'essere», il 'fallimento' dell'essere, e dell'intera
Seinsgeschichte, sempre più chiaramente identificata con la storia della metafisica, si
dispiega come Ereignis-Enteignis, come evento appropriante-disporpirante, come
rivelazione e 'fallimento'. Il compito che viene ora assegnato al pensiero è, dunque, quello
di confrontarsi con il tramonto e con il 'fallimento' intesi come destinazione ontologica e
destino storico del nostro tempo.
È proprio il disconoscimento radicale di questo 'fallimento' che costituisce il supremo
pericolo, quello cioè, per cui l'uomo smarrisce la sua propria essenza di 'attendente' [der
Wartende] dell'essere14, di vigile custode della sua trasparente radura [Lichtung]. Questa
vigilante attesa è la medesima di quella cui Paolo invita la comunità dei Tessalonicesi e su
cui Heidegger a lungo si sofferma nel suo corso del 1920/2115: «Quanto ai tempi e ai
momenti, non avete bisogno, fratelli, che qualcuno ve ne scriva. Sapete voi stessi
esattamente che il giorno del Signore viene come un ladro nella notte. [...] Non
apparteniamo alla notte e alla tenebra: dunque non dormiamo come gli altri, ma
rimaniamo svegli e sobri» (1 Ts 5, 1-7).16
L'esortazione di Paolo alla vigilanza e all'attesa è, senz'altro, il monito decisivo di tutta la
sua predicazione; scrivendo ai Tessalonicesi egli si compiace di constatare che l'attesa del
ritorno di Gesù occupa l'intero orizzonte esistenziale della comunità: essi vivono servendo
Dio «nell'attesa di suo figlio che verrà dai cieli, che egli ha resuscitato dai morti, Gesù, il
quale ci libera dall'ira che viene» (1 Ts 1, 10). All'epoca in cui Paolo scrive ai fedeli di
Tessalonica, i destinatari delle sue lettere ed egli stesso vivono l'imminenza dell'evento
escatologico, della fine dei tempi, a tal punto da non dubitare che si troveranno ancora in
vita al momento della parusia del Signore (1 Ts 4, 15-17).17 La vita cristiana è posta
essenzialmente sotto il segno dell'attesa e della trepidazione per l'incombente manifestarsi
dei segni della fine, tanto che Paolo fa derivare anche gli impegni morali e spirituali delle
prime comunità da questa estrema tensione escatologica. Se, infatti, nella prospettiva
evangelica il ritorno di Gesù è vissuto come il compiersi definitivo delle promesse di pace e
felicità, non viene mai meno l'aspetto catastrofico che precede ed accompagna il
manifestarsi della parusia del Signore.
L'approssimarsi dell'éschaton è, infatti, preceduto da eventi luttuosi e da immani
catastrofi, cui l'uomo è sottoposto come a prove estreme: la confusione, il dolore, lo
smarrimento, la morte nel linguaggio biblico sembrano raffigurare quel destino di declino
della nostra civiltà, in cui, non a caso, sempre più insistenti risuonano i proclami
apocalittici: «Il giorno del Signore si avvicina [...] Tutte le mani cascano / Tutti i cuori si
liquefanno // Terrori e crampi li strizzano / Dolori di parto li storcono // Ha ciascuno
paura del vicino / L'incendio è sui loro visi / Ecco tremendo viene il giorno del Signore! //
Collera immensa furibonda ira» (Is 13, 6-9). La creazione geme nei tormenti del suo
'fallimento', della sua 'dissoluzione' fisica e morale, ma questi terribili dolori sono, allo
stesso tempo, le doglie dell'avvenire, della nuova creazione: il popolo di Dio che, avrà
resistito alle piaghe dell'apocalisse, sarà sorpreso da «dolori di partoriente».
Le doglie del Messia, che culminano con la comparsa dell'Anticristo, occupano un posto
centrale in tutta la tradizione apocalittica18 sia giudaica che cristiana: in esse si consuma il
tempo che precede la visione apocalittica, il disvelamento delle verità ultime e del Regno di
Dio in cui i giusti saranno accolti. Durante questo tempo intermedio, che già precipita
verso il compimento escatologico, si manifestano dei segni che ritroviamo puntualmente in
tutti i racconti apocalittici: il verificarsi di spaventosi prodigi che rimandano ad un radicale
sovvertimento della creazione e dei popoli, la diffusione del dolore e della paura,
l'apostasia e il trionfo dell'ingiustizia.
È questo il tempo della massima frammentazione, del ritorno di potenze ed energie
primordiali che disgregano la creazione: il caos primigenio fa di nuovo irruzione, il tempo
si esaurisce, la sua fine è morte della stessa creazione, sua intima consumazione come
compimento di un immanente processo di senescenza.
Ma prima che questo processo di dissoluzione si compia e la storia, sottoposta all'urto del
tempo della fine, si spezzi, dovranno manifestarsi due fenomeni: l'apostasia e la comparsa
del grande avversario di ogni dio. Già nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo
introduce questo «fattore di ritardo» della venuta del giorno del Signore, e per scongiurare
il pericolo di un vano agitarsi nella spasmodica attesa della fine o di un lassismo attendista
dalle disastrose conseguenze morali e sociali, egli rassicura i credenti, forse eccessivamente
turbati dall'imminenza ed imprevedibilità dell'avvento del Regno proclamate nella Prima
Lettera, affermando che «prima dovranno avvenire l'apostasia e manifestarsi l'uomo del
peccato, il figlio della perdizione, l'avversario che s'innalza sopra tutto ciò che porta il
nome di Dio o riceve culto, tanto da sedersi nel tempio di Dio, mostrandosi come se fosse
Dio» (II Tes 2, 3-4).
Se si deve vivere attendendo il ritorno imminente del Signore, che senso ha compiere gesti
che si situano in una prospettiva a lunga scadenza, come ad esempio, arare e seminare
nell'attesa di un raccolto che verrà solo tra diversi mesi, o piantare l'albero che darà frutti
per la generazione successiva? Come «lavorare tranquilli» (2 Ts 3, 12) e organizzare
un'operante comunità quando la fine del tempo si approssima? Per far fronte alla paralisi
che minaccia la vita delle comunità cristiane, Paolo è, dunque, costretto ad introdurre un
«tempo intermedio», relativamente stabile e definito, se pure breve.19 Questo tempo è
caratterizzato dal dominio di potenze avverse al compiersi della promessa messianica, dal
tradimento della fede, dall'empietà e dall'ingiustizia: i segni e i «prodigi menzogneri» di
questo tempo creano, con ogni specie di seduzione, la più grande confusione in cui le
potenze anticristiche delle tenebre cercano di usurpare il nome e la potenza di Dio.
Il mysterium iniquitatis, con la sua terribile e spettrale forza di attrazione e di
anestetizzazione dell'attesa, trattiene la rivelazione del giorno del Signore, «affinché non
avvenga che a suo tempo [kairó]» (2 Ts 2, 6).20 Il manifestarsi del mistero dell'iniquità
costituisce la storia, ormai bimillenaria, del tempo intermedio che è, nel frattempo,
divenuto il tempo storico: in esso si compie il venir meno, il 'fallimento' del messia e della
speranza del suo ritorno.21 Ma il suo fallimento storico, che culmina con la 'parusia'
dell'Anticristo, è l'unica possibile forma in cui la promessa messianica si può manifestare
in questo mondo; essa si dispiega proprio attraverso l'usura del tempo, i tormenti e gli
abbandoni, la fragilità e la precarietà di un mondo avvolto dalla notte dell'assenza di Dio.
Essa prende corpo nella bufera che soffia dal paradiso e si impiglia nelle ali dell'angelo
benjaminiano il quale, rivolgendo lo sguardo alla storia, ne vede l'inesorabile 'fallimento':
«Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli
vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie e le scaraventa ai suoi
piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi».22
Vorrebbe l'angelo di Klee, che ispira la IX tesi di Benjamin, redimere la storia, conciliare il
tempo e compiere la promessa, ma il suo sguardo è stanco, le sue ali non hanno la forza di
opporsi alla bufera paradisiaca che lo travolge e lo sospinge verso il futuro con la potenza
irresistibile del progresso; vorrebbe, l'angelo, ripiegarsi su ciò che è perduto, su ciò che è
andato in rovina ed è in frantumi, e poter confortare il «pianto e lo stridore di denti» (Mt
24, 51), ma egli non è il Messia e tutta la sua forza, la sua debole forza, consiste nel
raccogliere nel suo sguardo 'apocalittico' il cumulo di macerie che cresce sempre di più
verso il cielo.
Come l'angelo della storia, anche noi spiriamo nella bufera del progresso, travolti dal corso
inarrestabile degli eventi, incapaci di abbandonarci all'attesa del Regno che sempre più
svanisce nell'orizzonte cronolatrico del tempo intermedio, divenuto ormai l'unico tempo.
Per la cristianità primitiva la storia scandita dal trascorrere di chronos è, invece, storia di
decadenza, peccato, espiazione e redenzione che ha un inizio in Adamo, un suo culmine
decisivo nella morte e resurrezione di Cristo e un suo epilogo necessario nell'avvento del
Regno di Dio: l'orizzonte storico è essenzialmente uno scenario apocalittico-escatologico,
in cui già nel principio si annuncia la fine: «come per un uomo esiste la morte, così per un
Uomo esiste la resurrezione dei morti; e come in Adamo tutti muoiono, così anche nel
Cristo tutti saranno vivificati» (1 Cor 15, 21-23).23 Cristo, dunque, non è solo l'annuncio
della salvezza, ma è già egli stesso la salvezza: il tempo in cui egli ha vissuto in questo
mondo è il tempo della decisione ultima, decisione sulla sua persona che determina il
futuro del singolo. Chi ha condiviso con Lui il tempo, chi ha camminato al suo fianco è già
entrato a far parte del «paesaggio dell'evento». Il compimento della promessa messianica
che si incarna in Gesù è da lui stesso predicato come imminente. La delusione di questa
attesa costituisce il primo di una lunga serie di rinvii della parusia24 del messia; Gesù si
convince, allora, che la sua morte e resurrezione siano eventi necessari per il compiersi
della promessa, stadi di un drammatico processo messianico in cui l'intera creazione si
dissolverà per fare spazio all'avvento del Regno.
La comunità delle origini che, dopo questi eventi, si raccoglie intorno alla famiglia di Gesù,
attende nell'incessante preghiera l'irrompere del Regno25, ma più aumenta l'attesa e più la
sua situazione diviene disperata. A questa disperazione Paolo reagisce non solo attraverso
l'introduzione di una sospensione del tempo messianico -- il tempo intermedio -- ma anche
con l'affermazione, decisiva per tutto il cristianesimo, che, nonostante il perdurante ritardo
della parusia, il nuovo eone è già cominciato. Ciò è possibile solo grazie ad una
spiritualizzazione della promessa messianica, ovvero ad una interiorizzazione del Regno.
La crisi dell'escatologia determinata dal ritardo della parusia, diventa per Paolo una «crisi
di coscienza». Questo gesto, decisivo non solo per il futuro del cristianesimo ma per l'intera
tradizione occidentale, è stato, invece, trascurato dall'interpretazione di Heidegger che,
forse, avrebbe potuto, alla luce della sua successiva decostruzione del pensiero metafisico,
leggere Paolo come un precursore di Cartesio e della modernità, la quale, almeno fino a
Nietzsche, della coscienza ha fatto la chiave di volta del rapporto tra l'uomo e l'essere.
Come acutamente nota Jacob Taubes, «volgendo l'esperienza messianica all'interno, Paolo
apre la porta alla coscienza introspettiva dell'Occidente».26
Tale gesto consente a Paolo di fondare l'esistenza cairologica27 dei primi cristiani
nell'essere attuale in Cristo; ciò comporta una indifferenza ed estraneità tipicamente
gnostica nei confronti del mondo: in questo catacombale ritiro ascetico le comunità
cristiane resistono nei secoli delle persecuzioni; ma l'angoscia e il dubbio crescono
nell'intimo di una coscienza gravata da un carico insopportabile, si diffondono gli
«schernitori beffardi» che urlano ciò che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di
confessarsi: «Dov'è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero
gli occhi tutto rimane come al principio della creazione» (2 Pt 3, 4). Ci si avvia allora
gradualmente verso quel dissolvimento dell'escatologia nella costituenda teologia che
segnerà l'intera tradizione cristiana successiva, consacrando, sotto il potente influsso della
sensibilità gnostica28, la centralità dell'aspetto psicologico della redenzione. È attraverso la
gnosi, prima, e il neoplatonismo, poi, che si compie quella ellenizzazione del cristianesimo
-- su cui Heidegger punta il dito già nel suo corso su Agostino29 -- responsabile
dell'occultamento delle originarie determinazioni esistenziali che erano alla base
dell'esperienza di vita delle comunità cristiane cui Paolo si rivolgeva, unico modello in
Occidente di una effettiva realizzazione della temporalità cairologica.
Con lo svanimento dell'attesa del Regno che è insieme celeste e terrestre30, che è pianto
ricoperto di consolazione, lacrima avvolta nella carezza, diviene lacerante la separazione
tra l'anima del singolo, tutta dedita alla preghiera e agli esercizi ascetici di redenzione dal
peccato e dal mondo delle tenebre in cui è imprigionata, e il trascorrere della vita nella
caducità e mutevolezza di una creazione in cui, sempre più invisibili si celano i semi del
Regno a-venire; nell'originario annuncio cristiano, invece, il mondo vinto non era altro che
il mondo reso trasparente dalla luce del messia; non, dunque, un altro mondo, ma questo
stesso mondo, se pure trasfigurato, incrinato, spezzato, sconvolto dal rivolgimento
escatologico.
3. «Come un ladro nella notte» -- La veglia
Nel suo studio su San Paolo, Alain Badiou definisce Paolo un «pensatore-poeta
dell'evento».31 È proprio a partire dalla vigile attesa dell'accordo armonico dell'evento
dell'essere che va interpretata la lettura heideggeriana della tematica apocalittico-
escatologica in Paolo, così decisiva per l'intero suo cammino di pensiero. Se, infatti,
l'interpretazione heideggeriana del cristianesimo delle origini è apparsa ai primi
commentatori32 come una strumentale appropriazione di un particolare fenomeno
esistenziale funzionale al progetto dell'«ontologia fondamentale» poi sviluppato in Essere
e tempo, con il rischio, dunque, di un processo di svuotamento e di formalizzazione dei
tratti peculiari dell'attesa messianica, ad una analisi più attenta, aperta agli sviluppi
ulteriori del pensiero di Heidegger e, soprattutto, consapevole della successiva
elaborazione dell'Ereignisdenken (dai Beiträge fino a Tempo ed essere), i rapporti di
Heidegger con il cristianesimo paolino e, tramite esso, con la tradizione apocalitticognostica e con l'ebraismo, risultano assai più complessi e degni di indagine.
L'esigenza che spinge Heidegger ad interrogare l'esperienza di vita delle prime comunità
cristiane, non è propriamente religiosa. Egli ricerca un fenomeno esistenziale che porti alla
luce quella effettività della vita attraverso cui realizzare una nuova determinazione della
fenomenologia e della filosofia in generale: l'esperienza della fede deve diventare decisiva
nell'abbandono da parte del pensiero dello sguardo oggettivante sul mondo e nel suo
rivolgersi alle determinazioni storico-temporali dell'esistenza.
Tutto il cammino di pensiero di Heidegger è segnato da questa lettura di Paolo, quasi
'impressionato' dalla caratterizzazione dell'esistenza cristiana come preoccupazione e cura
[Bekümmerung], urgenza della chiamata [Berufung], vigilanza e attesa, a tal punto che è
possibile rintracciare i segni della temporalità cairologica in tutta la successiva
elaborazione della questione della temporalità come orizzonte generale di manifestazione
dell'essere intorno a cui il suo pensiero si aggira come uno spettro inquieto dal periodo di
Essere e tempo fino agli ultimissimi anni. La parusia, in quanto traccia originaria del
destino di «presentificazione» dell'essere, diviene lo spettro della sua meditazione, cui
l'estremo ed arduo sentiero dell'Ereignis cercherà infine di corrispondere.
Nelle pagine conclusive di Totalità e infinito Emmanuel Lévinas si sofferma sulla
questione del tempo, dandone una interpretazione messianica che si richiama chiaramente
alla religiosità paolina, e che, nonostante l'ennesima polemica sferrata contro la filosofia
della finitezza di Heidegger, coglie -- solo casualmente? -- il senso 'infinito' della
concezione della temporalità cairologica sviluppata da Heidegger a partire dal confronto
con Paolo. Dopo aver criticato il tempo matematico e la durata continua di Bergson,
Lévinas individua il tratto peculiare del tempo nel suo essere incessante rottura della
continuità e dell'immanenza dell'essere:
L'essenza del tempo consiste nell'essere un dramma, una molteplicità di atti in cui l'atto successivo
risolve il primo. L'essere non si produce più in un solo istante, irremissibilmente presente. La realtà
è quella che è, ma sarà ancora una volta, un'altra volta liberamente ripresa e perdonata. [...] La
risurrezione costituisce l'evento principale del tempo. Non c'è quindi continuità nell'essere. Il
tempo è discontinuo. Un istante non esce dall'altro senza interruzione, con un'estasi. L'istante nella
sua continuazione trova una morte e risuscita. Morte e risurrezione costituiscono il tempo.33
L'esperienza della cristianità delle origini è per Heidegger la grande immagine storica della
discontinuità del tempo, il primo atto di radicale sovversione 'esistenziale' della
temporalità così come essa si era costituita all'interno della metafisica platonicoaristotelica poi dominante in tutta la storia dell'Occidente. Il kairós paolino è l'in-cisione
dell'eternità nel tempo cronologico, è lo squarcio, l'intima ferita e la sanguinante
lacerazione dell'essere: l'istante34 è morte e rinascita del tempo, esposizione dolorosa del
suo vulnus, ostensione dello scandalo della morte e del dono supremo del perdono, ovvero
della resurrezione. Vivere intimamente questa temporalità significa, come nelle prime
comunità cristiane, de-cidersi per il più radicale «abbandono del tempo», abbandono al
suo costitutivo 'fallimento' così come al suo dono estremo. Ma ciò necessita una peculiare
determinazione dell'esistenza che, sospendendola nell'incertezza dell'abbandono, nel
«tempo morto» dell'interruzione d'essere, dispieghi la sua essenziale apertura all'evento in
quanto avvento della promessa; tale decisiva determinazione è la «vigilanza estrema»: «Il
compimento del tempo non è la morte, ma il tempo messianico nel quale il perpetuo si
muta in eterno. Il trionfo messianico è il trionfo puro. [...] Questa eternità è una nuova
struttura del tempo od una vigilanza estrema della coscienza messianica?».35
L'intima struttura del tempo appare essere di tipo messianico solo nell'atteggiamento
esistenziale dell'estrema vigilanza, quella stessa vigilanza a cui Paolo richiama
incessantemente i fedeli: «Non apparteniamo alla notte e alla tenebra: dunque non
dormiamo come gli altri, ma rimaniamo svegli e sobri!».36 Anche noi, come i primi
cristiani, siamo consegnati, oggi più che mai, all'ingiunzione dell'estrema vigilanza: il
nostro tempo febbrile, in cui tutto è tenebra rischiarata dalla fredda luce dell'Aufklärung, è
il tempo della veglia. Grande è il rischio, allora, di cedere alla tentazione del sonno, di
adagiarci nel torpore delle tenebre che sempre di più si addensano. In quanto occidentali,
noi siamo, infatti, gli abitatori della terra della sera [Abendland]; ma siamo anche coloro
che nella notte, nella «sovrabbondanza, [...] non ancora decisa, del giorno che essa tiene in
serbo»37, devono restare svegli e vegliare nell'attesa della stella del mattino; coloro che
nella notte e per oscuri sentieri, sopra ponti vacillanti, preparano e ad-tendono al lampo
del passaggio del dio:
La notte è il tempo che serba il divino trascorso e cela gli dèi che vengono. Giacché la notte, in tale
annottare che serba e nasconde non è «niente», essa possiede anche la sua propria, ampia
chiarezza e la quiete della tacita preparazione di un qualcosa che viene. Di ciò fa parte un vegliare
peculiare, che non essendo insonnia, non dipende dal sonno, ma veglia sulla notte e la protegge. La
lunghezza di questa notte può certo spossare a volte la capacità dell'uomo, spingendo così a
desiderare di sprofondare nel sonno. Ma la notte, come madre del giorno che porta il sacro, è notte
sacra.38
Il restare «svegli e sobri» non è, quindi, semplicemente un essere 'insonni', ma un vegliare
sulla notte, proteggendo il suo luminoso segreto e custodendo in essa la silenziosa
maturazione [Zeitigung] dell'essere e la venuta imprevedibile del dio.
L'incessante veglia, che caratterizza l'uomo dell'epoca finale della modernità, in quanto
insonne «funzionario della tecnic»39, è, alla fine della modernità, l'estremo sovvertimento
della veglia dei primi cristiani, la quale era, allo stesso tempo, veglia funebre per la morte
di Cristo e veglia di speranza e di attesa per il suo imminente ritorno. L'interesse di
Heidegger si concentra proprio su questo riflesso escatologico che egli cerca di
scandagliare, allo stesso modo in cui nei decenni successivi cercherà di ritrovare un
possibile varco al di là dell'ultimo declinare della modernità nel primissimo inizio del
pensiero greco. In questo senso il fenomeno esistenziale delle prime comunità cristiane,
collocandosi in una zona d'ombra della metafisica, costituisce un presagio dell'aurora di un
altro pensiero.
L'aspetto che, della religiosità del protocristianesimo, più sollecita l'interesse di Heidegger
-- la cui interpretazione, a dispetto del titolo del corso, non può essere inclusa nella
tradizione degli studi di fenomenologia della religione -- è quello della totale coincidenza
del fenomeno religioso con la temporalità messianica e la vigilanza estrema. Egli, infatti,
così enuncia preventivamente le due determinazioni fondamentali della religiosità del
protocristianesimo: «1. La religiosità protocristiana si dà nell'esperienza protocristiana
della vita ed è essa stessa un'esperienza siffatta. 2. L'esperienza effettiva della vita è storica
[historisch]. La religiosità cristiana vive la temporalità in quanto tale».40
Il fenomeno centrale che, agli occhi di Heidegger, consente l'esplicazione di questi due
tratti fondamentali della religiosità e dell'esperienza di vita dei primi cristiani è
l'annunciazione [die Verkündigung], attraverso cui è anche possibile cogliere i rapporti
vitali che Paolo intrattiene con le sue comunità. In particolare Heidegger si sofferma sulla
modalità dell'annunzio, sul modo in cui esso viene pronunciato, potremmo quasi dire, sulla
sua peculiare 'sonorità'; ma ciò non vuol dire che egli trascuri il contenuto
dell'annunciazione per concentrarsi solo sulla sua forma o sul suo senso trascendentale,
dal momento che qui si tratta di un'annunciazione di per se stessa 'pura', anche se ciò non
va inteso in senso kantiano. L'annuncio della parusia non è altro che la manifestazione di
un angoscioso presagio che precipita l'uomo in una situazione di necessità [Not] e di
assoluta estraniazione dal mondo, sospendendolo sull'abisso del nulla e del possibile.
L'annuncio di Paolo, la buona novella di Gesù, non sono forse altro che promesse
indeterminate di un'apertura, di un avvenire. Nell'accoglienza che ognuno concede a tale
annuncio e nella trasformazione che da essa scaturisce nella propria esistenza, Heidegger
vede il carattere fondamentale dell'esperienza di vita del protocristianesimo. In ciò
consiste la decisiva attuazione della vita [Vollzug des Lebens].41 Il significato fondamentale
risiede, per Heidegger, nel come di tale attuazione che indirizza la ricerca fenomenologia
verso quella originarietà dello storico nella sua assoluta unicità e irripetibilità.42 Perché sia
possibile cogliere l'essenziale storicità dell'esistenza è necessario attuare una radicale
trasformazione in senso fenomenologico della concettualità filosofica che sarebbe, invece,
rimasta sostanzialmente immodificata fin dai tempi di Socrate.43 È attraverso lo sguardo
fenomenologico che la «situazione»44, cui si rivolge l'indagine, perde la sua
determinazione storico-oggettiva [objektgeschichtlich] per assumere quella storicoattuativa [vollzugsgeschichtlich], avvicinandosi così al terreno dell'esperienza concreta
della vita effettiva.
Mediante l'applicazione del metodo fenomenologico alla storicità dell'esperienza della vita,
Heidegger crede di poter combattere le tendenze teoreticiste della filosofia del suo tempo,
soprattutto del neokantismo45, e le tentazioni idealistiche che andavano affiorando nello
sviluppo del pensiero del suo stesso maestro Husserl. Il suo scopo è quello di riportare la
filosofia alle fonti primarie dell'esistenza, dal momento che essa non è altro che «ritorno
allo storico-originario [Rückgang ins Urspünglich-Historisch ist die Philosophie]».46
La comprensione della storicità originaria dell'esistenza non è, però, qualcosa di ulteriore e
di estrinseco rispetto alla concreta esperienza di vita, ma è radicata in essa come sua
costitutiva determinazione esistenziale. Anche questo Heidegger lo esperisce tramite
l'analisi di quel particolare tipo di sapere che caratterizza -- come testimoniano le parole di
Paolo -- la comunità dei Tessalonicesi. Secondo Heidegger, infatti, Paolo, nel suo
rapportarsi ai fedeli, fa esperienza della loro mutata condizione esistenziale [das
Gewordensein] e, contemporaneamente, della loro consapevolezza circa tale mutazione.47
Questo particolare tipo di sapere, che scaturisce dalla «situazione» dell'esperienza
cristiana di vita, determina il senso della effettività, su cui Heidegger sarebbe tornato nel
semestre estivo del 1923 dedicato all'eremeneutica dell'effettività. Così Heidegger esprime
l'intima connessione tra l'esperienza esistenziale dell'annuncio e l'attuale condizione di vita
dei primi cristiani: «L'essere divenuti [das Gewordensein] non è un avvenimento qualsiasi
nella vita, bensì è costantemente coesperito, in modo che il loro essere attuale è il loro
essere divenuti. Il loro essere divenuti è il loro essere attuale».48 Il Gewordensein viene,
quindi, identificato con l'accettazione dell'annuncio che avviene nella «più grande
afflizione», ma tale accettazione consiste per i cristiani anche nel ricevere, come dono
insperato, la gioia dello Spirito Santo (1 Ts 1, 6).
L'accogliere l'annuncio comporta, dunque, nient'altro che un radicale rivolgimento
[Umwendung] del modo di comportarsi nella vita effettiva e Paolo attribuisce ciò alla
nuova posizione che i credenti assumono al cospetto di Dio. Questo rivolgimento che si
può realizzare, pertanto, solo dentro l'orizzonte di senso dell'attuazione [Vollzugsinn]
dell'esistenza, si esplica in due direzioni: «duleuein e anamenein, un mutare dinanzi a Dio
e un'attesa [erharren]»49 ansiosa dell'avvento del suo Regno.
Accogliere l'annuncio consiste, infine, nell'accedere ad una condizione di emergenza,
necessità e bisogno della vita [Not des Lebens] che sopraggiunge immancabilmente non
appena si è prestato ascolto alla chiamata. La mutazione che, allora, colpisce coloro che
sono stati chiamati è un rivolgimento, una svolta nella necessità [Wende in die Not] che si
compie con assoluta necessarietà [Not-wendigkeit].50 Il divenire sensibili all'appello della
chiamata, il prestare ascolto alle parole dell'annuncio, non dischiude immediatamente un
orizzonte di pace e sicurezza, ma, al contrario, precipita in uno stato di angustia ed
apprensione [Bedrängnis] in cui l'attesa della parusia diviene assillo ed angoscia. Questa
angustia, in quanto preoccupazione ed inquietudine [Bekümmerung], è una caratteristica
fondamentale del protocristianesimo che ha continuato a stimolare la meditazione di
Heidegger, fecondandola di un vero e proprio pathos dell'emergenza.
Il tema della Not ritorna in vari luoghi delle opere di Heidegger, soprattutto nei Beiträge e
nei corsi degli anni Trenta e Quaranta, ma raggiunge la sua più radicale formulazione in
uno scritto della metà degli anni Quaranta51, nel momento, cioè, in cui l'emergenza e
l'apprensione si manifestavano come un irrevocabile destino planetario e Heidegger stesso
scivolava nell'abisso del 'fallimento'. In queste pagine Heidegger parla di necessità
dell'essere [Not des Seins] stesso, come della sua più intima essenza, misconosciuta ed
occultata nell'epoca in cui il nichilismo dispiega la sua massima potenza e assume il
predominio sulla totalità degli enti. La necessità e l'urgenza [Dringlichkeit] dell'essere non
sono altro che il suo incessante aver bisogno di asilo, di custodia e di salvaguardia
nell'apertura del Dasein; ma, nell'epoca della «notte del mondo», questo bisogno viene
sistematicamente disatteso dall'uomo, disperso e distratto dai suoi trionfi tecnicoumanistici; così l'estrema necessità [Not] dell'essere si manifesta paradossalmente proprio
come assenza di necessità, come apparente calma e sicurezza:
L'assenza di necessità, come la velata necessità estrema dell'essere, domina tuttavia proprio
nell'epoca dell'oscuramento dell'ente e dello scompiglio, della violenza dell'umano e della sua
disperazione, dello sconvolgimento del volere e della sua impotenza. Sconfinate sofferenze e
smisurato dolore annunciano, apertamente e tacitamente, che lo stato del mondo è ovunque lo
stato colmo di necessità. Nondimeno, nel fondamento della sua storia esso è privo di necessità. Ma
questa è, secondo la storia dell'essere, la sua necessità somma e al tempo stesso più occulta. È
infatti la necessità dell'essere stesso.52
Nell'epoca dell'erramento del mondo, in cui l'uomo rischia di smarrire la sua stessa
essenza, anche la necessità, intesa come costrizione e impellenza, come imperiosa
incombenza dell'appello, scompare dall'orizzonte del pensiero; eppure, proprio
dall'apparente mancanza di necessità si leva l'appello estremo che, come un'inquietante
richiamo, accenna nella direzione dell'evento dell'essere, ovvero dell'essere come evento.
Ma corrispondere all'estrema necessità dell'assenza di necessità [Not der Notlosigkeit]
significa innanzi tutto riuscire ad esperire l'assenza di necessità come la necessità stessa
che essa è essenzialmente, cioè scorgere il pericolo supremo dell'abbandono dell'essere e
avere la forza di andare incontro ad esso. Il pensiero che scorge l'assenza di necessità come
la suprema emergenza, è quel pensiero capace di pensare andando incontro all'essenza del
nichilismo, ovvero all'«avvento del sottrarsi dell'essere in riferimento all'occupazione del
suo asilo, cioè dell'essenza dell'uomo storico»; ciò significa «lasciarsi coinvolgere
nell'estrema messa in pericolo dell'uomo, cioè nel pericolo dell'annientamento della sua
essenza».53
Il mutamento di cui i Tessalonicesi sono consapevoli e di cui Paolo si rallegra (1 Ts 2; 3)
indica l'essere divenuti sensibili a tale angosciosa emergenza che si esprime
nell'apprensione per il ritardo del ritorno del Signore. Questa apprensione [Bedrängnis],
in cui risiede l'essenziale della cristianità al di là di qualunque principio teologico, e che
può apparire come insicurezza, smarrimento e debolezza, è, invece, la sua vera potenza
rivoluzionaria, poiché in essa si concentrano i germi della rivolta (heideggerianamente
della «svolta») escatologica del mondo; attraverso di essa il debole sguardo dell'angelo
cade come folgore sulla «notte del mondo» della moderna Endzeit ed ogni ente viene
rinnovato, ricreato e trasfigurato [verklärt]. Il compimento della potenza si dispiega nella
«debolezza» dello sguardo estatico della fremente attesa, in grado di sostenere tutte le
catastrofi della storia e la storia stessa in quanto catastrofe e 'fallimento'.
A Paolo, che invoca il Signore perché lo liberi dall'insopportabile tormento della «spina
nella carne», ovvero dalle resistenze del mondo, questi replica: «Ti basti la mia grazia,
poiché la potenza ha compimento nella debolezza» (2 Cor 12, 9). E Paolo aggiunge: «Per
questo mi compiaccio delle mie debolezze, delle prepotenze, delle costrizioni, delle
persecuzioni e delle angustie per Cristo, poiché quando sono debole, allora sono potente»
(2 Cor 12, 10) .54
Ma «fino a quando» durerà tale angustia?55 Quanto lunga sarà la costrizione, l'angoscia e
l'im-potenza che gli ad-tendenti sperimentano nel mondo? Fino a quando la morte agiterà
la sua falce sul campo delle nostre esistenze? Quanto ancora crescerà il deserto della terra
violentata e devastata? Quando cadrà Babilonia e l'orrore del mondo? Fino a quando
echeggerà ancora l'urlo nel silenzio? «Guardia! Che cosa porta la notte? / Guardia! Che
cosa porta la notte?». E ancora la stessa risposta di sempre: «La guardia dice: / Il mattino
che sta venendo / È altra notte» (Is 21, 11-12).
La resurrezione di Cristo, così come ogni gesto di tenerezza che ci sottrae all'angustia e
all'apprensione del mondo56, è, per i credenti, solo una «primizia» del Regno; ma quando
arriverà il raccolto, quando verrà il compimento [Vollendung] del tempo? Quando si
attuerà la parusia?
A questa domanda Paolo non risponde attraverso un calcolo cronologico del tempo che
ancora manca all'avvento del giorno del Signore, piuttosto egli si limita ad ammaestrare sul
modo in cui va vissuta l'attesa e sostenuta l'angustia del tempo della fine (1 Ts 5, 1-12):
«Decisivo è il modo in cui mi rapporto a ciò nella vita autentica [eigentlichen]. Ne risulta il
senso del «quando», il tempo e l'attimo».57 La domanda sul «quando» della parusia non è
una questione conoscitiva; essa, piuttosto, rimanda a quel particolare sapere
dell'autocomprensione esistenziale che i Tessalonicesi posseggono in quanto Gewordene,
ossia in quanto colpiti e trasfigurati dall'annuncio, per cui ciò che è decisivo in tale
domanda dipende dalla vita nella sua irriducibile effettività:
Mediante la semplice analisi della coscienza di un evento futuro non giungeremo mai al senso del
riferimento della parusia. La struttura della speranza cristiana, che in verità è il senso del
riferimento nei confronti della parusia, è radicalmente diversa da ogni attesa [Erwartung]. [...]
Nella misura in cui è concepito nel senso di un tempo «obiettivo» conforme all'atteggiamento, il
«quando» è già pensato in modo non originario» e, in effetti, «Paolo non dice «quando», perché
tale espressione è inadeguata a ciò che va espresso, è insufficiente.58
Il «quando» della parusia viene riassorbito nel «come» della vita effettiva; esso rimanda
sempre ad una decisione sul proprio esserci che può esplicarsi secondo due modalità
corrispondenti a due forme dell'attuazione della vita, una autentica e l'altra inautentica.
Scrive Heidegger, commentando il celebre quinto paragrafo della Prima Lettera ai
Tessalonicesi:
Coloro che in questo mondo trovano quiete e sicurezza sono coloro che si attaccano al mondo,
poiché esso offre loro pace e sicurezza. [...] Il loro attendere si assorbe in ciò che la vita arreca loro.
E poiché vivono in questa attesa, la rovina li colpisce in modo che non possono sfuggirle. Non
possono salvare se stessi perché non hanno se stessi, perché hanno dimenticato il proprio sé;
perché non hanno se stessi nella chiarezza del sapere autentico.59
Coloro che invece posseggono la luce del sapere su loro stessi (1 Ts 5, 5) non si dis-perdono
nella «cattiva infinità» dell'attesa proiettandosi in un futuro dimentico della cogenza e
decisività del Vollzug. Essi, piuttosto, riconducono la parusia all'attuazione della vita
stessa, alla de-cisione in cui si articola la connessione tra passato e futuro, tra annuncio e
promessa; così facendo sperimentano una temporalità affatto particolare, del tutto
estranea a qualunque concetto oggettivo di tempo. I primi cristiani, nella loro religiosità,
che, peraltro, coincide con la loro esperienza di vita, vivono una temporalità escatologica;
vivere tale temporalità significa rinunciare a qualunque sicurezza e accettare la più
assoluta precarietà ed irrisolvibile problematicità. Coloro, infatti, che vivono nella pace e
nella sicurezza, si impegnano in compiti chiari e precisi affidandosi a ciò che la vita loro
concede; così facendo, essi consumano i frutti del presente che il loro fecondo progresso
laboriosamente produce, senza riuscire, però, a riconoscere il gusto della «primizia» della
parusia, il profumo della promessa. Essi restano nell'oscurità, sordi all'appello della
chiamata, e con passo automatico misurano i sentieri, grevi d'ansia, della «notte del
mondo».
Al loro vuoto entusiasmo si contrappone il passo lento dei vegliardi della Terra, i «figli
della luce e del giorno» (1 Ts 5, 5), coloro che, nell'estrema lucidità del tramonto del
mondo, nel fallimento di ogni vana attesa di redenzione che si consuma nella follia del
progresso e nell'inquietudine della volontà di potenza, restano sobri e vegliano sulla
promessa dell'Ultimo che si annuncia nell'apparire dell'Estremo.
Alla disperata angoscia che coglie chi affannosamente ricerca la quiete e la sicurezza del
presente, all'ammiccante smorfia dell'ultimo uomo avido di felicità, si oppone la vigilante
attesa di chi, invece, ha rinunciato ad ogni illusione di sicurezza e sostiene l'inquietudine
dello smarrimento e del buio con il debole presagio della vicinanza all'origine, della
prossimità del volto luminoso del tempo che i primi cristiani chiamavano parusia. Essi
sono quei «pochi e rari» che a passi lenti seminano d'attesa il campo dell'essere perché in
esso si illumini l'Ereignis, sono i pastori che «abitano, invisibili, fuori del deserto»;
seguono sentieri tracciati nella terra, solchi invisibili che solo il loro rispettoso ad-tendere
sa riconoscere; a passi lenti, camminano sulle vie del destino in attesa di un cenno, in
ascolto di una voce che li chiami. Solo nel cammino, infatti, può ad-venire la parusia, in
quel movimento in cui la tensione dell'attesa si incontra con l'infigurabile dell'evento, che
pure -- come il Cristo risorto che appare ai discepoli -- si manifesta nel mondo.
È proprio sulla visibilità nel tempo dell'evento escatologico che metterà fine al tempo, che
si concentra la Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Nell'interpretarla Heidegger critica la
tradizione esegetica che ha sempre visto nell'introduzione dei segni preliminari della
parusia del Signore e del katéchon un venir meno dell'angosciosa incombenza della
parusia, quasi uno stratagemma che Paolo avrebbe escogitato per tranquillizzare i fedeli e
mitigare l'annuncio dirompente della Prima Lettera. Per Heidegger, invece, nella Seconda
Lettera non vi è nessun ridimensionamento del messaggio escatologico, anzi in essa si
trova una tensione ancora maggiore: «Tutta la lettera è ancora più angustiante della prima,
e non comunica un ripensamento, bensì un'accresciuta tensione».60
Gli eventi che precedono la parusia, e soprattutto l'apparizione dell'Anticristo, sono
momenti decisivi che sollecitano una presa di posizione da parte di ciascuno e che
accrescono la necessità dell'attesa. Ma l'annuncio della Prima Lettera secondo cui «il
giorno del Signore viene come un ladro nella notte» (1 Ts 5, 2), è stato solo da alcuni
compreso correttamente; gli altri abbandonano il lavoro e passano il tempo a cianciare
nella noia di una continua attesa. Coloro che, invece, lo hanno compreso devono essere
disperati, poiché la necessità [Not] cresce ed ognuno sta solo davanti a Dio. A questi Paolo
adesso risponde che la necessità è un indizio della chiamata. «L'evento [das Ereignis] della
parusia secondo il senso del suo accadere è dunque riferito agli uomini, che possono essere
distinti in chiamati e reietti».61 L'aspetto teoretico-dogmatico di questa lettera è del tutto
dipendente dall'attuazione dell'esperienza cristiana di vita e dal suo contesto spirituale. È
su questo piano, infatti, che i cristiani si rapportano agli eventi escatologici e non su un
piano meramente teoretico-dottrinale. L'accettazione o il rifiuto della chiamata avvengono
sempre con una decisione che si colloca all'interno della situazione determinata dalla
tensione dell'attesa e dalla cura [Bekümmerung]62 che tale situazione richiede.
Proprio in quanto l'Anticristo con i suoi prodigi e sconvolgimenti dà la «sensazione» della
parusia63 -- così come gli idoli si spacciano per Dio -- esso costituisce l'estrema prova cui i
credenti sono sottoposti. La sua apparizione illumina la tendenza deiettiva [abfallende]
della vita, quella cioè, secondo cui, l'attesa della parusia viene intesa solo in termini
oggettivi; essa, allora, non è solo un accadimento temporaneo, ma qualcosa in cui si decide
il destino di ognuno. Coloro che si abbandonano [sich verfallen] all'Anticristo, vanno in
rovina [verfallen] in quanto perdono la possibilità di esperire pienamente l'effettività della
vita. Coloro, invece, che vivono l'attesa secondo il senso dell'attuazione [Vollzugssinn]
della vita effettiva riescono a riconoscere l'inganno dell'Anticristo.
È proprio nel confronto con la concezione paolina dell'avvento dell'Anticristo come
decisivo «segno del tempo»64 e del suo 'fallire', che maturano i primi germi della nozione
heideggeriana di Ereignis la quale, nei decenni successivi, costituirà la questione decisiva,
se pure quasi mai pubblicamente enunciata, del suo pensiero. Per Paolo, infatti, l'evento, a
differenza dei semplici «fatti», non rientra nella storia ma è grazia [charis], donazione
pura; esso non può essere né conosciuto né previsto in alcun modo, ad esso si può solo
prestare fede.65 L'evento è consegnato all'incertezza dell'accettazione da parte dei fedeli
che da esso vengono interpellati: esso è nudo, senza prove, senza miracoli, senza segni
irrevocabilmente probanti. La precarietà e fragilità dell'evento, così inteso, è felicemente
descritta dalla celebre immagine che si trova in 2 Cor 4, 7: «Ma questo tesoro l'abbiamo in
vasi di coccio, affinché questa potenza smisurata sia quella di Dio e non provenga da noi».
Il tesoro è l'evento della grazia che coloro che sono stati chiamati devono umilmente
custodire e mantenere proprio nella sua estrema fragilità, senza credere di poter fondare
su di esso una qualunque solida certezza o legge vincolante. La supremazia della grazia
sulla legge, su cui insiste in più luoghi Paolo, si realizza tramite la sua «sovrabbondanza»
nei confronti del peccato.
Questo carattere di sovrabbondanza, di eccedenza della grazia rispetto alle costrizioni della
legge, che Paolo scorge soprattutto nell'evento fondante della resurrezione di Cristo,
diverrà, attraverso la mediazione del ripensamento della aletheia, uno dei tratti più
importanti della figura heideggeriana dell'Ereignis. Heidegger, però, sin dal corso su
Paolo, si concentra, non tanto sull'evento già avvenuto della morte e resurrezione di Cristo,
ma su quello atteso della parusia del Signore alla fine dei tempi e in un'annotazione pone
schematicamente i termini di un possibile confronto tra parusia ed Ereignis: «Parusia -Ereignis, 'come', 'chi'? Il riferimento nei loro confronti -- un veniente [ein kommendes].
Com'è presente, quale obiettività ha nel conoscere? Questo stesso una fede!! Il 'come' del
riferimento trova la sua motivazione essenzialmente nell'attuazione (vita effettiva)».66
Tale rapporto con cui l'evento imprevedibile ed improvviso della parusia si annuncia nel
«come» della vita effettiva, nella sua emergenza ed angustia, si fonda su un'elezione che, a
sua volta, si esplica nella chiamata che incombe sull'esistenza dei primi cristiani.
4. Parusia e Anwesenheit
Ciò che, tuttavia, nel contesto del protocristianesimo è determinante, rispetto alla venuta
della parusia e al suo appello, è il «chi» che Heidegger significativamente accosta al
«come» della vita effettiva. Se, infatti, sarà proprio a partire dalla modalità esistenziale
rinvenuta nella vita dei primi cristiani, che Heidegger svilupperà la sua ermeneutica
dell'effettività e poi l'analitica del Dasein, ciò che resta estraneo all'orizzonte di pensiero
heideggeriano, e che, sempre più, gli si rivelerà come il nucleo dell'intera tradizione ontoteologica, è la presupposizione di un'entità -- sia esso il Dio personale della tradizione
cristiana piuttosto che l'idea platonica o la sostanza aristotelica -- a fondamento della
parusia e quindi dell'evento. Le descrizioni evangeliche della parusia esemplificano la
venuta del Figlio dell'uomo nel giorno del Signore come il ritorno inaspettato del padrone
di casa (Mt 24, 42-51) o l'arrivo dello sposo nella notte (Mt 25). Nessuno, tranne il Padre,
conosce «il giorno e l'ora» del suo avvento, ma nessuno dubita che quando il Figlio
dell'uomo verrà «sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13, 26) la sua presenza sarà
piena, inequivocabile e a tutti manifesta.
La veglia, che segna l'intera esistenza del cristiano -- trasformandola in una perpetua
vigilia -- e lo destina incessantemente all'orizzonte escatologico, ha come sicuro -- se pure
temporalmente incerto ed indeterminabile -- compimento il darsi in presenza della parusia
del Signore. L'evento che sollecita l'attesa dei cristiani e infuoca la predicazione di Paolo è
il pieno esaudimento della promessa, vita beata ed eterna in quanto sempre presente, con
cui l'inquietudine della vita effettiva viene definitivamente placata.
Anche la concezione paolina della parusia rientra, dunque, per Heidegger, in quella
determinazione fondamentale dell'essere dell'ente che, formulata per la prima volta da
Platone e Aristotele, ha dominato l'intero corso del pensiero occidentale, secondo cui
l'essere viene pensato come presenza. Tale determinazione fondamentale è, tuttavia,
rimasta non interrogata in quanto sommamente manifesta. Conseguentemente «tutta la
storia della metafisica [...] si articola come la successione delle differenti forme
fondamentali dell'essere dell'ente che poggia sul terreno della determinazione iniziale,
secondo la quale l'«essere» viene inteso come parusia».67
Il primo impiego filosofico di questo termine lo troviamo nella dottrina platonica delle
Idee, secondo cui tra le Idee intelligibili e le cose sensibili sussiste un rapporto di
imitazione, partecipazione, comunanza ma anche di presenza [parusia]68, nel senso che
l'intelligibile è presente nel sensibile, come la causa è presente nel causato, il principio nel
principiato, la condizione nel condizionato. La parusia, secondo Platone, indica, dunque, il
grado di adeguazione della cosa alla «normatività ontologica» dell'Idea, ed essendo,
inoltre, le Idee il vero essere, si viene a creare una strettissima connessione, quasi
un'identificazione, tra essere ed essere-presente.
Tale determinazione dell'essere come esser-presente è anticipata già nel linguaggio poetico
arcaico: Heidegger, commentando un passo dell'Iliade, tenta di scorgere il senso greco
originario della presenza, soffermandosi sulla figura del veggente Calcante che «conosceva
ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu», raccogliendo nel suo sguardo tutto l'essente-presente
[Anwesende]69 nel suo non-esser-nascosto [Unverborgenheit], a prescindere dalla
suddivisione cronologica in passato, presente e futuro. Tale determinazione dell'esserpresente [Anwesen] che si concentra nel significato intrinsecamente ambiguo del
participio eon, «essente»70, e che è all'origine della metafisica, è stata progressivamente
sovvertita dallo sviluppo successivo del pensiero filosofico ed è quasi irriconoscibile agli
occhi dei moderni, ultimogeniti di quell'inizio principiale:
Quando noi, oggi, ultimogeniti, parliamo di qualcosa di «presente» intendiamo l'istantaneo e ce lo
rappresentiamo come qualcosa che è nel tempo; l'istante vale come una fase del corso del tempo.
Oppure intendiamo il 'presente' sulla scorta di ciò che ci sta innanzi come un oggetto, vedendo
nell'oggetto l'oggettivo d'un soggetto rappresentantesi l'oggetto. Ma se usiamo 'presente' come la
determinazione più rigorosa degli eonta, saremo tenuti a intendere il 'presente' a partire
dall'essenza degli eonta, e non viceversa. Ma eonta è anche il passato e il futuro. L'uno e l'altro sono
maniere dell'essente presente [Anwesende].71
L'esser-presente in quanto Anwesen connota il manifestarsi, in sé inapparente, dell'essere
negli enti, siano essi passati, presenti o futuri. Ciò che, invece, segna l'abbandono della
concezione greca-originaria degli eonta in quanto Anwesende è l'identificazione, che
avviene, secondo Heidegger, già in Platone ma soprattutto in Aristotele, dell'esser-presente
con il «presente» [Gegenwart] inteso come stabile e perdurante presenza, la riduzione
degli eonta a ta pareonta. Ed è proprio attraverso la lettura dei «testimoni della fede»
come Paolo, Agostino e Lutero che Heidegger riuscirà a scorgere questa decisiva
declinazione in senso metafisico dell'esser-presente, decostruendo, a partire dalla
determinazione escatologica della parusia rinvenuta nei testi paolini, la concezione
aristotelica dell'ousia, fondamento dell'intera ontologia occidentale.72
Già nel sistema aristotelico l'ambiguità dell'eon è risolta nel senso del predominio della
presenza come Gegenwart e quindi dell'enticità. Da allora il senso dell'essere sarà
canonicamente determinato come ousia, substantia, praesentia, Anwesenheit: una cosa
partecipa all'essere nella misura in cui si presenta [west an], permane in se stessa e così si
propone [dar-stellt]. Questa determinazione fondamentale, responsabile di una certa
interpretazione del concetto greco di physis, costituisce il senso greco classico -- ma non
più originario -- della comprensione dell'essere come stabilità [Ständigkeit]: «Per i Greci
'essere' significa stabilità, e ciò in un duplice senso: 1. Lo stare in sé nel senso del prodursi,
del pro-cedere [Ent-stehen]: physis. 2. Lo stare in sé come tale, come qualcosa di 'stabile',
che rimane, di permanente [Verweilen]: ousia».
La decostruzione del concetto aristotelico di ousia è decisiva per tutto il cammino di
pensiero di Heidegger poiché essa va di pari passo non solo con la «distruzione
fenomenologica» dell'ontologia classica, ma anche con la critica del «concetto volgare» e
cronologico del tempo da cui scaturisce la possibilità di rinvenire una temporalità
originaria che sia l'orizzonte di comprensibilità dell'essere e ne costituisca -- come il
secondo Heidegger tenderà a pensare -- l'intima struttura di manifestazione e di
donazione. Si può, dunque, distruggere l'ontologia tradizionale solo mettendo
radicalmente in questione il suo intimo e per lo più velato rapporto con il tempo. La
centralità della problematica della temporalità è, secondo Heidegger, resa evidente dalla
stessa «determinazione del senso dell'essere come parusia o ousia, che ha il significato
ontologico-temporale di «presenza» [Anwesenheit]. L'ente è concepito nel suo essere come
Anwesenheit, cioè viene compreso in riferimento a un determinato modo del tempo, il
presente [Gegenwart]».73
Dal momento che essere vuol dire «persistenza nella presenza», nella comprensione
tradizionale dell'essere da parte della metafisica vanno sempre più accumulandosi le
determinazioni di carattere temporale. Pensare l'essere in base al tempo è così originario e
radicato nella tradizione occidentale che tutte le analisi del tempo, dal momento in cui
assumono una forma filosofica, a cominciare da quella decisiva di Aristotele, sono, in
qualche modo, dipendenti da quella determinazione dell'essere come presenza e
persistenza e dunque segnate irrimediabilmente dalla riduzione dell'essere-presente come
An-wesen alla presenza come Anwesenheit e al presente come Gegenwart.
Il superamento della determinazione metafisica dell'essere come presenza, che si
esplicherà nello sviluppo del concetto di Seinsgeschichte, si compie, invece, come un
'mancare' (al)la presenza che è al contempo 'fallimento' del presente e della verità intesa
come stabile certezza del rappresentare.
Ma è proprio nel tempo, nella riflessione sul tempo, che si rivela l'intima problematicità
della nozione di presenza, in quel circolo supremo del pensiero per cui l'ousia -- forma
trascendentale dell'essere -- viene determinata a partire dal presente e il tempo viene
indagato metafisicamente come un qualunque altro ente di cui si ricerca l'essenza ossia
l'essere. È proprio questo circolo che Heidegger indaga e tenta di scardinare,
soffermandosi sull'aporia che esso genera e che ha accompagnato come un cancro del
pensiero l'intera tradizione filosofica da Aristotele a Hegel.
Già Aristotele, infatti, percorre fino in fondo il vicolo cieco della determinazione della
'sostanzialità' del tempo, affermando che il tempo è ciò che «non è» o che «è appena, e
debolmente».74 Pensando il tempo a partire dall'«ora», dal nyn, bisogna necessariamente
concludere che esso appartiene più al non-essere che all'essere, in quanto è composto di
«istanti», ovvero di qualcosa che non è più o non è ancora, e dunque di non-enti.
Aristotele, pertanto, sottomette la problematica del tempo alla determinazione spaziale del
nyn come meros, «parte», e di quest'ultima come stigmé, «punto»: è così aperta la via alla
spazializzazione e numerazione del tempo che si compirà nella sua matematizzazione
operata dalla scienza moderna. Si trova qui in nuce, inoltre, quel collegamento del tempo
con il movimento [kinesis] e il cambiamento [metabolé], in particolare il mutamento
dell'anima, che lo stesso Aristotele esporrà poco oltre il passo sopra citato75, secondo cui il
tempo diviene la forma di ciò che può trascorrere en tè psychè e ciò, da Plotino ad Agostino
a Kant, significherà non solo psicologizzare il tempo ma, ancora più radicalmente,
considerarlo la forma «pura» di tutti i fenomeni in generale in quanto forma del senso
interno. La coscienza diviene allora il luogo di misurazione e, allo stesso tempo, di
fondazione del tempo, e ciò vale per tutta la filosofia moderna almeno fino a Husserl.
Dal momento in cui contiene come suo componente fondamentale il ni-ente, il tempo non
può partecipare della presenza, della sostanza e quindi dell'essere metafisicamente inteso.
Questo circolo di essere e tempo mette in atto quella elusione della domanda sul tempo su
cui segretamente poggia l'intero pensiero metafisico e che Sein und Zeit per la prima volta
porterebbe alla luce. Heidegger, cioè, tenterebbe di pensare il tempo al di là della dialettica
trascendentale in cui il circolo si irretisce e della stessa sua fondazione nella coscienza di
matrice sia kantiana che fenomenologica76, in direzione di quel margine della metafisica in
cui la presenza come Gegenwart e come Anwesenheit lascia spazio, si dirada [sich lichtet],
nel venire della parusia, ovvero nella parusia come a-venire. Ma l'origine remota di questo
tentativo heideggeriano è celata nelle pieghe della stessa Fisica aristotelica, considerata il
luogo inaugurale della determinazione metafisica del tempo e precisamente là dove lo
Stagirita discute dell'impossibilità della co-esistenza dei vari «ora» (IV, 218a): ogni nyn,
infatti, non può coesistere, come ora attuale e presente, con un altro ora e ciò coincide con
la sua stessa essenza come presenza. L'ora è -- dunque -- l'impossibilità di coesistere con
sé. In quanto intima non-co-incidenza con sé, il nyn cela una strutturale incrinatura che
perfora la compattezza dell'ousia, producendo una singolare ibridazione -- invisibile allo
sguardo della metafisica -- dell'essenza del tempo.
Tale elementare non-coincidenza con sé del nyn, che rimanda ad un'originaria differenza
nel e del tempo, potrebbe interpretarsi come la traccia non metafisica del venire alla
presenza, ovvero la prossimità dell'essere in quanto an-wesen, che Heidegger cercherà di
pensare nell'Ereignis. La diacronia che si cela nel cuore di ogni «ora» esprime l'intrinseca
eccedenza dell'istante rispetto all'immanenza della circolarità 'sostanziale' in cui sempre la
metafisica ha pensato il trascorrere del tempo. Solo nel senso di prossimità, vicinanza e
'proprietà'77 va intesa la «temporalità originaria» [die eigentliche Zeitlichkeit] come
orizzonte ermeneutico dell'essere di cui parla Sein und Zeit.
Ed è proprio a partire da questa originaria sconnessione e sfasamento dell'unità temporale
che è possibile articolare quell'eccedenza dalla presenza, quell'evasione dalla Anwesenheit
nella libertà della Lichtung che, oltrepassando la contrapposizione tutta metafisica di
assenza e presenza, si dà come in qualche modo significante al di là della questione del
senso e di ogni senso del tempo. Lo sforzo richiesto al pensiero è, qui, quello di rinvenire,
quasi in controluce, una «traccia», un'impronta chiaroscurale nello stesso corpo
'sostanziale' della metafisica. Come scrive Derrida,
Per eccedere la metafisica, bisogna che una traccia sia inscritta nel testo metafisico pur facendo
segno, non verso un'altra presenza o verso un'altra forma della presenza, ma verso un testo
completamente diverso. [...] Il modo di inscrizione di una tale traccia nel testo metafisico è così
impensabile che bisogna descriverlo come una cancellazione della traccia stessa. La traccia si
produce in esso come la sua propria cancellazione. Ed appartiene alla traccia di cancellarsi da se
stessa, di nascondere essa stessa ciò che potrebbe mantenerla in presenza. La traccia non è né
percettibile né impercettibile.78
La traccia che si produce all'interno della metafisica come la sua «propria cancellazione»
non è, poi, altro che la differenza tra essere ed ente che sarebbe stata obliata nella
determinazione dell'essere come presenza [Anwesenheit] e nell'assoggettamento del tempo
al presente [Gegenwart]. Nell'oblio della differenza la sua stessa traccia viene cancellata.
La differenza non può essere mai nominata come tale, dal momento che essa non può, in
alcun modo, darsi in presenza, non può, cioè, essere illuminata nel linguaggio dell'essere
che pure da essa scaturisce. È però possibile che l'an-wesen pervenga alla parola come
relazione estatica tra l'ad-venire e ciò che viene, tra l'Aperto e ciò che in esso accede alla
presenza. Solo in senso 'relazionale' e mai 'sostanziale' è pensabile la traccia della
differenza: la sua eco è percettibile solo dal pensiero che riesce ad intonarsi alla risonanza
del suo anarchico 'differire' e si lascia impressionare dalla sua inafferrabile elusione.79
5. Kairós: il «tempo rubato»
L'abbandono della presenza e del tempo come presente, cui Heidegger perviene attraverso
il confronto con la temporalità escatologica delle prime comunità cristiane e con l'annuncio
della parusia, rimanda non tanto all'esplicazione esistenziale della temporalità che verrà
intrapresa in Sein und Zeit, quanto piuttosto alla sua determinazione cairologica che, se
pure non compare mai esplicitamente, costituisce la chiave di volta della meditazione
heideggeriana sulla temporalità almeno fino alla formulazione della nozione di Ereignis
sviluppata nei Beiträge. È proprio attraverso la figura del kairós e la sua tradizione greca e
cristiana che Heidegger riesce a pensare in maniera positiva quel 'fallimento' della
presenza che egli aveva scorto per la prima volta nell'esperienza di vita dei primi cristiani:
il «tempo rubato»80 del kairós, il tempo derubato della sua 'sostanzialità', ma anche il
tempo rubato al calcolo e alla macchinazione della tecnica, diviene da allora il geroglifico
della temporalità apocalittica ed escatologica da cui maturerà il pensiero dell'Ereignis.
Fin da Esiodo la letteratura greca ha esaltato le virtù e la potenza del kairós81: per Pindaro
niente vale più che conoscere il kairós e Sofocle vanta il kairós come la migliore guida nelle
azioni umane. «Opportunità», «occasione», «tempo debito», «giusta misura»: sono questi
alcuni dei significati più ricorrenti del kairós nella tradizione greca classica. Solo l'uomo
esperto, dotato di prudenza, acutezza e rapidità di decisione riesce a cogliere il kairós che è
di per sé fugace, imprevedibile, sfuggente e non offre altra possibilità di essere afferrato se
non nell'istante in cui si manifesta. Il kairós è l'ora critica, il momento grave e decisivo, il
supremo pericolo in cui tutti i rivolgimenti sono possibili, in cui l'alleato di ieri si può
rivelare il più insidioso nemico o, al contrario, il più spietato nemico può divenire il
migliore alleato; l'occasione tanto attesa e desiderata che non perdona alcuna esitazione.
Favorevole o sfavorevole, buona occasione o funesto annuncio di sciagure, quest'ora
decisiva interrompe, comunque, la continuità temporale con la forza incontrastabile
dell'irreparabile, cui nessuna volontà umana o divina può opporsi. L'istante cruciale
comporta sempre una rottura, un taglio praticato in maniera decisa e tempestiva
all'interno di un continuum spaziale o temporale e il kairós può indicare sia l'agente della
rottura che la parte tagliata, la divisione, la crepa.
Il kairós è, inoltre, anche il con-veniente, l'appropriato, ciò che si adatta ed è com-misurato
alla situazione, ciò che si armonizza e rivela la giusta proporzione; in questo senso, esso è il
simbolo della classicità intesa come apollineo equilibrio, misura aurea e simmetrica
composizione degli opposti in cui un processo raggiunge il suo compimento, il suo acme.82
Attraverso l'accostamento, proposto per la prima volta da R. B. Onians83, al sostantivo
kaíros che designa il filo di una trama e per estensione la trama stessa, il kairós
assumerebbe, infine, una spiccata connotazione spaziale indicando un varco, un'apertura,
un passaggio, ma anche una disposizione, una tramatura [Fügung].
Grazie alla straordinaria polisemia che il termine kairós racchiude in sé già solamente
all'interno della cultura greca, è possibile leggere le ricerche heideggeriane degli anni Venti
e Trenta a partire dal kairós, ritrovando un nucleo cairologico non solo nelle analisi della
temporalità escatologica del primo cristianesimo, ma anche nel progetto dell'elaborazione
di un'ermeneutica dell'effettività, nell'analitica esistenziale di Sein und Zeit e soprattutto
nei Beiträge zur Philososphie e negli altri testi, ancora in parte inediti, del decennio a
cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta.
Già nell'analisi dell'esperienza di vita delle prime comunità cristiane a cui sono rivolte le
lettere di Paolo, il «come» dell'attuazione esistenziale e il compimento della
Bekümmerung vengono compresi cairologicamente. L'evento escatologico della parusia è
designato da Paolo con il termine kairós, che Heidegger traduce con il tedesco Augenblick
come l'istante decisivo che esaudirà le promesse messianiche ed il cui annuncio -anch'esso connotato cairologicamente -- converte l'esistenza dei credenti in una veglia
incessante ed incerta. Il kairós che tutto decide84 non indica, dunque, solo un evento
futuro su cui si concentra l'attesa dei cristiani, ma determina il modo, ogni volta unico ed
irripetibile, in cui il risuonare dell'annuncio de-cide l'attuarsi della vita effettiva e il
risveglio dal mondo e dall'im-proprietà [Uneigentlichkeit] dei rapporti esistenziali.
Ma la determinazione cairologica è ancora più evidente nella concezione della temporalità
tipica dei primi cristiani, nella cui esperienza vissuta, secondo Heidegger, consiste la loro
stessa religiosità.85 Riprendendo un passo della Prima Lettera ai Corinti86, Heidegger, così
scrive: «Kairós synestalménos. Resta ancora soltanto [nur-noch] poco tempo, il cristiano
vive costantemente nell'«ancora soltanto», che accresce la sua angustia. La temporalità
concentrata è costitutiva della religiosità cristiana: un «ancora soltanto»; non c'è tempo
per rimandare».87 L'inquietudine e l'angoscia dei primi cristiani derivano da questo
raccorciarsi del tempo, dal suo progressivo estinguersi e 'fallire' che può interpretarsi come
il prevalere della dimensione cairologica su quella cronologica ed aioinica: il tempo diventa
un varco sempre più stretto e difficile da percorrere, un'apertura, una fessurazione da cui
può transitare l'evento. Il «tempo che resta» è un tempo cairologico; esso designa quello
che potremmo chiamare il tempo «messianico», ovvero non la fine del tempo, ma il tempo
della fine, il tempo povero del deserto che cresce inarrestabile sulla terra e nelle anime, ma
anche il tempo della promessa che continua a risuonare sulla soglia dell'impossibile. Ciò
che interessa la predicazione di Paolo -- ed il commento di Heidegger -- non è, infatti,
l'istante in cui il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e comincia a finire, il tempo,
cioè, che resta tra il tempo e la sua fine.
Il tempo cairologico-messianico che annuncia Paolo, eccede, quindi, la distinzione tipica
dell'apocalittica giudaica e della tradizione rabbinica tra la durata del mondo dalla
creazione alla sua fine e il mondo che verrà dopo questa fine: il tempo messianico, il tempo
che l'apostolo vive ed annuncia, non è «né il tempo cronologico, né l'éschaton apocalittico:
è [...] un resto, il tempo che resta tra questi due tempi, se si divide, con una cesura
messianica o con un taglio di Apelle, la stessa divisione del tempo».88
In questo senso il tempo messianico dell'esperienza concreta di vita delle prime comunità
cristiane è la più emblematica manifestazione della temporalità cairologica e dei rapporti
che essa intrattiene con l'ordine cronologico. Nonostante la loro profonda differenza
qualitativa, kairós e chronos sono, infatti, intimamente connessi, come già risulta dalla
definizione di Ippocrate, secondo cui il chronos è ciò in cui vi è poco kairós e il kairós è ciò
in cui vi è poco chronos, che così Agamben commenta: «Il kairós non dispone di un altro
tempo, ciò che afferriamo quando afferriamo un kairós non è un altro tempo, ma solo un
chronos contratto e abbreviato. [...] La perla incastonata nell'anello dell'occasione è solo
una parcella di chronos, un tempo restante».89 Il kairós è l'intima trasfigurazione del
chronos, il suo compimento interno che si realizza solo nel «passaggio» della figura di
questo mondo, ovvero nel suo 'fallimento', che è, però, al contempo, 'fallimento' della sua
precarietà e caducità. Immagine di questo tempo messianico è nella tradizione ebraica il
«sabato», che concede la possibilità di afferrare il kairós nell'intrinseca sconnessione del
tempo cronologico.90
Nell'interpretazione di Aristotele del corso del 1921/22 la temporalità cairologica scoperta
nel cristianesimo delle origini si manifesta nell'autenticità [Eigentlichkeit] della vita
effettiva come prendersi cura91: qui il carattere cairologico concerne quelle determinazioni
categoriali riguardo alle relazioni temporali e formali dell'effettività che in Sein und Zeit
diverranno gli esistenziali dell'analitica del Dasein, se pure lì scomparirà l'esplicito
riferimento al kairós. Ma il carattere cairologico dell'effettività determina anche
l'incombere di un 'annuncio' che nella vita effettiva si manifesta come tormento, angoscia
ed afflizione: qualcosa che rode la vita e che Heidegger chiama Ruinanz, rovinìo.92 Già nel
Natorp-Bericht, nucleo teorico dei successivi corsi su Aristotele, la vita effettiva veniva
descritta come costantemente esposta ad una caduta, un crollo, un andare in rovina, un
'fallimento' in cui si rischia di cedere alla tentazione di sfuggire alla propria finitezza e
singolarità, ma in cui può, allo stesso tempo, irrompere il kairós. Esso, infatti, in quanto
oc-casione, si manifesta nella concreta esperienza di vita come casus, de-cadenza, come accadere improvviso che sconvolge gli equilibri esistenti senza, apparentemente, disporne di
nuovi.
Questa continua esposizione alla Ruinanz comporta una singolare mobilità del Dasein che
riprende da un lato la costante incertezza esistenziale dei primi cristiani e dall'altro la
motilità della physis aristotelica. Ma qui la mobilità dell'esserci designa una
determinazione originaria dell'esistenza in quanto essa si identifica con il «come» della
stessa temporalità della effettività93 e, dunque, con il suo carattere messianico-cairologico.
L'inquietudine e l'angoscia, che già fin d'ora si rivelano tratti fondamentali della vita
effettiva, conducono ad una «crisi cairologica» in cui si dà l'occasione non già di sfuggire al
rovinìo e alla decadenza ma di cogliere, attraverso il riferimento al proprio tempo in
maniera autentica-appropriata [eigentlich], la deriva deiettiva e rovinante della vita stessa
che si manifesta nel continuo «venir meno», nel mancare del tempo.94
Il rovinìo della vita effettiva sottrae (il) tempo95, ossia distoglie l'esserci dalla motilità
dell'avvenire, erodendo così la storicità [Geschichtlichkeit] dell'effettività stessa. L'intento
che, d'ora in poi, animerà la ricerca heideggeriana sarà proprio quello di analizzare il
decadimento della temporalità cairologica che inerisce all'autorappresentazione
inautentica dell'esserci, manifestandosi nel predominio della forma deiettiva della
temporalità intesa come «intratemporalità» spazializzabile e misurabile.
Nella conferenza tenuta a Marburgo nel 1924 sul concetto di tempo, l'attuazione
cairologica della vita effettiva viene messa in rapporto con il precorrimento [Vorlauf] del
«non più» della morte e nel «come» di questo «correre incontro» alla morte viene
individuata la categoria fondamentale dell'esserci allo stesso modo in cui il «quando» della
parusia si manifestava per Paolo nel come dell'attuazione esistenziale. Assistiamo, dunque,
all'inserzione della temporalità cairologica in uno schema di «esistenziali» che, tuttavia,
non ne rinnega l'originaria derivazione messianico-apocalittica; come l'esistenza religiosa
dei primi cristiani consisteva nel vivere la temporalità escatologica, così, l'esserci che
precorre l'estrema possibilità del «non più» non vive nel tempo, ma vive il tempo,
compiendo una sorta di messianica «ricapitolazione» delle tre estasi temporali: «Nel
precorrere l'esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere
futuro, sul suo passato e sul suo presente. L'esserci, compreso nella sua estrema possibilità
d'essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo».96
Il tempo cui l'esserci accede attraverso il precorrimento del «non più» non è un tempo
omogeneo e misurabile dal momento che esso è determinato dal «come» della
Bekümmerung e dunque non ha lunghezza o durata; è, piuttosto, un tempo cairologico
quello che viene colto dal precorrere, in quanto esso porta alla luce la «possibilità
autentica» di ogni attimo, ovvero il suo intimo compimento. Questo tempo cairologico è, in
un senso diverso da quello consacrato dalla tradizione, il vero principium
individuationis97 in quanto «l'esserci è il mio essere di volta in volta, e quest'ultimo può
essere tale in ciò che è futuro, nel precorrere che va al non più [...]. L'esserci è sempre in
una modalità del suo possibile essere temporale. L'esserci è il tempo».98
Dalla domanda sull'essere del tempo si passa dunque ad interrogare il «come» del suo
annunciarsi in noi, come già aveva intuito Agostino che Heidegger così traduce:
In te, animo mio, misuro i tempi; quando misuro te, misuro il tempo. [...] Le cose transeunti ti
mettono in un «sentirsi» [Befindlichkeit] che rimane, mentre esse si dileguano. Io misuro il
«sentirmi» nell'esistenza presente, non le cose che passano affinché esso sorga. È il mio «sentirmi»
che misuro, ripeto, quando misuro il tempo.99
La determinazione esistenziale della temporalità cairologica in vista del progetto di una
riproposizione della Seinsfrage prosegue nel corso tenuto a Marburgo nel semestre
invernale 1925/26100, in cui Heidegger, collegando la questione della verità come «venire
alla presenza» [anwesen] con il tempo, introduce la decisiva distinzione tra zeitlich e
temporal che gli permetterà in Sein und Zeit di elevare l'analisi della temporalità
esistenziale ad un livello ontologico: zeitlich indica qualcosa che accade, si compie nel
tempo, mentre temporal si addice a quell'ente che è intrinsecamente caratterizzato dal
tempo, ossia al Dasein. Ciò che Heidegger si propone qui è una «cairologia
fenomenologica»; non si tratta di trovare un'ennesima definizione del tempo, che
necessariamente lo ridurrebbe ad ente e quindi a presenza, ma di vedere originariamente il
fenomeno stesso del tempo.
È a partire dall'analisi della temporalità cairologica della cura come modo fondamentale
dell'essere dell'esserci che Heidegger riesce a mettere radicalmente in discussione la
concezione tradizionale del tempo come successione degli «ora», ossia come tempo-adesso
[Jetztzeit]. La cura, infatti, pur essendo determinata da caratteri temporali [temporal],
non è temporalmente [zeitlich] determinata. Ciò non significa che la cura sia qualcosa che
stia al di fuori o al di sopra del tempo, ma essa inerisce al tempo in un modo del tutto
diverso da qualsiasi ente che è determinato temporalmente [zeitlich]: è, dunque,
necessario rinvenire un senso diverso ed autentico del tempo che sfugga al predominio
dell'adesso e della presenza.101
Attraverso l'interpretazione del 'presente' come lasciar-venire-incontro [Begegnen-lassen]
qualcosa e come render-presente [Gegenwärtigen], il tempo diviene un concetto
strutturale dell'esserci stesso, ovvero un «esistenziale» fondamentale, «tale che in esso si
esprime il senso dell'essere, in primo luogo dell'essere nel mondo». La concezione
tradizionale e la determinazione del tempo come tempo adesso costituisce
un'interpretazione basata sul presente, senza però che il presente sia visto come un
esistenziale. La determinazione esistenziale del tempo costituisce, invece, l'unico
fondamento possibile delle strutture fondamentali dell'esserci e conseguentemente della
comprensione dell'essere:
«Il tempo non può assolutamente essere semplicemente-presente, esso non ha un modo
d'essere determinato, ma è la condizione di possibilità perché ci sia qualcosa come l'essere
(non l'ente). Il tempo non ha il modo d'essere di qualcos'altro, ma il tempo temporalizza
[zeitigt]. [...] Tutte le proposizioni sul tempo, tutte le proposizioni comprese nella
problematica della temporalità [Temporalität] [...] sono indizi dell'esserci e delle strutture
dell'esserci e del tempo».102
Il render-presente [Gegenwärtigen] è il corrispettivo esistenziale dell'an-wesen e ad esso
si rapporta attraverso una più profonda comprensione della logica e dell'ontologia
tradizionali come theorein; il puro vedere [anschauen] si riferisce, infatti, all'essere come
Anwesen, come presenza essenziale.103 Ma se l'essenza [Wesen] del tempo si dispiega nel
temporalizzare [zeitigen], nel dare asilo al manifestarsi dell'essere, ciò non può non
avvenire se non nell'apertura [Erschlossenheit] estatica costituita dall'esserci e nella sua
decisione [Entschlossenheit]104 ovvero nell'acme e nella compiutezza del suo ex-sistere,
nel suo kairós. Alla temporalità apocalittica del theorein subentra, allora, quella
cairologica dell'attuazione della vita effettiva nella vigile disposizione all'evento. 105
La «maturazione» [die Zeitigung] del tempo è l'ac-cadere del kairós come ciò che de-cide
«a tempo debito» la crisi del tempo cronologico dell'esistenza inautentica. La Zeitigung del
tempo, il tempo come Zeitigung, è la «maturazione» dell'esistenza stessa. Come il frutto
maturo cade a terra a tempo debito e viene ricompreso nel ciclo naturale di distruzione e
rigenerazione, così l'esistenza ac-cade cairologicamente nel con-veniente dischiudersi
dell'essere come traccia della differenza e custodia della sua promessa.
Il kairós apocalittico non è, allora, fuoriuscita dal tempo cronologicamente e 'volgarmente'
concepito, ma simbolo del tempo vero, revelatio di un tempo irriducibile alla voracità di
chronos, visione escatologica della verità ultima del tempo. La trascendenza del kairós è il
segno, il riflesso di Aión; essa si annuncia a coloro che, vigilando e discendendo nel
profondo di sé, ricordano [er-inneren] e ad-tendono nell'inquietudine l'ineffabile
irraggiare di Aión che ac-cade come kairós, come pienezza del tempo, congiunzione di
memoria ed oblio, immemorabile passato ed imprevedibile futuro.
La veglia del 'fallimento' del tempo e dello svanire nichilistico dell'essere prepara
l'irrompere del kairós in cui un dio potrà ancora una volta transitare attraverso un varco
nella aravàh, nella desolazione della notte del mondo: «Al nostro Dio tracciate / Un varco
nel desolato! [...] Tortuosa viottola sarà pianura / Il dirupo si spianerà // E la Gloria del
Nome si rivela / E di colpo ogni carne vede» (Is 40, 3-4).
Note
1.
Questa poesia è esposta nella navata centrale del Duomo di Friburgo.
2.
G. Picht, «La potenza del pensiero», in AA. VV., Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, tr. it. di C.
Tatasciore, Guida, Napoli 1992, pp. 207-208.
3.
«Le mie convinzioni sul piano gnoseologico, che si estendono alla teoria della conoscenza storica, hanno reso
per me problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo» (Lettera a Krebs del 9 gennaio 1919 citata in H.
Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. it. di F. Cassinari, SugarCo, Milano 1990, p. 97).
4.
In alcune espressioni, inoltre, il verbo fallere significa anche rendere inefficace, calmare, alleviare, collocandosi,
così, in un'area semantica molto prossima a quella generata dalla figura della Lichtung, intesa come
alleggerimento e diradamento, di cui si tratterà in seguito. Degna di attenzione è, inoltre, la vicinanza a questo
concetto di 'fallimento' del verbo tedesco fallen, cadere, che spesso Heidegger usa con il significato di ac-cadere
e del suo importante derivato Verfall, deiezione, decadenza, e del sostantivo Fall, il caso.
5.
Significativamente in tedesco l'espressione zugrunde gehen significa andare in rovina, ma anche, letteralmente,
andare a fondo [zum Grund], verso il fondamento [Grundlage], ossia perseguire l'obiettivo fondamentale della
metafisica, il cui costitutivo carattere fondativo coincide, dunque, con la sua intrinseca 'perdizione', con il suo
ineluttabile 'fallimento'.
6.
G. Picht, «La potenza del pensiero», cit., p. 208.
7.
M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (1936-1938), hrsg. F.-W. von Herrmann, 1989 (HG 65),
p. 397.
8.
«All'uomo l'origine principiale si mostra solo da ultimo. Per questo, nell'ambito del pensiero, uno sforzo di
pensare in modo ancora più originario ciò che è stato pensato alle origini non è la volontà insensata di far
rivivere un passato, ma invece la lucida disponibilità a meravigliarsi di ciò che è venturo nell'origine» (M.
Heidegger, «Die Frage nach der Technik», in Vorträge und Aufsätze (1936-1953), hrsg. von F.-W. von
Herrmann, 2000 (HG 7), p. 23 (tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, Mursia,
Milano 1976, pp. 16-17). I volumi delle opere complete (Klostermann, Frankfurt a. M.) verrnno citati d'ora in poi
con la sigla HG seguita dal numero del volume.
9.
Sull'Europa come terra in cui urge la decisione sul tramonto, ha scritto pagine illuminanti ed intense Massimo
Cacciari, riprendendo un tema che, a partire da Nietzsche, è diventato classico nella filosofia tedesca del
Novecento: cfr. M. Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 167-170.
10. «Aspettare e prepararsi: aspettare lo zampillare di nuove sorgenti, prepararsi nella solitudine a voci e volti
estranei; lavare la propria anima e renderla sempre più pura dalla polvere e dal chiasso da fiera di quest'epoca;
[...] diventare gradualmente più vasti, più sopranazionali, più europei, più orientali, infine più greci -- giacché la
grecità fu la prima grande unificazione e sintesi di tutto il mondo orientale e appunto perciò l'inizio dell'anima
europea, la scoperta del nostro 'mondo nuovo': -- per chi vive sotto tali imperativi, chissà cosa potrà mai
capitargli un giorno? Forse appunto 'un nuovo giorno'» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, in Opere
di Friedrich Nietzsche, vol. VII, tomo III, a cura di G. Colli e M. Montanari, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano
1975, 41 [7], pp. 329-330).
11. M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung (1936-1968), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1981 (HG
4), p. 23 (tr. it. di L. Amoroso, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 28).
12. «L'uomo, nella sua essenza secondo la storia dell'essere, è quell'ente il cui essere, in quanto e-sistenza, consiste
nell'abitare nella vicinanza dell'essere. L'uomo è il vicino dell'essere» (M. Heidegger, Wegmarken (1919-1961),
hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1976 (HG 9), p. 342; tr. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 295).
13. M. Heidegger, Phänomenologie des religiösen Lebens, hrsg. von C. Strube, 1995 (HG 60) (tr. it. di G: Gurisatti,
Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003). Per un attento e dettagliato commento di questo
corso cfr. J. Brejdak, Philosophia crucis. Heideggers Beschäftigung mit dem Apostel Paulus, Peter Lang,
Frankfurt a. M. 1996, pp. 77-104 e F. Fédier, Heidegger: Édition Intégrale, tome 60 Phénoménologie de la vie
religieuse, «Heidegger Studies», 13, 1997, pp. 145-161. Per il suo significato all'interno del confronto tra filosofia
e teologia nel pensiero di Heidegger cfr. M. Jung, Das Denken des Seins und der Glaube an Gott. Zum
Verhältnis von Philosophie und Teologie bei Martin Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990,
pp. 41-55. Per un inquadramento dei primi corsi friburghesi all'interno dello sviluppo del pensiero di Heidegger
fino ad Essere e tempo cfr. T. Kisiel, The Genesis of Heidegger's Being and Time, University of California Press,
Berkeley-Los Angeles-London 1993, pp. 149-219.
14. Cfr M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge, hrsg. von P. Jaeger, 1994 (HG 79), p. 71 (tr. it. di G.
Gurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 101)
15. Cfr. HG 60, p. 98 sgg (tr. it., p. 138 sgg).
16. La medesima immagine la ritroviamo nel vangelo di Matteo: «Vegliate, dunque, perché non sapete in quale
giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il
ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi siate pronti, perché nell'ora che non
immaginate, il figlio dell'uomo verrà» (Mt 24, 42-44). Cfr. anche Lc 12, 35-40.
17. Cfr. anche Mt 24, 34.
18. Sull'apocalittica cfr. M. Delcor, Studi sull'apocalittica, ed. it. a cura di A. Zani, Paideia, Brescia 1987; W.
Schmithals, L'apocalittica. Introduzione e interpretazione, tr. it. di A. Bonora, Queriniana, Brescia 1976 e,
soprattutto, J. Taubes, «La storia dell'apocalittica», in Escatologia occidentale, a cura di E. Stimilli, Garzanti,
Milano 1997.
19. Come scrive Sergio Quinzio nel suo commento a questa lettera paolina, «il breve 'tempo intermedio' è ritagliato
come una piccola nicchia provvisoria nell'incombente montagna della catastrofe apocalittica che domina
l'orizzonte» (S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1991, p. 730); esso è, comunque, destinato a
dilatarsi sempre più con il ritardare dei segni che annunciano la parusia del Signore e ad indurre una sempre
crescente spiritualizzazione dell'attesa messianica e del Regno che, secondo Quinzio, caratterizza l'intera storia
bimillenaria della Chiesa (cfr. anche Id., Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990, pp. 93-98). Per
Bultmann il tempo intermedio caratterizza in senso gnostico l'esistenza dei primi cristiani come «l'essere
dialettico del 'non più' e 'non ancora'. I credenti sono già sottratti al mondo e il loro essere è un essere
escatologico, e tuttavia essi vivono ancora nel mondo» (R. Bultmann, Storia ed escatologia, tr. it. di E. Spagnol,
Bompiani, Milano 1962, p. 66); ma col tempo esso viene sempre più inteso in senso cronologico e la tensione
escatologica viene smorzata dall'affermarsi del sacramentalismo, ossia della possibilità di raggiungere la
salvezza individuale dell'anima attraverso i sacramenti amministrati dalla Chiesa. Il cristianesimo primitivo si
trasforma, così, in epoca ellenistica, da comunità escatologica in comunità cultuale e la parusia attesa con ansia
dai primi credenti diviene la tangibile 'presenza' di Cristo nei sacramenti, nella cui celebrazione si realizza
l'evento escatologico. La chiesa diventa istituzione di salvezza e l'escatologia viene, da ultimo, neutralizzata in
quanto si considera già avvenuto in Cristo l'evento cosmico finale.
20. Qui è da sottolineare come Paolo determini la venuta del Signore in base al concetto greco di kairós che
aggiunge, come vedremo, nuove e decisive connotazioni temporali alla fulmineità ed imprevedibilità dell'evento
escatologico descritto nella Prima Lettera ai Tessalonicesi (5, 1-2) e nel brano del vangelo di Matteo (24, 27).
21. Secondo Quinzio già «fin dall'epoca apostolica, è iniziato quel processo di allontanamento dalla prospettiva
messianica e apocalittica, e di conseguenza dalle categorie bibliche, che doveva poi proseguire lungo il corso dei
secoli»; e così, «delusa ogni tangibile promessa, rimasto il mondo teatro degli orrori, la redenzione non poteva
che trasformarsi nell'invisibile, intima liberazione dal peccato. [...] L'aspettativa della manifestazione
escatologica di Dio si dà solo nell'esperienza del fatale perdurare di ogni genere di male nel vecchio eone il cui
principe e dio è Satana» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 67-70).
22. W. Benjamin, Sul concetto di storia, ed. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 37.
23. Cfr. K. Rahner, Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Edizioni Paoline, Roma 1969.
24. In greco la parola parusia, su cui si concentrerà l'analisi di Heidegger, indica la presenza in quanto conseguenza
di un arrivo, di una venuta, ma nell'uso che ne fa Paolo è presente anche il significato assunto nel periodo
ellenistico, per cui essa indica la visita sfarzosa di sovrani e grandi magistrati o qualche strepitosa
manifestazione della divinità (cfr. Lettere di San Paolo, a cura di S. Cipriani, Cittadella, Città di Castello, 1971, p.
75). Nel linguaggio del Nuovo Testamento la parola parusia indica, comunque, la seconda e definitiva venuta del
Messia. In alcuni luoghi essa viene utilizzata anche per caratterizzare l'avvento dell'Anticristo che precede la fine
dei tempi (2 Ts 2, 9).
25. Nelle prime lettere di Paolo ed in altri testi degli Atti degli Apostoli l'avvento del Regno è sentito come
imminente: «Adesso la nostra salvezza è più vicina di quando abbiamo cominciato a credere; la notte è
progredita, il giorno si è avvicinato» (Rm 13, 12); «Vedete avvicinarsi il giorno» (Eb 10, 25); «La fine di tutte le
cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4, 7); «Siate pazienti [...],
rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Gc 10, 25).
26. J. Taubes, Il prezzo del messianismo, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2000, p. 39.
27. Con un utilizzo assai singolare del termine greco kairós, «Paolo definisce il tempo tra la morte di Gesù e la
parusia di Cristo come kairós, caratterizzato dall'intreccio tra la condizione ancora naturale del mondo e quella
già sovrannaturale» (J. Taubes, Escatologia occidentale, cit., p. 97). Per Taubes il gesto paolino di
interiorizzazione della parusia provoca anche una svolta tra apocalittica e gnosi cristiana che conduce ad una
sorta di mistica escatologica di cui il kairós, inteso come il tempo in cui questo e quel mondo si intrecciano e si
spingono l'un l'altro, è cifra fondamentale (cfr. ibidem).
28. «Tra il II e il IV secolo le speranze escatologiche sfumano sempre più. [...] La teologia cristiana entra nel campo
di forze della gnosi speculativa. Come il cristianesimo delle origini nasce nel clima dell'apocalittica ebraica, così
la teologia cristiana si sviluppa in ambito gnostico. L'imminenza del Cristo che viene si trasforma nella vicinanza
del salvatore presente. La salvezza ora significa liberazione del pneuma dal carcere della materia [...] Al posto
della speranza per il regno del cristianesimo delle origini subentra il destino dell'anima» (J. Taubes, Escatologia
occidentale, cit., p. 102).
29. Si tratta del corso successivo a quello su Paolo, tenuto a Friburgo nel semestre estivo del 1921 dal titolo
Augustinus und der Neuplatonismus, adesso in HG 60.
30. Commentando l'Apocalisse di Giovanni, Sergio Quinzio scrive: «La nuova Gerusalemme viene 'dal cielo', e
discende sulla terra perché sulla terra ha il suo luogo definitivo. L'ultima visione dell'Apocalisse (21, 5-22)
rappresenta questo compimento di tutte le profezie: l'orizzonte, che era fin qui quello della liturgia celeste,
diventa alla fine terrestre, il Signore scende sulla terra per celebrare le sue nozze e abitare per sempre in mezzo
al suo popolo» (S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 818).
31. A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell'universalismo, tr. it. di F. Ferrari e A. Moscati, Cronopio, Napoli 1991,
p. 8.
32. Prima che i corsi friburghesi del semestre invernale 1920/21 su Paolo e il cristianesimo primitivo fossero
pubblicati nel 1995 come 60º vol. delle opere complete, alcuni interpreti avevano riferito i contenuti di queste
lezioni, insistendo soprattutto sul legame tra l'interpretazione della religiosità protocristiana e la successiva
elaborazione dell'ermeneutica dell' effettività: Otto Pöggeler si sofferma sull'accentuazione heideggeriana di
storicità e attualità dell'esperienza di vita dei primi cristiani: «Secondo Heidegger [...] l'esperienza di vita
protocristiana è un'esperienza reale e storica, un'esperienza della vita nella sua attualità, proprio perché essa
vede nel senso del compimento, non nel senso del contenuto, la struttura dominante della vita. [...] Attraverso la
riflessione sulla religiosità protocristiana come modello dell'esperienza reale della vita, Heidegger si
impadronisce di quei concetti-chiave che pongono in luce la struttura della vita reale, o come dirà Heidegger più
tardi, della 'esistenza reale'» (O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, tr. it. di G. Varnier,
Guida, Napoli 1991, pp. 41-42). Per Thomas Sheehan, Heidegger analizza il fenomeno del cristianesimo delle
origini con l'intento di rinvenire quella temporalità originaria e autentica che è al centro del progetto ontologico
di Essere e tempo: lo scopo di Heidegger sarebbe, quindi, «l'elaborazione del significato di temporalità
dell'escatologia di San Paolo. [...] La tesi fondamentale di Heidegger è la seguente: l'autentica relazione cristiana
con la Parousía fondamentale non è l'attesa di un evento futuro. [...] Riferirsi autenticamente alla Parousía
significa «vegliare», non il mero aspettare con ansia un evento futuro. Il problema del «quando» della Parousía
si riduce alla questione del «come» della vita, e cioè wachsam sein, all'essere svegli. [...] Il significato della
fattività è la temporalità, e il significato della temporalità è determinato nella relazione individuale con Dio. [...]
La vita religiosa cristiana non è nient'altro che il vivere all'interno di questa unica temporalità» (T. Sheehan,
«Heidegger e il suo corso sulla Fenomenologia della religione (1920-21)», Filosofia, XXXI 3, 1980, pp. 443444). Per Karl Lehmann, Heidegger formalizza l'esperienza di vita del cristianesimo delle origini ricercando le
condizioni di possibilità di un tale atteggiamento senza prendere posizione rispetto al suo contenuto, ma la
forma della temporalità escatologica che Heidegger vuole estrapolare non può mai essere separata dalla
concreta pienezza escatologica che domina l'esperienza temporale del cristianesimo primitivo: «Il kairós non è
solo una 'possibilità', ma è sentito come una costante 'minaccia'. [...] Se la riflessione filosofica include il kairós e
l''essere' ad esso collegato nella storia dell'attuazione [Vollzugsgeschichte] della vita umana, allora si presenta il
pericolo che i momenti costitutivi di una simile esperienza vengano negati proprio nella loro diversità e ridotti
alle usuali strutture soggettive ed immanenti» (K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologische
Frage beim jungen Heidegger, cit., p. 146). Sul rapporto tra la critica condotta da Heidegger alla soggettività
metafisica e la temporalità cairologica del protocristianesimo cfr. D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit
danach. Zur Kritik der Textgeschichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, pp. 153161.
33. E. Lévinas, Totalità e infinito, tr. it. A. Dell'Asta, Jaka Book, Milano 1980, p. 294.
34. In-stans è qui da pensare etimologicamente come in-sistenza nell'effrazione cairologica del tempo.
35. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 295. Con questo interrogativo si conclude Tatalità e infinito.
36. Analoghi appelli alla vigilanza si ritrovano nei vangeli (Lc 12, 35-40; Mt 24, 42-51) e nell'Apocalisse di Giovanni:
«Ecco, vengo come un ladro. Beato chi si tiene sveglio» (Ap 16, 15).
37. HG 4, p. 109 (tr. it., p. 132).
38. HG 4, p. 110 (tr. it., pp. 132-133).
39. Cfr. M. Heidegger, «Wozu Dichter?», in Holzwege, hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1977 (HG 5), p. 294 (tr. it. di
P. Chiodi, «Perché i poeti?», in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 294.
40. HG 60, p. 80 (tr. it., p. 118). In seguito Heidegger utilizzerà il termine geschichtlich per denotare questa
costitutiva storicità dell'esistenza, riservando al termine historisch il significato di mera considerazione
storiografica del succedersi degli avvenimenti.
41. Il Vollzug che qui Heidegger pone al centro dell'analisi fenomenologica non coincide con l'idea di compimento
[Vollendung] a cui pure rimanda, dal momento che il compimento indica la pienezza [Vollbesitz] definitiva ed
ultima con cui un processo raggiunge la fine [Ende] delle sue possibilità. Cfr. M. Heidegger, «Das Ende der
Philosophie und die Aufgabe des Denkens», in Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, p. 62 (tr. it. di
E. Mazzarella, «La fine della filosofia e il compito del pensiero», in Tempo ed essere, Napoli, Guida 1980, p.
170).
42. Cfr HG 60, p. 88 (tr. it., p. 128).
43. Qui Heidegger polemizza con la fondazione delle scienze dello spirito proposta dal suo maestro Rickert. Sulla
concezione della storicità nel giovane Heidegger cfr. G. Ruff, Am Ursprung der Zeit. Studie zu Martin
Heideggers phänomenologischem Zugang zur christlichen Religion in den ersten «Freiburger Vorlesungen»,
Duncker & Humblot, Berlin 1997, cap. III; J. A. Barash, Heidegger et son siècle. Temps de l'Etre, temps de
l'histoire, PUF, Paris 1995, cap. V.
44. Heidegger qui utilizza il termine «situazione» come un particolare concetto fenomenologico: «'Situazione' è per
noi qualcosa di inerente al comprendere conforme all'attuazione e non designa nulla di conforme a un ordine»
(HG 60, p. 90; tr. it., p. 130). La situazione, cioè, è il modo in cui l'attuazione degli eventi viene compresa
storicamente e non la loro connessione estrinseca se pure ordinata. La sua unità non può essere colta in modo
logico-formale ma solo attraverso una indicazione formale [formale Anzeige]. Sulla formale Anzeige cfr. HG 60,
§ 13 e sul ruolo metodico che esso svolge all'interno del corso in questione cfr. F. Gaiffi, L'indicazione formale
nei corsi friburghesi, «Teoria», 1997/2, pp. 39-50. Sul rapporto tra l'indicazione formale e le modalità di
manifestazione dell'Ereignis nel successivo sviluppo del pensiero heideggeriano cfr. P.-L. Coriando, «Die
'formale Anzeige' und das Ereignis: Vorbereitende Überlegungen zum Eigencharakter seinsgeschichtlicher
Begrifflichkeit mit einem Ausblick auf den Unterschied von Denken und Dichten», in Heidegger Studies, 14,
1998, pp. 27-43.
45. Sul rapporto del giovane Heidegger con il neokantismo cfr. G. Ruff, Am Ursprung der Zeit, cit., pp. 18-27.
46. HG 60, p. 90 (tr. it., p. 129).
47. Sul Gewordensein e sulle sue varie fasi cfr. J. Brejdak, Philosophia crucis, cit., pp. 81-87.
48. HG 60, p. 94 (tr. it., p. 134).
49. HG 60, p. 95 (tr. it. mod., p. 135. Rendiamo il tedesco erharren con attesa e non con speranza, dal momento che
qui si tratta propriamente di un convertirsi all'attesa del giorno del Signore).
50. Seguendo la proposta di Volpi traduciamo Notwendigkeit con «necessarietà» per distinguerla dalla Not il cui
significato oscilla tra quelli di necessità, bisogno ed emergenza. Quasi sempre Heidegger sente risuonare nel
termine Notwendigkeit il verbo wenden, volgere, rivoltare, attribuendogli, così, il significato di «volgere la
necessità» [die Not wenden]. Cfr. F. Volpi, «Glossario», in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p.
1011.
51. M. Heidegger, «Die seinsgeschichtliche Bestimmung des Nihilismus (1944-1946)», in Nietzsche, Neske,
Pfüllingen 1961, (d'ora in poi N), Band II (tr. it. di F. Volpi, «La determinazione del nichilismo secondo la storia
dell'essere», in Nietzsche, Adelphi, Milano 1994).
52. N, II, p. 392 (tr. it., p. 856). L'incombere di questa necessità ha la stessa penosa gravità dell'imminente
catastrofe che precede la venuta del giorno del Signore: «Al loro dire: pace e sicurezza, li incalzerà subitanea la
distruzione come le doglie la puerpera, senza che possano sfuggire» (1 Ts 5, 3).
53. N, II, p. 393 (tr. it., p. 857).
54. Corsivo mio. Sull'accettazione della debolezza di Paolo come condizione necessaria per lo svolgimento della sua
missione apostolica cfr. HG 60, p. 100 (tr. it., p. 140).
55. Cfr. Ap 6, 9-11. In un orizzonte escatologico non sono le buone azioni dei credenti a 'salvare' il mondo e
nemmeno la sofferenza di coloro che invocano la salvezza dall'esilio delle tenebre: «Non sono le nostre opere
che possono affrettare la salvezza, ma è il nostro patirne la spaventosa vanità, mentre ogni ora del mondo
accumula nuovi orrori, che non abbiamo nemmeno la forza d'immaginare» (S. Quinzio, La fede sepolta,
Adelphi, Milano 1978, p. 175).
56. «Per la fede, finché la fede sussiste, la tenerezza, la pietà, la speranza della salvezza, anche se fossero destinate al
più radicale scacco, sono piene di senso. Il credente le sperimenta come tali, le vive, infatti, secondo il linguaggio
paolino, come primizia, come caparra, come anticipazione, come presenza, vera anche se soltanto incipiente,
della realtà escatologica» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 99).
57. HG 60, pp. 99-100 (tr. it., p. 140).
58. HG 60, p. 102 (tr. it., p. 143). Sperare è piuttosto un «fiducioso, amoroso, umile attendere nell'afflizione e nella
gioia» (HG 60, p. 151; tr. it., p. 198). Sul concetto di speranza in Paolo cfr. S. Zedda, Escatologia biblica, in AA.
VV., Chiesa per il mondo. I. Saggi storico-biblici, EDB, Bologna 1974, pp. 217-229.
59. HG 60, p. 103 (tr. it., p. 144).
60. HG 60, p. 108 (tr. it., p. 149).
61. HG 60, p. 112 (tr. it., p. 154).
62. Il giovane Heidegger impiega questo termine per designare il carattere unitario fondamentale del vivere umano
nella sua effettività; più avanti egli lo sostituirà con Sorge. Nel commento a Paolo, la Bekümmerung, in quanto
vigile apprensione per l'evento della parusia, «rappresenta in certo qual modo un livello ontologico di rapporto
con il mondo, cui non è possibile sfuggire» (L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo 1916-1927, Liguori, Napoli
2001, p. 88). Alla luce della Bekümmerung è, poi, possibile determinare il rapporto tra l'annuncio della parusia,
che si realizza interamente sul piano dell'attuazione, e i concreti riferimenti al Mitwelt e all'Umwelt in cui si
compie l'esistenza storica dei cristiani: le significatività e i contenuti mondani non vengono messi in discussione
dall'esperienza di fede, ma vengono vissuti os me, «come se non» (1 Cor 7, 29-32). Heidegger interpreta questa
fondamentale espressione di Paolo come un «ancora soltanto»: «Resta ancora soltanto poco tempo, il cristiano
vive costantemente nell' 'ancora soltanto' [das Nur-Noch], che accresce la sua angustia. La temporalità
concentrata [zusammengedrängte Zeitlichkeit] è costitutiva della religiosità cristiana: un 'ancora soltanto'; non
c'è tempo per rimandare» (HG 60, p. 119; tr. it., p. 162).
63. Cfr. HG 60, p. 113 (tr. it., p. 155).
64. HG 60, p. 155 (tr. it., p. 202).
65. «Diversamente dal fatto, l'evento è misurabile solo secondo la molteplicità universale di cui prescrive la
possibilità. [...] L'apostolo è allora colui che nomina questa possibilità (il vangelo, la buona novella non è altro
che questo: noi possiamo vincere la morte). Il suo discorso è quello di una pura fedeltà alla possibilità aperta
dall'evento e non può, dunque, in nessun modo dipendere dalla conoscenza» (A. Badiou, San Paolo, cit., p. 73).
Il predominio della grazia nell'evento fonda il venir meno della legge (Rm 6, 14): l'«essere sotto la grazia» indica
la via dello spirito come fedeltà all'evento.
66. HG 60, p. 149 (tr. it., p. 196).
67. M. Heidegger, Seminare, hrsg von C. Ochwadt, 1986 (HG 15), p. 378 (tr. it. di M. Bonola, Seminari, Adelphi,
Milano 1992, p. 153). Sulle diverse forme che la presenza ha assunto lungo la storia della metafisica Heidegger si
è soffermato nella conferenza Das Ende des Denkens in der Gestalt der Philosophie, tenuta ad Amriswil il 30
ottobre 1965 e poi pubblicata con il titolo Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, a cura di H.
Heidegger, Erker, St. Gallen 1984 (tr. it. di A. Fabris, Filosofia e cibernetica, ETS, Pisa 1989).
68. Cfr. Platone, Fedone, 100 c-d.
69. Heidegger utilizza quest'espressione verbale tedesca per indicare il modo in cui l'essere si manifesta negli enti,
riservando all'espressione Gegenwart l'usuale significato cronologico di «tempo presente», «attualità», ma
anche «realtà».
70. Nell'ambiguità del significato participiale di eon si cela la differenza tra essente ed ente, ovvero tra essere ed
ente, dal momento che questa decisiva parola del pensiero greco viene a significare «essere un ente» e al
contempo «un ente che è». Cfr. M. Heidegger, «Der Spruch des Anaximander», in HG 5, p. 345 (tr. it., «Il detto
di Anassimandro», p. 321).
71. HG 5, p. 346 (tr. it., ivi, p. 322). Sulla questione della «presenza» nel contesto della lettura heideggeriana di
Anassimandro cfr. M. Zarader, Heidegger e le parole dell'origine, tr. it. di S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano
1997, pp. 124-126.
72. Marlène Zarader ha molto insistito su questo debito di Heidegger, mai pienamente riconosciuto, nei confronti
della tradizione ebraico-cristiana. Ciò che egli scopre «sia nella vita cristiana evangelica sia nella fede cristiana
successiva (finché non viene indebitamente teologizzata) è un'esperienza della temporalità -- alla luce della
quale egli può rileggere, in modo critico, la tradizione ontologica» (M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e
l'eredità ebraica, tr. it. di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 148). Soltanto grazie a tale esperienza
esistenziale egli riuscirebbe a dubitare che l'essere come costante presenza possa costituire l'orizzonte
ontologico adeguato per comprendere la temporalità dell'attuazione della vita effettiva.
73. M. Heidegger, Sein und Zeit, hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1977 (HG 2), p. 34 (tr. it. di P. Chiodi, Essere e
tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 44). È da notare qui come Heidegger identifichi i due termini greci parusia e
ousia per indicare il senso greco classico dell'essere. In considerazione del carattere escatologico della parusia
tratto dai testi paolini, questo termine dovrebbe, invece, collocarsi all'interno dell'ambito della Anwesung della
Lichtung e quindi sulla scia dell'Ereignis, marcando una sottile ma decisiva differenza nei confronti dell'ousia
aristotelica che anche agli occhi di Heidegger è rimasta velata.
74. Cfr. Aristotele, Fisica, IV 217b.
75. Cfr. Aristotele, Fisica, 219a.
76. La «riduzione fenomenologica», portando ad estremo compimento la critica alla concezione naturalistica ed
obiettivistica del tempo, lo inserisce nell'ambito dell'assoluta soggettività moderna e della sua autofondata
certezza: «Il tempo che inerisce essenzialmente all'Erlebnis, la temporalità dell'Erlebnis in generale, non può in
nessun modo essere misurabile, poiché la sua corrente, il suo Fluss, è 'unità infinita', che non può darsi
obiettivamente [...], ma risulta assolutamente indubitabile, nel senso dell'indubitabilità dell'idea kantiana» (M.
Cacciari, Chronos e Aión, in Dell'inizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 257-258).
77. A partire dalla vicinanza [Nähe] va letta l'intera costellazione semantica che raggruppa tutti i concetti che
implicano il valore di «proprio» (Eigen, eigens, ereignen, Ereignung, Enteignis, Eigentlichkeit, Uneigentlichkeit,
eigentümlich, Eignen, ecc.) di cui l'Ereignis fa parte a pieno titolo. Sulla Nähe cfr. supra, § 1.
78. J. Derrida, «Ousia e grammé», in Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 102.
79. Derrida ha cercato in tutta la sua opera di pensare questa differenza che incessantemente differisce e si
differisce, indicandola come différance: «Una différance siffatta ci darebbe a pensare, già, ancora, una scrittura
senza presenza e senza assenza, senza storia, senza causa, senza archia, senza telos, tale da sconvolgere
assolutamente ogni dialettica, ogni teologia, ogni teleologia, ogni ontologia. Una scrittura che eccede tutto ciò
che la storia della metafisica ha compreso nella forma della grammé aristotelica, nel suo punto, nella sua linea,
nel suo circolo, nel suo tempo e nel suo spazio» (J. Derri«da, Ousia e grammé», cit., p. 104; cfr. anche Id., «La
'différance'», ibid.).
80. In musica si intende per «tempo rubato» un lieve sfasamento, di solito un piccolo anticipo, rispetto al ritmo
della composizione. Similmente il tempo cairologico, non solo è sfasato rispetto all'ordine cronologico del
tempo, ma ne costituisce l'incommensurabile eccedenza, il varco segreto che conduce all'evento, ma anche il suo
ritmo interno. È da notare, inoltre, che il carattere furtivo con cui avviene il kairós è quello stesso che Paolo
attribuisce all'avvento del giorno del Signore (1 Ts 5, 2).
81. Per una accurata e completa analisi filologica della nozione di kairós nella Grecia classica cfr. M. Trédé, Kairos.
(L'à-propos et l'occasion. Le mot et la notion d'Homère à la fin du IVe siècle avant J.-C.), Klincksieck, Paris
1992. Cfr. anche P.-M. Schuhl, «De l'instant propice», Revue Philosophique, 152, 1962. Sul kairós nella cultura
classica e sulla sua tradizione iconografia cfr. A. Z. Ruggiu, «Aión, Chronos, Kairós. L'immaginazione del tempo
nel mondo greco e romano», in AA. VV., Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori, Milano
1998. Il kairós indica non solo un istante ma anche un luogo decisivo, un punto critico.
82. Cfr. M. Trédé, Kairos, cit., p. 57 sgg. Da qui discende il ruolo decisivo che il kairós nella cultura greca classica
svolge in tutte le arti, in particolare in quella medica, nella musica, nella scultura ma anche nell'etica. Tutte
queste caratteristiche del kairós sono raffigurate plasticamente dalla omonima statua di Lisippo che ne
rappresenta il più celebre modello iconografico e di cui ci sono rimaste numerose descrizioni e copie (cfr. ivi, pp.
76-80). Sul kairós come accordo, giusta mescolanza, equilibrio e temperanza cfr. G. Marramao, Kairós.
Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1992.
83. Cfr. R. B. Onians, Le origini del pensiero europeo. Intorno al corpo, la mente, l'anima, il mondo, il tempo e il
destino, tr. it. di P. Zaninoni, Adelphi, Milano 1998, pp. 419-425.
84. Cfr. HG 60, p. 150 (tr. it., p. 197).
85. Per Cullmann il kairós designa un punto particolarmente significativo della storia della salvezza, un momento di
quel tempo lineare e rettilineo che egli ritiene tipico della religiosità del primo cristianesimo, non riconoscendo,
così, la centralità della tensione escatologica che diviene invece fondamentale per l'interpretazione di Heidegger:
«Il centro del tempo non è più costituito dalla futura venuta del Messia, ma da un fatto storico già realizzatosi
nel passato: la vita e l'opera di Gesù» (O. Cullmann, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel
cristianesimo primitivo, il Mulino, Bologna 1965, p. 106) e ancora: «Il Cristo che ritornerà riceve la sua luce
soltanto dal Cristo morto e risorto. Egli non è più, di per sé, come nel giudaismo, sorgente di luce» (ivi, p. 115).
86. «Questo vi dico, fratelli: il tempo è ridotto [kairós synestagmenos], e per quel che ne resta, chi ha moglie stia
come se non ne avesse, chi piange come se non dovesse piangere, chi gioisce come se non dovesse gioire, chi
compera come se non dovesse conservare, e chi usa del mondo come se non avesse da usufruirne: poiché la
figura di questo mondo passa» (1 Cor 7, 29-31).
87. HG 60, p. 119 (tr. it., p. 162). Sull'interpretazione heideggeriana della temporalità cairologica nel cristianesimo
primitivo cfr. K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologiche Frage beim jungen Heidegger,
cit., pp. 145-150; U. Regina, «L'esistenza cairologica», in Servire l'essere con Heidegger, Morcelliana, Brescia
1995; J. Greisch, L'arbre de vie et l'arbre du savoir. Le chemin phénomenologique de l'herméneutique
heideggérienne (1919-1923), Les Éditions du Cerf, Paris 2000, pp. 185-218; A. Ardovino, Heidegger. Esistenza
ed effettività. Dall'ermeneutica dell'effettività all'analitica esistenziale (1919-1927), Guerini, Milano 1998, pp.
85-112.
88. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 63.
89. Ivi, p. 69.
90. «Il sabato -- il tempo messianico -- non è un altro giorno, omogeneo agli altri: è, piuttosto, nel tempo, l'intima
sconnessione attraverso cui si può -- per un pelo -- afferrare il tempo, portarlo a compimento» (ivi, p. 71). Sul
significato del sabato nella concezione ebraica della temporalità cfr. A. J. Heschel, Il sabato, tr. it. di L. Mortara
e E. Moratara Di Veroli, Rusconi, Milano 1972.
91. Cfr. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische
Forschung, hrsg. von W. Bröcker und K. Bröcker-Oltmanns, 1985 (HG 61), pp. 137-140 (tr. it. di M. De Carolis,
Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli 1990, pp. 167-170). Cfr. M. Jung, Das Denken des
Seins und der Glaube an Gott, cit., pp. 63-72. Sullo sviluppo, che Heidegger svolge in questo corso, del concetto
di Vollzug e dell'effettività della vita si è soffermato C. F. Gethmann, «Philosophie als Vollzug und als Begriff.
Heideggers Identitäts-philosophie des Lebens in der Vorlesung vom Wintersemester 1921/22 und ihr Verhältnis
zu Sein und Zeit», Dilthey-Jahrbuch, Band 4, 1986-87, a cura di F. Rodi, pp. 54-71 (questo numero della rivista
ospita gli atti del convegno Faktizität und Geschichtlichkeit svoltosi a Bochum nel 1985 e dedicato al concetto di
vita in Dilthey e Heidegger).
92. Cfr HG 61, p. 131 sgg. (tr. it., p. 161 sgg).
93. Cfr. M. Heidegger, Ontologie. Hermeneutik der Faktizität, hrsg. von K. Bröcker-Oltmanns, 1988 (HG 63), p. 65
(tr. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica della effettività, Guida, Napoli 1992, p. 67). In seguito Heidegger si
soffermerà sui momenti cairologici dell'esserci e del suo essere-nel-mondo su cui si fonda la comprensione della
temporalità esistenziale: cfr. HG 63, p. 101 sgg. (tr. it., p. 97 sgg).
94. Sui caratteri cairologici della vita effettiva cfr. M. Haar, «Le moment (kairós), l'instant (Augenblick) et le tempsdu-monde (Weltzeit) [1920-1927]», in AA.VV., Heidegger 1919-1929. De l'herméneutique de la facticité à la
métaphysique du Dasein, a cura di J. -F. Courtine, Libraire Philosophique J. Vrin, Paris 1996, p. 71 sgg.
95. La temporalità tipica dell'effettività rimanda ad un'interpretazione del tempo dell'essere come tempo
dell'assenza ovvero assenza di tempo come suggerisce M. Bonola, «Essere il tempo. Genesi del concetto di
tempo negli anni di Heidegger a Marburgo», Filosofia, XXXIX, 1988, p. 331.
96. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, Niemeyer, Tübingen 1989, p. 19 (tr. it. di F. Volpi, Il concetto di tempo,
Adelphi, Milano 1998, p. 40).
97. Cfr. T. Kisiel, «Die Zeitbegriff beim früheren Heidegger (um 1925)», in AA. VV., Zeit und Zeitlichkeit bei Husserl
und Heidegger, Karl Alber, Freiburg -- München 1983, p. 198.
98. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, cit., p. 26 (tr. it., p. 48).
99. Agostino, Confessioni, libro XI, cap. 27. Qui Heidegger traduce con Befindlichkeit il concetto agostiniano di
affectio, nel senso di quel «sentirsi situati» in una disposizione «armonica» -- e non semplicemente emotiva -che costituisce una determinazione fondamentale dell'esserci. Cfr. HG 2, §§ 29-30, 40.
100. M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, hrsg. von W. Biemel, 1976 (HG 21) (tr. it. di U. M. Ugazio,
Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano 1986). Su questo corso cfr. T. Kisiel, «Die Zeitbegriff beim
früheren Heidegger (um 1925)», cit., pp. 206-211; R. De Monticelli, «Il problema della verità: logica e metafisica
(Note sulle Lezioni heideggeriane del '25)», Nuova Corrente, 76/77, 1978.
101. Cfr. HG 21, p. 243 (tr. it., p. 161).
102. HG 21, p. 410 (tr. it., p. 271).
103. «Tutta la verità di questa logica è verità della visione; visione intesa come render-presente» (HG 21, p. 415; tr.
it., p. 275). Si scopre qui il fondo apocalittico della forma tradizionale del pensiero occidentale e della sua tipica
concezione della verità come aletheia. Come nota Cacciari, «il simbolo apocalittico sta al culmine di una cultura
della visione. La verità ultima è vista apocalitticamente, cioè compresa nella stessa visione direttamente e
perfettamente. [...] Conoscere è perfetto vedere, poter-vedere. Il chrónos apocalypseos segna il trionfo della
visione: la verità manifesta è finalmente vista-conosciuta ad un tempo. Ciò che si vede è finalmente la verità
stessa» (M. Cacciari, «Chrónos apocalypseos» in AA. VV., Tempo e apocalisse, a cura di S. Quinzio, SPES,
Milazzo 1985, p. 26. Cfr. anche Id., «La morte del tempo», in AA. VV., Dimensioni del tempo, a cura di U. Curi,
FrancoAngeli, Milano 1987).
104. Sui concetti di Erschlossenheit e Entschlossenheit determinanti per la costituzione esistenziale della cura cfr.
HG 2, §§ 44; 54-60.
105. In questo senso va letta l'affermazione conclusiva del corso del 1925/26 che abbiamo fin qui commentato: «Ma
se nella temporalità dell'esserci devono risiedere più radicali possibilità temporali, tali possibilità dovrebbero
allora porre alla logica e all'ontologia tradizionali un limite essenziale» (HG 21, p. 415; tr. it., p. 275).
Nicoletta Ghigi
La metafisica come ricerca di Dio nella
fenomenologia di Husserl
1. Dio come «agente metafisico»
Seguendo l'analisi rigorosa sulla fattualità della «scienza diretta all'essere fattuale», 1
secondo Husserl è possibile pervenire alla scoperta di un telos che si esprime nella storia. Il
motore di tutto il processo scaturisce da quell'innato tendere-a, dirigersi-verso, che spinge
l'interesse umano alla costituzione di una precisa rete di rapporti e di un determinato
orizzonte di accadimenti. Dal canto suo la hule, «viva materia fungente», proietta su di sé
questa continua produzione di orizzonti esprimendo inoltre, in questo, la sua originarietà,
vale a dire ciò che Husserl chiama entelechia.2
Messi a fuoco questi presupposti, dalla questione teleologica si sviluppa subito una
problematica «teologica» cioè relativa all'origine della teleologia medesima. Qual è infatti
la fonte della teleologia che l'indagine metafisica riscontra nello sviluppo monadologico
della storia; direttamente l'essere assoluto come «Dio essente», oppure l'idea di Dio «come
autosviluppo dell'idea divina nel Dasein»?3 In altri termini se la metafisica rintraccia sia
nell'essere reale (Materie) che nell'essere fattuale (Wirklichkeit) l'inequivocabile presenza
del telos universale, referente assoluto di perfezione, come «forza motivante di tutto lo
sviluppo storico»,4 è questa un'implicita dimostrazione dell'esistenza di Dio come causa
causarum, oppure si tratta di ammettere platonicamente una sorta di idealismo
«ateistico»?5
La più grande difficoltà, spiega Husserl, è la comprensione della teleologia originaria, che
appartiene alla coscienza assoluta. La causalità è una forma della realtà da costruire all'interno
dell'essere costituito, dunque appartiene al contempo, sotto l'aspetto della costituzione coscienziale
alla teleologia.6
Ma allora, sorge spontaneo chiedersi, l'essere costituito che rende possibile («causa») lo
sviluppo teleologico della storia, coinvolgendo in questo vortice anche la coappartenente
forza costitutiva della coscienza, è mosso da un'idea o dalla certezza di un'esistenza
suprema?
Proprio perché tale ricerca, arguisce Edith Stein, «relativizza Dio stesso -- è in
contrapposizione con il credere. Questo è il più acuto contrasto tra la fenomenologia
trascendentale e la filosofia cattolica: l'orientamento "teocentrico" dell'una e quello
"egocentrico" dell'altra».7 In effetti questo rilievo di Stein mette subito a fuoco, colpendolo
irreparabilmente, l'impianto teoretico della teologia fenomenologica, ove lo spazio per la
ricerca personale di Dio (della fede individuale) è ridotto ai minimi termini, se non escluso.
Eppure, se è vero che solo l'Io trascendentale, l'Ego monade, ha la garanzia in sé di una
visione assoluta del mondo e della teleologia in esso contenuta, è anche vero che proprio in
quest'ultima sono presenti le ragioni della fede che, appunto razionalmente e
intellettualmente, coimplicano il soggetto e l'intenzionalità dell'entelechia divina. Con ciò,
rendendo ragione all'osservazione steiniana che denuncia il poco spazio riservato dalla
fenomenologia alla fede, bisogna pur tuttavia riconoscere che il «problema di Dio» è senza
dubbio uno sbocco naturale dell'indagine teleologica cui approda la metafisica
fenomenologica, anche se non certo nei termini «ordinari» che la fede riconoscerebbe. È
altresì vero che, sebbene tale problema non è affrontato dal punto di vista della fede bensì
da quello razionale della scienza fenomenologica, esso per Husserl ha certamente
un'importanza di primo ordine. Conferma infatti Ales Bello: «egli afferma che la sua
ricerca è essenzialmente ateologica, ma con questo non intende dichiarare di non
interessarsi a Dio, vuole solo sottolineare che il suo punto di partenza è quello di una
filosofia che prescinde da ogni contesto religioso come preliminare».8
È dunque valido, anche in questa sede, il proposito fenomenologico di radicalità che
equivale a non accettare alcun supporto e nessun presupposto che non sia stato rivalutato,
epurato e riletto secondo l'ottica trascendentale. E questa premessa investe naturalmente
anche il piano puramente religioso, per cui la questione di Dio diventa per la
fenomenologia un argomento filosofico cui ci si avvicina razionalmente, privi di pre-giudizi
ed eseguendo rigorose analisi razionalmente evidenti. Quindi l'apparente «mancanza di
fede» nella fenomenologia, l'ateismo, osserva ancora Ales Bello, «non è la negazione
dell'esistenza di Dio, ma la sostituzione della via filosofica a quella religiosa».9
Ora, tenendo conto di queste premesse che rendono possibile l'esclusione della visione
tradizionale della questione teologica, cerchiamo di rispondere fenomenologicamente agli
interrogativi poco sopra sollevati, i quali concernono, in sostanza, la definizione del
«problema di Dio» nei termini di un'idea che «causa lo sviluppo della storia» o, altrimenti,
di un principio causante implicito nell'entelechia iletica. A tale fine va anche precisato che,
come sottolinea Strasser, «Contrariamente alla dottrina tradizionale Dio non è, seguendo
Husserl, la "causa" del mondo».10 Ciò implica che è il concetto stesso di causa a subire ad
opera della fenomenologia husserliana un rilevabile mutamento rispetto al suo significato
usuale. Infatti la causa della teleologia sembra essere parte integrante della teleologia
stessa, poiché è ad essa relativa.
Dio, spiega Husserl, non è di per sé la totalità monadica (Monadenall), ma l'entelechia che è
immanente ad essa, come idea di un telos di un'evoluzione infinita, proprio di un'"umanità"
regolata da una Ragione assoluta che governa necessariamente l'essere monadico, e lo governa
secondo la propria libera decisione.11
Da questo punto di vista sembrerebbero accettabili entrambe le ipotesi sopra avanzate,
poiché se Dio è l'entelechia come «idea che regola», tale entelechia si insinua nel processo
storico causando la storia dell'essere monadico (immanentemente). Ma, d'altra parte,
sembra anche plausibile che la «propria decisione» di Dio nelle vesti di «principio della
teleologia» che non coincide affatto con l'universo monadico, si possa intendere come
concetto di causa immanente, in quanto entelechia, ma trascendente rispetto l'universo
monadico. Infatti per Husserl Dio è «l'entelechia del mondo», ma non immediatamente la
comunità delle monadi e «neppure, aggiunge Strasser, egli è -- come per Leibniz -l'inventore e il costruttore del sistema armonioso delle monadi».12 Egli è entelechia
immanente all'universo e, contemporaneamente, trascendente rispetto l'universo; ovvero,
da un lato, animando dall'interno l'universo monadico al perseguimento della perfezione,
è esso stesso parte del mondo; dall'altro lato, però, non coincidendo con l'universo
monadico, essendo cioè altro da questo, il Dio della fenomenologia sembrerebbe
raffigurarsi come un Dio che è principio «agente» e causante l'idea di perfezione, dalla sua
infinita alterità.
Dunque, una volta esclusa l'ipotesi di una teologia tradizionale, il problema
fenomenologico di Dio sembra congelato nella equivoca polarità di trascendenza ed
immanenza ove, malgrado gli sforzi che Husserl stesso compie per una chiarificazione in
un senso o nell'altro, la ricerca fenomenologica di Dio sembra inesorabilmente impigliata.
Infatti sia prediligendo l'uno che l'altro corno della questione, ci troveremmo in una
visione incompleta e, per di più, in una mistificazione dell'intera problematica. La
trascendenza richiama immediatamente la coscienza che a sua volta, come richiesta di un
senso assoluto di trascendenza, si rivolge all'idea come sua fonte garante. Ma, dal canto
suo, l'idea presenta un'ambiguità perché non può essere soggettiva ed oggettiva insieme, e
pertanto se si sceglie la sua oggettività si riproduce la trascendenza, mentre se si sceglie la
sua soggettività non si fa che ricreare il problema. Sembrerebbe quindi che le due
caratterizzazioni di immanenza e trascendenza della definizione teologica non possano
essere separate, ma anzi debbano in qualche maniera convivere incontraddittoriamente.
Eppure, nonostante queste evidenti aporie, cercando nelle specifiche trattazioni del
problema un'ipotesi risolutiva, non è del tutto esclusa una sua soluzione nei termini
fenomenologici husserliani, soprattutto tenendo conto dell'intrinseco significato di
trascendenza, che assume in questo contesto a contorni nuovi e ben precisi, una
trascendenza scrive Husserl, «in un senso totalmente diverso dalla trascendenza nel senso
del mondo».13 A tale fine, cerchiamo di seguire una pista che miri a trovare una
caratterizzazione coerente della concezione teologica, considerando dapprima il concetto
di trascendenza assoluta dell'entelechia divina, per affrontare in un secondo momento la
sua attività causativa nell'effettività e nel reale, in relazione cioè alla sua immanenza.
2. Il concetto di trascendenza assoluta dell'«entelechia divina»
Esaminiamo il primo punto ed osserviamo che, dopo aver descritto la trascendenza
oggettuale in relazione al percepire un «solo lato» della cosa, Husserl inserisce
un'interessante problematica, «parallela» alla questione della trascendenza divina. Si
tratta della «seconda trascendenza, la trascendenza vera e propria», che è quella
dell'intersoggettività monadologica delle coscienze, la quale attraverso l'Einfühlung cioè la
penetrazione intuitiva nell'intenzionalità implicita,14 si costituisce, da una parte, come
«trascendente rispetto il proprio io», dall'altra, in virtù di questa sua trascendenza, come
correlato di una probabile coscienza assoluta che «comprende» tutte le altre.15
Il rapporto monadologico raggiunto dall'analisi trascendentale infatti predispone la
mondanità come luogo in cui la comunicazione intersoggettiva diviene richiesta16 di un
principio coordinante, di una Monade Somma.
Il rapporto fra gli io, gli altri e Dio, semplifica Ales Bello, può essere interpretato come un rapporto
intermonadico, non nel senso strettamente metafisico proposto da Leibniz, ma nel senso che la
monade serve bene ad indicare da un lato la limitatezza di ogni singola soggettività, dall'altro la
possibilità di una comunicazione che si potrebbe definire "spirituale"... Ciò apre la via alla
possibilità di una Monade Somma che coordini tutte le altre e che, pur rispettando i confini di
ognuna, possa penetrare in esse empaticamente.17
L'analisi della seconda trascendenza in pratica dovrebbe fornire i mezzi per dimostrare la
presenza trascendente di Dio da un'altra angolazione, ossia da quella della comunicazione
empatica fra le monadi. «Se ascriviamo a Dio (come coscienza che tutto comprende,
Allbewußtsein) la "capacità" di penetrare nella coscienza degli altri, precisa Husserl, ciò è
pensabile soltanto a condizione che l'Essere di Dio comprenda in sé ogni altro essere
assoluto» e quindi che «contenga» la mia coscienza, insieme a quella dell'altro da me.18
A questa immagine di Dio Husserl perviene solo dopo aver isolato il concetto
monadologico di empatia, individuando in esso la fonte originaria dell'intenzionalità
divina, poiché proprio in questa forma di comunicazione «intuitivamente penetrante» che
vede coinvolta la mia monade come l'altra che io appercepisco empaticamente, risiede la
proiezione della esplicazione teleologica della divinità. L'essenza dell'intenzionalità divina
infatti non è altro che la realizzazione delle monadi nel loro mondo al fine di instaurare
una certa armonia, come una sorta di Coscienza Assoluta in cui tutti gli sguardi e tutte le
intenzionalità monadologiche, in breve l'intersoggettività sia riunita sotto un'unica
individualità.
Ma, si chiede Husserl, è concepibile un Io che comprende tutti gli io, che racchiude in una vita tutto
ciò che è costituito temporalmente, dunque anche tutte le formazioni di ogni io e tutti gli io stessi,
in quanto essi sono costituiti per se stessi? Un Io che esperisce la natura e il mondo, costituiti in
comune tutti gli io finiti, con gli occhi di questi io, che ha in sé tutti i loro pensieri in quanto loro
pensieri, che agisce dall'interno (hineinwirkt) della sfera degli io -- un Io che "crea" la natura e il
mondo nel senso dell'«idea del bene»...?!.19
In altri termini, l'interrogativo riguarda la possibilità o meno di concepire come possibile
una Coscienza che, analogicamente alla modalità di apprensione empatica delle monadi,
sia in grado di trascendere le singole appresentazioni (appercezioni) in un'unica
onnicomprendente visione della globale comunicazione intermonadica. Questa Coscienza,
l'Io come la chiama Husserl, dovrebbe erigersi trascendentemente al di sopra delle
monadi, forte della Einfühlung assoluta, cosciente di ogni singola prospettiva.
Ma qual è allora per Husserl la vera trascendenza che, nella sfera dell'intersoggettività
monadologica, «raccoglie» una Einfühlung assoluta come Coscienza di ogni singola
comunicazione empatica?
In molti luoghi Husserl sembra propendere per una definizione del problema alla luce
della prospettiva «empatica» da cui si sviluppa il significato di trascendenza, a sua volta
derivato dalla constatazione che deve necessariamente darsi un principio assoluto che
sovrintenda alla realtà delle singole intenzionalità volitive. Una Überrealität, dice spesso
Husserl, verso la cui «posizione» tutte le monadi si esprimono relativamente ed in cui
convergono le volontà individuali.
La volontà assoluta universale che vive in tutti i soggetti trascendentali e che rende possibile
l'essere individuale-concreto della soggettività totale trascendentale, è la volontà divina, la quale
presuppone (voraussetzt) però tutta l'intersoggettività, non nel senso che quest'ultima precede la
prima e sia possibile senza di essa (e neppure come l'anima presuppone il corpo) ma come strati
strutturali, senza i quali questa volontà non può essere concreta.20
La volontà di Dio quindi si rispecchia nelle singole volontà di ogni monade, ognuna delle
quali, agognando al raggiungimento individuale della perfezione assoluta, richiede la
presenza di una volontà assoluta e, contemporaneamente, inscrive assieme alle altre
monadi, un orizzonte volitivo generale, determinabile come volontà intersoggettiva. Per
questa ragione, possiamo definire l'intersoggettività come una comunicazione di valori e
fini che ha come scopo il raggiungimento della perfezione assoluta e, di conseguenza,
possiamo definire la volontà divina, come idealizzazione di tale perfezione e, soprattutto
come presenza -- «come di "rendere-compresente" (Mit-gegenwärtig-machens)», secondo
la terminologia husserliana21 -- alle monadi del proprio essere la «soggettività totale».
In questo senso ci sembra interpretabile l'affermazione heldiana per cui «Dio agisce
dunque nell'interiorità della mia libertà»;22 ammettendo cioè che se, da un lato,
l'intersoggettività è mondana, essa è, da un altro lato, richiesta precisa di un significato
ultimo, onnicomprensivo della mondanità stessa. D'altro canto, l'esigenza di assolutezza
che le monadi portano in sé, trova garanzia e fonte diretta nell'essere individuale della
monade la quale, interagendo empaticamente, conferma la presenza di un'essenza
unificante trascendente che abbraccia complessivamente l'insieme globale degli orizzonti,
anch'essi trascendenti. E tutto ciò, guidato dall'intenzionalità fungente (l'entelechia iletica,
come si è chiamata), avviene in seno alla più autentica libertà.
Scrive a questo proposito Husserl:
Ciascun singolo io è ego per tutti gli altri membri dell'universo come suoi alteri, così che ognuno di
tali universi implica, a partire da ogni membro, l'universo, una totalità di soggetti possibili,
ciascuno dei quali implica tutti gli altri e implica la totalità come totalità.23
Per tale ragione è possibile descrivere la totalità come orizzonte trascendente la singola
individualità monadologica, e considerare quest'ultima, sulla scia della proposta
husserliana, come effettività in cui la teleologia esprime la necessità del suo fondamento in
Dio.24 La vera trascendenza che si esprime attraverso l'intersoggettività è infatti proprio
questa apertura che la singola monade lascia intravedere; è «il tu della chiamata divina»,
sottolinea incisivamente Landgrabe, dove si fonda l'autentica correlazione tra la sfera
monadica e quella propriamente divina, sotto le sembianze di dialogo perenne.25
Altrove, precisamente nelle Cartesianischen Meditationen, Husserl esamina questa
seconda trascendenza da un'angolazione che sembra contenere la compresenza delle
monadi come unione di immanenza e trascendenza. Ora tale paradosso, che potremmo
chiamare paradosso dell'intersoggettività cioè dell'appresentazione empatica dell'altro
immanentemente-trascendentemente fondata, ben si potrebbe prestare ad un'esposizione
emblematica dell'assolutamente Altro.26 Nella Quinta Meditazione infatti Husserl ricorre
spesso alla formulazione di questa seconda trascendenza, intesa in senso forte a cui il
nostro vivere corporeo (leiblich) rimanda come ad una sorta di intenzionalità indiretta o
implicita. Questa intenzionalità implicita, sottesa ad ogni interagire monadologico, si
rende esplicita in me ed è già parte di «me esperente». Inoltre, tale mio implicare impone
un richiamo, l'urgenza che ho in me di riconoscere questa corporeità (Körper) che si
estende a me intensionalmente, come trascendenza (perché da me sentita come una parte,
tuttavia altra da me). Ora è possibile, ci si chiede, rintracciare in questo richiamo, la
ulteriore «compresenza» di una Monade Somma trascendente, che «raccoglie» tutte le
intensioni del vivere corporeo intersoggettivo?27
Husserl purtroppo non si spinge oltre questo interrogativo, lasciando intematizzata la
definizione di Übermonade, sebbene i suoi rimandi ad un'intenzionalità indiretta,
empaticamente avvertita, ne confermerebbero la legittima espressione. Neppure la
esplicita ammissione della comunità intermonadica (§§ 55-56) riesce ad intersecarsi con
l'idea di una Coscienza univoca di questa comunità, cosa che invece fin dagli scritti del
1908, sembrava verificarsi per il tramite dell'empatia della coscienza estranea.28 Il limite
«mondano» entro cui la trascendenza intermonadica della Quinta Meditatione
evidentemente deve restare, impedisce l'eventuale estensione della «compresenza
monadica» ad una «compresenza sovra-manadica», quando invece, questo aspetto si
sarebbe spontaneamente sviluppato dal concetto «comunitario» (assemblativo di tutte le
monadi) di intenzionalità implicita.
Questa «carenza», se così si può chiamare, di Meditationen, tuttavia non deve far pensare
ad un'inversione di tendenza rispetto al problema che stiamo considerando, da parte
dell'Husserl degli Anni '30, poiché, anzi, è forse l'ultima speculazione husserliana a rivelare
il concetto teleologico di totalità nella sua più autentica espressione. Questo «silenzio»,
come ci sembra opportuno definirlo, invece è sicuramente imputabile al clima cartesiano
dell'opera, dove il tema metafisico della teleologia potrebbe altresì riproporre dei problemi
gnoseologici costitutivi, qui probabilmente ritenuti pericolosamente interpretabili, come
aporetici. Pertanto, sebbene in quest'ultima descrizione della seconda trascendenza non ve
ne sia una definita analisi, è senz'altro ammissibile ricondurre il tema dell'intersoggettività
husserliana comunque alla «compresenza» della Monade Somma, soprattutto se ci si
riferisce al tema dell'intenzionalità indiretta e implicita appena trattato, a cui l'ultima
delle Meditationen continuamente rimanda.
Per questo motivo il senso della trascendenza «in sé prima» (§48), così come le conclusioni
agostiniane delle Meditationen possono essere a ragione interpretate come l'implicita
ammissione della presenza ulteriore di un «essere primo». «L'essere in sé primo, conferma
Husserl, che precede ogni oggettività mondana e la comprende in sé, è l'intersoggettività
trascendentale, la totalità delle monadi che si articola in diverse forme di comunità».29
Vediamo ora gli esiti cui conduce quest'ultima ammissione, ove il «comprendere», cui fa
riferimento in questo passo Husserl, sembra richiamarsi alla trascendenza intersoggettiva,
tuttavia in maniera non sempre esplicita e priva di contraddizioni.
3. L'«Übermonade»: teismo e panteismo
Nell'intersoggettività monadica si realizza un «destino», scrive spesso Husserl, una finalità
universale che, come abbiamo visto, nasce dalla realizzazione individuale di ogni monade.
«Questo sovratemporale e transtorico telos, osserva Strasser, è dunque una nozione
metafisica»,30 intendendo per metafisico il riferimento alla trascendenza di questa forza e,
quindi, all'essenza profondamente concreta (immanente, incontraddittoriamente) del
telos. Per questo motivo, prosegue Strasser, «Husserl non esita ad identificarlo (il telos)
con l'idea di Dio».31 E, a conferma di una simile equivalenza, Strasser si richiama
espressamente al Manoscritto E III 14, al cui riguardo Husserl scrive: «Qui occorre che
l'idea di Dio e l'idea della teleologia del mondo (Weltteleologie) come principio di una
possibile totalità dell'essere, pervengano ad una problematizzazione».32
Quindi Dio è la «Coscienza globale» (Allbewußtsein, dice spesso Husserl), l'idea di un
«polo assoluto» attraverso cui il flusso della costituzione del mondo riceve una direzione
oppure, come si legge ancora in E III 14, è «l'assoluto Logos, la verità assoluta in senso
pieno e totale, come l'unum verum, bonum, verso cui ogni essere finito, nell'unità di ogni
essere finito, accomunato dallo stesso tendere-a, è diretto».33 Per questa ragione la sua
assolutezza è anche conferma decisa della sua trascendenza, soprattutto rispetto i contesti
storici in cui si manifesta. È infatti pur vero che l'idea, il Logos, è manifesto nella storia;
ma è anche a maggior ragione certo che, proprio in questo suo manifestarsi, esclude la sua
completa aderenza al corso evolutivo della storia, come storia esso stesso.
«Il logos assoluto, sottolinea Strasser, è sovratemporale sebbene esso è manifesto nel
vivere degli atti coscienziali che si rivelano (unfold) nel tempo. In breve, è grazie all'idea di
Dio che la tarda filosofia di Husserl è distinta da una panstorica e relativistica dottrina à la
Dilthey».34 Ora, prima di prendere in considerazione questa conclusione strasseriana che,
per i motivi che vedremo, sembra a noi la più vicina all'autentica concezione husserliana
del problema teologico, cerchiamo di fare chiarezza sulle possibili implicazioni che
l'ammissione della trascendenza del Logos divino arreca, nei confronti di una soluzione
ultimativa del problema di Dio.
Iniziamo con l'affrontare il problema considerando entrambe le eventualità di cui si
parlava precedentemente; ovvero delle sue due probabili interpretazioni in relazione ad
un'immanenza, o in relazione alla trascendenza. È interpretabile questo Logos, ci si chiede
con Strasser, come «un finalismo immanente all'evoluzione cosmica, oppure è un polo
trascendente ed esteriore in relazione a questa evoluzione? È Dio stesso la ragione che
sviluppa, o è egli il finis ultimus dello sviluppo? In altre parole: la filosofia religiosa di
Husserl è panteistica o teistica?» Ed inoltre, «se il Dio di Husserl sia un polo verso cui
l'evoluzione cosmica tende, ma che non evolve di per se stesso: quanto può essere messa in
accordo una tale concezione con l'idealismo trascendentale?».35
Per l'appunto, poiché un Dio trascendentale verrebbe ad avere un'esistenza obiettiva
assoluta, indipendente dall'intenzionalità soggettiva, una tale supposizione in un contesto
fenomenologico parrebbe ovviamente assurda, come sembra ammettere l'interpretazione
di Dupré, convergente in quest'impossibilità fenomenologica. «La difficoltà dell'approccio
teleologico al problema di Dio, scrive egli a proposito, è che esso rende del tutto
naturalmente il telos una parte immanente dello stesso movimento teleologico. Un'altra
difficoltà si trova nello stesso metodo fenomenologico che riconosce solo l'essente
costituito (il fenomeno) e quello costituente (la soggettività trascendentale) e nessuno dei
due può accordarsi con l'idea di un Dio trascendente».36 Dello stesso avviso sembra essere
Mall per il quale «è veramente ingenuo pensare che può esistere un'ontologia o metafisica
di Dio senza essere al contempo unità costituita di significato».37 Ciò inoltre implica
necessariamente che nell'ambito fenomenologico, dove la soggettività trascendentale è
principio ultimo e costituente, è possibile «concepire soltanto un Dio immanente come
costituito».38 Per tali motivi, data la contraddizione in termini conseguente all'ammissione
di un qualsiasi esubero rispetto alla soggettività costituente, Mall propende per una
concezione immanentistica, dove il problema teologico verrebbe ad essere risolto da una
riduzione del divino all'idea interna dello sviluppo storico delle monadi ed, inoltre, come
da queste immediatamente certificabile, in quanto loro prodotto.
Eppure, se ciò è in prefetto accordo con l'idealismo trascendentale di Husserl, non sembra
affatto rendere conto da un altro lato, di quel concetto husserliano di trascendenza che i
singoli orizzonti monadici descrivono nella globalità di un orizzonte totale, referente
teleologico di un'entelechia, che le monadi esprimono, non creando.
L'apriori soggettivo, spiega Husserl, è ciò che antecede (vorausgeht) l'essere di Dio e del mondo ed
ogni e ciascun essere-per-me, cioè me che penso. Anche Dio è per me ciò che è, a partire
dall'operazione di coscienza che mi è propria; e anche qui io non posso distogliere il mio sguardo
per paura di riuscire blasfemo, ma devo bensì vedere il problema. Anche qui operazione di
coscienza -- come nel caso dell'alter-ego -- non significherà naturalmente che io inventi e crei
questa trascendenza suprema.39
«Avremmo quindi da scegliere, propone Strasser, tra due possibilità. Questo Dio potrebbe
essere considerato un oggetto ideale, prodotto di un'attività trascendentale soggettiva o
intersoggettiva. Egli sarebbe allora un fenomeno "mondano" (nel senso fenomenologico
del termine). In questo caso sarebbe assurdo parlare di un essere divino trascendentale»,40
poiché l'aggettivo divino perderebbe tutto il suo valore, visto che l'inferenza di un simile
fenomeno avverrebbe in maniera totalmente analoga a quella degli altri fenomeni. Si
giungerebbe dunque ad una sorta di «mondanizzazione» del «fenomeno Dio», cui Strasser
contrappone come alternativa quella che «consisterebbe nell'identificazione di Dio con la
vita soggettiva trascendentale. Per cui la divinità sarebbe identica a quella ragione stessa
che sta indagando (seeking). Avremmo perciò a che fare con un Dio che aspira alla luce ed
alla sua piena realizzazione. In breve, sarebbe allora una questione di una concezione
panteistica, che comporterebbe gravi obiezioni».41
È pur vero che una simile conclusione non è del tutto estranea all'indagine husserliana se,
come mostrano le Lezioni su Fichte, Husserl stesso giunge ad affermare che «l'Io è
assolutamente autonomo, porta in sé il suo Dio come idea teleologica che anima e dirige
tutte le sue pure azioni».42 Così pure per Landgrabe, che segue questo filone
interpretativo, la stessa descrizione della trascendenza del celebre cinquantottesimo
paragrafo del primo volume di Ideen, va inserita in un contesto panteistico, ove
l'elaborazione ideale di una volontà divina è leggibile come esteriore manifestazione,
nell'interiorità intermonadica.43
Per contro, fa notare Strasser, esistono luoghi bel precisi in cui Husserl caratterizza la
trascendenza come tale, anche rispetto gli atti coscienziali assoluti. È questo il caso del
Manoscritto E III 4 in cui Husserl scrive che «alla soggettività assoluta corrisponde come
una via infinita che permette di arrivare nel suo sviluppo al suo vero essere... un'idea
assoluta, suprema», un «polo ideale», il cui carattere di autonomia (assolutezza) rispetto
alla soggettività trascendentale impone ipso facto la non coincidenza dei due poli e, di
conseguenza, la non immanenza del «polo ideale assoluto».44 Oppure è il caso del passo
del primo volume di Ideen in cui Husserl precisa che
Il principio ordinativo dell'assoluto deve essere trovato, per mezzo di una considerazione
puramente assoluta, nell'assoluto stesso. Con altre parole, poiché un Dio mondano è
evidentemente impossibile, e poiché dall'altra parte l'immanenza di Dio nella coscienza assoluta
non può essere concepita come immanenza nel senso dell'Erlebnis (il che non sarebbe meno
assurdo), ci devono essere nella corrente della coscienza e nelle sue serie infinite altri modi di
annunciarsi delle trascendenze, oltre quello che dà luogo alla costituzione di realtà fisiche come
unità di apparizioni concordanti; e ci devono pure essere notizie intuitive, in base alle quali il
pensiero teoretico potrebbe razionalmente rendere intelleggibile la potenza unitaria del supposto
principio teologico.45
Ora, ci si chiede, è legittimo, stando alle intenzioni della fenomenologia, un simile esito
indubbiamente «ateistico»? Altrimenti, sarebbe ammissibile l'alternativa, avanzata da
Strasser, di un essere divino inteso come fenomeno immanente, costituito dalla
soggettività trascendentale o, ancora, come identificantesi tout court con la soggettività
trascendentale stessa?
Le soluzioni sembrano a questo punto moltiplicarsi. Si tratta di un essere divino da
intendere come «fenomeno», come soggettività trascendentale, come divinità
trascendentale o, ancora, come trascendente unità fondata nell'immanenza oppure
autofondantesi?
Abbiamo appena visto che Husserl deve scartare l'ipotesi di una trascendente unità del
divino come autofondantesi, poiché del tutto estranea all'idealismo trascendentale. Per un
ragione analoga e cioè perché perderebbe il suo significato di assolutezza, l'idealismo
trascendentale deve escludere anche la descrizione dell'ente divino come entità
trascendentale, mentre, per il motivo opposto, tramonta anche l'eventualità di descrivere il
divino come mero «fenomeno» che si manifesta tra gli altri. Allora, resta da stabilire, è
l'essere divino la stessa soggettività trascendentale o il trascendente immanentemente
fondato?
Stando alle ultime opere ed ai Manoscritti relativi a questa epoca, a nostro avviso è
possibile rintracciare un'eventuale soluzione al «problema husserliano di Dio»,
allorquando Husserl, nella Krisis, rileverà che
dev'essere messa in atto una considerazione razionale del mondo, libera dai vincoli del mito e della
tradizione in generale, una conoscenza universale del mondo e dell'uomo che proceda in
un'assoluta indipendenza dai pregiudizi -- che giunga infine a conoscere nel mondo stesso la
ragione e la teleologia che vi si nascondono e il loro più alto principio: dio».46 Inoltre, nel momento
in cui ammette che «il problema di dio contiene evidentemente il problema della "ragione assoluta"
in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione del mondo, del "senso" del mondo.47
In questi passi, a parte il significato di «ragione assoluta» che resta ancora da determinare,
si avverte come l'ultima parola della fenomenologia husserliana, nelle opere edite così
come in quelle intedite, sia inclinata ad un'interpretazione del «problema di Dio» nei
termini di assolutezza e, soprattutto, in relazione ad una visione metafisica (nei termini di
concretezza fin qui ribaditi) e teleologica di Dio. Ciò significa che gli ultimi sforzi
husserliani sono rivolti all'affermazione di un concetto di assolutezza e di verità assoluta,
nel senso di una probabile, sebbene implicita, ammissione della trascendenza divina. Ed
infatti, come si è già ricordato, in Formale und transzendentale Logik la trascendenza
divina è costituita in analogia all'appresentazione dell'altro. «Anche qui operazione di
coscienza -- come nel caso dell'alter-ego -- non significherà naturalmente che io inventi e
crei questa trascendenza suprema».48
Allo stesso modo ma, più tardi, in Krisis, sempre nell'impossibilità di creare la
trascendenza suprema, si ribadisce la preponderanza della struttura trascendente
dell'essere divino nei termini teleologici, come si è ricordato sopra, di un'entelechia
razionale cui l'uomo è chiamato storicamente ad aderire. Ora, è in questa azione
intenzionale come autorischiaramento della ragione, che l'entelechia divina sotto forma di
idea della «verità in sé» anima e promuove lo sviluppo teleologico (razionale, si potrebbe
dire, restando fedeli alla Krisis) dell'umanità.
Spiega Husserl nel Manoscritto F I 14:
Dio, come idea, come idea dell'essere più perfetto, come idea della vita più perfetta, che costituisce
di sé un "mondo" perfetto, di una vita che creativamente si sviluppa da sé in un universo di esseri
spirituali perfetti in relazione alla natura perfetta nella più alta forma. La filosofia come idea, come
correlato dell'idea di Dio, come scienza assoluta dell'essere assoluto come scienza della pura idea
della divinità e come scienza dell'essere assoluto esistente.49
L'idea, che per Husserl è l'assolutamente concreto, è dunque il motore dello sviluppo
storico dell'umanità, poiché «il dispiegamento dell'idea di una conoscenza più perfetta, egli
spiega, ci conduce all'idea della coscienza più perfetta, del mondo più perfetto, e all'ideale
teleologico della divinità».50
Ed allora, in accordo con le conclusioni risolutive tratte dall'analisi di Strasser, ci sembra
possibile interpretare l'idea di Dio in Husserl come realtà assoluta e ultimativa, telos che è
Dio stesso, che non può appartenere «né alla soggettività trascendentale, né all'orizzonte
mondano»,51 ma proprio per la sua attività teleologica si costituisce come «trascendenza»
in un particolarissimo senso propriamente filosofico. «Dio nella filosofia di Husserl,
arguisce Strasser, è teoreticamente un'idea e praticamente un telos ideale»,52 ossia, è il
«"Dio dei filosofi" derivato da Abramo, Isacco e Giacobbe (per parlare come Pascal)».53
Quel Dio cioè razionalmente visibile a cui la filosofia greca, nel suo massimo splendore,
era giunta. «Una filosofia autonoma come lo era quella aristotelica e così come essa resta
eterna richiesta (Forderung), analogizza il Manoscritto E III 10, perviene necessariamente
ad una teleologia e ad una teologia filosofica, -- quale via non confessionale a Dio».54
A questo punto, prima di sviluppare il significato di quest'ultima affermazione, che ci porta
a parlare del valore e del rapporto tra ragione e fede in Husserl, soffermiamoci sulle
implicazioni conseguenti alla trascendenza della Gottesidee, cui conclusivamente siamo
approdati.
4. La contingenza assoluta: la «Gottesidee»
Nel corso di questa analisi si è ampiamente comprovato che la peculiarità, per non dire
l'assoluta originalità, della metafisica husserliana nei riguardi dello studio sulla realtà e sul
vero essere, consiste soprattutto nell'indicare la presenza di una teleologia in essi insita. Da
questa scoperta metafisica di un'entelechia che abbiamo descritto come intenzionalità
iletica, si è pervenuti alla concretizzazione di un principio divino la cui assolutezza,
differente dall'essere assoluto della coscienza, si riscontra nel suo rendere attivo lo
sviluppo teleologico stesso. Ricordiamo che in alcuni Manoscritti Husserl si riferisce alla
scoperta metafisica della teleologia, richiamandosi all'armonia monadica. È il caso del
Manoscritto B II 2 dove si dice che la metafisica, in primo luogo, deve rivolgersi «al primo
assoluto, quello della fenomenologia e delle scienze fenomenologicamente ridotte: la
coscienza e le sue ripartizioni (Verteilungen) in piccole unità (Henaden)»; ma, in seconda
istanza, essa deve anche considerare «la somma delle molteplici unità (Henaden) o
monadi, attraverso la teleologia, per mezzo dell'armonia».55 Tale unità, che poco oltre
Husserl chiama Energie, è l'entelechia divina che si risolve nel vivere monadico.
Ora, la connessione tra la realtà materiale ed il principio divino del telos in essa
esprimentesi che ultimativamente abbiamo concepito essere trascendente, è per forza di
cose basata su un'imprenscindibile interdipendenza. Ossia, la realtà materiale necessita del
telos divino trascendente che sia la sua fonte originaria di intenzionalità; ma, al contempo,
il telos divino trascendente necessita delle facoltà espressive della materia ove
«immettere», per così dire, i semi intenzionali dell'entelechia in esso contenuti.
Ma allora, ci chiediamo, quale spazio ha la contingenza materiale (in senso metafisico,
ovvero monadica che, cioè, coinvolge coscienza e Umwelt), se la materia stessa è
strutturalmente foriera di entelechia e intenzionalità nella forma implicita di
intenzionalità indiretta? E, per converso, quale valore avrebbe una trascendenza che si
esprimesse contingentemente nella sfera materiale?
Sappiamo che l'idea di un essere perfetto, cioè l'idea della divinità, così come quella
generale di essere,
non è pensabile al di fuori della correlazione di essere e coscienza e che dunque il più perfetto
essere apriori deve essere compreso come l'idea della coscienza assolutamente perfetta, che forse
necessariamente esige una cernita nella molteplicità delle coscienze singolo-individuali, nelle quali
si costituisce un "mondo" più perfetto... Sarebbe poi da distinguere tra l'assoluta idea che guida lo
sviluppo e lo sviluppo stesso infinitamente immanente della coscienza e del mondo.56
Il problema quindi si riduce alla difficoltà ed alla contemporanea necessità di postulare un
principio (l'assoluta idea che guida lo sviluppo) che presieda alla contingenza della
«presenza primaria correlante» (ossia, come vedremo, alla libertà della ragione pratica) e
che, inoltre, sia assoluto in un senso che non vada ad inficiare la veridicità dell'assoluto
della coscienza.
In altri termini,
se noi postuliamo un principio divino trascendente rispetto la soggettività trascendentale, osserva
Hart, e se lo poniamo oltre la "sostanza assoluta" della presenza primale, noi oltrepassiamo ipso
facto l'insormontabile ultimatività trascendentale fenomenologica. Ma d'altra parte, se non
trascendiamo la razionalità contingente della presenza primale come "sostanza assoluta", non
otteniamo alcuna giustificazione per un principio (divino) esplicativo distinto, ma piuttosto ci resta
un principio ultimo contingente che, perciò, non è ultimo del tutto e che lascia la razionalità
contingente a questo riguardo inesplicata.57
Per tali ragioni, anche da questo punto di vista, sembra urgente il richiamo ad
un'ultimatività trascendente che «sappia» contenere l'assolutezza della coscienza nella sua
struttura monadologica che la collega al mondo-ambiente (Umwelt) e, quindi,
all'eventualità fattuale. Per di più, come nota Hart, l'eventualità insopprimibile della
fattualità si manifesta non solo in questa forma, per così dire, accidentale, cioè relativa
soltanto agli eventi monadici nel mondo-ambiente, bensì soprattutto nella forma di una
raziocinante contingenza che, se non trascendiamo, «quando perveniamo (reach) al
"principio divino", in effetti, non abbiamo ragione di concepire questo principio come
divino, poiché abbiamo un potere esplicativo tale che ci deriva dalla razionalità contingente
della presenza primale».58 Ma, di conseguenza all'esclusione tematica della trascendenza
di un essere perfetto, verrebbero a cadere tanto la trascendenza dell'essere divino quanto la
significatività teleologica dell'idea guida che la coscienza costitutivamente richiede.
E allora, quale significato avrebbe l'idea di perfezione che anima la storia e che ne consente
lo sviluppo, se quest'idea non include una rappresentazione ideale dell'essere perfetto che
la coscienza ritiene in sé? D'altro canto, l'idea di questa trascendenza suprema come
esistente non implicherebbe alcuna ammissione «antifenomenologica» di inammissibili
pregiudizi. Con ciò si intende precisare che sarebbe del tutto incontraddittoria, in tal caso,
la neutralizzazione della trascendenza divina che Husserl impone in campo eidetico;
mentre, per contro, la medesima «messa in parentesi» e l'esclusione della trascendenza
divina, sono assolutamente improponibili nel campo metafisico, dove appunto si richiede
una precisa «giustificazione» del fatto-che-accade teleologicamente in una contingenza, in
cui si esprimono l'entelechia e l'intenzionalità. Per tale ragione, se la fenomenologia
consegna alla metafisica l'indagine scientifica sul vero essere e sulla sua autentica
effettività, deve anche considerare quali siano le conseguenze di una simile indagine che va
a sfociare in una «teleologia empirica» ed in una «teologia», le quali attendono
urgentemente una «rifondazione» fenomenologica.59
E, dunque, conveniamo con Hart:
dobbiamo trascendere la contingenza perché il Faktum als Quelle, la fatticità come sorgente, è tale
solo se essa è più che un mero fatto contingente; ma, d'altro lato, la Quelle, sorgente, come
essenzialmente trascendente la fatticità, come più che un mero Faktum e come pura necessità, è
ingiustificato dalla sostanza assoluta ultima della riflessione trascendentale. La soluzione che
stiamo proponendo come la più vicina al pensiero husserliano, è quella in cui la contingenza è
condotta al principio ultimo in maniera tale da preservare la contingenza, il Faktum, e da
assicurare un principio, Quelle, che è fondamento (ground) e necessità. La "Sostanza Assoluta"
deve contenere entro sé un principio "divino" che, da un lato, spiega la razionalità contingente della
presenza primale ma che non è esso stesso contingente nella maniera in cui è contingente la
presenza primale.60
In breve, potremmo dire interpretando il pensiero di Hart, occorre valutare l'eventualità
che la soggettività trascendentale «ospiti» l'idea divina come idea di un principio
trascendente assoluto e non contingente e, inoltre, quella di una contingenza che un
principio teleologicamente esprime nella volontà di accadere dell'intenzionalità, la quale a
sua volta si piega nel mondo degli accadimenti, nelle eventuali forme che la razionalità
sceglie. In questo senso «il principio ultimo ("sostanza assoluta"), intende Hart, coimplica
entro se stesso la contingenza in una maniera tale che la contingenza del divino in nessun
modo rende la divinità contingente o il principio ultimo della razionalità contingente».61
In nessun caso cioè il principio divino può essere considerato contingente anche se, in un
certo senso, è il motore teleologico da cui ha luogo l'intero processo della razionalità
contingente. «"La contingenza del divino" quindi sta per l'essenziale correlato dell'agire
divino (divinity's agency); ma entrambe le cose, divinità e contingenza, sono momenti
della "sostanza assoluta"».62 Ovvero si tratterebbe di una natura naturans, natura
naturata per cui il divino, secondo la definizione presente in un Manoscritto, «non crea il
mondo come una magia, bensì come un'idea esistente che come tale presuppone un
sostrato non-esistente, la più o meno oscura consapevolezza»63 che, per Hart, è la protehule.
L'essere del divino dunque sembra delinearsi come quell'idea esistente che «forma» ogni
cosa, agendo nella non-ancora piena consapevolezza del sostrato iletico come se la totale
consapevolezza spetti all'unità delle coscienze da cui ha origine l'intero sviluppo
coscienziale. E così, la questione della contingenza nella relazione tra la trascendenza
divina e l'assolutezza trascendentale può essere conclusa, tenendo presente che sia la
trascendenza come la contingenza o, insomma, la «divinità» ed il «sostrato iletico» «sono
gli astratti momenti della "sostanza assoluta"»64 e che, in fondo, rientrano nella «staticitàfluente» (standing-streaming) del polo egologico della soggettività assoluta (come unità
delle coscienze).
In tale maniera l'accadere apparentemente contingente che si riscontra nella sfera iletica, è
coordinato da un principio razionale, l'idea, il quale opera da e nella materia e pervade
intenzionalmente ogni fatto. Tuttavia, bisogna notare, ciò non implica affatto ed in alcun
modo un determinismo, poiché l'attività individuale è consegnata al singolo intenzionare
che, proprio per la sua imprevedibilità, si dice contingente. E, d'altro lato, la volontà
egologica individuale è spinta alla tensione intenzionale dall'idea di perfezione e quindi dal
principio trascendente che Husserl chiama l'idea di Dio. I due poli dunque sembrano
coimplicarsi a vicenda e costituire un'unità o, almeno, un luogo di incontro nella
correlazione di coscienza ed essere, ossia in quella che Hart ha chiamato «sostanza
assoluta».
Eppure, ci chiediamo, come è davvero possibile accettare la soluzione hartiana del
«problema di Dio» in Husserl, quando la «trascendenza divina» viene descritta come uno
dei due momenti astratti, insieme al «sostrato iletico» della medesima «sostanza
assoluta»? Ed inoltre, in quale maniera possiamo ancora parlare di trascendenza suprema
non inventata né creata dalle operazioni coscienziali?
La soluzione che proponiamo e che, rispetto alla fondazione strasseriana della
trascendenza di Dio fin qui seguita, ci sembra aggiungere un nuovo ed interessante tassello
al «problema di Dio» in Husserl, è quella che conserva dell'entelechia divina
un'assolutezza fondante, rispetto a quell'assolutezza che la soggettività trascendentale
intenzionalmente esprime nel mondo-ambiente. Quest'ultimo, a sua volta, è, a nostro
avviso, il ponte di collegamento tra le due forme di assolutezza e quindi rappresenta ciò
che ne permette la più autentica e veridica espressione.
Ma, il cammino a cui tale affermazione condurrebbe e che sembra intendere la
trascendenza divina come l'oltrepassamento fondativo, per così dire, dell'assolutezza della
soggettività trascendentale, è fenomenologicamente inammissibile. Pertanto con il
supporto che l'indagine metafisica (da intendere qui ultra-fenomenologica) ci fornisce,
possiamo osservare con gli «occhi della ragione» le due differenti e necessarie assolutezze
come incontraddittoriamente interdipendenti, di cui l'una assolutamente trascendente (o
«momento astratto» della soggettività, come l'ha chiamata Hart), l'altra invece come
costitutivamente esplicativa dell'entelechia contenuta nella storia (o «richiesta» di un'idea
assolutamente trascendente, come guida del significativo agire intenzionale).
Stando così le cose il «problema di Dio» in Husserl non può essere svincolato dall'attività
coscienziale della soggettività trascendentale egologica, come pure proprio in virtù di una
simile attività spirituale, non può esservi incluso immanentemente come suo mero
correlato. Occorre cioè valutare di questa trascendenza i significativi legami che dalla
soggettività si muovono verso di essa, ma valutare anche i momenti espressivi che, di essa,
la teleologia manifesta. In tale senso una metafisica fenomenologica dovrebbe proseguire il
cammino intentato dalla metafisica husserliana, per ravvisare nella fattualità
l'intenzionalità che l'entelechia rende manifesta e quindi ripercorrere a ritroso quella via
«non confessionale a Dio», che conduce dall'intenzionalità iletica a Dio.
Tuttavia proprio perché Husserl ha accennato solamente alcuni passi in questa direzione,
non è possibile spingersi oltre le sue conclusioni, senza rischiare di misconoscere o, peggio,
di interdire le autentiche intenzioni dell'Autore.
5. La ragione pratica e assoluta
Proviamo ora a considerare dell'intenzionalità iletica (sempre in riferimento al mondoambiente monadico) i momenti salienti in cui da essa prende forma l'armonia teleologica.
Riferiamoci cioè all'azione volitiva, intenzionata, che kantianamente Husserl definisce
molto spesso come «ragione pratica»,65 cercando di osservare le conseguenti implicazioni
a cui l'azione stessa conduce. «Tutto il bello di ogni volontà diretta al Bene, afferma
Husserl, è un raggio della volontà divina».66 E dunque nell'espressione della ragione
pratica della volontà singola si rende manifesta la volontà divina, l'entelechia, e la
realizzazione di ogni fine diretto alla perfezione, che ogni volontà finita esprime. «In ogni
anima umana si trova -- questa è la fede -- una vocazione al bene, un germe (Keim) da
coltivare (entfalten) individualmente. In ognuno si trova un io ideale, il vero "io" della
persona che si realizza solamente nel comportamento "retto" (volto al Bene)».67
Questa verità, secondo Husserl, è comprovata dallo studio della storia che fin dalle origini
(dall'originario thaumazein) ha mostrato correlativamente al suo sviluppo quello di una
volontà, razionalmente fungente nella storia, e volta al Bene. Per questo motivo, osserva M.
Biemel nella sua introduzione-presentazione al Manoscritto E III 7, l'analisi storica degli
uomini primitivi che Husserl propone un questo contesto è essenziale, in quanto fa luce
sulla sua concezione «dello sviluppo teleologico come vittoria della ratio sulla tradizione»
ed il suo «quasi razionalistico ideale» come Entwicklungsziel.68 La «meta di sviluppo»,
ossia l'idea di perfezione che ogni coscienza «ritiene in sé», rappresenta la più esplicita
espressione di una eventuale crescita razionale dell'uomo. «La ragione teoretica, scrive
Husserl, è la teoria della ragione pratica ed è di per sé la componente della ragione pratica
attuale».69
Il concetto di ratio dunque è connesso evidentemente a quello di entelechia, dato che se
l'uno ne è espressione, l'altra ha le possibilità esplicative solo in virtù della Zweckidee
(meta ideale) che anima l'agognare cosciente dell'uomo. Ed anzi molti critici, come
Duméry e Tilliette e, in un certo senso, anche Boehm, hanno addirittura argomentato a
favore della tesi di un'identificazione della ratio stessa con il divino o con l'assoluto che
immanentemente guida la storia.70
Ma, a nostro avviso, le cose non stanno esattamente in questi termini o, almeno, non
soltanto in maniera così unidirezionale. Basti pensare alla riflessione husserliana del
Manoscritto K III 2 in cui si dice che «Dio parla in noi, Dio parla nell'evidenza della
decisione che da tutta la mondanità finita conduce alle modalità infinite».71 Ognuno ha
dentro di sé una meta protesa verso l'infinitamente buono e perfetto, che egli deve
perseguire cercando, in vista della sua realizzazione, i mezzi che la ragione pratica può
fornire. Questa «tendenza» innata che dobbiamo individualmente coltivare, è il richiamo
(Ruf) all'idealità, che ci vede fautori di una volontaria aderenza ai principi che la ratio
presenta ai nostri occhi. È questo un ritorno all'evidenza dell'autodatità, da cui il cammino
illuminato dalla ratio ci conduce al Dio sovrumano.
Tutti i percorsi retti in me, ma che sono in me attraverso i miei Io-compresenti (mit-Ich), dai quali
io sono inseparabilmente, questo Io, precisa Husserl, conducono a Dio, che nient'altro è che il polo
-- verso cui da ogni Io (che dal mio Io è un Io altro, così come io grazie a lui mi determino per lui
come l'altro Io) si diparte la via che conduce come sua individuale via, anche se tutte le vie vi
conducono, allo stesso Polo che è Dio ultramondano e sovrumano, ma non come punto separato
delle vie che parallelamente concorrono, bensì in una indescrivibile compenetrazione.72
Per questo motivo, ci sembra possibile diversificare la strumentalità della ragione pratica
dall'Assolutezza dell'essere divino, il quale, a sua volta, non può identificarsi con la somma
delle singole volontà umane per il solo fatto che Dio è la meta di tutti i percorsi ma non il
percorso tout court. È se mai vero che la natura dell'essere divino è raggiunta idealmente
dall'attività razionale, nel senso che, come sostiene Vancourt, è «proponibile una
dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio ed un "approccio filosofico" alle verità
religiose», qualora si tenti di arginare i limiti di un'interpretazione immantentistica, che
porterebbe l'essere divino ad identificarsi con la ratio.73
Ma d'altra parte è legittima anche un'affermazione che ritiene che la concezione teologica
contenuta nelle opere di Husserl può dare adito ad un'interpretazione panteistica. E ciò
avviene soprattutto nei casi in cui Husserl usa la metafora che descrive la vita divina come
la vita che «vive in tutte le vite»,74 la quale, a nostro avviso, potrebbe essere letta come una
volontà da parte della fenomenologia husserliana di puntualizzare il legame ed il richiamo
a quell'interiore presenza del divino in noi, di reminiscenza agostiniana, a cui Husserl fa
spesso riferimento e con cui conclude i suoi Discorsi parigini: «noli foras ire, dice Agostino,
in te redi, in interiore homine habitat veritas».75
In tale senso, le affermazioni husserliane di questo tipo andrebbero interpretate cercando
di intendere Dio come l'idea di perfezione in noi impressa in quanto «orma di in finitezza»,
che riproduciamo nel «tendere» infinitamente alla perfezione assoluta, da parte del telos
divino. E questa ammissione ci permette di avanzare l'ipotesi di un'eventuale
raffigurazione fenomenologica della presenza divina, come una sorta di richiamo interiore
ad una riflessione che ci coinvolge spiritualmente e che non è o, almeno, non è
esclusivamente connettibile alla fondazione della soggettività trascendentale.
Con ciò di certo non si pretende di dissipare le evidenti contraddizioni che innegabilmente
emergono da una lettura approfondita dell'opera husserliana sul «problema di Dio»,
contraddizioni che, presumiamo, siano sembrate tali perfino all'Autore, il quale, a partire
dagli anni Venti, muta completamente la tradizionale prospettiva della trascendenza,
affrontando il problema dalla diversa angolazione dell'intersoggettività e,
conseguentemente, coniando un nuovo senso di trascendenza. In questa ottica il concetto
di teologia che negli anni della fenomenologia «premonadica» era connesso a quello
dell'esperienza percettiva e, dunque, a quello immanente di ragione, si distacca
completamente da questa, formando con essa un nucleo interdipendente costituito da due
differenti unità: da una parte, quindi, la ratio che ha il compito di favorire lo sviluppo
razionale o filosofico del telos che l'uomo porta in sé (non a caso il telos è definito in Krisis
come la volontà umana «di essere un'umanità fondata sulla ragione filosofica»76);
dall'altra parte il telos come esperienza della presenza dell'idea di un essere perfetto
sovramondano e sovrumano, in cui la ratio trova verità e perfezione. Nell'ultimo Husserl,
sembrano confermare le analisi strasseriane, «Dio è caratterizzato come trascendente non
solo in relazione al mondo, ma anche in relazione alla "coscienza assoluta"»77 e quindi
all'azione intenzionale della sua razionalità che rende effettivo ed effettuale il telos.78
Ora il problema che Husserl affronta, in conseguenza all'apertura di questo nuovo spazio, è
quello che concerne una certa «volontà metafisica» di essere, nel senso che l'ideale che la
volontà (ragione pratica) persegue deve essere fondato nell'assolutezza,79 ossia deve
costituire la «volontà di vita», la «capacità decisionale della volontà, come volontà rivolta
all'infinità, all'eternità. Per cui ogni volontà finita è data o tolta una volta per tutte nella sua
pura funzionalità nell'infinità».80
A proposito, è opportuno notare, anche Fichte aveva connesso la volontà al divino
sostenendo, nelle sue ultime riflessioni, che il divino si rispecchia nella coscienza,
soprattutto nel dover-essere e nella volontà morale. A tutto ciò Husserl si riferisce quando
afferma che «le prospettive della religione che la fenomenologica mi ha dischiuso,
mostrano un sorprendente ravvicinamento alla tarda dottrina fichtiana di Dio», 81 quella
che cioè fa coincidere la volontà morale con il divino medesimo.
Ma, sebbene questa posizione sia in generale valida nel contesto teologico husserliano,
bisogna notare che per Husserl, in maniera sempre più decisa, nel progredire degli anni, la
volontà di realizzazione del Bene diviene un dispiegamento della ragione assoluta
individualmente attiva e, soprattutto, il divino non è volontà come per Fichte, bensì
entelechia.82 E tale entelechia inoltre non coincide, come si è osservato più volte, in nessun
senso con le volontà intersoggettive, bensì le precede poiché non c'è identità tra la Volontà
divina e la volontà individuale del singolo. In questo senso possiamo dire che la
realizzazione individuale di ogni singola volontà che è mossa dall'ideale dell'assoluta
perfezione, partecipa alla realizzazione ed allo sviluppo del telos divino, ma l'essere divino
non è immediatamente o, per lo meno, non solamente telos.
L'essere divino, come volontà divina, «presuppone l'intersoggettività», nel senso che ogni
volontà presuppone l'essere che è per essa presupposto. «Questo non significa che esso
non possa darsi senza le volontà universali "che muovono il mondo" e che forgiano il
mondo secondo verità, bensì soltanto che il mondo appartiene alla concretezza dell'essere
assoluto...».83 Quindi la singola volontà (ragione pratica) si accorda alla volontà divina nel
suo essere guidata dalla ragione teoretica (assoluta) che sola può fornire l'autentico
spiraglio di verità a cui deve dirigersi il proprio agire. Ciò è certamente evidente nelle
Trattazioni relative alla problematica del rinnovamento che Husserl aveva destinato alla
rivista giapponese «The Kaizo». Qui egli infatti ribadisce la propria convinzione che ogni
essere umano conserva in sé la facoltà astrattiva di immaginare un tale potenziamento
della volontà e della ragione teoretica, da poter creare l'immagine (la visione) di un
probabile essere perfetto infinito a cui tutto l'umano «tendere» è diretto. Husserl spiega
così il nesso tra volontà e divinità, ricorrendo proprio al fatto che nella volontà è insita la
richiesta e l'esigenza di un ideale assoluto di perfezione.
Di contro a questo ideale di perfezione assoluta, sta quello di perfezione relativa, l'ideale dell'uomo
umano perfetto, dell'uomo in possesso delle migliori potenzialità, di una vita che egli può condurre
secondo una consapevolezza di volta in volta sempre "possibilmente migliore" -- un ideale
insomma, che porta ancora in sé la stampa dell'infinitezza.84
Ecco perché la volontà umana non è e non potrà mai dirsi infinita o assoluta, neppure nel
caso «collettivo» in cui la direzione intersoggettiva delle volontà si esprime unitariamente
in un telos. L'idea del telos, intesa come l'Energie (dynamis) che lo attivizza generandolo,
bisogna ricordarlo ancora, è la volontà divina «che tuttavia presuppone tutta
l'intersoggettività, non nel senso che quest'ultima precede la prima e sia possibile senza di
essa... piuttosto come strati strutturali, senza cui questa volontà non può essere
concreta».85
Così possiamo comprendere il valore teleologico e teologico che la ragione riveste nella
riflessione metafisica della fenomenologia husserliana, allorquando Husserl inserisce la
tematica del Vernunftmensch o della Weltweisheit, oppure quella di una
Willengemeintschaft intenzionata verso un'umanità autentica in un Überstaat
umanamente retto e guidato dalla ragione pratica assoluta. Ed in fondo è più chiaro il
senso che assume il filosofo come «educatore» della ratio in un ambito etico o, ancora più,
nella sfera teleologica o teologica: «i filosofi, ritiene Husserl, sono chiamati ad essere i
rappresentati dello spirito della ragione, l'organo spirituale in cui la comunità perviene
originariamente e progressivamente alla coscienza della sua autentica determinazione
(della sua vera inseità)...».86
La «forza» che l'uomo ha dentro di sé (il Logos che l'uomo ha sviluppato, traendone
l'origine dalla sua insita natura di uomo) e che lo volge instancabilmente alla realizzazione
del Bene, deve essere da parte dell'umanità, coltivata ed assecondata. Solo così infatti è
possibile svelare l'autentico telos che l'umanità testimonia attraverso la storia, e solo così è
possibile pensare ad una metafisica fenomenologica per la quale tale telos diviene baluardo
proprio di quella fatticità, in cui si esprimono intenzionalità ed entelechia.
«Non il fatto in generale, spiega Husserl, ma il fatto come sorgente di valori possibili e
reali, crescenti all'infinito, impone la questione del suo "fondamento" -- che non ha
naturalmente il senso di una causa fisica».87 Per questo motivo dunque il problema del
«fondamento» derivato dalla fatticità, ovvero la celebre questione della «domanda
regressiva» (Rückfrage) si riallaccia a quello etico-razionale di una volontà che scopre la
propria «direzionalità», nel «principio regolatore» della Gottesidee.
Il richiamo palese ai principi kantiani o fichtiani come si è già rilevato, se non certamente a
Leibniz, pone la riflessione etica husserliana su un piano di continuità rispetto alle visioni
più propriamente classiche, ma ciò non va affatto ad inficiare l'originalità degli spunti
filosofici che questa sottende. Ne è riprova l'eventuale immediato sviluppo di alcuni temi,
come quello dell'intenzionalità iletica nel suo rapporto metafisico (ossia concreto,
nell'essere) con il telos che si sviluppa nelle volontà intersoggettive, cui abbiamo fatto
riferimento in queste pagine, o come quello di grande suggestione del rapporto che la ratio
«volente-intenzionante» instaura con l'infinitezza del «fondamento». «La coscienza
infinita di Dio, si legge nelle Lezioni sulla coscienza interna del tempo, abbraccia tutto il
tempo "in una volta". Questa coscienza infinita di Dio è atemporale».88 È infatti questa la
direzione in cui si sono mosse le autorevoli ricerche della Stein o quelle sul sacro di
Scheler.89 O ancora ci si potrebbe interrogare sull'origine di quel «fondamento»,
l'innominabile punto-della-sorgente-originaria,90 che «ha in sé la sua fondazione e nel
suo essere infondato la sua assoluta necessità, come quella di una "sostanza assoluta"»91
da cui, come sostiene Melchiorre,92 si è sviluppata la critica heideggeriana all'ontoteologia.
Eppure, nonostante la catena di ulteriori riflessioni di grande valore filosofico che
potrebbero conseguire alle stimolazioni offerte dalle conclusioni husserliane, non bisogna
mai dimenticare che, come sottolinea opportunamente Melchiorre, «i testi editi e
soprattutto quelli inediti testimoniano l'itinerario di una ricerca non ancora conclusa e,
come tali, vanno rispettati».93 Per tale ragione, nonostante l'interpretazione che in questa
ricerca abbiamo proposto di una teleologia che conduce alla trascendente concezione
(teistica, come si è osservato) dell'essere divino, non possiamo spingerci oltre le
testimonianze edite ed inedite che Husserl ci ha lasciato, del suo pensiero.
Alla luce di tali motivazioni ci sembra doveroso ricordare che qualora si cerchi, da parte di
Husserl, una costituzione sistematica definitiva di quella via metafisica che
fenomenologicamente percorsa ci ha condotti alla teologia, si resterà sicuramente delusi.
Ed è altrettanto evidente che proprio perché la ricerca husserliana è rimasta in fieri
inconclusa, è interpretativo ogni tentativo che cerchi di racchiudere in asserzioni definitive
la lezione metafisica riportata nelle pagine husserliane. Ne è conferma il fatto che
sopravvivono interpretazioni diametralmente opposte della questione, che non possono
essere cestinate come non valide in quanto nascono da un'insita ambiguità o, meglio, da
una mancanza di una tematizzazione sistematica precisa, se così si può dire, del problema
e delle finalità proprie della metafisica, da parte di Husserl medesimo.
Sappiamo con certezza che la metafisica ci conduce alla teologia, perché Husserl ci dice che
la filosofia autentica, ovvero quella fenomenologica che si rivolge alle cose e dunque alla
scienza della realtà (la metafisica) «è eo ipso teologia».94 Sappiamo inoltre con altrettanta
certezza che un'interpretazione trascendente (la «nozione relativa di trascendenza»,95
come la chiama Melchiorre, con le cui conclusioni conveniamo) dell'entelechia divina non
è affatto esclusa da Husserl, ma che, anzi soprattutto nelle ultime opere come si è tenuto a
sottolineare, è forse quella veramente più vicina al pensiero husserliano.
Ma forse ciò non può dissipare del tutto le differenti letture panteistiche del «problema di
Dio» in Husserl. Lecite infatti sono le interpretazioni della metafisica o della teologia
husserliana offerte da Dupré o da Funke per il quale «una fenomenologia come metafisica
non è possibile», se non intendendo la fenomenologia stessa soltanto «come controllo
della metafisica», nel suo senso ingenuo di scienza dell'essere «in sé».96 O quella di
Tilliette che nel definire l'egoità «origine e fine, orizzonte teleologico e senso di tutti i
sensi»,97 finisce per scolorire il senso autentico del «sostrato di tutti i sostrati» di cui parla
la Krisis,98 in un inutile riflesso di sé a sé della soggettività trascendentale.
Ma tant'è; e dato che, come sostiene Ales Bello, il Dio verso cui ci dirigono le «indicazioni»
husserliane è una «divinità oggetto di un approccio intellettuale»,99 è allora possibile
scoprire, attraverso l'indagine fenomenologico-metafisica che ci ha condotti al cospetto di
un simile concetto di divinità, il senso razionale-filosofico contenuto nel fondamentale
impegno di un «ritorno alle cose». Quel senso cioè che solo una ratio nel costante
movimento dell'autorischiaramento, può portare alla luce: «che l'essere-uomo implica un
essere-teleologico e un dover-essere, e che questa teleologia domina ogni azione e ogni
progetto egologico...».100
6. La fede in Husserl
Prima di giungere alle conclusioni di questa ricerca, ci sembra opportuno riflettere
sull'eventualità che riguardo al «problema di Dio» nella filosofia di Husserl, vi sia posto,
oltre che per il fenomenologo, per il cosiddetto Vernunftmensch capace di rinvenire in sé il
telos e l'imperativo categorico del dover-essere una coscienza che nutre la sua insita
tensione alla Gottesidee, anche per l'uomo che semplicemente si affida alla luce del divino
e che esperisce concetto di tutto ciò spiritualmente. Se, insomma, come sostiene Mall,
veramente convivano in Husserl «due anime», quella di un «instancabile fenomenologo» e
quella del «cristiano credente».101
Con ciò si vuole in altri termini provare a rintracciare, a fianco del percorso
fenomenologico che ci ha condotti alla teleologia e, dunque, alla teologia, un percorso per
così dire alternativo a questo, che tuttavia non parta da presupposti (il che sarebbe
antifenomenologico), bensì che muova dalla «ragione naturale», come ragione «spirituale»
in grado di esperire in sé, sentendo, l'idea di Dio. Queste due strade di cui l'una è quella più
propriamente filosofica che Husserl in più occasioni ripete essere «la mia a-religiosa via
alla religione, la mia, per così dire, via a Dio»,102 mentre l'altra è quella storica della
Rivelazione, si distanziano nettamente l'una dall'altra. Infatti, laddove la prima può essere
raggiunta da un'indagine fenomenologica attraverso l'entelechia iletica, la seconda,
basandosi su un episodio storico (l'avvento di Cristo nella storia, la «norma vivente»,
secondo il Quinto dei Kaizo-Artikel), attende a spiegazioni «ultrafenomenologiche», che
riposano nel sentire proprio della fede.
Scrive a questo proposito Husserl:
La via attraverso la filosofia, è la via non storica, ossia quella che proviene dall'insorgere della
conoscenza autonoma e, attraverso questa, di un'unificazione, in un nuovo senso, universale
dell'agire pratico. Si tratta quindi di una via che si dirige ad una concezione, propria di ogni uomo e
del mondo, di un Dio generato, secondo ciò che la rivelazione storica ha tramandato per tutti gli
uomini che sono parte integrante di questa tradizione, senza aver condiviso altro di più ovvio -- e
ciò vale naturalmente anche per l'ateo. In realtà tuttavia, un sapere che non premette la rivelazione,
ossia una forma di sapere universale tale, che non conosce alcuna rivelazione o non la riconosce
come fatto precedentemente dato (anche da trasformare in senso gnoseologico, in seguito), è atea.
Perciò dunque se un tale sapere conducesse a Dio, la sua via a Dio sarebbe una via atea a Dio, come
una via atea verso l'autentica necessaria comunità umana compresa come substrato per una
ultrarazionale, ultrastorica unificazione di ciò che di ultratemporale, ultraempirico, un'autentica
umanità per lo più produce.103
L'ateismo equivale in un certo senso alla visione privilegiata della ragione che può
raggiungere, per vie che le sono proprie, gli stessi risultati della fede. Dal canto suo però la
fede s'innesta nell'animo umano indipendentemente dalla riflessione razionale che ne
rivela la presenza. Per questo motivo le due differenti «vie» potrebbero avere un punto
d'incontro.
La ragione naturale in un certo qual modo, spiega Husserl, è la verità teoretica data, che precede la
Rivelazione pur restandole accanto. Tuttavia Cristo entra nel mondo, che è il mondo esperito... E
questo mondo è un dato di fatto, che si rende riconoscibile indipendentemente dalla "fede". C'è
stato anche un tentativo della filosofia di creare dimostrazioni scientifiche sul senso del mondo,
della vita dell'uomo, della giustizia e dell'ingiustizia, sulle mete umane volte all'utile ed all'inutile
(gut, törich), ecc.; e così di dimostrare teleologicamente l'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima,
ecc. Questo sapere naturale deve essere conciliato con la fede, mentre i contenuti stessi della fede
devono divenire tema dei giudizi teoretici che conseguono alla fede, ma che non la fondano.104
La fede dunque è l'infondabile che deve restare tale o, altrimenti, affiancato dalle verità
fondate; come se nonostante la possibilità di capire e raggiungere il medesimo risultato, la
fede fosse la coscienza una «forza» particolare diretta alla sua medesima verità. «La fede,
conferma Husserl, è l'assoluta e più elevata esigenza derivata dall'Io (aus-Ich)».105 Essa è
verità illuminata da una luce «innaturale» (übervernünfig), quella che proviene dalla
Rivelazione, ben differente dalla luce che emana della ragione «la quale si mette in azione
individualmente nella comunità (betätigenden in Vergemeinschaftung)».106 Alla scoperta
della verità fondata su un principio che ha il suo punto di partenza nel sentire intuitivo,
quindi si contrappone questa forma «sovrarazionale» di un'esigenza fortemente sentita di
assoluta validità.
In questo senso la fede può divenire «naturale esperienza teoretica» rientrando così nella
sfera fenomenologica come «la questione ultima e più impellente nel sistema costitutivo
del metodo fenomenologico»107, oppure può restare «richiesta», «urgenza» di una verità
che l'uomo «avverte in sé».
Ciò che attribuisce alla fede religiosa, almeno quando è ancora fede vivente, la sicurezza di dio e
della verità divinamente rivelata, è un che di metafisicamente trascendente, che travalica quel
mondo che costituisce il tema della conoscenza scientifica e ne costituisce il fondamento d'essere
ultimo, il quale include, quale fondamento ultimo, le norme assolute, sotto le quali noi poniamo la
nostra esistenza umana nel mondo.108
Si tratta ancora dunque del problema del fondamento a cui la fede, così come la ragione
filosofica, incessantemente si richiamano.
La distinzione tra ragione e fede in Husserl non è dunque così netta come abitualmente la
critica sostiene, giungendo in alcuni casi ad affermare una sorta di inibizione husserliana
nei confronti della trattazione fenomenologica del «problema di Dio».109 L'idea di Dio e,
contemporaneamente, la fede in Dio possono coesistere nella radicalità della
fenomenologia husserliana, a patto che non si cerchi nella seconda il «riempimento
intuitivo» che soltanto un corrispettivo correlato oggettuale dell'idea di Dio può fornire.
Ma questa «impossibilità costitutiva» è oltremodo ovvia e lo stesso Husserl non avanza
mai una simile pretesa nelle sue riflessioni fenomenologiche. In questo ambito infatti c'è
posto soltanto per l'immagine di un Assoluto che la ratio teleologicamente scopre nella
realtà, come Gottesidee ma non certo come Gotteserscheinung. Per contro, occorre
sottolineare, tale particolarissima forma di idea non esclude affatto la fede nell'esistenza di
una simile totalità assolutamente perfetta e, soprattutto, non può dirsi «atto noematico
incompleto», come sostiene Mall, bollata come inverificato presupposto della teologia
husserliana.110
L'incompletezza, ovvero la mancanza di un diretto correlato dell'idea di Dio, mostrano
invece un'incommensurabile diversità tra quello che Mall chiama il «fenomeno dio» e gli
altri fenomeni. E, proprio per questo motivo, la tematizzazione di una simile idea richiede
un'ulteriore e più approfondita indagine che tenga presente, da un lato, il fatto che la
fenomenologia non può uscire dall'assolutezza della soggettività assoluta fondandosi oltre
se stessa (il che richiederebbe una fondazione ultrafenomenologica che Husserl non
potrebbe che respingere) e che da un altro lato, riconosca altresì al fondamento
trascendentale (la soggettività assoluta) una tensione ideale, fenomenologicamente
accettabile e razionalmente accessibile, a cui la Gottesidee si riferisce.
D'altra parte questo ci sembra voler dire l'affermazione husserliana sul «fondamento»
della teleologia (differente dal fondamento trascendentale), per cui «il principio teologico,
che si può ragionevolmente supporre, non può essere assunto come una trascendenza nel
senso del mondo: poiché ciò costituirebbe, come si può prevedere in base ai nostri risultati,
un circolo assurdo. Il principio ordinativo dell'assoluto deve essere trovato, per mezzo di
una considerazione puramente assoluta, nell'assoluto stesso».111
In questo senso ci sembra di poter proporre un eventuale prosieguo del cammino che la
metafisica fenomenologica husserliana ha lasciato intentato, nella direzione tracciata dalla
proposta teleologica di Husserl la quale, come sostiene Ales Bello, «non esclude né la
trascendenza, né il teismo. Dio è ritenuto come il fine verso il quale tendono le cose, ciò che
giustifica il loro valore e non si identifica con esse».112
Ora, se questo «fine» sia fenomenologicamente ritenuto da «Husserl fenomenologo», per
riprendere ancora una volta la metafora di Mall, come il «principio regolatore» a cui
l'uomo «funzionario dell'umanità» è chiamato a riferirsi o, altrimenti, al Dio trascendente
della fede cristiana che Husserl professava o se addirittura, come sembra forse più
opportuno credere, a tutte le due cose insieme, la soluzione di questo enigma è forse
secondaria rispetto al senso che comunque è implicito nell'idea fenomenologica di Dio,
come riscoperta della tensione alla verità assoluta ed alla perfezione assoluta che ogni
uomo porta interiormente in sé. Quella verità di un'intenzionalità fungente
nell'avvicendarsi materiale della storia, in cui è possibile vedere proiettata
individualmente, nella propria interiorità, la presenza da sempre fungente di un Assoluto,
che nell'idea ci richiama alla realizzazione umana, dell'entelechia divina.113
Per riconoscere l'operato di Dio, scrive Husserl riferendosi alla teleologia del mondo, devo già
credere e così riesco a vedere il percorso che individualmente Dio mi ha assegnato.114
Note
1.
E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 182.
Husserl definisce altrove questa analisi come Rückfrage zur hyle (C 3 IV).
2.
K. Hartmann, Metaphysics in Husserlian Phenomenology, in «Journal of the British Society for
Phenomenology», vol. 16, n. 3 (1985), p. 291.
3.
Ib., p. 226.
4.
S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 324.
5.
Inseriamo, a chiarificazione di questo ultimo punto, un'affermazione che nel Manoscritto E III 4 Husserl fa a
proposito di Platone, per il quale «... è pensabile solo un logos della verità, solo un Dio, che è un'idea...
un'essenza nella assoluta verità» (cfr. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 47).
6.
E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (190-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 226.
7.
E. Stein, La fenomenologia di Husserl e la filosofia di S. Tommaso d'Aquino, cit., p. 290. In queste pagine Stein
rileva l'affinità di base tra la filosofia religiosa di Tommaso e quella fenomenologica di Husserl relativamente al
valore assunto dal Logos nella filosofia stessa. Per contro, le due posizioni divergerebbero, fra l'altro, nel modo
di intendere la verità a cui il Logos perviene: per Husserl, in un processo filosofico infinito, per Tommaso nella
scoperta che la verità è Persona. La Stein conclude propendendo per una sorta di conciliazione tra le due parti in
una filosofia cristiana ché le verità di fede, considerate dal credente «tesi», possano divenire, per il non
credente, «ipotesi».
8.
A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 12.
9.
Ib., p. 13.
10. S. Strasser, History, Teleolog, y and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 318.
11. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in
«Husserliana» XV, cit., «Beilage XLVI», p. 610.
12. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 320.
13. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch:
Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in «Husserliana» III, cit., p. 140; ed. it.: E. Husserl, Idee
per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla
fenomenologia pura, cit., p. 128.
14. A tale riguardo, c'è un passo della Quinta Meditazione che sembra offrire un interessante spunto riflessivo: «noi
dobbiamo renderci conto dell'intenzionalità esplicita e di quella implicita in cui l'alter ego si annunzia e si
verifica sul piano del nostro ego trascendentale...» (E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser
Vorträge, in «Husserliana» vol. I, cit., § 42, p. 122; ed. it.: E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 114). Può
questa intenzionalità implicita rappresentare emblematicamente un analogo della nostra entelechia iletica?
Ossia, così come esiste un'intenzionalità implicita che l'altro manifesta in me, potrebbe altrettanto darsi
un'intenzionalità implicita globale, per così dire, che assommi tutte le intenzionalità implicite?
15. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1921-1928), in
«Husserliana» XIV, cit., «Beilage LIII», pp. 439-442.
16. L. Langrabe, Phänomenologie und Metaphysik, Marion von Schröder Verlag, Hamburg, 1949, p. 194. Dice
espressamente Landgrabe: l'Assoluto «è esperito dal singolo uomo (Dasein) come richiesta». Questa
interpretazione, per altro molto affascinante seppure non propriamente husserliana, s'incentra sulla
relazionabilità della chiamata di Dio in cui il Dasein, esperendo la chiamata, è vicendevolmente coinvolto in un
reciproco fondarsi trascendente. Tuttavia questa ammissione, secondo la Ales Bello, conduce Langrabe «ad
un'interpretazione panteistica»; poiché egli «identifica la soggettività trascendentale con l'Assoluto». (A. Ales
Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p 113).
17. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., pp. 39-40.
18. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Erster Teil (1905-1920), in
«Husserliana» XIII, cit., «Beilage IV», p. 9.
19. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1921-1928), in
«Husserliana» XIV, cit., «Beilage XLI», pp. 302.
20. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in
«Husserliana» XV, cit., p. 381.
21. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» I, cit., p. 139; ed. it.: E.
Husserl, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 129.
22. K. Held, Lebendige Gegenwart, cit., pp. 182-183. Relativamente a questo concetto teologico di interiorità, ci
sembra doveroso il riferimento ad un'opera di Yung-Han Kim che prende in esame proprio il rapporto
teleologico con l'interiorità raffrontandolo con la dottrina agostiniana. (Yung-Han Kim Phanomenologie und
Theologie. Studien sur Fruchtbarmachung des transendental-phänomenologischen Denkens für das christlichdogmatische Denken, Peter Lang, Frankfurt a/M., 1985, pp. 31-36).
23. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß (1929-1935), in «Husserliana»
XV, cit., p. 383.
24. Ib., p. 386.
25. L. Langrabe, Phänomenologie und Metaphysik, cit., pp. 194-195. A tale riguardo, si pensi alle conseguenti
numerose analisi sull'importanza del dialogo e del linguaggio, compiute dal celebre assistente di Husserl, Martin
Heidegger (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr. it. A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Murzia
Editore, Milano 1991, pp. 189-212).
26. Sarebbe interessante notare che uno degli obiettivi fenomenologici di Levinas è stato proprio quello di
sviluppare il concetto di Altro a partire dalle sue radici husserliane. (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là
dell'essenza, tr. it. S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1991, pp. 5-26).
27. Il rapporto estensione-intensione, affrontato fra gli altri anche da von Wright, potrebbe suggerire interessanti
soluzioni «causali» ed «esplicative» ad un simile interrogativo, anche se naturalmente lontane dall'opera
husserliana che stiamo esaminando (cfr. G.H. von Wright, Spiegazione e comprensione, tr. it. G. di Bernardo, Il
Mulino, Bologna 1971, pp. 63-sgg.).
28. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Erster Teil (1905-1920), in
«Husserliana» vol. XIII, cit., «Beilage IV», p. 9; dove si dice testualmente che «Dio vede la cosa da un lato (con
la m i a coscienza) e «contemporaneamente» dall'altro lato (con la coscienza dell'a l t r o)».
29. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» I, cit., p. 182; ed. it.: E.
Husserl, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 171.
30. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 324.
31. Ibidem.
32. E. Husserl, Manoscritto E III 14, p. 31 (citato da Strasser, ivi, p, 324).
33. Ib., p. 36b.
34. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., pp. 324-325.
35. Ib., p. 325.
36. L. Dupré, A Dubious Heritage, Paulist Press, New York, 1977, p. 87.
37. R.A. Mall, The God of phenomenology in comparative contrast to that of philosophy and theology, cit., p. 6.
38. Ib., p. 4.
39. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik, in «Husserliana» XVII, cit., p. 258; ed. it.: E. Husserl, Logica
formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, cit., p. 309.
40. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 325.
41. Ibidem.
42. E. Husserl, Manoscritto F I 22, pp. 25-26 (cit. da Strasser, ivi, pp. 325-326).
43. L. Langrabe, Phänomenologie und Metaphysik, cit., p. 190.
44. E. Husserl, Manoscritto E III 4, p. 36a (cit. da Strasser, ivi, p. 333).
45. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch:
Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, «Husserliana» III, cit., p. 121; ed. it.: E. Husserl, Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: introduzione generale alla
fenomenologia pura, cit., p. 112.
46. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in
«Husserliana» VI, hrsg. von. W. Biemel, M Nijhoff, Den Haag, 1962, p. 5; ed. it. E. Husserl, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. E. Filippini, Il Saggiatore Milano, 1987, p. 37.
47. Ib., p. 7; ed. it., p. 38.
48. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik, in «Husserliana» XVII, cit., p. 258; ed. it.: E. Husserl, Logica
formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, cit., p. 309.
49. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., pp. 225-226.
50. Ib., p. 176 (del Manoscritto originale, p. 12; della trascrizione, p. 46).
51. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 328.
52. S. Strasser, Das Gottesproblem in der Spätphilosophie Edmund Husserls, in «Philosophisches Jahrbuch»
LXVII (1958), p. 142.
53. S. Strasser, History, Teleology and God in the Philosophy of Husserl, cit., 330.
54. E. Husserl, Manoscritto E III 10, p. 18.
55. E. Husserl, Manoscritto B II 2, Horizont (1909 o 1910), p. 25a (ancora inedito).
56. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 176.
57. J.G. Hart, A prècis of an Husserlian Philosophical Theology, cit., p. 132.
58. Ibidem.
59. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 230.
60. J.G. Hart, A prècis of an Husserlian Philosophical Theology, cit., p. 132.
61. Ibidem.
62. Ib., p. 133.
63. E. Husserl, Manoscritto B IV 6, pp. 106-107 (ibidem).
64. J.G. Hart, A prècis of an Husserlian Philosophical Theology, cit., p. 133. Qui Hart fa riferimento alla terza delle
Untersuchungen.
65. La differenza tra la ragione pratica kantiana e quella husserliana consiste soprattutto nel fatto che l'una ha di
mira il comportamento individualmente retto al fine di edificare i precetti della ragione che ne sono a sostegno;
l'altra, invece, è intenta al rinnovamento della ragione stessa e quindi della società che ha utilizzato quella
ragione ingenuamente, confondendone cioè la sua autentica finalità nelle scienze (tra cui naturalmente si
annovera l'etica).
66. E. Husserl, Manoscritto B II 2, Horizont, cit., p. 27b.
67. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1921-1928), in
«Husserliana» XIV, cit., p. 174.
68. E. Husserl, Manoscritto E III 7 (1934), Introduzione alla trascrizione.
69. Ib., p. 9.
70. X. Tilliette, come avremo modo di indicare più oltre, propende per una identificazione dell'egoità trascendentale
con l'essere divino stesso così come Dumery che afferma la trascendenza di Dio in relazione al suo essere
«noema» e «noesi» e, quindi, come «transordinal» (cfr. Le probléme de Dieu en philosophie de la religion,
Desclée de Brouwer, Bruges 1957, p. 88). Infine Boehm, come si è già notato, parla di un Assoluto come
identificabile, in fondo, con l'attività soggettiva dell'ego.
71. E. Husserl, Manoscritto K III 2 (1934-36), p. 54a.
72. Ib., p. 106.
73. R. Vancourt, La Phénomenologie et la foi, Descleé, Tournai, 1953, p. 85.
74. E. Husserl, Manoscritto B II 2, p. 27a.
75. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» I, cit., p. 39; ed. it. E. Husserl,
Meditazioni Cartesiane, cit., p. 33.
76. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in
«Husserliana» VI, cit., «Beilgage XVIII», p. 508; ed. it.: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, cit., p. 44.
77. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 326.
78. A questo proposito è possibile inserire brevemente la difficile questione dell'ingenerabilità della coscienza, da
cui potrebbero altresì svilupparsi nuove interpretazioni panteistiche dell'immanenza trascendentale.
L'ingenerabilità del coscienziale va intesa come la contemporaneità di questo stato con l'espressione teleologica
del telos. L'uomo cioè è nato implicando il suo sviluppo e quello della storia futura, come sviluppo razioncinante
di una sovracoscienza, umanamente immanente. Ora, tuttavia, questa sovracoscienza e la sua assolutezza non
hanno nulla a che fare con l'Assolutezza di un essere sovrumano, che la fenomenologia rileva come idea di Dio e
la metafisica come telos nella storia.
79. Cfr. E. Husserl, Manoscritto E III 1 (1930-1934), pp. 1-8.
80. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in
«Husserliana» XV, cit., p. 379.
81. E. Husserl, Manoscritto B III, p. 83. Il «ravvicinamento» ci sembra riscontrabile soprattutto in opere tarde di
Fichte, come Introduzione alla vita beata del 1806 (»... in queste azioni non è l'uomo che agisce: ma è Dio
stesso, nel suo essere intimo e originario nella sua essenza, che agisce nell'uomo e compie la sua opera mediante
lui»).
82. La differenza con l'Idealismo assoluto di Hegel a questo punto è evidente. Mentre per quest'ultimo la realtà non
è altro che esperienza della coscienza e quindi è «prodotta» dal pensiero, per Husserl il ritorno alle cose implica
proprio il riconoscimento del darsi della realtà «estraneamente» al processo gnoseologico che ne certifica il
darsi. Per questo la ragione che, secondo La fenomenologia dello Spirito, è la sostanza etica, «l'essenza
dell'autocoscienza: ma questa è l'effettualità e l'esistenza della sostanza etica, è il suo Sé e la sua volontà»,
rappresenta l'inveramento della realtà e la scoperta della sua più autentica verità (G.W. Hegel, Fenomenologia
dello spirito, tr. it. E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1973, vol. I, p. 361). Per Husserl ciò è inaccettabile
perché la ragione ha fra i suoi primi compiti quello di «vedere» il concreto nel suo darsi a noi, al di là di tutte le
presupposizioni a priori che l'Idealismo insistentemente impone. L'idealismo trascendentale, scrive infatti
Husserl, non è «formato da un gioco di argomentazioni che debba vincerla nella lotta dialettica contro il
realismo. È l'esposizione di senso realmente condotta sulla trascendenza (data all'io dall'esperienza) della
natura, della cultura, del mondo in generale...» (E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge,
in «Husserliana» I, cit., p. 34; ed. it.: E. Husserl, Discorsi parigini, cit., p. 29).
83. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in
«Husserliana» XV, cit., p. 381.
84. E. Husserl, «Erneuerung als individualethisches Problem» (1924), in Aufsätze und Vorträge, in «Husserliana»
XXVII, cit., p. 34.
85. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1928-1935), in
«Husserliana» XIV, cit., p. 381.
86. E. Husserl, «Erneuerung und Wissenschaft» (1922/23), in Aufsätze und Vorträge, in «Husserliana» XXVII, cit.,
p. 54.
87. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch:
Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in «Husserliana» III, cit., p. 139; ed. it.: E. Husserl, Idee
per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: introduzione generale alla
fenomenologia pura, cit., p. 128.
88. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893- 1917), in «Husserliana» X, cit., p. 175; ed.
it.: E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 196.
89. È interessante a questo punto osservare che mentre Edith Stein, come si è già accennato, si è volta ad osservare
nella problematica dell'istante fenomenologico l'incontro di fenomenologia e cristianesimo, Scheler invece ha
sviluppato la temporalità umana della fenomenologia come «autorealizzazione» di Dio attuabile solo nella e
grazie alla storia umana (M. Scheler, Die Idee des Friedens und der Pazifismus, M.S. Frings, München, 1974, p.
21).
90. E . Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893- 1917), in «Husserliana» X, cit., p. 75; ed.
it. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), cit., p. 102. Precisamente
Husserl parla di «un punto che è fonte originaria» e afferma: «per tutto questo ci mancano i nomi».
91. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in
«Husserliana» XV, cit., p. 386.
92. V. Melchiorre, Prospettive teologiche nella filosofia di Husserl, cit., p. 217.
93. Ib., p. 212.
94. E. Husserl, Manoscritto B VII, p. 88.
95. V. Melchiorre, Prospettive teologiche nella filosofia di Husserl, cit., p. 215.
96. G. Funke, Phänomenologie. Metaphysik oder Methode?, cit., p. 57. Questo ci sembra il senso della definizione
funkiana di un'eventuale metafisica fenomenologica.
97. X. Tilliette, Breve introduzione alla fenomenologia husserliana, a cura di E. Garulli, Lanciano, 1983, p. 124.
98. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in
«Husserliana» vol. VI, cit, p. 497; ed. it. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale, cit., p. 523.
99. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 119.
100. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in
«Husserliana» vol. VI, cit., pp. 275-276; ed. it.: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale, cit., p. 290.
101. R. A Mall., The God of phenomenology in comparative contrast to that of philosophy and theology, cit., p. 6.
Riguardo il Vernunftmensch che dall'idea di Dio in sé, si costruisce un comportamento, sarebbe interessante
notare, come propone in queste pagine Mall, un certo avvicinamento da parte di Husserl «allo spirito del
Buddismo e del taoismo» proprio nel connettere «l'idea di religione con quella di comportamento etico»; cfr. E.
Husserl, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), in «Husserliana» XXVII, cit., pp. 125-126.
102. E. Husserl, Manoscritto B IX, p. 124. Ci sembra molto interessante, a proposito, la lettura «religiosa» che
Vattimo propone di uno dei più importanti aspetti della fenomenologia husserliana, vale a dire, dell'epoché,
assimilandola ad una sorta di conversione spirituale. («Quella che, riprendendo un termine del pensiero tardo
antico, Husserl ha chiamato l'epoché, cioè il metter tra parentesi convinzioni e certezze scientifiche, per cogliere
il loro fondamento ultimo nella evidenza della coscienza. Proprio questo esige un mutamento di atteggiamento
così radicale che si può chiamare conversione»; G. Vattimo, Ritrovare se stessi sulla via di Damasco, in
«Liberal» n. 1, 5. III. 1998, p. 163).
103. E. Husserl, Manoscritto, A VII 9, p. 20. La difficilissima resa in italiano di questo passo ha richiesto, soprattutto
in alcuni punti, una traduzione decisamente libera.
104. E. Husserl, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), in «Husserliana» XXVII, cit., p. 103.
105. E. Husserl, Manoscritto, A V 21, Ethisches Leben. Theologie-Wissenschaft (1924-27), p. 15b.
106. Ib., p. 2a.
107. E. Husserl, Manoscritto, B VII, p. 87.
108. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in
«Husserliana» VI, cit., «Beilage XVIII», p. 508; ed. it.: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, cit., p. 535.
109. È ciò che sostiene Liverziani allorquando scrive che «Husserl si trova inibito a far entrare Dio in
fenomenologia» (F. Liverziani, Il «paradosso della soggettività umana» e le sue implicazioni metafisiche, cit.,
p. 306). A questa affermazione seguono interessanti citazioni dall'opera husserliana che però, a nostro avviso,
non danno alcun conforto, né conferma di una simile inibizione da parte di Husserl.
110. R. A Mall, The God of phenomenology in comparative contrast to that of philosophy and theology, cit., p. 10.
111. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch:
Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, «Husserliana» III, cit., p. 121; ed. it.: E. Husserl, Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla
fenomenologia pura, cit., p. 112. L'assoluto non va inteso, come avveniva nell'Idealismo assoluto, come
inveramento del reale nel Sapere assoluto, bensì, come si è sostenuto, come visione dell'assolutezza (il reale non
è l'ideale, ma ciò che si dà, nel legame intenzionale alla coscienza).
112. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 119.
113. Sarebbe interessante un parallelo tra l'idea di Dio in Husserl ed il concetto dell'assente presenza di un Dio
trascendente, in Levinas.
114. E. Husserl, Manoscritto A V 21, p. 24a.
Marco Deodati
Intenzionalità emotiva e valore in Husserl
1. L'idea di «una ragione con differenti regioni»
Se si volesse comprendere il senso storico della fenomenologia husserliana, vale a dire la
sua posizione nel quadro del pensiero novecentesco e, conseguentemente, dell'intera storia
della filosofia, si potrebbe muovere dalla considerazione primaria che essa costituisce
l'ultimo grande tentativo di fondazione di quell'epistéme che rappresenta il desideratum
principale di tutta una tradizione di pensiero, da Platone in poi. In Husserl si manifesta
inequivocabilmente l'esigenza che la filo-sofia diventi sophía a pieno titolo, cioè la
persuasione che quello filosofico debba essere un sapere rigoroso e valido sub specie
aeternitatis. L'aspirazione ad un sapere ultimo e fondativo si regge evidentemente sulla
convinzione che sia possibile una razionalità piena ed autentica: in quest'ottica, la
fenomenologia husserliana si discosta da tutte quelle riflessioni novecentesche che, più o
meno esplicitamente, ovvero secondo molteplici prospettive, hanno sostenuto la fine della
filosofia come scienza dei fondamenti e, con essa, l'impossibilità, da parte della ragione, di
valere in modo universale. Husserl si oppone, pressoché nella totalità delle sue opere, a
tutte quelle forme di palese o malcelato scetticismo, quando non proprio di aperto
irrazionalismo, che pretendono di sottrarre alla ragione le sue legittime pretese di senso.
Questo non vuol dire, d'altronde, che Husserl proponga una concezione per così dire
«dogmatica» della filosofia, ignara delle profonde problematiche emerse nel corso del
ventesimo secolo: tutto al contrario, egli vive in prima persona il «travaglio» del pensiero
contemporaneo, la «crisi» della ragione, ma nella convinzione profonda che ciò non debba
comportare alcuna resa della filosofia, bensì un ripensamento radicale dell'esperienza
filosofica tendente ad attingerne il senso autentico. In altri termini, se non si deve cedere a
«tentazioni» scettiche, neppure si debbono riproporre dottrine di stampo metafisico, che
concorrono, loro malgrado, a gettare nel discredito le legittime pretese della filosofia. Si
delinea chiaramente, in tal modo, lo sforzo titanico della fenomenologia husserliana di
fondare una epistéme rigorosa, depurata dalle ingenuità della metafisica e immune, al
contempo, da tutte le possibili forme di scetticismo.
Dalle idee, fra di esse correlate, di un sapere rigorosamente fondato e di una piena
razionalità, dipende la possibilità di un uomo autenticamente humanus: la filosofia come
strenge Wissenschaft porta con sé, come suo correlato inscindibile, la necessità di una
prassi filosofica, ovvero di una vita razionale. Infatti, se il ripensamento della filosofia in
quanto scienza razionale deve essere effettivo, cioè mirante alla riaffermazione del senso
universale della ragione, allora esso non può limitarsi alla dimensione puramente
teoretica, ma deve estendersi anche all'ambito pratico, laddove con «pratico» deve
intendersi, secondo Husserl, tutto ciò che, non potendo essere ascritto alla sfera logicoconoscitiva stricto sensu, rientra nella vita affettiva, volitiva, emozionale del soggetto: in
una parola, in quello che il padre della fenomenologia chiama Gemüt. Ma cosa sta a
significare questa estensione della ragione anche all'ambito pratico-emotivo? Ovvero come
deve essere compreso in termini fenomenologici il concetto di Vernunft? Se è infatti
piuttosto consueto considerare la volontà in connessione con la ragione, non altrettanto si
può dire dell'emotività, che in quanto dimensione del sentimento è, secondo l'opinione
comune, pulsionale, istintuale, a-razionale in senso lato. Secondo Husserl bisogna però
andare oltre queste facili dicotomie, che spesso si rivelano fittizie e nelle quali si perde ciò
che è invece fenomenologicamente primario.
Fin dalle Ricerche logiche, Husserl si prodiga nel mettere in guardia da uno dei
fraintendimenti più comuni e, con ciò, più gravi in cui possa incorrere la filosofia: l'idea,
cioè, che la ragione sia essenzialmente una facoltà dell'uomo. Se infatti si considera la
ragione come una facoltà della psiche umana, allora le verità cui essa giunge non possono
essere altro che prodotti dell'attività mentale di questo essere animale chiamato uomo: la
riduzione della verità a prodotto o funzione dell'anima è, in tutte le sue forme,
psicologismo, vale a dire relativismo. Il concetto stesso di verità prescrive, invece, la
validità incondizionata, cioè il vigere di uno stato di cose a prescindere dall'evenienza che
un soggetto qualsiasi possa pensarlo e conoscerlo: è proprio una tale validità inconcussa
che va persa nel momento in cui si cerca di ricondurre la verità alle condizioni di una
facoltà psichica. Anche il trascendentalismo kantiano pertanto non si salva dall'accusa di
essere, suo malgrado, una velata forma di psicologismo: «Lo psicologismo in tutte le sue
varianti e in tutte le sue particolari riformulazioni non è altro che relativismo, soltanto che
non sempre lo si riconosce e lo si ammette esplicitamente. Ed è del tutto indifferente che
esso si sostenga sulla "psicologia trascendentale", credendo di salvare, come idealismo
formale, l'obiettività della conoscenza, oppure sulla psicologia empirica, assumendo il
relativismo come una inevitabile fatalità».1 Se non è opportuno ridurre la ragione a facoltà
della psiche umana, tanto meno è lecito considerarla come semplice «raziocinio» al quale
farebbe da contraltare la dimensione emotiva, passionale, «non razionale» dello spirito:
secondo Husserl la ragione non riguarda primariamente la dimensione dello spirito
umano, quindi essa sfugge alla facile contrapposizione intelletto-sentimento, e anzi la
mette completamente in discussione. Il concetto husserliano di Vernunft vuole essere un
superamento di tutte le interpretazioni per così dire unilaterali della ragione, divenute col
tempo dominanti anche nel senso comune: si tratta di sradicare le presunte ovvietà per
ripensare il senso universale della ratio.
La specificità del concetto husserliano di Vernunft emerge in relazione a quello che è il
tema portante della fenomenologia, vale a dire l'intenzionalità della coscienza. Secondo
Husserl, come è noto, l'essenza della coscienza sta nel fatto che essa si pone costantemente
in relazione ad oggetti, che si dirige (sich richtet) ad essi: in altri termini, essa è sempre
coscienza-di-qualcosa, ovvero ha sempre una direzione (Richtung) oggettuale.
L'intenzionalità della coscienza si esplica concretamente in quelli che Husserl chiama
vissuti (Erlebnisse), atti (Akte) o anche fenomeni (Phänomene), i quali, nel loro succedersi
continuo, costituiscono un ininterrotto "flusso eracliteo":2 alle differenze che corrono fra
gli oggetti intenzionati corrispondono le differenze relative agli atti, che quindi sono di
vario tipo e si distinguono per la modalità intenzionale. In gran parte delle sue ricerche
filosofiche Husserl si sforza di descrivere proprio le varie modalità intenzionali
appartenenti alle molteplici specie di atti e il costituirsi degli oggetti in tali vissuti di
coscienza, convinto che la «meravigliosa correlazione»3 di coscienza e mondo sia retta da
leggi a priori: la presenza di leggi ideali, che regolano, per dirla con Husserl, la costituzione
dell'oggettività nella soggettività, è ciò che distingue, fra l'altro, la fenomenologia
husserliana, in quanto scienza d'essenze, dalla psicologia empirica di un Brentano. Tutti i
tipi di vissuti intenzionali (e, ovviamente, tutti i tipi di oggetti da essi intenzionati) hanno
dunque, in ottica fenomenologica, un proprio eidos, un'essenza di riferimento che deve
essere portata a chiarezza concettuale. Per Husserl, conseguentemente, si può rinvenire il
senso universale della ragione solo riconoscendo che essa si caratterizza originariamente
come quell'ambito di verità a priori che regolano la costituzione delle oggettualità nei
corrispondenti atti intenzionali, a parte obiecti, e il modo in cui tali atti sono costitutivi, a
parte subiecti. Ciò emerge in più punti dell'opera husserliana, ma con particolare chiarezza
nelle Vorlesungen über Grundfragen der Ethik und Wertlehre 1914: «la parola ragione
non è qui intesa nel senso di una facoltà umana, cioè nell'abituale senso psicologico, bensì
come un titolo per la classe essenzialmente chiusa degli atti e dei loro corrispettivi correlati
d'atto che sottostanno alle idee di legalità e illegalità, di verità e falsità, del sussistere e del
non sussistere».4 È questa, come sostiene Husserl nelle Vorlesungen über Grundprobleme
der Ethik 1908/09, «l'idea più ampia e comprensiva di ragione»,5 solo sul fondamento
della quale può avere eventualmente senso la prospettiva «ristretta» di una ragione intesa
come facoltà umana. Se la Vernunft è originariamente e primariamente l'ambito delle
verità a priori che regolano la correlazione di coscienza e mondo, allora la fenomenologia
può caratterizzarsi come l'autentica e genuina critica della ragione.
Come già sottolineato in precedenza, un tale concetto di ragione è originale poiché esso
investe potenzialmente tutti i tipi di vissuti intenzionali, anche quelli che rientrano nella
coscienza pratico-emotiva (Gemüt): Husserl è infatti mosso dalla convinzione che anche gli
atti di sentimento, i Gemütsakte, siano atti specificamente intenzionali, che cioè essi
costituiscano delle oggettualità proprie e dunque siano determinati da una peculiare
legalità a priori. Per quanto la modalità intenzionale degli atti emotivi rappresenti una
questione su cui Husserl ritorna continuamente nel corso delle sue opere, e per quanto la
determinazione di un oggetto affettivo, il valore, sia minata da difficoltà innumerevoli,
Husserl non mette mai in discussione il carattere autenticamente intenzionale del Gemüt.
Ciò è quanto dire che l'ambito pratico-emotivo non costituisce un caos di stati d'animo e di
pulsioni che si susseguono senza senso, bensì, tutto al contrario, una sfera di coscienza
dotata di un ordine preciso, di una sua propria sensatezza: di più, una sfera basata su una
specifica razionalità, «altra» rispetto a quella più strettamente logico-teroretica, sebbene
ad essa legata. Il Gemüt, pertanto, rientra nell'orizzonte di una allgemeine Vernunft, estesa
ben al di là dei limiti del semplice Verstand e articolata in regioni distinte: Husserl
prospetta dunque, sulla scorta della molteplicità dei tipi d'atto e dei relativi correlati
oggettuali, una ragione plurale, ovvero, nei suoi termini, «eine Vernunft mit
verschiedenen Regionen».6 Nei suoi scritti principali e nelle lezioni di etica, Husserl
distingue almeno tre domini della ragione: una ragione logico teoretica o conoscitiva
(erkennend), una valutativa (wertend) e infine una volitiva (wollend). A ben vedere, questa
tripartizione può essere ulteriormente semplificata se si tiene conto del fatto che il valutare
e il volere, come vedremo meglio in seguito, sono reciprocamente legati, per cui rientrano
in una comune sfera pratico-emotiva, dalla quale deve essere distinta la dimensione
propriamente teoretica. Tali distinzioni riposano, come detto, nei differenti tipi di vissuti,
cosicché la possibilità di una ragione pratico-emotiva parallela a quella logico-conoscitiva
si fonda su un'analisi fenomenologica dei Gemütsakte nel loro intreccio coi
Verstandesakte, cioè con gli atti intellettivi o conoscitivi: infatti, per quanto Husserl sia
convinto che si debbano distinguere le varie regioni della Vernunft, tuttavia egli è
altrettanto consapevole degli stretti rapporti che sussistono fra vissuti di genere diverso. In
quest'ottica, la pluralità della ragione, basata sulla pluralità dei tipi d'atto, non sta a
significare il darsi di dimensioni parallele e reciprocamente «impermeabili», bensì il
prospettarsi di una serie di piani «profondamente intrecciati l'uno con l'altro (miteinander
innigst verflochten)».7 Possiamo anticipare fin d'ora che l'intreccio è operato dagli atti
intellettivi (Verstandesakte), cioè da quella che Husserl considera, soprattutto nelle
Ricerche logiche, la categoria d'atti fondamentale e primaria in seno all'intera vita di
coscienza.
Il presente articolo intende cercare di chiarire fenomenologicamente la peculiarità dei
vissuti della coscienza pratico-emotiva e il modo in cui i rispettivi correlati oggettuali, i
valori, si costituiscono in essa, mostrando altresì come gli atti afferenti al Gemüt, secondo
Husserl, non siano puramente emotivi, ma portino con sé anche componenti
specificamente logiche. La gran parte del lavoro fenomenologico husserliano è indirizzata
all'analisi della coscienza conoscitiva, poiché esso ha come fine la messa in luce delle
condizioni di possibilità di una epistéme rigorosamente fondata: nel suo sforzo poderoso di
chiarificazione del sapere logico-teroretico, Husserl nota una sostanziale affinità fra le
strutture della coscienza conoscitiva e quelle della coscienza affettiva, per cui si convince
della possibilità di edificare una scienza etica in modo analogo alle scienze teoretiche.
Chiaramente, Husserl non si dedica alle ricerche fenomenologiche in campo etico con la
stessa costanza e sistematicità con cui si occupa delle ricerche logiche: ciò dipende da un
lato dal fatto che il suo interesse primario resta quello teoretico, dall'altro da una sua
fondamentale convinzione, cioè che la soluzione dei problemi in campo logico-conoscitivo
riesca ad illuminare anche le questioni etiche. La chiarificazione fenomenologica dei vissuti
del Gemüt e dei rispettivi correlati oggettuali costituisce, in campo etico, la ricerca
d'essenza primaria, sul fondamento della quale possono poi articolarsi tutte le altre scienze
pratiche (l'assiologia e la pratica formali, la dottrina materiale dei valori e così via 8). Ciò
che conta, in altre parole, è mostrare la struttura fenomenologica essenziale che rende i
vissuti pratico-emotivi dei vissuti intenzionali a pieno titolo, al pari degli atti facenti capo
alla coscienza logico-teoretica: il tentativo di chiarire l'apriori emozionale (ma sempre,
come vedremo, in relazione all'apriori logico) costituisce uno degli elementi di maggiore
interesse della fenomenologia husserliana, che in questo modo prende le distanze da tutte
quelle impostazioni filosofiche che per secoli hanno negato alladimensione affettiva
qualcosa come una propria «logica», una peculiare struttura di senso. Per cercare di
delineare questo percorso husserliano in campo pratico-emotivo ci avvarremo
principalmente dei testi del cosiddetto «primo» Husserl, dunque delle Ricerche logiche,
del primo libro delle Idee e delle lezioni di etica ad essi coeve (lezioni che vanno dal 1902 al
1914 e che ora sono in gran parte raccolte nel volume XXVIII dell'opera omnia, la
Husserliana, sotto il titolo di Vorlesungen über Ethik und Wertlehre 1908-1914). Limitarsi
allo Husserl prebellico, pur con significativi richiami ad alcune sue opere successive, è una
scelta dettata fondamentalmente da due motivazioni: in primo luogo, molti dei testi del
cosiddetto «secondo» Husserl, in particolare le lezioni di etica tenute a Freiburg negli anni
Venti, devono essere ancora pubblicate, per cui sono pressoché inutilizzabili per chi non
può avere libero accesso all'Archivio Husserl; in secondo luogo, la padronanza dei concetti
del «primo» Husserl risulta essenziale al fine di una comprensione effettiva dell'intera
riflessione husserliana, nella quale i cambiamenti non si configurano mai come svolte
repentine, bensì, in conformità al senso pregnante dell'immer wieder, cioè di un pensiero
che ritorna costantemente sui propri passi senza mai ripercorrerli in modo identico, come
approfondimenti, aperture di nuovi spazi, variazioni in tema.
2. La questione dell'intenzionalità degli atti di sentimento
(Gemütsakte)
Quella peculiare caratteristica della coscienza per la quale essa è sempre coscienza-diqualcosa, è costitutivamente in rapporto a oggetti, Husserl la chiama intenzionalità: le
modalità in cui la coscienza esplica concretamente la sua struttura intenzionale sono
molteplici. Un conto, infatti, è il modo in cui un atto di percezione sensibile si rapporta ad
un ente reale, per esempio un albero, un altro è il rallegrarsi per qualcosa, cioè il modo in
cui un atto di gioia «intende» una situazione gioiosa; o ancora, una cosa è l'atto di giudizio
in cui si afferma l'esser così di un determinato stato di cose, altro è il provare piacere per la
bellezza di un opera d'arte, cogliendone il valore. Fin dai tempi delle Ricerche Logiche
Husserl opera una distinzione fondamentale in seno ai vissuti di coscienza, vale a dire
quella fra atti logico-conoscitivi o intellettivi (Verstandesakte) e atti di sentimento,
afferenti alla coscienza pratico-emotiva, che egli chiama Gemütsakte (salvo poi utilizzare, a
seconda dei casi, anche denominazioni più specifiche, quali wertende Akte -atti valutanti,
wollende Akte -atti di volontà, ecc.). A questa distinzione ne affianca un'altra, quella fra
atti oggettivanti (objektivierende Akte) e atti non-oggettivanti (nicht-objektivierende
Akte): questa ripartizione è ancor più importante della precedente, poiché in essa si rende
esplicito l'elemento che differenzia in maniera essenziale le due tipologie di vissuti. 9
Mentre gli atti oggettivanti realizzano una piena coscienza dell'oggetto, poiché in essi un
qualcosa si manifesta in quanto oggetto essente in un certo modo e dotato di determinate
caratteristiche, negli atti non-oggettivanti non si dà una simile coscienza oggettuale in
senso stretto. Queste differenze possono essere apprezzate attraverso due semplici esempi:
mentre nella percezione sensibile un qualcosa è cosciente come oggetto adombrato
secondo una certa prospettiva ed essente in un certo modo, nel piacere estetico per un
opera d'arte non si può dire che la bellezza sia data «oggettualmente» così come è data
l'opera in quanto statua, dipinto, ecc., ovvero non vi è un' «oggettivazione» del referente
intenzionale. Il valore, cioè la bellezza, non è cosciente come un oggetto a pieno titolo,
bensì come un qualcosa che «inerisce» all'opera, come una specie di «aura» o di
«atmosfera» che la avvolge. Atti non-oggettivanti di questo tipo sono i vissuti della gioia,
del volere, della valutazione, del desiderio e così via: bisogna forse dedurne che essi, per il
fatto di non oggettivare alcunché, non sono pienamente intenzionali? Husserl non è affatto
di questo avviso, anche se a questo punto sorge la questione di come si esplichi
l'intenzionalità del Gemüt. Un passo avanti in questa direzione è rappresentato dalla
constatazione, fenomenologicamente essenziale, che l'atto emotivo è un atto fondato
(fundiert). Per riprendere l'esempio precedente del piacere estetico, il valore dell'opera
d'arte, la bellezza, può essere cosciente nella relativa valutazione solo se si dà una
rappresentazione di tale opera, solo se questa è percepita attualmente (o ricordata,
immaginata, la sostanza non cambia): risulta evidente, dunque, che nell'atto emotivo si
possono rinvenire una componente oggettivante fondante, che rende cosciente l'oggetto, e
una specifica componente emotiva che si innesta su di essa per poter esercitare la sua
intenzionalità. Non si tratta di due atti diversi, bensì di un unico vissuto costituito di un
elemento oggettivante o, come vedremo in seguito, rappresentativo, e di un elemento
propriamente affettivo fondato su quello: nonostante le modifiche che apporterà
soprattutto nelle Idee, Husserl manterrà inalterata la struttura del Gemütsakt in quanto
atto fondato, in quanto complesso (Komplikation) intenzionale. Da quanto emerso risulta
pertanto che la componente logica non caratterizza solo i Verstandesakte, vale a dire gli
atti conoscitivi della coscienza teoretica, ma anche, in qualche modo, gli atti che rientrano
nella coscienza affettiva: tale componente innerva, illuminandolo, l'intero tessuto della
coscienza, al punto che Husserl le attribuisce addirittura una incontestabile «onniefficacia
(Allwirksamkeit)».10 A questo punto si comincia a capire meglio in che senso Husserl parli
di un profondo intreccio (Verflechtung) fra coscienza teoretica e coscienza praticoemotiva, declinato nel senso di una sorta di «dipendenza» della seconda dalla prima: non
solo, infatti, i vissuti affettivi si fondano strutturalmente, ontologicamente, su un elemento
oggettivante, rappresentativo, ma inoltre essi, per essere chiariti fenomenologicamente,
hanno bisogno di nuovi atti conoscitivi che li rendano oggetti di indagine. Su questa
centralità degli atti oggettivanti si fonda, secondo Husserl, il predominio della ragione
logica, che «formula l'istanza di giudizio, determina la legittimità e predica le leggi della
correttezza in quanto leggi non soltanto per ciò che concerne il proprio campo, ma anche
per ciò che concerne il campo di qualunque altro genere di intenzione, e dunque per ogni
altra sfera della ragione. La ragione valutativa e quella pratica sono, per così dire, mute e in
un certo senso cieche».11 Mute perché non possono formulare giudizi, e in parte anche
cieche, poiché non riescono a far luce sulla propria attività: sia nel giudicare che nel
riflettere su se stesse hanno bisogno della ragion logica. Nonostante questa loro
«dipendenza», tuttavia, esse hanno una propria specificità: ciò è quanto dire che negli atti
emotivi opera una peculiare intenzionalità, la quale, sebbene sia legata a quella
oggettivante, se ne distingue però in manieraessenziale. Il problema sta nel considerare il
modo in cui Husserl declina questa intenzionalità del sentimento.
3. Gli atti emotivi nelle Ricerche logiche
Si è visto come il Gemütsakt sia un vissuto complesso, per così dire «stratificato»,
risultante dall'unione di una componente oggettivante e di una specifica componente di
sentimento. Questo elementare dato fenomenologico può essere facilmente riscontrato
attraverso molteplici esempi: affinché io possa volere qualcosa, devo prima averne quanto
meno un'idea, vale a dire devo «rappresentarmelo»; analogamente, per avere un atto di
desiderio devo in qualche modo sapere cosa desiderare e così via. Viceversa, negli atti
intellettivi non si dà una simile stratificazione intenzionale: la percezione di un qualcosa,
ad esempio, non è altro che coscienza adombrante di questo qualcosa, senza «aggiunte» di
altro tipo; l'immaginarsi una cosa non significa altro che rendersi presente un qualcosa che
non è attualmente percepibile, senza bisogno di elementi ulteriori, e via dicendo. Nella
Quinta ricerca logica Husserl esprime questo peculiare stato di cose attraverso il celebre
principio secondo il quale «ogni atto o è una rappresentazione o ha rappresentazioni a
proprio fondamento»,12 ovvero ogni vissuto o è un atto oggettivante o si fonda su un atto
di questo genere. Ma come deve essere intesa più precisamente questa fondazione
dell'intenzionalità affettiva sull'intenzionalità oggettivante o rappresentativa? Sempre nella
Quinta ricerca logica, Husserl cerca di venire a capo della questione attraverso la
distinzione, intrinseca ad ogni atto, fra la materia (Materie), la quale «conferisce [...] ad
esso il riferimento ad un'oggettualità»,13 e la qualità d'atto (Aktqualität), in virtù della
quale il riferimento all'oggetto è di tipo giudicativo, dubitativo, desiderativo e così via.
Materia e qualità sono due momenti astratti (abstrakte Momente) del vissuto, poiché il
fatto che possano essere distinti non sta a significare che essi possano sussistere
autonomamente l'uno rispetto all'altro: come sottolinea Husserl, infatti, non avrebbe
senso, ad esempio, una qualità di giudizio che non fosse al contempo un giudizio su una
qualche materia e, viceversa, una materia che non fosse materia di una specifica qualità
d'atto, come appunto quella di giudizio. Questo sta a significare che è proprio nella materia
che va ricercata quella specifica componente rappresentativa senza la quale non si può
parlare di «direzione oggettuale» del vissuto in senso stretto, e che d'altra parte tale
materia non può presentarsi se non congiuntamente ad un carattere d'atto che le inerisca,
come sostiene Husserl: «La materia non può presentarsi isolata, ma essa può
evidentemente concretizzarsi solo se viene integrata da momenti qualsiasi che sono
idealmente predelineati nel genere superiore "qualità d'atto"».14 In virtù di questa
impostazione, le differenze fra i vari tipi di vissuto vanno ricercate nelle differenti qualità
d'atto: le qualità d'atto propriamente oggettivanti sono quelle ascrivibili alla categoria del
credere o, come dice anche Husserl con termine greco, della dóxa, la quale è caratterizzata
dalla peculiarità di porre un qualcosa come essente in un certo modo (laddove è possibile
anche una modificazione «non-posizionale» di questo credere, come quando nel «mero»
rappresentarsi qualcosa si rimane per così dire indifferenti, «neutrali» rispetto alla
questione della sua esistenza o meno). Gli atti intellettivi del percepire, del giudicare,
dell'immaginare, del ricordare, ecc. condividono pertanto il medesimo genere qualitativo,
quello dossico per l'appunto, pur distinguendosi poi fra di loro in base alle differenti
qualità specifiche e al tipo di materia, a seconda che questa sia semplice o articolata.
Viceversa, le qualità d'atto non-oggettivanti non rientrano nella categoria del credere,
poiché in esse non si afferma l'esser così di un qualcosa: esse si riferiscono ad un oggetto,
cioè hanno una materia, ma ciò solo grazie alle intenzioni oggettivanti, poiché una materia
non può darsi primariamente se non come materia di un atto oggettivante. Queste
considerazioni mettono in evidenza come le qualità d'atto non-oggettivanti siano fondate
in quelle oggettivanti, al punto che Husserl parla, nelle Logische Untersuchungen,
rispettivamente di intenzioni «secondarie» e «primarie», e dell'essere intenzionali di
quelle solo in forza di queste: «Noi dobbiamo distinguere, in un certo modo, le intenzioni
primarie da quelle secondarie: queste ultime sono debitrici della loro intenzionalità al
fatto che sono fondate nelle prime».15 Da quanto detto sembra inevitabile concluderne che
l'atto emotivo non-oggettivante è composto da un atto oggettivante completo, quindi da
una materia e da una qualità che possiamo chiamare dossica, sulla quale si innesta una
nuova qualità d'atto specificamente affettiva che «si dirige» sulla materia del vissuto
fondante. Questo è il senso della fondazione del Gemütsakt sul Verstandesakt che emerge
dall'argomentazione husserliana: «ogni vissuto intenzionale è un atto oggettivante oppure
ha un atto di questo genere al proprio «fondamento», ovvero, in quest'ultimo caso, esso
ha necessariamente in sé come elemento costitutivo un atto oggettivante la cui materia
complessiva è al tempo stesso, nella sua individualità ed identità, la sua stessa materia
complessiva».16 Stando alle parole di Husserl, dunque, si deve convenire sul fatto che ciò
che distingue l'atto emotivo da un qualsiasi vissuto intellettivo sta tutto in una specifica
qualità d'atto, l'affettiva per l'appunto, che si edifica sulla sottostante qualità oggettivante,
«approfittando», per così dire, del riferimento intenzionale offerto dalla materia di questa:
non si dà, in altri termini, almeno in questa prospettiva delle Ricerche logiche, una
specifica «materia emotiva», ma solo la materia che è oggettivata nell'intenzione
fondante.17
Questa considerazione è alquanto significativa se si rammenta la motivazione per cui si
palesa, a livello concettuale, la necessità di una chiarificazione fenomenologica della
coscienza pratico-emotiva: come si ricorderà, tale analisi era guidata dal problema di fondo
relativo al darsi di una specifica intenzionalità affettiva, vale a dire dalla domanda se
effettivamente sussistano intenzioni di sentimento in cui si manifestano peculiari dati
oggettivi. La soluzione prospettata nelle Ricerche logiche non sembra però andare nella
direzione sperata: come si è visto, infatti, da una parte l'intenzionalità emotiva è risultata
«secondaria» e in un certo senso «derivata» da quella oggettivante della coscienza logicoteoretica; dall'altra, per di più, non è emersa la possibilità di un'oggettualità propriamente
emotiva, il valore, ragion per cui sembra che il tema di una coscienza pratico-emotiva
risulti troppo «schiacciato» su quello della coscienza logica per poter avere uno spessore
rilevante. La difficoltà sta nel fatto che, nel riconoscere le diversità esistenti fra i vari tipi di
vissuti, Husserl opera quella partizione in atti oggettivanti e non-oggettivanti che, a ben
vedere, si rivela per così dire «statica», inadeguata a dar conto delle differenze di cui è
intessuto l'ordito della coscienza: l'attribuzione di una intenzione non-oggettivante ai
vissuti di sentimento impedisce di parlare, a proposito di essi, di una costituzione
oggettuale in senso pieno. Questa soluzione non soddisfa Husserl, tanto che fin dagli studi
immediatamente successivi alle Ricerche logiche, soprattutto nelle Vorlesungen di etica e
poi nelle Idee, cerca di reimpostare l'intera questione nel tentativo di rafforzare
l'intenzionalità emotiva, il che significa spiegare il paradosso di come possano atti nonoggettivanti costituire oggetti.
Se nelle Logische Untersuchungen Husserl non riesce a mostrare la possibilità di un
riferimento oggettuale specificamente emotivo, il valore, nondimeno egli arricchisce
l'analisi dei Gemütsakte attraverso la considerazione di quei vissuti di sentimento che non
sono intenzionali, quali le sensazioni sensibili di piacere e di dolore: le sensazioni di
sentimento (Gefühlsempfindungen), analogamente alle sensazioni sensibili in ambito
teoretico, costituiscono il contenuto reale (reell) o descrittivo (deskriptiv) dei vissuti
emotivi. Ogni atto di coscienza, infatti, non si costituisce solo di elementi strettamente
intenzionali: l'atto emotivo, in particolare, non consta solo dell'atto oggettivante che
fornisce la materia e della specifica qualità d'atto affettiva che vi si riferisce, ma anche di
sentimenti sensibili, i quali «condizionano» l'intenzionalità propriamente emotiva. Le
Gefühlsempfindungen non sono componenti intenzionali, poiché esse non «scaturiscono»
dall'io per dirigersi verso oggettualità che trascendono la coscienza, bensì sono
«localizzate» in essa come contenuti reali della recettività sensibile (non a caso nelle Idee
Husserl svilupperà questo argomento in relazione alla tematica del «corpo vivo» -- Leib).
Pur non essendo intenzionali, in quanto appartenenti all'ambito dei contenuti descrittivi
della coscienza, le sensazioni di sentimento «accompagnano» per così dire l'intenzionalità
emotiva, al punto che per loro tramite l'oggetto intenzionato appare affettivamente
determinato, come mette in evidenza Husserl nel celebre esempio della gioia di fronte ad
un avvenimento felice: "questo atto [...] comprende nella sua unità non solo la
rappresentazione di un evento gioioso ed il carattere d'atto del piacere (Gefallen) ad esso
riferito; alla rappresentazione si connette una sensazione di piacere (Lustempfindung), che
da un lato viene appresa e localizzata come stimolo che eccita l'affettività
(Gefühlserregung) del soggetto psicofisico e, dall'altro, come proprietà oggettiva (objektive
Eigenschaft); l'evento appare avvolto da un'atmosfera rosea".18 Nell'intenzione della gioia
si manifesta dunque, contemporaneamente, un piacere sensibile riferito ad essa;
analogamente, in un atto di tristezza si dà contemporaneamente una sensazione di dolore e
così via. Su questo tema si avrà modo di tornare quando si tenterà di mostrare come il
darsi del valore in quanto specifico oggetto emotivo porti con sé, per principio, ovvero in
conformità ad una precisa legalità a priori, un piacere concomitante.
4. L'intenzionalità emotiva nelle Vorlesungen di etica e nelle
Idee
Stando a quanto emerge nelle Ricerche logiche, la questione dell'intenzionalità degli atti
emotivi non sembra trovare una soluzione adeguata. L'impostazione che viene ivi
prospettata non è infatti priva di difficoltà o, addirittura, di vere e proprie aporie,
riconducibili in ultima analisi al fatto che in forza di essa il carattere d'atto specificamente
emotivo non ha un referente oggettuale proprio, poiché la sua materia non è altro che la
materia complessiva dell'atto oggettivante che lo fonda. Se dunque il Gemütsakt trae la sua
intenzionalità dall'oggettivazione «primaria» che è posta a suo fondamento, è ancora lecito
sostenere che esso è un atto intenzionale a pieno titolo?
Husserl cerca di ovviare a questa difficoltà attraverso la considerazione che gli atti emotivi
sono sì debitori della loro intenzionalità, ma che in certo modo «essi hanno ciò di cui sono
debitori».19 Questa precisazione serve a far «quadrare il cerchio» nella Quinta ricerca
logica, ma alla lunga risulta essere troppo debole per fugare il dubbio che l'atto di
sentimento non sia un vissuto intenzionale in senso stretto. Il nodo aporetico della
questione sta nel fatto che, se si mantiene una rigida distinzione fra atti oggettivanti e nonoggettivanti, con ciò riconoscendo diverse funzioni della coscienza e della ragione, allora
l'atto emotivo non può avere un'oggettualità propria, ragion per cui emerge un legittimo
sospetto sulla sua intenzionalità; viceversa, se si vuole attribuire all'atto non-oggettivante
un'intenzione e un oggetto specifici, allora rischia di venir meno la sua differenza con l'atto
oggettivante e, di conseguenza, il riconoscimento, basato su un'evidenza indubitabile,
dell'esistenza di diverse modalità intenzionali della coscienza. 20 È anche in considerazione
di queste difficoltà che Husserl parla, in più parti delle sue Vorlesungen di etica, degli atti
emotivi come di un «groviglio» apparentemente inestricabile. Per evitare di ricadere nella
prospettiva per così dire «ingenua» delle Logische Untersuchungen, Husserl deve da un
lato tener ferma la differenza dei vissuti affettivi rispetto a quelli logico-conoscitivi, mentre
dall'altro riconoscere ai primi un riferimento intenzionale proprio, sebbene in qualche
modo fondato su quello dei secondi: nel tenere insieme queste due istanze apparentemente
inconciliabili, vale a dire un'intenzionalità non-oggettivante e una certa oggettualità
emotiva, sta la peculiarità della nuova impostazione husserliana, tesa a mostrare il legame
e al contempo la specificità della coscienza pratico-affettiva rispetto a quella logicoteoretica.
Nei corsi universitari sull'etica del semestre invernale 1908/09 Husserl manifesta
chiaramente l'intenzione di seguire questa «strategia»: per un verso, infatti, egli insiste
sulla differenza fra Gemütsakte e Verstandesakte, sulla diversità del loro «riferimento-a»
(Beziehung-auf),21 per l'altro, invece, cerca di coniugare questo punto fermo delle analisi
con un «rafforzamento» dell'intenzionalità dei primi. È in tal guisa che egli arriva a
prospettare un'oggettualità assiologica che costituisca il referente oggettuale proprio del
Gemüt:
Ci si può chiedere d'altra parte se tutti gli atti in quanto tali, quindi anche gli atti emotivi, in quanto
posseggono una loro intenzionalità, una loro peculiarità nel riferirsi ad un'oggettualità, non
racchiudano in qualche maniera un'intenzione (Meinung) ed eventualmente una manifestazione
(Erscheinung), cioè non semplicemente attraverso gli atti fondanti, bensì in quanto atti emotivi
[...]. In qualche modo bisogna rispondere di sì a tale domanda e comprendere la risposta
affermativa. Si deve allora sicuramente dire che, in certo modo, anche negli atti valutanti si
manifesta (erscheint) qualcosa, che in essi si manifestano proprio oggetti di valore (Wertobjekte),
vale a dire non semplicemente gli oggetti che hanno valore, bensì i valori in quanto tali (Werte als
solche).22
In questo passo assai significativo, Husserl pone l'accento sul fatto che, se gli atti di
sentimento debbono essere vissuti intenzionali a pieno titolo, allora devono possedere
un'intenzione specifica, cioè una direzione oggettuale peculiare, e conseguentemente
un'oggettualità propria, che non sia riducibile a quella manifestata negli atti oggettivanti
fondanti. Il correlato oggettuale della coscienza emotiva è, secondo Husserl, il valore, che
dunque non è semplicemente il referente intenzionale di atti specificamente valutativi,
bensì il correlato di tutti i vissuti che rientrano nella sfera del sentimento.23 Spesso
Husserl parla di «atti valutanti» invece che di «atti affettivi», e ciò fondamentalmente per
due ragioni: in primis perché gli atti valutanti sono esemplificativi del funzionamento del
Gemüt nel suo complesso, e poi perché essi svolgono un ruolo centrale all'interno della vita
pratica, soprattutto, come vedremo in seguito, in riferimento agli atti di volontà.
Anche nei Gemütsakte, pertanto, si danno in certo modo manifestazioni, si manifesta
qualcosa, e ciò è quanto dire che nel loro lato oggettuale non si trova più solamente
l'oggettualità dell'atto fondante, ma anche il valore che si riferisce ad essa come sua qualità
affettiva. L'affermazione di questa prospettiva, per quanto centrale e innovativa rispetto
alle Ricerche logiche, non comporta, tuttavia, la soluzione di tutti i problemi, poiché
rimane insoluta la questione di come possano gli atti emotivi costituire le corrispondenti
oggettualità assiologiche. Nell'atto di sentimento, infatti, il valore si presenta come un
qualcosa di inerente ad un oggetto, ma non esso stesso come un oggetto: nonostante
l'individuazione di un correlato specificamente emotivo, la coscienza affettiva continua ad
essere non-oggettivante, e non potrebbe essere altrimenti, stante la sua differenza dalla
coscienza logico-teoretica. Nelle Vorlesungen 1908/09 Husserl non trova altra soluzione se
non quella di affermare che solo una nuova oggettivazione, dunque un nuovo atto
oggettivante che si edifichi sull'atto affettivo, può costituire il valore come un oggetto in
senso stretto. Il valore, come afferma Husserl, è «qualcosa di oggettivabile (etwas
Objektivierbares)»,24 ma solo se nuovi atti oggettivanti, attraverso un movimento
riflessivo, si volgono verso quei vissuti emotivi in cui si manifestano i valori e li colgono in
quanto oggetti essenti in un certo modo.25 Neanche questo però, è il punto di approdo
definitivo della peregrinazione husserliana nel mare magnum dell'intenzionalità degli atti
affettivi: infatti, ciò che continua a far problema è questa distinzione fra objektivierende e
nicht-objektivierende Akte, poiché essa sembra non riuscire a dar ragione, se presa come
struttura «ultima» della coscienza, della specificità dell'intentio emotiva.
Nelle Idee, come è noto, Husserl sottopone ad una profonda revisione il concetto di
intenzionalità della coscienza, in vista di una caratterizzazione rigorosa della nuova scienza
fenomenologica: la revisione è operata attraverso un approfondimento del tema del
«porre», già emerso nelle Logische Untersuchungen in riferimento agli atti oggettivanti. Il
carattere di riferimento-a proprio della coscienza viene interpretato nelle Idee come
capacità di «prendere posizione» rispetto a qualcosa, vale a dire di «porre» questo
qualcosa in un certo modo: tutti i vissuti intenzionali o cogitationes, come anche li designa
Husserl con termine cartesiano, sono pertanto «prese di posizione» (Stellungnahmen).
Questa nuova impostazione ha il pregio di «mettere fra parentesi» la questione
dell'oggettivazione, dunque la distinzione fra atti oggettivanti e non oggettivanti -- la quale
aveva per così dire aperto un baratro fra i diversi tipi di coscienza -- non perché la neghi,
bensì perché permette di considerarla come secondaria e in certo modo derivata da un
carattere più «originario». Tale carattere originario e comune a tutte le modalità della
coscienza è quello posizionale o tetico, in virtù del quale, come già accennato, ogni atto può
dirsi intenzionale solo in quanto pone un qualcosa in questo o quest'altro modo: nella
percezione evidente di un fiore, ad esempio, questo è posto come realmente esistente e
dotato di certe determinate caratteristiche (profumo, colore, forma, ecc.); o ancora, in una
valutazione che vi si riferisca, esso è posto come bello, piacevole, grazioso e così via. La
determinazione dell'intenzionalità come posizionalità non significa d'altronde che in tutti i
tipi di atto il porre assuma lo stesso senso, poiché, al contrario, vi sono modalità
posizionali diverse e, fra di esse, una dominante e potenzialmente estendibile ad ogni tipo
di vissuto, vale a dire quella della credenza o dossica: la posizione dossica o dossotetica è
centrale in quanto, analogamente al «vecchio» atto oggettivante, afferma l'esistenza di un
qualcosa, stabilisce il suo esser così o in altro modo, in una parola pone l'essere in generale.
Husserl sostiene che vi è una credenza o «doxa originaria» (Urdoxa) la quale, nell'ordito
complessivo della coscienza, costituisce per così dire il carattere razionale «primordiale»
dell'io: solo in essa si dà la verità come correlato oggettuale,26 quindi solo in virtù di essa ci
sono conoscenze in senso rigoroso. In questa nuova prospettiva, gli atti emotivi sono
ancora dipendenti da atti fondanti, in questo caso atti dossici, ma hanno una specifica
modalità di prendere posizione e ovviamente anche un riferimento intenzionale proprio.
Come riesce Husserl a tenere insieme l'intenzionalità intesa come posizionalità, in quanto
tale comune a tutti i vissuti di coscienza, e le differenze fra atti emotivi non-dossici e atti
dossici?
Al paragrafo 37 del primo libro delle Idee Husserl opera una distinzione essenziale nel
quadro dell'intenzionalità complessiva del cogito: l'essere-diretto dell'atto intenzionale su
qualcosa non significa eo ipso l'afferrare (erfassen) questo qualcosa, piuttosto tale
«afferramento» rappresenta una modalità intenzionale peculiare, tipica degli atti dossici,
che può tuttavia essere assunta anche dagli altri tipi di atto. I vissuti pratico-emotivi sono
sì intenzionali, ma si distinguono dagli atti della credenza poiché in essi l'oggetto
intenzionale non è «afferrato», bensì, per così dire, meramente intenzionato:27 tale
obiectum intenzionale può però diventare obiectum afferrato attraverso un «caratteristico
rivolgimento "oggettualizzante"»,28 vale a dire in virtù di una trasformazione dell'atto
emotivo in atto dossico. Questa trasformazione secondo Husserl è per principio sempre
possibile in virtù del carattere originario e potenzialmente onnipervasivo della Urdoxa,
grazie alla quale «in tutti i caratteri tetici sono nascoste modalità dossiche».29
L'afferramento dell'oggetto dipende pertanto da un'oggettivazione, la quale è sì propria
strutturalmente dell'atto dossico, ma può essere compiuta anche dai vissuti praticoemotivi, i quali possono per principio «mutarsi» in atti dossici. Ciò è quanto dire che tutti
gli atti sono in certo modo dossici e oggettivanti, laddove il loro carattere oggettivante può
essere pienamente attuale o semplicemente potenziale: «ogni atto di coscienza compiuto in
maniera non-dossica è [...] potenzialmente oggettivante; soltanto il cogito dossico compie
un'oggettivazione attuale».30 L'intepretazione dell'intenzionalità come posizionalità e il
carattere potenzialmente oggettivante di tutti gli atti non-dossici rappresentano gli
strumenti concettuali attraverso i quali Husserl riesce a superare le difficoltà e le vere e
proprie aporie in cui era incappato fin dai tempi delle Ricerche logiche: «Un atto
posizionale pone, ma indipendentemente dalla "qualità" che esso pone, pone anche
dossicamente; qualunque cosa sia posta attraverso di esso in altri modi, è quindi posta
anche come esistente: solo che non è posta attualmente».31 In questo modo, Husserl
afferma da un lato la specificità dell'elemento pratico-emotivo, mentre dall'altro ripropone
l'universalità del logico, sempre sostenuta, fin dai primordi del suo filosofare, come una
potenzialità immanente alla vita di coscienza.
La possibilità che gli atti afferenti alla coscienza pratico-emotiva divengano atti dossici è
testimoniata, secondo Husserl, dal duplice senso in cui utilizziamo il termine «valutare»:
da un parte con esso si intende una «disposizione emotiva dell'animo»,32 dall'altra,
viceversa, un atto teoretico tramite il quale attribuiamo una qualità assiologica ad un
qualche oggetto. Il primo caso è, ad esempio, quello della valutazione estetica, grazie alla
quale noi «viviamo» nell'atteggiamento affettivo del piacere per un qualcosa; il secondo,
invece, è quello, proseguendo l'esempio, del giudizio estetico che può scaturire da quella
valutazione e in forza del quale noi non ci limitiamo a fruire dell'oggetto, ma attribuiamo
ad esso dei predicati di valore in quanto caratteristiche che gli appartengono in virtù del
suo essere così.33 In altre parole, mentre il primo atteggiamento è semplicemente tetico o
posizionale, il secondo è propriamente dosso-tetico, vale a dire teoretico in senso stretto.
Nelle lezioni di etica anteriori alle Idee Husserl non aveva ancora sviluppato pienamente il
concetto di intenzionalità in quanto presa di posizione, o meglio non aveva ancora
prospettato la possibilità che un atto emotivo potesse trasformarsi in atto dossico: nona
caso, come visto, egli sosteneva che il valore come oggetto potesse darsi solo in un atto
oggettivante che si volgesse riflessivamente verso il vissuto affettivo e il suo referente
oggettuale. Nell'impostazione che domina nelle Idee, invece, il valore può darsi come
«mero» correlato intenzionale di un semplice atto di sentimento, oppure può essere
afferrato come obiectum in senso stretto, come essente in un certo modo. A tal riguardo è
bene sottolineare il fatto che, in ogni caso, qualunque apprensione di valore ha comunque
origine primariamente nel Gemüt, cioè che non può darsi coscienza teoretica del valore, la
quale non scaturisca da una coscienza specificamente emotiva.
5. L'intenzionalità «fruitiva» della coscienza emotiva
Distinguendo i due significati principali di «valutare» Husserl mette in evidenza come la
coscienza pratico-affettiva possa diventare coscienza teoretica in senso stretto, cioè possa
oggettivare i propri referenti intenzionali, i valori, in modo da predicarli in un giudizio. I
vissuti di sentimento possiedono in sé degli elementi dossici in forza dei quali essi possono
trasformarsi in atti pienamente dossotetici: in altri termini, essi possono diventare atti
oggettivanti a tutti gli effetti e, con ciò, costituire i valori come oggetti in senso stretto. In
tali atti emotivi divenuti oggettivanti il valore può essere posto, in virtù del carattere
dossico della credenza originaria, come un qualcosa che è in qualche modo: la posizione
d'essere che caratterizza la Urdoxa diviene così il carattere intenzionale dominante anche
del valutare, che in tal guisa può affermare il valore come un oggetto che è e che ha queste
e queste altre caratteristiche. Ad esempio, se dal semplice atto pratico-emotivo in cui io
intendo qualcosa come utile e lo utilizzo come tale, passo all'atteggiamento dossico, allora
io non vivo più come coscienza affettiva: l'atto emotivo si trasforma in un atto dossico con
il quale io affermo il valore dell'oggetto, la sua utilità, come essente in un certo modo.
Parafrasando Husserl, io «afferro» teoreticamente la cosa, in questo caso il valore, «fisso»
il suo senso attraverso la rigorosa determinazione del suo essere così: la cosa è posta nei
limiti del suo essere così, cioè in modo tale che non possa essere altrimenti, pena il suo
snaturamento in qualcosa d'altro, e in tal modo essa è «compresa» (il legame fra afferrare
e comprendere, ovvero il darsi di un comprendere in quanto afferrare, emerge con
chiarezza nel termine tedesco utilizzato da Husserl a questo riguardo, vale a dire erfassen).
È ovvio che questa oggettivazione del valore si compie sulla scorta della originaria
coscienza emotiva assiologica, dunque di una coscienza non-afferrante: senza una
apprensione sentimentale non si darebbe alcuna oggettualità assiologica, ragion per cui
Husserl sostiene a più riprese che «"sentire il valore" (Wertfühlen) rimane l'espressione
più generale per dire coscienza di valore».34 Risulta pertanto indispensabile un'ulteriore
approfondimento della questione dell'intenzionalità affettiva: se infatti gli atti dossici
hanno una intentio oggettivante, afferrante (erfassend), come si caratterizzerà la modalità
intenzionale del Gemüt?
Vivendo come coscienza pratico-emotiva, il soggetto non ha a che fare con mere «cose»
indifferenti, con gli oggetti per così dire «neutrali» delle scienze naturali e del sapere
teoretico in generale: egli non si pone in modo «distaccato» e, per dirla con termine
weberiano, «avalutativo» di fronte ai suoi oggetti, poiché il suo interesse non è di tipo
specificamente teoretico, bensì pratico in senso lato (valutativo, volitivo, desiderante, ecc.).
La coscienza pratico-affettiva pone il soggetto in un rapporto di interazione con gli oggetti
intenzionali: il soggetto si dispone praticamente ed emotivamente nei confronti del suo
obiectum, e questo gli si pone dinanzi, gli si impone come elemento di interesse
stimolando la sua affettività. Solo in questo rapporto biunivoco, nel quale un soggetto
«partecipa affettivamente» di una cosa, può emergere il valore come referente intenzionale
peculiare del Gemüt, ovvero, nei termini di Husserl: «La costituzione più originaria del
valore si realizza nell'ambito emotivo, è quella dedizione preteoretica e fruitiva [jene
vortheoretische geniessende Hingabe] (nel senso più largo della parola) del soggetto
egologico che sente».35 Da ciò emerge chiaramente che la modalità intenzionale specifica
della coscienza emotiva, ovvero del soggetto che sente (fühlendes Subjekt), è quella della
fruizione (Genuß), in virtù della quale il soggetto riconosce nell'oggetto particolari qualità
assiologiche in quanto egli partecipa affettivamente di esse, ne gode. In altri termini, la
costituzione di valori oggettivi è per principio legata alla fruizione soggettiva di essi.
Questo non significa peraltro che il valore sia riducibile a funzione di un soggetto o di
molteplici soggetti, che esso sia una creazione soggettiva «arbitraria»: «Il "valore" non è
qualcosa che si dissolva nella soggettività e, in questo senso, nella relatività del valutare,
quasi che ciò che per uno ha valore, possa non averlo per un altro ed essere indifferente per
un terzo».36 Nell'ottica husserliana i valori devono avere una loro obiettività, cioè un loro
darsi «in sé», a prescindere da opinioni soggettive contingenti, ma al contempo devono
costituirsi nella coscienza emotiva come senso per ogni soggetto possibile in generale. In
certo modo il valore emerge dall'«incontro» fra l'oggetto e il soggetto valutante, o meglio
dalla «stimolazione» che quello esercita sulla coscienza di questo, «coinvolgendolo»
emotivamente. Il riconoscimento del valore come qualità assiologica spettante a un oggetto
passa dunque attraverso la fruizione emotiva del soggetto, al punto che Husserl mette
esplicitamente in risalto un ruolo della soggettività in campo pratico-affettivo che non
trova riscontro in ambito logico-teoretico: laddove la posizione d'essere attribuisce alle
cose predicati obiettivi, i quali non dicono nulla del soggetto che pone dossicamente, la
posizione affettiva rivela invece le qualità assiologiche degli oggetti in virtù di orientamenti
fruitivi soggettivi. Nel riconoscere che il colore di questa superficie è, ad esempio, una
particolare tonalità di rosso, io non faccio altro che attribuire ad una cosa, la superficie, un
predicato che le spetta obiettivamente, cioè la tonalità di rosso, senza che in questo
giudizio emerga qualcosa che riguardi me in quanto soggetto giudicante; diversamente, se
io valuto questa superficie come bella, magari proprio per il suo colore particolare, allora io
fruisco di essa, vivo in quella peculiare modalità intenzionale in base alla quale la
particolare connotazione assiologica dell'oggetto è cosciente in quanto suscita nel soggetto
un interesse affettivo. In altri termini, la superficie rossa mi si impone come bella
provocando in me, al contempo, un certo «godimento»: io fruisco piacevolmente di essa.
Queste relazioni non sono, come Husserl ripete spesso, semplici rapporti psicologici, bensì
nessi eidetici retti da leggi a priori: la dimensione del sentire può rientrare nell'ambito di
una ragione universale proprio in quanto sottostà ad una legalità ideale specifica. In forza
di tale legalità a priori non si può interpretare quanto detto finora come una sorta di
edonismo in senso comune: non si è infatti sostenuto che qualcosa ha valore poiché piace,
come se il piacere fosse il criterio per la determinazione delle qualità assiologiche delle
cose, bensì che la manifestazione di un qualcosa che si dà come valevole avviene in una
coscienza emotiva che, in quanto tale, fruisce affettivamente di esso. In altri termini, la
datità del valore negli atti emotivi suscita un sentimento concomitante senza il quale non
vi sarebbe, per il soggetto, alcuna coscienza del valore (non a caso, nel puro atteggiamento
teoretico, scevro di ogni affettività, non vi è alcuna coscienza assiologica). Non è il piacere a
stabilire cosa vale, ma è ciò che vale a darsi sempre, per principio, in un piacere.
Husserl sottolinea spesso come il carattere fruitivo (genießend) della coscienza emotiva
consista nel fatto decisivo che l'oggetto di valore tocca, per così dire, le «corde dell'animo»,
che esso «muove» l'affettività in modo piacevole (o spiacevole, nel caso di un disvalore).
Nell'esempio di Husserl: «Quando sento una nota di violino, la gradevolezza, la bellezza è
originariamente data se la nota muove il mio animo (Gemüt) in modo originariamente
vivente (ursprünglich lebendig), e la bellezza come tale è data appunto attraverso il
medium di questo piacere (Gefallen)».37 La coscienza del valore non è pertanto un mero
aver-presente, un «vedere frontale» analogo, ad esempio, a quello di una semplice
percezione sensibile nella quale l'oggetto si pone «frontalmente» rispetto ad un soggetto,
bensì, in modo più pregnante, un «coinvolgimento emotivo» basato sull'azione motivante
che l'oggetto di valore compie sul Gemüt. In virtù di quanto emerso, in ambito praticoemotivo non si dà una presenza «statica» dell'oggetto intenzionale nel rispettivo atto di
sentimento, ma, più specificamente, una sorta di «relazione coinvolgente»: il valore
stimola l'emotività, la quale partecipa fruitivamente di esso. A questo punto sembra più
chiaro in che senso Husserl parli di una modalità intenzionale non-afferrante: se da un
lato, infatti, il cogito dossico pone gli oggetti in modo «neutrale», come essenti dotati di
certi predicati specifici, dall'altro la coscienza emotiva o «senziente» risulta affettivamente
«coinvolta» con il suo correlato oggettuale, ovvero non mantiene rispetto ad esso una
distanzatale da consentirle di «afferrarlo» come oggetto in senso stretto. La comprensione
di un qualcosa, il suo afferramento teoretico, comporta la posizione di questo stesso
qualcosa come un oggetto di un certo tipo, dotato quindi di una sua identità, di un suo
senso univoco: ciò non avviene nella coscienza emotiva, poiché in essa il soggetto che viene
stimolato affettivamente da un'oggettualità assiologica, si rapporta a quest'ultima non
cercando di afferrarne il senso per così dire ontico, bensì per fruirne in un sentire
preteoretico (laddove «preteoretico» deve essere inteso in senso lato, vale a dire non come
privo di elementi logici, ma come non ancora teoretico in senso proprio). Il darsi di una
specifica intenzionalità fruitiva rende possibile quella che noi chiamiamo vita comune,
quell'esistenza quotidiana nella quale ci muoviamo già da sempre: in essa la distinzione
soggetto-oggetto risulta per così dire «sfumata», poiché le cose non sono «meri» oggetti
che ci si pongono dinanzi in modo neutrale, bensì cose presso le quali noi ci troviamo
costantemente, cose che amiamo, che utilizziamo, che desideriamo, che distruggiamo e
così via. Nel senso dell'espressione «fruizione» si manifestano non a caso i due significati
reciprocamente correlati di usufruire e godere: l'avere a disposizione, il giovarsi di un
qualcosa non stanno a significare altro se non il godere di questo qualcosa, inteso sia come
un trarne vantaggio che come un trarne piacere (laddove l'uno, evidentemente, non può
stare senza l'altro). Lo stare fra le cose proprio dell'intenzionalità fruitiva, il suo dedicarsi
ad esse in quanto stimolata da esse, in quanto affettivamente coinvolta, costituiscono il
tratto caratteristico del Gemüt inteso come specifica coscienza pratica ed emotiva.
6. La costituzione del valore in quanto oggetto «fondato» o
«secondario»
Finora il discorso si è incentrato sulla peculiare modalità intenzionale del Gemüt, poiché si
trattava di verificare se e come essa potesse configurarsi effettivamente. Come visto,
l'intenzionalità affettiva si declina originariamente come fruizione, sebbene essa, in virtù
del suo carattere potenzialmente oggettivante, possa esplicitarsi anche in atti pienamente
dossici. Un discorso analogo può essere fatto per il suo referente oggettuale, cioè il valore,
che può essere semplicemente intenzionato in un vissuto emotivo oppure oggettivato nella
corrispondente trasformazione dossica del medesimo vissuto: si tratta quindi di vedere in
che modo esso si costituisca nella coscienza emotiva e il modo in cui possa
«oggettualizzarsi», vale a dire in cui possa essere un oggetto, benché sui generis.
Nel paragrafo 88 del primo libro delle Idee Husserl introduce una delle distinzioni
fenomenologicamente più determinanti, cioè quella fra noesi e noema. Senza entrare
molto nello specifico (cosa che non può essere fatta in questa sede e che sarebbe per di più
ridondante ai fini del presente articolo), basterà qui ricordare che noetici sono definiti da
Husserl quei momenti in cui consiste l'atto in quanto Erlebnis soggettivo, che dunque
possono essere trovati «grazie a una analisi effettiva del vissuto»,38 laddove noematici
sono invece quei momenti che costituiscono il «di-qualcosa» del vissuto, il suo «senso»:
tale senso non deve essere confuso con l'oggetto intenzionato, che in quanto tale è «fuori»
dalla coscienza, la trascende, bensì deve essere assunto «esattamente quale si trova
"immanentemente" nel vissuto della percezione, del giudizio, del godimento, ecc., ossia
quale ci viene offerto dallo stesso vissuto, se noi lo interroghiamo nella sua purezza»,39
ovvero in una riflessione fenomenologica. In altre parole, mentre nell'ambito delle noesi
rientrano i vari tipi di prese di posizione (percezione, giudizio, ricordo, valutazione, ecc.),
in quello dei noemi si trovano i sensi che costituiscono il correlato oggettuale delle
intenzioni noetiche (il percepito, il giudicato, il ricordato, il valutato e così via). Nel caso
degli atti emotivi, ovviamente, la noesi complessiva è fondata, poiché il carattere d'atto
specificamente affettivo si basa su uno dossico (una valutazione su una percezione, ad
esempio). Come si ricorderà, Husserl sostiene da sempre questa caratteristica fondazione
del Gemütsakt, ma nelle Idee, conformemente a quanto prospettato già nelle Vorlesungen
1908/09, egli parla anche di una piena oggettualità affettiva, fondata su quella manifestata
dall'atto dossico sottostante, eppure distinta da essa. Tale oggettualità emerge
evidentemente nella sfera noematica, poiché è in essa che si mostra ogni senso
intenzionale. Secondo lo Husserl delle Idee, a noesi fondate corrispondono
necessariamente anche noemi fondati, in base al principio che «non vi è alcun momento
noetico senza un momento noematico a esso specificamente inerente».40 L'atto emotivo
possiede pertanto, in conformità al suo statuto noetico globale, un noema complessivo
risultante dall'unificazione di due sensi, quello dossico fondante (ad esempio il percepito, il
ricordato, ecc.), e quello specificamente emotivo (il valutato, il desiderato e così via). In
tale prospettiva, il valore come correlato oggettuale, ovvero come senso noematico della
corrispettiva noesi valutante, può essere considerato come un qualcosa di oggettuale, che si
«innesta» su un oggetto in senso stretto: «da un lato parliamo della mera "cosa" che è
valevole, che ha un carattere di valore, una qualità-valore (Wertheit), dall'altro parliamo
degli stessi valori concreti o della oggettità-valore (Wertobjektität) [...]. L'oggettivitàvalore implica la corrispondente cosa materiale e vi introduce la qualità-valore come
nuovo strato oggettivo».41 Questo senso noematico assiologico può essere semplicemente
intenzionato, come in un wertender Akt, oppure «afferrato» (erfasst) in una
corrispondente trasformazione dossica del medesimo atto valutante.
Sebbene nelle lezioni di etica del 1908/09 non avesse ancora approntato completamente
l'apparato concettuale delle Idee, tuttavia in esse Husserl già prospettava un'oggettualità
intenzionale specifica per gli atti di sentimento, il valore: queste riflessioni sul valore come
correlato oggettuale della coscienza emotiva sono alquanto interessanti e si coniugano
bene con i risultati raggiunti nel capolavoro di qualche anno successivo. Nella coscienza
emotiva, in quanto caratterizzata primariamente da un'intenzionalità non-oggettivante,
non può darsi ovviamente il valore in quanto oggetto, piuttosto solamente in quanto
semplice correlato fruitivo. Riprendendo ancora una volta la distinzione, emersa al
paragrafo 37 del primo libro delle Idee, fra obiectum afferrato e obiectum intenzionale, si
può affermare con Husserl che «"prestare valutativamente attenzione a una cosa" non
significa avere il valore «come oggetto», nel senso specifico dell'oggetto afferrato»,42
bensì, per così dire, come semplice «referente» intenzionale. Nel Gemüt, pertanto, il valore
è semplicemente «preso di mira» come «un qualcosa che spetta agli oggetti» (etwas den
Objekten Zukommendes), ovvero come«un qualcosa che si riferisce all'essere o al nonessere (etwas auf Sein oder Nicht-Sein Bezügliches)».43 Mentre gli atti oggettivanti
intenzionano oggetti, laddove con oggetti si deve intendere un qualcosa di essente
(Seiendes), gli atti emotivi sono diretti ai valori, che non si manifestano come oggettualità
vere e proprie, cioè come un qualcosa che è in senso stretto. Il valore, in quanto referente
fruitivo della coscienza pratico-affettiva, non è «afferrato» come oggetto, ma, per utilizzare
ancora l'immagine della Quinta ricerca logica, «percepito» come un'atmosfera che aleggia
attorno ad un qualcosa. Se però tale valore viene oggettivato in una corrispondente
trasformazione dossica del vissuto di sentimento, allora esso viene afferrato come
obiectum teoretico in senso stretto: solo in virtù di questa oggettivazione si può condurre
una riflessione conoscitiva su di esso la quale abbia per fine l'edificazione di discipline
filosofiche assiologiche (come l'assiologia formale che Husserl tratteggia nelle già citate
lezioni di etica del 1914).
Il valore che emerge da tale trasformazione oggettivante può essere considerato un
oggetto, un qualcosa che ha il suo modo d'essere, anche se peculiare e del tutto originale.
In più punti delle Vorlesungen 1908/09, infatti, Husserl sostiene che esso è un oggetto
«fondato» (fundiert) e «secondario» (sekundär):44 ma fondato su cosa e secondario
rispetto a quale presunto oggetto «primario»? Per rispondere a queste domande bisogna
tener presente che il valore è dato primariamente in un atto di sentimento, il quale è a sua
volta un vissuto che si costituisce di più caratteri d'atto, vale a dire di una componente
dossica e di una specificamente emotiva fondata su quella: nel valore in quanto correlato
intenzionale si ripropone un rapporto di fondazione analogo a quello dell'atto valutante, in
quanto la qualità assiologica non può darsi a prescindere dall'oggetto cui inerisce
(zukommt). In altri termini, il valore non può sussistere se non in quanto valore di una
cosa, cioè di un oggetto che funge in qualche modo da portatore (Träger). Questa
«dipendenza» del valore dagli oggetti cui esso spetta è sottolineata spesso da Husserl,
secondo il quale «il valore è ciò che è solo in quanto valore di un oggetto».45
Nell'apprezzamento di un valore estetico, per fare il solito esempio, tale valore non può
presentarsi se non come inerente ad un'opera d'arte, un fenomeno naturale, una persona,
ecc.; o ancora, nel riconoscimento di un valore morale, quest'ultimo non può darsi se non
in riferimento ad un'azione, un proposito, una decisione e così via. È in virtù di questo
elementare dato fenomenologico che nel linguaggio comune si utilizza il termine «valore»
in modo duplice, intendendo con esso, da una parte, la cosa che vale, dall'altra il suo valore
in senso stretto, cioè in quanto qualità assiologica. Dal punto di vista fenomenologico,
pertanto, il valore si connota come fundierter Gegenstand, laddove il suo portatore è
ovviamente oggetto fondante e, in quest'ottica, primario: poiché la sua datità è legata, in
forza di una legge essenziale, a quella del suo oggetto portatore, l'obiectum assiologico non
costituisce un essente autonomo dotato di una sua pienezza, bensì, per l'appunto, un
qualcosa di «secondario». Il valore può essere considerato anche di per sé, a prescindere
dagli oggetti cui inerisce, ma questa astrazione, di principio sempre possibile, nulla toglie
alla connessione essenziale fra il Wert e il suo Träger, connessione sulla quale Husserl
torna continuamente sia nelle Idee che nel lezioni di etica del 1914: «i valori hanno il loro
lato oggettuale e al contempo il loro specifico lato del valore, e il primo fonda il
secondo».46 Ma come deve intendersi questa fondazione dei valori sui loro portatori?
Nell'atteggiamento teoretico i valori «sono presenti (vorhanden) solo attraverso predicati
di valore (Wertprädikate)»:47 così come in ambito logico si pongono dossicamente le
caratteristiche di una determinata cosa, cioè si attribuiscono ad un soggetto i suoi predicati
(ad esempio largo, grande, alto, verde, ecc.), allo stesso modo nella sfera del valutare
razionale si predicano le qualità assiologiche dell'oggetto valutato. Secondo Husserl i
predicati di valore si fondano su quelli logici, vale a dire sulle caratteristiche ontiche
dell'oggetto di valore, ma non nel senso di una «causazione», cioè di un rapporto
diderivazione simile a quello che lega l'effetto alla propria causa. I predicati assiologici
hanno infatti una loro specifica peculiarità, sono irriducibili ai predicati logici poiché
appartengono, come sostiene Husserl, ad un' «altra dimensione (eine andere
Dimension)»,48 ovvero costituiscono, nei termini delle Idee, una regione particolare, una
nuova stratificazione di senso. Tale dimensione non è però, come già accennato, una
«oggettualità piena e intera» (volle und ganze Objektivität), non è autonoma, non può
sussistere da sola, ma deve presupporre una sfera di oggetti già «compiuti» su cui
innestarsi: in questo senso Husserl ribadisce a più riprese che «i predicati assiologici
presuppongono quelli logici».49 Il rapporto di presupposizione è tale che il predicato di
valore può darsi solo in virtù di un oggetto dotato di certi determinati predicati logici, per i
quali, tuttavia, esso è «inessenziale» (außerwesentlich): in un oggetto utile, per fare un
esempio, l'utilità come predicato assiologico si basa su certe caratteristiche, poniamo
fisiche, che sono e rimangono quello che sono a prescindere dalla loro utilità, che in quanto
tale può anche venir meno (magari perché l'oggetto non viene più usato, perché viene
sostituito, ecc.). È proprio in forza di questo rapporto che il valore può essere considerato
un oggetto secondario, poiché esso ha bisogno di un'oggettualità «piena» cui riferirsi,
laddove tale oggettualità invece può sussistere anche senza di esso: togliere (wegstreichen)
i predicati assiologici noncomporta, infatti, alcun cambiamento sostanziale nella natura
della cosa.50 Il valore non appartiene, dunque, all'essenza specifica dell'oggetto in senso
teoretico, inteso cioè come essente dotato di determinati predicati logici: esso «pertiene»
all'oggettualità, ma in quanto oggetto secondario esso non è una «proprietà costitutiva
dell'oggetto valutato (keine konstitutive Eigenschaft des bewerteten Objekts)»,51 cioè un
qualcosa di riconducibile alle sue caratteristiche logico-ontologiche, alla sua natura in
senso lato. Che il predicato assiologico presupponga quello logico, ovvero che il valore sia
fondato su un oggetto in senso pieno, tutto ciò deriva dal dato fenomenologico originario
secondo il quale la qualità assiologica emerge dalla stimolazione che un certo qualcosa
opera sull'affettività: il valore non è dunque riconducibile all'essenza della cosa, poiché
esso, pur inerendo a oggetti, è legato agli orientamenti fruitivi della coscienza praticoemotiva.
7. Schönwerte, Gutwerte e praktische Werte
Nel sostenere che l'oggettualità assiologica si dà primariamente come correlato
intenzionale di atti di sentimento, Husserl mette in evidenza come tutti i tipi di valore
rientrino nell'orizzonte della coscienza affettiva. Si tratta di indagare ora in che modo si
distinguano, a livello fenomenologico, le varie classi di valori in relazione ai differenti tipi
di atto, vale a dire di comprendere non più la differenza fra coscienza dossica e coscienza
emotiva, bensì le distinzioni in cui si articola il Gemüt in quanto specifico ambito di senso.
Se è infatti vero che il valore è il correlato intenzionale di tutti gli atti sentimento, è
altrettanto innegabile che in ciascuno di questi esso si manifesta in maniera differente, a
seconda che si tratti di una valutazione, di un desiderio, di una gioia e via dicendo. In
particolare, visto che in questa sede non si possono delineare tutte le differenziazioni
interne alla coscienza pratico-emotiva, si proverà a concentrare l'attenzione su due
famiglie di atti fondamentali, le valutazioni e le volizioni, in relazione ai rispettivi tipi di
valori. Ma perché gli atti di valutazione e di volontà meritano questa attenzione
particolare? Come già accennato in precedenza, Husserl attribuisce grande importanza alle
valutazioni (Wertungen), poiché in esse emergono quei valori che possono poi essere
apprezzati in un semplice piacere estetico, o posti come un obiettivo del desiderio, o ancora
come fini di un'azione, dunque come oggetti della volontà e così via. Gli atti volitivi,
neiquali si esplica concretamente la vita morale del soggetto, e che per tale motivo sono
essenziali ai fini dell'edificazione di un sapere etico rigoroso, sono dunque legati agli atti
valutanti, come Husserl sottolinea spesso nelle sue lezioni: "il corretto volere si regola
(richtet sich) sul corretto valutare".52 Questo significa che i valori specificamente morali,
ovvero quei valori che debbono poter essere posti dalla volontà come fini dell'azione, si
danno solo sul fondamento di qualità assiologiche che emergono in semplici valutazioni.
Risulta dunque chiara la centralità dei wertende e dei wollende Akte, gli uni essenziali per
ogni possibile apprensione di valore, gli altri per la realizzazione pratica di tali valori, o
meglio di quei valori che si sono presentati come concretamente realizzabili.
Nel capitolo delle Vorlesungen 1914 relativo all'assiologia formale, Husserl aveva operato,
senza approfondirla a sufficienza, la distinzione fra valori «esistenziali» e «nonesistenziali»: nelle Aggiunte a tali lezioni, egli ritorna sull'argomento in modo più
articolato, sostenendo che bisogna tenere distinto il valutare che si effettua a prescindere
dalla questione dell'esistenza o meno dell'oggetto valutato, e che proprio per questo rimane
in certo modo «sospeso» in una sorta di irrealtà, dal valutare che invece risulta
esplicitamente interessato all'esistenza del valutato («existenzial interessierten
"Werten"»53): è in virtù di questa distinzione che Husserl può parlare di existenziale e
nicht-existenziale Werte, vale a dire di Gut- e Schönwerte. Il valutare che non si interessa
dell'esistenza del bewerteter Objekt è chiamato da Husserl «valutare-come-bello»
(Schönwerten), laddove «bello» deve essere inteso in senso ampio come quella qualità
assiologica positiva che si predica in riferimento al semplice darsi di un qualcosa, alla sua
pura rappresentazione: se una rappresentazione non-posizionale, la quale cioè non prenda
posizione riguardo all'esistenza o meno del suo oggetto, mostra un contenuto (Inhalt)
assiologicamente positivo, allora questo viene valutato come bello. A questo genere di
valutazioni appartengono chiaramente anche le valutazioni estetiche, che hanno la
peculiarità di riferirsi specificamente al modo di manifestarsi del contenuto rappresentato.
Ogni oggetto può infatti manifestarsi attraverso molteplici e differenti rappresentazioni,
ragion per cui il valutare estetico dipende proprio dal come di queste modalità
manifestative: «Il piacere estetico è con ciò un "prendere posizione", un valutare attuale
del rappresentato in quanto tale nel come (im Wie) del suo essere-rappresentato
(Vorgestelltheit)».54 Poiché interessata non solo al contenuto manifestato, ma anche al
come della sua manifestazione, la valutazione estetica è anche chiamata valutazione
manifestativa ((Erscheinungswertung), laddove il semplice Schönwerten è invece solo una
valutazione del contenuto (Inhaltswertung),55 come mostrato in precedenza. Già nelle
Vorlesungen 1908/09 Husserl aveva posto l'accento sulla specificità dell'esperienza
estetica, «disgiunta» dalla realtà, o meglio disinteressata all'esistenza reale in senso
comune, sospesa in una dimensione che confina con l'irrealtà. Ciò è particolarmente
evidente nelle arti figurative: ad esempio, osservando valutativamente un affresco,
abbiamo a che fare con immagini (Bilder) che in quanto tali non sono reali in senso stretto
come il muro da cui emergono o i colori stesi sull'intonaco. Esse si impongono
all'attenzione in se stesse, si «librano» di fronte a noi come semplici manifestazioni, in
modo quasi irreale; ciò che conta, dunque, non è la loro esistenza o meno, ma il loro valore
estetico. Il valore non sta nell'oggetto reale dotato di certe determinazioni cosali, bensì
nella sua manifestazione estetica, che in quanto tale si innalza al di sopra del reale: «il
bello (das Schöne) non è la cosa appesa al muro, il bello non è la cosa che possiede valore
di mercato, né la cosa che è rappresentata attraverso l'immagine (come la persona
raffigurata nel ritratto e ritenuta reale), bensì l'immagine stessa: la manifestazione».56 Il
valore estetico costituisce l'esempio paradigmatico di un valore-bello, di uno Schönwert
inteso in generale come qualità assiologica positiva che inerisce ad un oggetto, a
prescindere dal fatto che questo esista o meno.
Accanto al valutare-come-bello sussiste un «valutare-come-buono» (Gutwerten) che,
invece, considera proprio l'esistenza del qualcosa di valore, in base al principio, enunciato
da Husserl nelle Vorlesungen 1914, secondo il quale se un qualcosa è valutato come bello,
se è un valore di bellezza in senso lato, allora la sua esistenza è eo ipso anche un bene
(Gutwert): «Il fatto che ciò che è in sé bello, che ciò che già piace secondo la sua
manifestazione, sia reale [...], è giusto, è bene».57 Che ciò che ha valore positivo in senso
lato esista, che esista ciò che è stato valutato come un qualcosa di bello, tutto ciò è un bene:
si può quindi dire che il Gutwert è, in certo qual modo, il correlato reale dello Schönwert,
in quanto ne costituisce la realizzazione, la concretizzazione. Il valutare che è interessato
all'esistenza del valutato è pertanto fondamentale, dal momento che attraverso di esso
emergono quei valori reali che, in quanto tali, possono non solo essere semplicemente
apprezzati -- come nel constatare, ad esempio, che è un bene che esista qualcosa di bello
come il coraggio -- ma anche posti come fini dell'agire -- come nel sostenere, proseguendo
l'esempio, che bisogna essere coraggiosi: il Gutwerten, in altri termini, rappresenta la
conditio sine qua non del praktischer Wert, di quel valore che può essere scelto dal volere
come fine dell'azione ragionevole. In questo modo appare ancor più chiaro il significato del
principio secondo cui il volere si regola sul valutare. In quanto capace di considerare la
realtà degli oggetti di valore, il valutare prospetta quelle possibilità che possono
effettivamente sussistere, ovvero che possono essere poste come fini pratici da un volere
che si indirizzi ad esse: la volontà è allora in quest'ottica strettamente legata alla
valutazione «esistenziale»,58 senza la quale essa sarebbe in certo modo «cieca», vale a dire
priva della possibilità di dedicarsi ad un qualche obiettivo pratico. Il valore pratico,
prospettato come tale in virtù di un Gutwerten, costituisce proprio l'obiettivo del volere,
che, in quanto votato all'agire e al fare, si caratterizza intenzionalmente per essere una
posizione realizzante (realisierende Setzung):59 la volontà tende dunque alla realizzazione
del voluto, laddove questo, in quanto valore pratico, viene inteso come un qualcosa che
deve essere compiuto. Il praktischer Wert, come oggetto del volere, si connota pertanto
come un qualcosa di dovuto (Gesolltes), o meglio che-deve-essere (Seinsollendes): in tal
modo risulta chiaro il legame che stringe il volere da una parte al valutare, dall'altra al
dover essere.60
Questi dati fenomenologici sono di estrema importanza, poiché mostrano come i valori
pratici (nei quali rientrano ovviamente anche quelli strettamente morali) emergano in
quanto oggetti degli atti di volontà solo se essi sono stati mostrati dal Gutwerten come
concrete possibilità pratiche, come fini possibili dell'agire, come valori «esistenziali»: in
altri termini, solo in quanto le sfere d'azione in cui ci si imbatte non sono assiologicamente
neutre, bensì determinate, ovvero solo in quanto si danno beni (Gutwerte) nei contesti
pratici in cui ci si viene a trovare, è possibile che questi beni diventino oggetti del volere,
praktische Werte. Il darsi di un campo o sfera pratica in cui siano presenti valori
esistenziali o, come anche li chiama Husserl, «valori d'essere» (Seinswerte), è uno dei
punti fermi della riflessione etica husserliana, affermato a più riprese non solo nelle lezioni
del 1914, ma già prima nelle Vorlesungen über Grundprobleme der Ethik und Wertlehre
1911, nelle quali è evidenziata la peculiare costituzione del valore pratico: «Il valore pratico
dipende dal valore d'essere, dal semplice bene (Gutwert) che giace di fronte al campo della
volontà».61 Questa constatazione fenomenologica richiama evidentemente quel principio
fondamentale, espresso nelle Vorlesungen del 1914, secondo il quale «la perfetta
correttezza del volere è un'idea che si edifica sull'idea di sfera pratica e sull'idea
dell'optimum di questa stessa sfera».62 Husserl sembra dunque voler dire che la volontà
può essere buona solo se si indirizza ad un bene d'essere che viene riconosciuto
primariamente in una valutazione esistenziale come possibilità concreta di un determinato
campo pratico. A partire dal carattere fruitivo della coscienza emotiva, dunque, si è potuto
stabilire il modo in cui i valori possono divenire coscienti nelle varie forme del valutare, e
in particolare il processo fenomenologico lungo il quale essi possono essere assunti dal
volere come fini pratici dell'agire.
8. La possibilità di un sentire «razionale»
La ricostruzione delle analisi fenomenologiche husserliane in campo pratico-emotivo ha
messo in evidenza alcune delle specifiche strutture intenzionali nelle quali si articola il
Gemüt. Ciò è quanto dire che si è cercato, seguendo Husserl, di fare luce sulla peculiare
legalità a priori che regge le correlazioni della dimensione affettiva, nella persuasione che
anche questa possegga qualcosa come un proprio «ordine», una propria «logica», una
propria configurazione di senso. In tal modo siamo ricondotti alla questione iniziale di una
«ragione con differenti regioni», estesa oltre i limiti del semplice intelletto e comprendente
anche il Gemüt: la descrizione di alcune delle strutture a priori della sfera emotiva getta le
basi per la fondazione di una «ragione pratico-affettiva», o quanto meno prospetta la
possibilità concreta di una «emotività razionale». È Husserl stesso a parlare in questo
senso di un sentire razionale: «Chi agisce correttamente fa ciò che è giusto, fa il bene; il
bene è perciò un bene pratico. Ma prima esso deve valere come buono, come valore, e ciò
avviene in un sentire "razionale"».63 In questo passo alquanto significativo emerge non
solo la «genesi» del bene pratico, che, come mostrato nel precedente paragrafo, può essere
posto come tale solo se già vige anteriormente come valore, come Gutwert, in un atto di
sentimento: la cosa principale, nel presente contesto, è che tale sentire non è qualcosa di
casuale e «disordinato», ma possiede una sua razionalità, una sua sensatezza che in quanto
tale può essere predelineata a priori. L'attribuzione di una certa «razionalità» al sentire,
dunque al Gemüt, è possibile poiché il carattere peculiare della razionalità non sta, ancora
una volta, nel mero intelletto o raziocinio, bensì in una essenziale conformità alla legge
(Gesetzmäßigkeit). Anche la coscienza emotiva è sottoposta, come del resto il cogito
dossico, a leggi specifiche, come quella che Husserl enuncia nelle lezioni del 1914, secondo
la quale l'eventuale esistenza di un valore-bello (Schönwert), ovvero il darsi di un bene
effettivo (Gutwert), comporta un conseguente rallegrarsi per esso64 (si ricordi a tal
riguardo l'esempio del coraggio); questa che secondo Husserl è addirittura una«ovvietà del
sentire» (Gefühlsselbstverständlichkeit) trova fondamento nel carattere essenzialmente
fruitivo della coscienza emotiva, in virtù del quale ogni costituzione del valore comporta
una stimolazione affettiva, in una parola un «piacere» (non necessariamente ed
esclusivamente sensibile). Ma se il valore si dà in una coscienza senziente di questo tipo, al
punto che non vi è datità assiologica se non in un'intenzionalità fruitiva, allora si può dire
che non vi è costituzione di valore senza una gioia corrispondente, come sostiene Husserl
in un piccolo testo del 1923: «in ogni caso il valore per me non sarebbe valore, se io non mi
rallegrassi nella sua apprensione, e senza gioia (Freude) il mondo sarebbe privo di valore
(wertlos). La felicità (Glück) appartiene dunque al valore».65 Valore e gioia sono quindi
correlati attraverso una legge a priori in virtù della quale la fruizione emotiva delle qualità
assiologiche delle cose comporta un corrispondente rallegrarsi per esse da parte del
soggetto: tale gioia costituisce la condizione di possibilità della felicità, cioè di una vita
interamente felice.
Questa «scoperta» di un apriori emozionale, grazie al quale Husserl rivaluta la sfera
sensibile-affettiva -- «sottovalutata» da tuttauna tradizione di pensiero risalente agli albori
della speculazione filosofica -- come una sfera dotata di una sua specifica sensatezza,
rappresenta a nostro avviso uno degli elementi di maggior fecondità della fenomenologia
husserliana. In virtù di essa, infatti, il piacere, la gioia, la felicità, ovvero il dispiacere, la
tristezza, l'infelicità, non debbono essere considerati come fenomeni meramente sensibili
ed empirici, riconducibili in ultima analisi all'amor proprio dell'io, bensì come fenomeni
intenzionali a tutti gli effetti, dotati di una propria legalità a priori. La valutazione di un
qualcosa come buono e la sua scelta come bene pratico da realizzare, dunque gli atti del
valutare e del volere, implicano per principio un piacere, una gioia concomitante: in
quest'ottica, se il fine dell'etica è una vita interamente buona, non è meno vero che questa
bontà è tale solo se si accompagna ad una corrispondente felicità: «Perché l'uomo deve
essere felice (zufrieden)? Egli deve poter essere felice per potersi porre l'obiettivo non solo
di essere buono, ma di diventare sempre migliore (besser und immer besser)».66 Da ciò si
evince che il sussistere di un apriori emozionale comporta una vita pratica ricca di
contenuti affettivi, nella quale la gioia e la continua realizzazione dei beni procedono di
pari passo: questa impostazione va pertanto oltre qualunque relativismo, poiché mostra
come la sfera emotiva sia retta da leggi ideali, e al contempo oltre il rigorismo di un'etica
del dovere di ispirazione kantiana, dal momento che in essa non si dà una vita buona che
non sia anche vita felice. La «rivalutazione» della coscienza emotiva, la persuasione che
essa possegga un suo ordine intrinseco, una sua struttura di senso, sono elementi tipici
della scuola fenomenologica nel suo complesso, e in particolare, ovviamente, del pensiero
di uno Scheler. È infatti Scheler, come è noto, a portare alle sue più rigorose conseguenze
l'idea che vi sia un apriori emozionale analogo a quello logico ma del tutto autonomo
rispetto a questo; è Scheler, in altri termini, a fondare un'etica materiale dei valori basata
in un'ultima analisi sul fatto che si dà una specifica esperienza assiologica, ovvero
un'intuizione sentimentale pura del valore. A tal riguardo sarebbe assai interessanteuno
studio approfondito che mettesse a confronto l'impostazione scheleriana e quella
husserliana. Ciò che può essere posto in evidenza fin d'ora è che laddove Scheler parla di
un'emotività autonoma, che non necessita di alcuna componente logico-rappresentativa,
Husserl è invece maggiormente interessato a mostrare i legami che stringono il Gemüt al
Verstand, nel quadro di quella che è stata definita come una «ragione plurale». Questo
approccio husserliano si presenta come particolarmente fecondo, poiché in virtù di esso si
può dar conto della complessità della vita di coscienza, vale a dire degli intrecci
intenzionali che costituiscono il suo ordito. Sembra infatti più plausibile l'idea che la
coscienza non abbia una composizione per così dire a «compartimenti stagni», ma sia
piuttosto modulata in modo tale che le sue componenti fondamentali formino un
complesso intreccio intenzionale. Ciò emerge in maniera evidente nel caso degli atti
emotivi: tutte le analisi condotte in precedenza non stavano ad indicare altro se non
l'impossibilità di una intuizione sentimentale pura, cioè priva di elementi logicorappresentativi. È pur vero che l'intreccio si risolveva in una centralità degli atti
oggettivanti, vale a dire in una supremazia della coscienza logico-teoretica: tuttavia,
mentre nelle Ricerche logiche tale supremazia era schiacciante, al punto che
l'intenzionalità emotiva non sembrava avere una propria consistenza, nelle Idee la
caratterizzazione dell'intenzionalità come posizionalità dava nuovo vigore all'intentio del
Gemüt, mantenendo l'universalità e l'onniefficacia dell'elemento logico solo come
potenzialità immanente alla vita di coscienza. Nel corso delle sue analisi, in altri termini,
Husserl sembra abbandonare l'impostazione iniziale, che prevedeva una sorta di semplice
«aggiungersi» della componente affettiva a quella specificamente oggettivante, la quale
costituiva l'intenzione primaria e originaria, per privilegiare un modello descrittivo più
articolato, nel quale il cogito pratico-emotivo, pur non essendo di certo privo di elementi
logici o dossici, possiede tuttavia una peculiare modalità intenzionale. Nelle modifiche cui
è sottoposta l'intenzionalità nelle Idee si palesa pertanto una maggiore attenzione di
Husserl verso la vita della coscienza emotiva, la quale non può essere considerata come
una sorta di «appendice» del cogito dossico, bensì deve essere riconosciuta come quella
verace dimensione intenzionale che caratterizza la nostra esistenza quotidiana. Rimane da
chiedersi se non sia legittima l'ipotesi secondo cui l'ulteriore approfondimento del tema
dell'intenzionalità che Husserl conduce soprattutto negli anni Venti, ovvero l'analisi
dell'intenzionalità «passiva», possa essere in qualche modo connesso con le ricerche
relative all'intentio emotiva: in altre parole, si tratterebbe di capire se lo «scavo» nella
coscienza logica che Husserl compie nel suo periodo friburghese sia motivato anche, fra
l'altro, dall'interesse per la sfera affettiva, ovvero dalla constatazione di un legame più
«originario» di sentire e pensare. Ma questa sorta di «genealogia della ragione» può essere
il tema per un'altra ricerca ad ampio raggio nella fenomenologia husserliana.
Per quel che concerne invece le considerazioni fatte finora, è appropriato sottolineare come
le riflessioni fenomenologiche in ambito pratico-emotivo possano rappresentare un
contributo importante, al di là del fatto che esse sono radicate nell'ordito complessivo del
pensiero di Husserl, dunque al di là dei «tecnicismi» che sembrano impedirne una
comprensione immediata ed un'ampia diffusione: esse infatti costituiscono un paradigma
«forte», dotato del più grande rigore, ma al contempo ricco di spunti e suscettibile di
nuove aperture tematiche, nelle quali possano essere rimessi in gioco i risultati raggiunti.
L'infinita ricchezza di motivi e la costitutiva apertura di fondo sono infatti, ancora oggi,
elementi di grande fecondità della fenomenologia husserliana.
Note
1.
E. Husserl, Ricerche logiche, vol. I, Est, Milano 2001, p. 138.
2.
E. Husserl, L'idea della fenomenologia, Bruno Mondatori, Milano 1995, p. 99.
3.
Ibid.
4.
«[...] das Wort Vernunft hier nicht im Sinne eines menschlichen Seelenvermögens, also psychologisch im
gewönlichen Sinn verstanden ist, sondern einen Teil für die wesensmäßig geschlossene Klasse von Akten und
ihren zugehörigen Aktkorrelaten befaßt, die unter Ideen der Rechtmäßigkeit und Unrechtmäßigkeit, korrelativ
der Wahrheit und Falschheit, des Bestehens und Nichtbestehens usw. stehen», Hua XXVIII, p. 68, trad. it. parz.
(limit. alle Vorlesungen 1914) a cura di P. Basso e P. Spinicci, Lineamenti di etica formale. Lezioni sull'etica e la
teoria dei valori del 1914, Le Lettere, Firenze 2002, p. 85.
5.
«Die umfassendste Idee von Vernunft», Hua XXVIII, p. 290.
6.
Ibid., p. 183.
7.
Ibid.
8.
Per quel che riguarda l'assiologia e la pratica formali, Husserl se ne occupa nel già citato corso universitario del
1914, Vorlesungen über Grundfragen der Ethik und Wertlehre 1914 (a tal proposito, si vedano l'introduzione di
P. Basso e P. Spinicci all'edizione italiana di tali lezioni, Indicazioni per una lettura dei «Lineamenti di etica
formale» di Edmund Husserl, in E. Husserl, Lineamenti di etica formale, cit., e il saggio di G. Gigliotti su
Materia e forma della legge morale nell'intepretazione husserliana del formalismo di Kant, in Aa. Vv.,
Fenomenologia della ragion pratica, Bibliopolis, Napoli, di prossima pubblicazione). Per quel che riguarda
invece la dottrina materiale dei valori, Husserl non ne sviluppa una in modo organico: ve ne sono degli abbozzi
nelle sue lezioni di etica e in alcuni manoscritti del Nachlaß (sulla ricostruzione di una tale dottrina materiale
dei valori si concentra il volume ormai classico di A. Roth, Edmund Husserls ethische Untersuchungen,
Martinus Nijoff, Den Haag 1960, alle pagg. 111-123).
9.
La distinzione fra atti oggettivanti e non-oggettivanti, anche se analoga a quella fra atti intellettivi e atti emotivi,
non coincide però perfettamente con essa: ai tempi delle Ricerche logiche, infatti, Husserl ritiene che alcuni
vissuti intellettivi, come il supporre e il domandare, non rientrino nella classe degli atti oggettivanti (ma questa
posizione cambierà poi nelle Idee).
10. E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 76.
11. Ibid., p. 85.
12. «[...] jeder Akt etweder eine Vorstellung ist oder Vorstellungen zur Grundlage hat», Hua XIX, 1, p. 345, trad. it.
a cura di G. Piana, Quinta ricerca logica, in E. Husserl Ricerche logiche, vol. II, Il Saggiatore, Milano 1982, p.
136. Husserl ammette di aver tratto questo principio da Brentano, ma lo approfondisce e lo modifica
notevolmente attraverso le nozioni di rappresentanza e rappresentazione nominale, che in questa sede, per
ovvie ragioni di spazio, non possono essere prese in considerazione.
13. E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, cit., p. 201.
14. Ibid., p. 242.
15. Ibid., p. 280.
16. Ibid., p. 279.
17. Anche U. Melle mette l'accento su questo aspetto nel suo articolo Objektivierende und nicht-objektivierende
Akte (in S. Ijsseling, hrsg., Husserl-Ausgabe und Husserl-Forschung, Kluwer Academic Publishers,
Dordrecht/Boston/London 1990, pp. 35-49): "Negli atti non-oggettivanti non si costituisce alcun riferimento
oggettuale al di fuori di quello dell'atto oggettivante fondante" (ivi, p. 40) .
18. E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, cit., pp. 182-183. A tal riguardo si veda anche R. Donnici, Intenzioni
d'amore, di scienza e d'anarchia. L'idea husserliana di filosofia e le sue implicazioni etico-politiche, Bibliopolis,
Napoli 1996, pp. 54-63.
19. E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, cit., p. 179.
20. Questo problema emerge chiaramente in più punti delle Vorlesungen 1908/09: come esempio pregnante si
vedano le pagine 333-334 di Hua XXVIII.
21. A tal riguardo sono interessanti le pagine 335-336 di Hua XXVIII, nelle quali Husserl indugia sulla differenza
fra atto di giudizio e atto di gioia, mettendo in risalto come quest'ultimo si costituisca di due parti principali, la
gioia come carattere d'atto peculiare, e «un "di-cui" (Worauf) del riferimento» (ivi, p. 335), in virtù del quale
essa è gioia «di qualcosa», laddove tale qualcosa è fornito da una rappresentazione fondante. Ciò non vale
ovviamente nel caso del giudizio né in ogni altro tipo di oggettivazione.
22. «Adererseits kann man doch fragen, ob dann nicht alle Akte als solche, somit auch Gemütsakte, sofern sie ihre
Intentionalität, ihre Eigenart in der Beziehung auf Gegenständlichkeit haben, in gewisser Weise Meinung und
eventuell Erscheinung enthalten, und zwar nicht bloß durch die fundierenden Akte, sondern als Gemütsakte
[...]. Irgendwie muß die Frage sich bejahen lassen und muß die bejahende Antwort sich Verstehen lassen. In
gewisser Weise, muß man doch sicherlich sagen, erscheint auch in den Wertakten etwas, es erscheinen darin
eben Wertobjekte, und zwar nicht bloß die Objekte, die Wert haben, sondern die Werte als solche», Ibid., p.
322-323 .
23. Ciò si evince da alcuni esempi husserliani simili a questo del piacere: «Se noi compiamo un atto di piacere
(Gefallen), allora non si manifesta solo l'oggetto che piace (das Gefallende), che apparirebbe anche se non ci
fosse alcun atto di piacere, ma semplicemente il medesimo atto fondante dell'oggettivazione; è invece presente
ciò che piace in quanto tale (das Gefallende als solches) o piuttosto in quanto piacevole (als Gefälliges)», Ibid.,
p. 323. La piacevolezza, in quanto valore inerente all'oggetto piacevole, è dunque il correlato oggettuale del
Gefallen: discorsi analoghi potrebbero essere condotti per tutti gli altri tipi di vissuti affettivi. .
24. Ibid., p. 340.
25. «I valori in quanto oggetti sono oggetti di certi atti oggettivanti, si costituiscono in queste oggettivazioni fondate
sugli atti valutanti e non negli atti valutanti stessi», Ibid. .
26. Su questo punto Husserl è esplicito: «Manifestamente, la verità è il correlato del perfetto carattere razionale
della doxa originaria, della certezza della credenza», Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica, vol. I, Einaudi, Torino 2002, pp. 346-347.
27. «Nell'atto del valutare, in quello del gioire, nell'amare, nell'agire, prestiamo però attenzione, rispettivamente, al
valore, all'oggetto che ci rende felici, all'oggetto amato, all'azione, senza afferrare nulla di ciò», Ibid., p. 87.
28. Ibid.
29. Ibid., p. 294.
30. Ibid., p. 295.
31. Ibid., p. 293 (corsivo mio).
32. E. Husserl, Idee, vol. II, Einaudi, Torino 2002, p. 19.
33. «Nel giudizio estetico, nella valutazione estetica, non ci si rivolge all'oggetto semplicemente per fruirne; esso è
invece oggetto di un particolare senso dossotetico: l'intuito si dà col carattere qualitativo (costitutivo del suo
esser-così) della gradevolezza estetica», Ibid., p. 14.
34. Ibid., p. 15 (corsivo mio).
35. Ibid. (corsivo mio).
36. E. Husserl, Lineamenti, cit., pp. 104-105.
37. E. Husserl, Idee, vol. II, cit., p. 191.
38. E. Husserl, Idee, vol. I, cit., p. 224.
39. Ibid., p. 225.
40. Ibid., p. 238.
41. Ibid., p. 243.
42. Ibid., p. 88.
43. Hua XXVIII, p. 340.
44. Soprattutto nei paragrafi 4 e 11, Ibid., pp. 255-260 e 310-331.
45. «Der Wert ist, was er ist, nur als Wert eines Objekts», Ibid., p. 359.
46. E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 89.
47. Hua XXVIII, p. 255.
48. «I predicati di valore ineriscono ad esso [l'oggetto] veramente, sarebbe sbagliato negarglieli. Ma essi
appartengono per così dire ad un'altra dimensione», Ibid., p. 262.
49. «Axiologische Prädikate setzen logische voraus», Ibid., p. 256.
50. I predicati assiologici «non appartengono alla "natura" propria dell'oggetto. Ovvero: se noi ci raffiguriamo la
rimozione dei predicati estetici e degli altri predicati di valore, allora l'oggetto continua ad avere la sua propria
"natura", è e rimane un oggetto pieno e intero», Ibid., p. 262.
51. Ibid., p. 396.
52. E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 142.
53. Hua XXVIII, p. 154.
54. Ibid.
55. La Inhaltswertung «non riguarda le manifestazioni, bensì il "contenuto" dell'oggetto, la sua materia (Gehalt)
obiettiva», Ibid.
56. Ibid., p. 311.
57. Ibid., p. 154.
58. «Alla base del volere sta un ritenere-valido (Werthalten): se io mi immagino in un volere, allora il voluto è
presente come un ritenuto-valido (Wertgehaltenes) e ad esso si indirizza l'"intenzione volitiva"», Ibid., p. 231. Se
il volere sia un atto che incorpori in sé in qualche modo un valutare, oppure se si tratti di due atti distinti, come
sembra emergere in più punti, è un problema fenomenologico di estrema complessità cui Husserl non dà una
risposta univoca e definitva.
59. Ibid.
60. A proposito del legame fra volere e dover essere Husserl sostiene: «Ogni volere è un "porre", e precisamente il
porre di un dovere; esso è in se stesso coscienza di un dovere (Bewußtsein eines Sollens)», Ibid., ovvero,
riprendendo quanto già emerso, coscienza di un dover-realizzare. .
61. «Der praktische Wert hängt vom Seinswert, dem bloßen Gutwert ab, der vor dem Willensgebiet liegt», Ibid., p.
223.
62. E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 152.
63. «Wer recht handelt, tut das Richtige, tut das Gute; das Gute ist insofern ein praktisch Gutes. Vorher muß es aber
al gut, als Wert gelten, und das tut es im "vernünftigen" Fühlen», Hua XVIII, p. 414.
64. E. Husserl, Lineamenti, cit., pp. 89-90.
65. E. Husser, Wert des Lebens. Wert der Welt. Sittlichkeit (Tugend) und Glückseligkeit «Februar 1923», pp. 231232 (in «Husserl-Studies», 13 (1997), pp. 201-235).
66. Ibid., p. 226.
Angela Ales Bello
Husserl interprete di Kant
1. La fenomenologia come filosofia sui generis
La fenomenologia di Husserl si presenta come una ricerca teoretica che si pone dentro e
fuori la filosofia occidentale. Di questo è consapevole lo stesso Husserl, il quale da un lato
intende inserirsi nella tradizione filosofica occidentale e dall'altro la sottopone a critica,
perché ritiene che non abbia portato a compimento l'intenzione profonda, che aveva mosso
i primi filosofi greci. Tale intenzione riguardava la scoperta di un punto di partenza
radicale, di un nuovo inizio per la conquista riflessa, teoretica del significato della realtà. 1
La filosofia, infatti, non accetta per suo statuto di muoversi a quello che egli definisce
«livello naturale», vuole cambiare atteggiamento per andare in profondità, per rispondere
alla questione riguardante il senso delle «cose stesse», cioè di tutte le stratificazioni
teoretiche, pratiche e culturali, che caratterizzano l'essere umano nel suo tentativo di
orientarsi nel mondo. Per tale ragione è necessario un lavoro di scavo, una regressione alla
ricerca di un «territorio», come lo definisce Husserl, che può essere considerato un terreno
esplicativo. Lungo l'arco della sua indagine filosofica egli ha cercato, individuato e descritto
tale territorio, che consente di entrare nella complessità del reale: l'essere umano, la natura
e Dio. Secondo la sua impostazione, non è possibile affrontare le questioni riguardanti il
senso di tali realtà, se non ci si domanda chi ne ricerca il senso.
Se l'obiettivo è quello di cogliere il senso della realtà, quest'ultima è sempre una realtà per
l'essere umano, il quale deve possedere gli strumenti che gli/le consentono di coglierla. In
tal modo si delinea il primato della questione della conoscenza umana, non perché tutto si
risolva nel conoscere, ma perché il conoscere è lo strumento fondamentale per
comprendere come sono fatte le cose.
Husserl giunge a questa convinzione, che lo porrà in continuità con l'impostazione
prevalente nella filosofia moderna attraverso una via particolare, quella della nascente
psicologia. La sua formazione di matematico lo conduce a chiedersi quale siano il valore
conoscitivo e la genesi dello stesso sapere matematico ed egli si rende conto che deve
regredire alle operazioni che lo costituiscono. In un primo momento ritiene che la
psicologia possa dare una risposta alla sua domanda; infatti, la sua prima opera la Filosofia
dell'aritmetica affronta la questione sulla linea dell'interpretazione della psiche proposta
da Franz Brentano, le cui lezioni Husserl seguì a Vienna tra il 1884 e il 1886. Egli intende
rintracciare la genesi del numero facendola risalire ad una particolare operazione, quella
del «legame collettivo», che è un'operazione squisitamente psicologica. Tuttavia, in tal
modo, egli indaga le fonti costitutive che riguardano il soggetto e quindi sta entrando in
quel territorio che ancora non intravede, ma che cerca, spinto dall'insoddisfazione sia
dell'indagine psicologica sia di quella della logica, verso la quale si era rivolto per
comprendere il senso della matematica dopo l'aspra recensione alla sua prima opera,
mossa dal logico e matematico Gottlob Frege.
Attraverso la psicologia di Brentano, il quale ricerca il significato degli atti psichici non
utilizzando gli schemi della psicofisica d'impostazione positivista, ad esempio quella di
Wilhelm Wundt, e quindi facendo entrare un'analisi qualitativa, di tipo filosofico nel
campo della psicologia, Husserl nel 1907 in L'idea della fenomenologia2 può finalmente
dare i risultati del suo iniziale percorso teoretico, annunciando che la sua indagine si
configura come una fenomeno-logia, cioè una riflessione-descrizione dei fenomeni che si
presentano alla soggettività umana e, primi fra tutti, i fenomeni costituiti dagli atti di
coscienza.
La psicologia e la logica avevano preparato la strada verso l'individuazione del nuovo
territorio; ma è opportuno ripercorre analiticamente la via intrapresa da Husserl perché il
risultato raggiunto è centrale per comprendere gli sviluppi successivi del suo pensiero.
2. Il metodo fenomenologico
Per raggiungere il nuovo territorio, in realtà, Husserl segue molti percorsi. Usando
immagini relative agli spostamenti umani nello spazio, si può dire che Husserl combini due
tipi di ricerca, quella dell'archeologo e quella dell'esploratore, anzi queste due attività sono
usate non solo come metafore, ma come autentici paragoni, in quanto l'elemento che li
accomuna, lo stile unitario, è rappresentato dal fatto d'essere atteggiamenti rivolti a
raggiungere una meta e ciò caratterizza ogni vita umana, la quale tende sempre ad uno
scopo, anche se spesso non è chiaramente delineato, o addirittura se essa è segnata dal
fallimento; quando si osserva che una vita è fallita s'intende, infatti, che non si è conseguito
uno scopo.
Il nuovo inizio, la nuova sfera d'essere, come la chiama Husserl nel primo volume delle
Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica3 è rintracciato
attraverso molti percorsi, che Husserl chiama «vie della riduzione», dove il termine
riduzione ha il senso d'eliminazione di ciò che è superfluo per giungere, appunto, alla
meta. E mentre si percorre il cammino molte cose sono messe da parte, l'eliminazione non
è distruzione, ma è accantonamento e non utilizzazione. Husserl, che era un matematico,
assimila il suo percorso ad un procedimento usato nel calcolo matematico, quello della
messa in parentesi, dove, però, ciò che è tra parentesi continua a vivere anche se non è
attivato.
Preliminare è, infatti, procedere a sgomberare il terreno dall'atteggiamento di ricerca
prevalente alla fine dell'Ottocento in tutta Europa e certamente molto presente in
Germania, quello proprio del Positivismo, che rivendicava, in nome della ricerca scientifica
di tipo sperimentale, il primato di ciò che concreto, nel senso di sperimentabile,
d'accertabile fattualmente. Il «fatto» costituiva, secondo la mentalità positivista, il punto
iniziale d'avvio per qualsiasi ricerca e ciò poteva rappresentare anche un avvio valido -- si
pensi all'importanza attribuita nella storiografia al documento, come fatto concreto dal
quale iniziare una ricerca --, ma se il fatto era considerato come punto di partenza
nell'ambito della filosofia, si tradiva il significato stesso della ricerca filosofica, che ha
sempre avuto di mira il senso del fatto e non la constatazione fattuale.
La novità del punto di vista di Husserl -- ed anche dei suoi numerosi discepoli -- si
chiarisce proprio con riferimento alla dilagante mentalità positivista nel tentativo d'essere
fedeli nei confronti dello spirito della ricerca filosofica, quindi di una tradizione
ininterrotta, che egli conosce attraverso Franz Brentano, studioso di Aristotele e di
questioni metafisiche, come quella riguardante l'essere, oltre che interessato alla nuova
scienza, la psicologia. E la tradizione filosofica ha ricercato il senso del fatto andando oltre
tutte le formazioni culturali, che spesso si fermano alla superficie della realtà.
La prima riduzione è, pertanto, secondo Husserl, quella che mette fra parentesi tutto ciò
che ostacola l'evidenziazione di ciò che è essenziale, perché ogni «cosa», materiale,
intellettuale, spirituale ha un'essenza che si offre alla visione, al coglimento dell'intuizione
intellettuale. Certamente le cose del mondo fisico non si offrono immediatamente a tale
intuizione nella loro totalità, perché sono colte per adombramenti, ora da un lato, ora
dall'altro e, quindi, è necessario procedere per approssimazioni, ma ciò non significa che
non possano essere comprese. Tuttavia, sia che la visione sia adeguata o non adeguata, può
essere trasformata in un vedere eidetico che è, appunto, offerente attraverso l'intuizione -Husserl usa il termine greco eidos per indicare l'essenza, e quelli tedeschi Wesen ed
Essenz.
Naturalmente nell'ambiente filosofico positivista la proposta di Husserl fu considerata
come un ritorno al passato, ad un platonismo accettato acriticamente. Egli osserva che le
essenze o le idee di cui parla non sono oggetti in senso metafisico, ma oggetti in senso
logico-gnoseologico, i quali sono usati dalle stesse scienze -- si pensi alla matematica -- e si
trovano alla base delle formazioni logiche, in particolare della logica formale.
Qui Husserl affronta la questione movendo dal processo d'elaborazione intellettuale delle
scienze teoriche e pratiche, che caratterizzano la cultura Occidentale e che sono tanto
esaltate dai positivisti. E scrive: «In questo senso, la qualità acustica do, che nella serie dei
suoni è un membro numericamente unico, oppure il numero 2 nella serie numerica, o
anche la figura del cerchio nel mondo ideale delle formazioni geometriche, qualunque
proposizione nel "mondo" delle proposizioni, in breve, qualunque elemento ideale, è
appunto un "oggetto"».4
E aggiunge di non aver inventato il concetto generale d'oggetto, di cui tutti si servono e
quelli che lo negano sono ciechi -- la loro è una «cecità dell'anima» -- perché non vogliono
ammettere che ci siano essenze e intuizioni d'essenze.
Il ribadire ciò non rappresenta una novità nella tradizione filosofica; non a caso dietro la
riduzione eidetica si scorgono le figure di Platone e Aristotele, anche se per Husserl, il
quale non si è formato in una specifica corrente di pensiero, ma si potrebbe definire un
autodidatta, si tratta più di una riscoperta che di una ripresa. D'altra parte la presa di
posizione del Positivismo relativa al rifiuto della conoscenza essenziale è affermata, a suo
avviso, sul piano filosofico e contraddetta sul piano scientifico, perché le stesse scienze
della natura si servono, se non altro, delle matematiche sia quelle «materiali» come la
geometria, sia quelle «formali» come l'aritmetica e l'analisi. Poiché tutto ciò si mostra con
evidenza, è possibile, secondo Husserl, enunciare un principio fondamentale, un principio
di tutti i principi, secondo il quale «ogni intuizione originariamente offerente è una
sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell'"intuizione"
[Intuition] (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si dà ma anche nei
limiti in cui si dà».5
Stabilita questa regola generale, si procede alla descrizione essenziale di tutto ciò che ci si
presenta, con risultati certamente più o meno validi, perché, se teoreticamente tutto è
riducibile ad essenza, di fatto una conoscenza essenziale immediata di tutta la realtà non è
possibile, soprattutto della realtà naturale, come si è detto, altrimenti la ricerca non
avrebbe ragione di esistere. È necessario notare, però, che ci sono territori ancora
inesplorati e non solo nella realtà in cui siamo immersi, ma anche relativamente all'essere
umano che ricerca. Per solito si contrappone o si stabilisce una relazione fra l'io e il mondo,
come affannosamente ha fatto la speculazione dell'età moderna, ma il nodo è proprio
questo: in quale modo raggiungere autenticamente tale correlazione. Se si permane in
quello che Husserl definisce atteggiamento «naturale» -- consistente nel ritenere la realtà
come esistente e nell'assumerla come tale, perché mi si offre --, non si riesce a
comprendere veramente il nesso che si cerca e si è sempre assaliti da dubbi sulla validità
della conoscenza. Ed è a questo punto che Husserl si riferisce a Cartesio, cogliendo la sua
intenzione profonda, ma anche i limiti della sua presa di posizione. La «tesi»
dell'atteggiamento naturale, cioè il «porre» il mondo come esistente, non può essere
rovesciata in antitesi, cioè la negazione del mondo, come sembra emerge nel dubbio
universale cartesiano, secondo Husserl. Si tratta, piuttosto, di utilizzare ancora una volta
l'operazione di messa fra parentesi per cambiare atteggiamento, tale operazione viene da
Husserl definita epoché. Nel tentativo di metterne in risalto l'originalità, Husserl così si
esprime: » Facendo questo, come è in mia piena libertà di farlo, io non nego questo
«mondo», quasi fossi un sofista, non metto in dubbio la sua esistenza, quasi fossi una
scettico; ma esercito l'epochè «fenomenologica» (che mi vieta assolutamente ogni giudizio
sull'esistenza spazio-temporale)».6 Si tratta di non ritenere il mondo della nostra
esperienza o quello descritto dalle scienze come un terreno ultimo di conoscenza e in
quest'operazione non sono coinvolti solo i pregiudizi, ma le scienze già costituite, le stesse
teorie filosofiche ed anche noi stessi. La radicalità di tale operazione fa sorgere il dubbio
che si tratti di un atteggiamento scettico; Husserl, però, insiste nel sottolineare che la
messa fuori circuito non riguarda il mondo come eidos, ma solo l'attualità, l'esistenza
intesa non in senso metafisico, piuttosto l'esistenza fattuale di cui parlano i positivisti; ciò
consente di conquistare «una nuova regione d'essere finora non delimitata nella sua
peculiarità».7
Ci si avvicina a questa sfera attraverso la constatazione della presenza, rilevata già a livello
dell'atteggiamento naturale dell'io, dei vissuti e della coscienza; infatti, ognuno di noi, ogni
io vive una serie di atti sempre mutevoli e continui di cui ha un immediata
consapevolezza;8 rispetto a questa sfera di atti vissuti consapevolmente è possibile
procedere ad un'analisi essenziale, per coglierne il senso. Tale sfera non è toccata dalle
messa fra parentesi del mondo, né dalla messa fra parentesi dell'io concreto, empirico,
esistente in senso psicologico, rimane come il terreno ultimo dal quale iniziare per risalire
poi, dopo averlo analizzato, alla concretezza esistenziale ed empirica del mondo fattuale,
che riceve in tal modo il suo senso proprio.
L'operazione di disvelamento di una sfera sempre ricercata dai filosofi, ma mai veramente
raggiunta, può essere considerata come conducente alla dimensione «trascendentale».
Husserl è consapevole che l'uso di alcuni termini-chiave per la sua ricerca possa trarre in
inganno il lettore che li associa ad altre posizioni filosofiche, dalle quali derivano; pertanto
sottolinea che essi «vanno intesi esclusivamente secondo il senso chiarito dalla nostra
esposizione, e non già qualunque altro senso dato dalla tradizione o dalle abitudini
terminologiche del lettore».9
Questo è un punto cruciale per la comprensione dell'analisi fenomenologica, che non
sempre è stata colta secondo le intenzioni del suo iniziatore. Molti fraintendimenti, infatti,
si sono verificati, molti tradimenti nei confronti delle indicazioni del maestro.
Esaminiamo la configurazione di questo territorio per capire l'utilizzazione di alcuni
termini come io, coscienza, vissuti e trascendentale.
Questo nuovo territorio può essere compreso attraverso l'immagine di una lastra sulla
quale si fissa ciò che viviamo, in un continuo fluire di iscrizioni. Uso il termine lastra per
indicare che tale sfera esiste, ma non è facilmente individuabile, anzi proprio a causa della
sua trasparenza è sempre sfuggita alla ricerca, anche se è sempre presente. Sulla superficie
della lastra si danno, in un primo momento, i prodotti «finiti», gli atti vissuti già
configurati, i quali, però, sono il frutto di un processo genetico che deve essere studiato
attraverso uno scavo «archeologico». Dei vissuti configurati abbiamo consapevolezza e ciò
giustifica il termine «coscienza», che non vuol dire conoscenza di secondo grado, cioè
riflessione; l'essere-cosciente-di-se-stesso, usando la bella e precisa espressione di Edith
Stein, si presenta come una luce che accompagna il flusso dei vissuti e che lo illumina per
farlo presente. La riflessione si fonda sulla «coscienza originaria» che rende possibile la
conoscenza della coscienza che accompagna i vissuti.10 La coscienza, pertanto, non è una
scatola che contiene i vissuti, piuttosto è la modalità che caratterizza la lastra, su cui
s'iscrivono progressivamente nella loro purezza gli atti vissuti; essi rimandano agli atti
umani concreti, ma sulla lastra appaiono nella loro struttura essenziale di atti vissuti a
diversi livelli e in varie modalità dall'io, che può essere esaminato in modo essenziale e
strutturale come presente in ogni io concreto. La lastra ha, pertanto, una funzione
«trascendentale», perché è il luogo che consente il rilevamento di senso dal punto di vista
conoscitivo, non crea nulla, registra, e questa registrazione ha un valore universale, avviene
in tutti gli esseri umani e trascende la singola esperienza, ma consente la conoscenza della
singola esperienza. È questo l'uso kantiano del termine che, però, si riferisce ad un
territorio molto diverso da quello individuato da Kant, diverso dall'io penso di cui parla
quest'ultimo, ma anche dall'io penso di Cartesio.
In realtà nel delineare questo territorio, Husserl si riferisce esplicitamente ai filosofi
dell'età moderna come Cartesio e Kant, riconoscendo che si erano avvicinati molto ad esso,
ma non erano riusciti ad individuarlo in maniera piena e decisiva. Per tale ragione egli
descrive il percorso che qui è stato indicato come «via cartesiana», cioè quella via che entra
nel soggetto umano cercando di raggiungere gli strati più profondi, per cogliere un punto
di partenza, che non è propriamente soggettivo, ma che, pur stando dalla parte del
soggetto, consente di capire come sono fatti sia il soggetto sia l'oggetto, ponendosi come un
terzo momento intermedio, il quale serve da congiunzione, ma anche da superamento
dell'opposizione tradizionale fra soggetto e oggetto.
Tale via è quella «maestra» esaminata da Husserl; egli si comporta come l'esploratore, che
ha trovato un sentiero sicuro e diretto ed arriva ad una meta, ad un luogo, che deve, però,
analizzare attraverso un lavoro di scavo ed è per questo che diventa archeologo. Prima di
iniziare questo scavo, è opportuno indicare che esistono altre «vie» che egli percorre per
giungere a quella meta, anzi nella sua opera La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, Husserl si rimprovera per aver proposto la via cartesiana,
che ritiene essere una via «troppo rapida» e ciò ha compromesso anche la comprensione
della novità della meta raggiunta, la quale è stata assimilata alle proposte del passato e
confusa con esse.11
Le vie più lunge e più tortuose, ma forse proprio per questo più convincenti nei confronti
di coloro che osservano con scetticismo il delinearsi di questo percorso, di questo met-odo
-- che conduce per una via, un sentiero, secondo l'etimologia dell'espressione greca metaodon -- sono quelle che muovono non da un'esperienza diretta, ma dalla giustificazione di
strutture culturali già sedimentate come le scienze che si sono configurate nell'età
moderna, quelle che Husserl definisce anche ontologie positive, come è stato messo in
risalto da alcuni interpreti, quali Iso Kern e Rudolf Boehm.12 Particolarmente importante
in questo contesto si presenta la psicologia, che è stata in verità preliminare anche alla
stessa via cartesiana, perché ha suggerito a Husserl l'approccio più diretto al suo percorso.
Mi è sembrato opportuno indicare, sulla base dei testi husserliani, anche un'altra via quella
che muove dall'intersoggettività per giungere al «terreno» individuato dall'analisi
fenomenologica.13
Il lavoro di ricognizione delle vie della riduzione non è fine a se stesso, infatti, serve non
solo ad individuare la «sfera d'essere» sopra descritta, ma, poiché tale sfera è una fonte in
senso gnoseologico, consente la giustificazione della conoscenza umana riguardante tutta
la realtà e, in particolare, la giustificazione dei modi attraverso i quali l'essere umano si
mette in contatto con la realtà ultima, cioè con Dio. Avevo, infatti, già notato nel mio
Husserl -- Sul problema di Dio che ogni via della riduzione sfocia in una serie di
osservazioni sul problema «metafisico», per usare l'espressione tradizionale, che riguarda
la realtà ultima, quella divina. Il medium è rappresentato sempre dalla sfera d'essere dei
vissuti e, per questa ragione, è necessario seguire pazientemente i percorsi proposti da
Husserl per arrivare ai vissuti e muovere, poi, da essi per capire come si configura quella
realtà.
3. Husserl e Kant
La descrizione della genesi della fenomenologia husserliana è preliminare al confronto fra
questa e il criticismo kantiano. È opportuno, però, a questo punto ripercorrere le tappe
dell'incontro di Husserl con il pensatore di Könisberg perché si può notare un'interessante
trasformazione da un atteggiamento di rifiuto ad uno di accettazione, non della posizione
kantiana presa nella sua totalità, ma di un aspetto fondamentale che, tuttavia, secondo il
fenomenologo, deve essere approfondito e superato.
Nel periodo che si può considerare «pre-fenomenologico», Husserl subì l'influenza
antikantana del suo maestro Brentano. Nel frattempo, egli stava elaborando la sua tesi sul
calcolo delle variazioni con Weierstrasse a Berlino e lì ascoltò le lezioni sull'etica di
Friedrich Paulsen, un pedagogista seguace di Kant. Si recò, poi, a Halle dove ottenne la
libera docenza in filosofia con Carl Stumpf, uno psicologo anch'egli critico nei confronti di
Kant per il fatto che quest'ultimo non si fosse interessato alla psicologia.
Poiché l'influenza di Brentano e di Stumpf erano state determinanti per Husserl, il suo
interesse per Kant all'inizio del suo percorso fu inesistente. Quando, però, nel 1896, dopo
le critiche mossegli da Frege e l'influenza di Paul Natorp, Husserl si allontana dallo
psicologismo, egli si orienta verso la ricerca delle condizioni ideali della possibilità di una
scienza in generale e comincia a tenere lezioni su Kant, prima a Halle e poi a Gottinga; pian
piano sente l'esigenza di confrontarsi con Kant, perché il percorso, che autonomamente
andava facendo, lo conduceva a trattare gli stessi problemi, dei quali si era interessato il
filosofo di Könisberg.
Questo mi pare un punto importante per la comprensione della genesi della
fenomenologia; infatti, Husserl giunge autonomamente alla scoperta del suo metodo, che
poi confronta con i pensatori dell'età moderna, riconoscendoli come suoi «precursori» e
scegliendoli a posteriori come suoi maestri, cioè Cartesio e Kant. Tuttavia, proprio perché,
in verità, non sono suoi maestri, è anche molto critico nei loro confronti. Le sue
Meditazioni cartesiane del 1929 rappresentano la valutazione critica della filosofia di
Cartesio, e, per quanto riguarda Kant, numerosi suoi testi dimostrano la lontananza di
Husserl.
Il testo più ampio è costituito dall'elaborazione di una conferenza su Kant e l'idea di una
filosofia trascendentale, tenuta il primo maggio 1924 in occasione delle celebrazioni
kantiane presso l'Università di Friburgo. Poiché si tratta di un testo «celebrativo», Husserl,
piuttosto che esporre obiezioni esplicite alla filosofia di Kant, contrappone la propria
posizione. Certamente il filo conduttore è il termine «trascendentale» che, d'altra parte,
egli prende proprio dalla tradizione kantiana per individuare un nuovo territorio, da lui
interpretato, come si è già detto sopra, in modo diverso da Kant. E la diversità emerge,
tuttavia, più fortemente in altri scritti di Husserl, più incisivi nel delineare la lontananza
del suo peculiare «idealismo trascendentale» dal Criticismo.
Mi propongo di sottolineare alcuni punti di accettazione e di contrasto riguardo alla
posizione di Kant, così come Husserl li delinea, per poi procedere ad un confronto
autonomo al di là delle intenzioni di Husserl, confronto che nasce anche da alcune sue
affermazioni, attraverso le quali si può notare la diversità dei risultati delle sue analisi.
4. L'idea della filosofia trascendentale.
Metto a confronto alcune affermazione husserliane, che appaiono addirittura in contrasto
fra loro, affermando, alcune, la vicinanza, altre la lontananza dal Criticismo. Nel testo del
1924 si legge: «In effetti, la mia ripresa del termine kantiano "trascendentale", pur con
tutta la distanza dai presupposti di fondo, dai problemi-guida e dai metodi di Kant, si
basava fin dall'inizio sulla convinzione ben fondata che a questa nuova scienza
fondamentale andassero ricondotti tutti i problemi sensati elaborati teoricamente da Kant
e dai suoi successori sotto il titolo di problemi trascendentali (almeno in quelle
formulazioni che raggiungevano una chiarezza ultima)».14
In questo testo si stabilisce una continuità con la posizione kantiana, ma ben diverso è
l'atteggiamento di Husserl in uno scritto del 1917: «Tutte le filosofie che muovono da
Leibniz sono affette dal controsenso del dogmatismo filosofico e gnoseologico, e quindi
anche la critica della ragione di Kant»15, infatti, Kant non sfugge all'accusa di
psicologismo, perché: «Una teoria trascendentale della conoscenza può essere svolta
soltanto nell'ambito di una teoria universale della conoscenza e questa "soltanto" come
pura scienza della coscienza».16 Un residuo di piscologismo si trova, in particolare, nel
presupposto kantiano relativo alle «facoltà» presenti nell'essere umano, che non sono
adeguatamente giustificate e che conducono ad un antropologismo.17
Che questa presa di posizione permanga, nonostante le asserzioni di fedeltà, anche nel
testo del 1924, è confermato proprio dal fatto che, dopo l'iniziale disponibilità, Husserl non
si riferisce più a Kant, ma espone le linee fondamentali della sua fenomenologia per
mostrare, in realtà, la diversità con le analisi kantiane. È vero, infatti, che egli continua a
scrivere: «Se io potessi, andando oltre la generalità dell'idea di una filosofia
trascendentale, addentrarmi ancora nei contenuti particolari delle teorie di Kant, allora ci
sarebbe naturalmente molto da dire a sua gloria»;18 ma, in realtà, qui si sta riferendo alla
filosofia trascendentale tout court e quindi a Kant solo come un iniziatore di un percorso, a
suo avviso, ancora pieno di oscurità e di incertezze, che doveva essere perfezionato in
modo radicale, avendo lasciato Kant alle generazioni future il compito di tale
purificazione;19 e Husserl si sente, ora che ha elaborato la sua proposta fenomenologica,
colui che ha cominciato a realizzare tale compito. Esso consiste nel «purificare e chiarire
perfettamente, per mezzo di una radicale esplorazione della soggettività trascendentale,
come campo d'origine di ogni metodo, questo senso nuovo, trascendentale, della
filosofia».20
La chiarificazione consiste in un approfondimento che prende una via totalmente diversa
da quella kantiana nell'analisi della soggettività, come si è iniziato ad indicare sopra, e che,
per tale ragione, conduce a risultati completamente diversi anche con riferimento ai grandi
temi metafisici, trattati da Husserl in modo diverso da quello proposto da Kant, ed ai temi
etici. E', quindi, sul versante gnoseologico-metafisico e su quello etico che il contrasto con
Kant appare evidente, proprio perché le analisi condotte da Husserl danno risultati diversi.
È opportuno, allora, in primo luogo esaminare lo sviluppo delle analisi husserliane per
costare la diversità delle scoperte di Husserl. Come si è già notato, è proprio la dimensione
coscienziale dei vissuti che costituisce la novità della posizione husserliana e su questa ci si
deve brevemente soffermare.
5. L'analisi dei vissuti: immanenza e trascendenza
Per comprendere che cosa siano i vissuti, è necessario procedere ad alcune
esemplificazioni. Nell'atteggiamento naturale noi abbiamo esperienze che iniziano a livello
percettivo; se isoliamo essenzialmente il nostro modo di vivere questa esperienza,
mettendo tra parentesi tutti gli elementi contingenti, ci rimane il puro percepire come atto
da noi vissuto, anzi come atto che è possibile che tutti vivano. Prendere l'atto nella sua
purezza vuol dire esaminarlo in se stesso come atto vissuto, così come è registrato sulla
lastra, accompagnato dalla coscienza dell'atto stesso.
Il vissuto percettivo, come altri vissuti che possono essere isolati nell'analisi, quali il
vissuto rimemorativo, quello immaginativo, quello giudicativo, si presenta come un vissuto
caratterizzato dall'essere coscienza di, quindi, dall'essere rivolto intenzionalmente a
qualcosa di afferrato. Il qualcosa, al quale si è diretti, può essere immanente, nel caso in cui
la cosa a cui si è diretti è la stessa percezione interna oppure può essere trascendente, nel
caso in cui è diretto su cose esterne. Il rapporto con la cosa esterna è particolarmente
significativo perché, mentre il vissuto percettivo è immanente anche se diretto in maniera
trascendente, la cosa (in un esempio proposto da Husserl il foglio di carta percepito) è
trascendente ed è colta attraverso il rapporto percepire-percepito che risulta immanente;21
tale rapporto è denominato da Husserl con i termini greci, usati in modo del tutto nuovo di
noesis e noema. È opportuno notare che immanenza e trascendenza si spostano
continuamente seguendo l'andamento analitico; i vissuti, in quanto tali, sono tutti
immanenti, possono essere diretti in modo immanente, quando hanno per oggetto altri
vissuti o in modo trascendente, quando si riferiscono ad oggetti esterni a loro volta
trascendenti, ma l'oggetto si scinde in oggetto trascendente esistente e immanente in
quanto noema presente nella coscienza, cioè percepito, ricordato e così via.
Finora si è parlato di vissuti intenzionali, ma è bene osservare che non tutti i vissuti sono
intenzionali, ci sono quelli chiamati da Husserl «momenti effettivi presenti nel flusso dei
vissuti» che non possiedono il carattere dell'intenzionalità, cioè di essere coscienza di
qualche cosa. Se si percepisce un foglio bianco, il bianco del foglio non è coscienza di
qualcosa, pur presentandosi come latore, cioè portatore di intenzionalità in quanto
contenuto che presenta il bianco del foglio.
Questo punto è molto importante e sarà sviluppato in seguito.
Tutto quello che è stato detto finora sui vissuti, è stato reso possibile grazie ad un vissuto
particolare e specificamente umano, il vissuto della riflessione, per cui ogni vissuto può
diventare, come si è visto, oggetto di una percezione interna e oggetto di una riflessione,
teoretica o valutativa. I vissuti rispecchiano tutte le operazioni, tutte l'esperienze, tutta la
costituzione del soggetto umano e della realtà naturale, ma le connessioni di senso
avvengono solo fra i vissuti stessi: l'essere come realtà e l'essere come coscienza sono
correlati, ma distinti.
Le cose naturali ci sono date sempre secondo continui approcci percettivi e quindi per
«adombramenti», ma il vissuto che rivela tutto ciò è il vissuto percettivo, in sé chiaro come
vissuto; esso certamente non si adombra, perché fa parte dell'essenza della cosa spaziale
darsi per adombramenti, mentre ciò è escluso per il vissuto, ecco perché i vissuti si offrono
allo sguardo della percezione interna e della riflessione come evidenti ed indubitabili,
mentre le cose esterne sono sempre coglibili con difficoltà e richiedono una serie di
approcci, come si vedrà in seguito. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, Husserl insiste
nel dire che la cosa spaziale, pur nella sua trascendenza, è conosciuta come presente in
carne ed ossa, non c'è una mediazione simbolica o segnica, che si sostituisce alla cosa; il
segno e il simbolo corrispondono a particolari modalità rappresentate dai vissuti
corrispondenti.
6. Per una filosofia fenomenologica
È opportuno ritornare sulle brevi indicazioni ora proposte per isolare alcuni temi che
costituiscono a mio avviso la differenza fondamentale fra Husserl e Kant.
Iniziamo proprio dall'ultima questione ora ricordata, quella relativa al mondo esterno. Se
si esamina la Critica della Ragion pura è chiaro che Kant non mette in dubbio l'esistenza
di una realtà esterna rispetto al soggetto umano, ma la considera in se stessa «pensabile» e
non «conoscibile». Anzi si potrebbe dire che, dal punto di vista noumenico, esistono in
Kant tre modalità, corrispondenti alle tre parti della Critica della Ragion Pura. A livello
dell'Estetica trascendentale, si delinea la realtà che si può definire «naturale» e che oggetto
delle scienze fisico-matematiche; nell'Analitica trascendentale, il noumeno è
corrispondente alla realtà adombrata dall'io penso, quindi si tratta dell'essere umano e
della sua anima, e a livello della Dialettica trascendentale i due precedenti temi sono
ripresi nelle idee del mondo e dell'io, ad essi si aggiunge il noumeno rappresentato dalla
realtà divina. Come è noto, Kant conclude sostenendo l'insufficienza della ragione umana a
rintracciare l'esistenza delle realtà corrispondenti alle tre idee, in cui i noumeni si
configurano, e tenterà per vie diverse nelle altre due Critiche di raggiungere tali realtà;
quindi l'anima umana, Dio, il mondo della natura e la sua finalità saranno oggetto di una
nuova trattazione, che usa vie teoretiche divergenti da quelle consolidate nella tradizione
metafisica classica, come il giudizio sintetico pratico nella Critica della Ragion Pratica e il
giudizio riflettente nella Critica del giudizio- meglio sarebbe dire nella Critica della
Facoltà di Giudizio.
Totalmente diversa è la posizione di Husserl. Nel testo citato del 1924 egli discute proprio
la questione del mondo; l'aspetto noumenico di questa realtà, peraltro indagata da Kant
esclusivamente sotto il profilo della conoscenza scientifica, scompare in Husserl. Poiché
quest'ultimo rivendica il diritto dell'esperienza, sostiene che: «la nostra vita in stato di
veglia è, comunque sia stata e sarà, un esperire e poter-esperire continuamente "il" mondo,
la totalità della realtà».22 Ciò che Husserl sottolinea è, piuttosto, l'imperfezione di tale
conoscenza, che ci spinge sempre a ricercare ulteriormente: «D'altro canto, il nostro
esperire è e resta sempre imperfetto. In esso noi afferriamo solo frammenti di mondo, ed
anche questi soltanto da lati particolari, e i lati a loro volta mai in modo definitivamente
adeguato».23
È possibile, però, spingerci sempre oltre e non accontentarci, e pure non esiste una validità
ultima, ma tutto ciò non comporta alcuno scetticismo e alcun relativismo; ciò che è
conosciuto è conosciuto validamente e ed è esistente realmente: «Questa ovvia e ben nota
imperfezione non disturba però la nostra convinzione secondo la quale noi conosciamo
tramite l'esperienza il mondo stesso, ed è essa a testimoniarci originariamente un'esistenza
reale»24 e in modo intersoggettivo, proprio perché gli esseri umani possiedono strutture
conoscitive in comune. Certamente si pone il problema della concordanza fra quello che ci
sembra di conoscere e le cose stesse perché: «L'esperienza può diventare anche
discordante, farci cadere nel dubbio e nell'inganno».25 Questa non è, tuttavia, una
situazione definitiva: «In ogni caso però è possibile l'istituzione della concordanza
permanente, del complesso dell'esperienza; e solo in essa si compie, come cosa ovvia, una
conoscenza dello stesso mondo esistente priva di dubbi in modo completo e
permanente».26
Qui Husserl non sta parlando della conoscenza scientifica del mondo, come fa Kant nella
Critica della Ragion Pura, ma della nostra conoscenza quotidiana e contemporaneamente
della conoscenza teorica, quella proposta in primo luogo dalla filosofia. E se la
teorizzazione dipende da noi, non dipende da noi l'esistenza del mondo: «Ciò che noi
produciamo così in modo puramente soggettivo, in noi e nel nostro pensare "evidente"
sulla base dell'esperienza reale e possibile, ci serve come norma per la nostra conoscenza
del mondo -- come norma di verità per il mondo stesso, così come esso è in sé e per sé;
poiché ovviamente il mondo è ciò che è, in sé e per sé, sia che viviamo che se moriamo, sia
che lo conosciamo che non lo conosciamo».27 Questa è la posizione che Husserl chiama
«realismo trascendentale» nelle Meditazioni Cartesiane.
Ci si può domandare come questa posizione si accordi con l'altra definizione, data da
Husserl alla sua posizione, cioè quella di «idealismo trascendentale». La soluzione di
questo problema cruciale si trova nel commento a Kant qualche pagina dopo quelle citate.
L'insistenza sul ruolo fondamentale della soggettività deriva dal fatto che, in quanto esseri
umani, il mondo, che pure è in sé sia che viviamo sia che moriamo, quando siamo vivi, è un
mondo «per noi» e questo «per noi» può diventare un assoluto quoad nos, molto diverso
dall'assoluto di Dio.28
L'assolutezza relativa -- si potrebbe dire usando un ossimoro -- degli esseri umani si
costata nel momento in cui si riflette sul fatto che «Certo, l'essere-in-sé del mondo è un
dato di fatto indubitabile; ma "dato di fatto indubitabile" non è altro che una nostra
asserzione, naturalmente ben fondata; più esattamente: il contenuto di un nostro asserire,
fondato su ciò di cui abbiamo fatto esperienza nel nostro esperire reale e possibile, e che
abbiamo pensato e compreso con evidenza; [...]. Ciò che viene asserito, fondato, compreso
con evidenza, in breve conosciuto, ciò che è essenzialmente conoscibile, non trae forse il
suo senso dalla conoscenza, dalla sua essenza propria, che è in tutti i suoi gradi coscienza,
"vivere" soggettivo?».29
Il riferimento a tale vivere soggettivo non implica che la verità in sé sia un nostro frutto,
piuttosto essa è posseduta nella nostra coscienza. Il grande compito è, allora, quello
comprendere come accada tale possesso e quali siano le condizioni che lo rendono
possibile. È qui che si delinea la funzione del trascendentale, come luogo in cui si
rintracciano le condizioni della nostra conoscenza, ma anche le strutture profonde del
nostro essere. Il mondo essente in sé ha un senso, che non può essere del tutto diverso
dalla formazione di senso prodotta nella conoscenza, ma non si tratta di una semplice
«immagine conoscitiva» provocata dall'esterno e ciò a causa della scoperta delle sfere
passive della conoscenza, attraverso le quali si costituiscono gli oggetti materiali, come si
dirà in seguito. E questo, se è un motivo di contrasto con alcune posizioni realistiche, è
anche un motivo di distinzione nei confronti della lettura che Kant dà della formazione
della conoscenza.
L'idealismo trascendentale si oppone, in tal modo, solo ad un realismo ingenuo e consiste
nel mettere in evidenza il ruolo delle operazioni presenti nel soggetto umano, fonte
dell'elaborazione del senso quoad nos. La regressione in quella che si può chiamare, e che
qualche volta Husserl chiama, interiorità, avviene in primo luogo in polemica con il
positivismo, rivolto tutto all'esteriorità, ma anche con lo psicologismo che non coglie
validamente le strutture dell'interiorità stessa, e infine contro Kant, il quale, pur avendo
attuato lo spostamento nella soggettività attraverso la sua rivoluzione copernicana, non ha,
poi, portato a compimento la sua operazione e, non analizzando esattamente il senso di
quelle strutture, non è riuscito a vederne le potenzialità conoscitive in una direzione, che si
potrebbe largamente definire metafisica.
Rispetto al mondo esterno, si tratta di confutare lo scetticismo di Hume: «L'autentica
filosofia trascendentale, sia sottolineato in anticipo con decisione, non è né apertamente né
occultamente, una dissoluzione della conoscenza del mondo e del mondo stesso in finzioni,
quindi, in termini moderni, una filosofia del "come se"».30 Allora, come interpretare
validamente la distinzione kantiana fra realtà conosciuta attraverso le nostre forme e la
realtà in sé? Husserl, il quale si riferisce, al contrario di Kant nella Critica della Ragion
Pura, alla nostra conoscenza intesa in senso globale e non solo alla conoscenza scientifica,
la quale è un caso particolare della conoscenza generale, sostiene che tale distinzione è
falsa, piuttosto si tratta della difficoltà di afferrare la realtà esistente in un modo totale e
perfetto:»... una casa effettivamente esperita ed esistente è data alla coscienza in molti
modi soggettivi diversi, in un orientamento e in una prospettiva che mutano, con gradi
mutevoli di chiarezza e distinzione, con differenze nel modo di attenzione ecc.».31
Se è così, ma si manifesta in noi il desiderio di cogliere la realtà nella sua pienezza, un
oggetto ancora sconosciuto non è altro che l'oggetto pensato come appartenente
all'orizzonte aperto della nostra conoscenza possibile. Rimane, quindi, la tensione tra
conoscenza reale imperfetta, con i suoi numerosi modi di intenzione vuota e di intuizione
riempiente, e la conoscenza idealmente perfetta. In tal modo Husserl accetta e corregge
Kant, accetta la sua «idea» di mondo, il mondo come oggetto di un'idealità, ma lo
correggere rispetto alla conoscenza concreta delle cose del mondo, conoscenza imperfetta,
limitata, ma vera; le cose non si danno mai totalmente, ma si danno con le loro
configurazioni nella loro reale esistenza.
Il problema della conoscenza, secondo Husserl, ha ramificazioni ancora più profonde di
quanto Kant pensasse: «D'altra parte però egli riteneva non indispensabile per la soluzione
della sua problematica lo svolgimento sistematico di un correlativo studio, concretamente
intuitivo, della soggettività operante e delle sue funzioni di coscienza, delle sue sintesi
attive e passive di coscienza, nelle quali prendono forma ogni genere di senso oggettivo e di
legittimità».32 E Husserl conclude, dicendo che è necessario passare «ad uno studio
universale di essenze della coscienza in generale -- ad una "fenomenologia
trascendentale"»;33 il trascendentale si deve dilatare per comprendere non solo la
formazione delle scienze, ma anche delle molteplici forme associative umane.
7. La fenomenologia come gnoseologia: conoscenza del mondo,
conoscenza di Dio
Se si rimane sul piano gnoseologico, piano privilegiato come via d'accesso alla
comprensione del reale anche nelle posizioni metafisiche classiche, piano, che diventa
centrale nella filosofia moderna ed è centrale anche in Husserl, si deve costatare che in
quell'espressione husserliana relativa alle «sintesi attive e passive di coscienza» si trova la
chiave per comprendere il superamento della posizione kantiana in senso gnoseologico.
Detto ciò preliminarmente, è opportuno proseguire per saggiare brevemente la consistenza
delle analisi passive e attive proposte da Husserl. Una delle sue opere, nella quale le
tematiche in oggetto sono esaminate fino in fondo, è ricavata dalle lezioni, che egli tenne
negli anni 1918-1926 sulle Analisi delle sintesi passive, nelle quali lo scavo è più attento e
completo.
Posso fare in questa sede solo una breve ricognizione, ma vorrei individuare quattro
importanti livelli di strutturazione del percorso, due contenuti nell'opera citata (1, 2) e due
presenti in Esperienza e giudizio (3, 4), che si delineano in una successione che muove dal
basso.
1) La sintesi di unità associativa o pre-affettiva, che avviene sulla base di tre principi, quello
di somiglianza o omogeneità, quello del contrasto e quello della contiguità, per cui si può
parlare di una formazione unitaria.34
2) L'affezione, che opera nel presente fluente e produce il ridestamento delle datità nella
ritenzione e nella protezione.35
3) La ricettività, che è motivata dall'affezione e fonda l'apprensione di un oggetto; essa, pur
motivata passivamente, consente che subentri un'attività della coscienza.36
4) La ricettività permette la formazione di un oggetto e la sua comprensione ed
esplicazione; si attua, pertanto, l'appercezione.37
Come si può notare, nel processo sintetico l'unità è già delineata nel primo momento e non
si realizza solo nel quarto momento, quello dell'appercezione, come accade secondo Kant;
in ogni caso non ci troviamo davanti ad una costruzione, che avviene secondo i livelli
indicati, al contrario tali livelli sono rintracciati movendo dall'oggetto, che si manifesta alla
coscienza; solo successivamente è possibile scavare analiticamente per risalire alle datità.
Si tratta, pertanto, di un procedimento inverso rispetto a quello proposto da Kant, per il
quale è possibile analizzare le funzioni del soggetto prescindendo dall'oggetto stesso; al
contrario, per Husserl la coscienza non è un insieme di funzioni indipendenti da ciò su cui
si applicano, ma la coscienza è la stessa stratificazione delle operazioni costitutive attive e
passive, che formano l'oggetto.
Se è vero che è nel momento della ricettività che inizia la presa di coscienza da parte del
soggetto ed essa costituisce un passaggio dalla passività all'attività, è attraverso la
ricettività che ciò che prima era presente alla coscienza in modo anonimo può essere posto
tematicamente per la coscienza.
Tutto ciò consente di formulare due considerazioni. La prima riguarda il significato della
coscienza e la seconda quello della genesi. Per Husserl la coscienza non è autocoscienza,
come accade in Cartesio; è necessario, pertanto, distinguere fra io e coscienza, per cui la
soggettività è più ampia dell'io e non tutto ciò che è soggettivo è egologico. Anche le sintesi
passive sono sia preoggettuali sia preegologiche ed il fatto che siano soggettive è
determinato unicamente dalla possibilità di essere afferrate attivamente dal soggetto che le
recepisce. Pertanto, la soggettività trascendentale è più ampia dell'io trascendentale.
La seconda considerazione è molto importante, perché consente di individuare fino in
fondo l'originalità di Husserl rispetto alla posizione kantiana, per comprendere in modo
più preciso il significato del trascendentale. Il processo della genesi è quello che chiarisce la
costituzione sia dell'oggetto sia del soggetto; si tratta di un unico processo che ha un
versante oggettivo e uno soggettivo. Per questa ragione non è possibile parlare di «facoltà»
secondo Husserl come, invece, è possibile per Kant. Non c'è un soggetto già strutturato che
organizza un materiale informe portandolo ad unità, ma contemporaneamente si delinea la
formazione dell'oggetto e quella del soggetto. La preminenza che sembra accordata al
soggetto risiede nel fatto che è l'essere umano, il quale, ponendosi le domande di senso, è
in grado di ripercorrere il cammino genetico indagando la stessa genesi della costituzione,
come Husserl sottolinea in un testo contenuto in Zur Phänomenologie der
Intersubjektivität II (Per la fenomenologia dell'intersoggettività).38
Una riprova dello scavo archeologico operato da Husserl attraverso la genesi della
costituzione è rappresentata dal ruolo svolto dall'intenzionalità. Le datità preoggettuali
sono intenzionate, ma esse, al contrario degli oggetti, non presuppongono alcun atto
riferito all'io-polo di atti vissuti, per questo Husserl parla di un'intenzionalità passiva e
latente definita fungente (fungierende) che si può trasformare in intenzionalità attiva.39
Tale intenzionalità si risolve in verità nell'affezione, perché, come quest'ultima, è diretta
verso un dato e può essere effettiva o potenziale.
La sfera di passività è definita da Husserl sfera hyletica, usando in modo assolutamente
originale l'espressione greca hyle. La scoperta di tale sfera serve per giustificare dal punto
di vista genetico come si configura nei suoi primi livelli l'essere umano, ma anche per
indicare quale sia il livello profondo della teleologia, considerata da Husserl «la forma di
tutte le forme»; ciò è mostrato dal fatto che essa si presenta come una delle vie che, nel
senso indicato da Tommaso d'Aquino si potrebbe dire, conduce ad ammettere, secondo un
procedimento logico inferenziale, che Qualcuno ha creato le cose con la loro finalità.40
Se si fissa l'attenzione sui dati hyletici, si apre un capitolo straordinario di insospettabile
fecondità, che ci consente di uscire dai confini della soggettività attraverso il concetto di
telos.
Analizzando il testo n. 22 Teleologia. Le implicazioni dell'eidos trascendentale
intersoggettività nell'eidos trascendentale io, contenuto in Zur Phänomenologie der
Intersubjektivität III41 e dedicato proprio alla teleologia, si osserva che in esso sono
contenuti molti problemi, profondamente connessi, la cui soluzione apre la via al
superamento del tema della soggettività, ridimensionando il significato della sua centralità.
Il testo è dedicato all'analisi della teleologia, che costituisce l'essere universale della
soggettività trascendentale come forma ontologica, ma non si ferma alla soggettività, in
realtà coinvolge l'intersoggettività, portando con sé una «volontà di vita», dapprima
oscura, che è formata preontologicamente e si esplicita man mano in alcuni individui fino a
delinearsi come una idea di perfezione, una sorta di ideale regolativo che fa appello alla
volontà.
Proprio a causa della sua importanza e centralità, la teleologia si manifesta come «forma di
tutte le forme»42 e, coinvolgendo la volontà, manifesta il carattere «creativo» della volontà
stessa, tesa a realizzare il migliori dei mondi possibili. Ciò può e dovrebbe manifestarsi
nell'esistenza fattuale di una soggettività, intesa come personalità individuale concreta,
quando è rivolta agli altri in modo da stabilire un accordo ed evitare l'intolleranza. E
questo compito ha una giustificazione ultima, perché la volontà assoluta, che vive in tutte
le soggettività trascendentali e che rende possibile l'essere individuale-concreto, è la
volontà divina, la quale presuppone l'intersoggettività per esercitare la sua azione
concreta. Tutto ciò è colto movendo dall'analisi, che io compio nella mia concretezza, nel
mio essere fattuale per me, ricercando la forma universale della soggettività e
dell'intersoggettività. È una possibilità, che scopro a me offerta, quella di passare dal fatto
all'eidos, ma il rapporto fatto-eidos, per quanto mi riguarda, è del tutto peculiare: l'eidos io
trascendentale è impensabile senza l'io trascendentale come fattuale. Si può notare che
l'esistenza presa nella sua attualità, che è messa fra parentesi nel momento in cui si
rintraccia la struttura eidetica della soggettività trascendentale -- si veda ad esempio la
riduzione eidetica così come è proposta nelle Idee per una fenomenologia pura -, non è
eliminata e non solo vive, come vive ciò che è messo fra parentesi e non eliminato, ma vive
come riferimento continuo e costante; in tal modo abbiamo raggiunto di nuovo quel livello
esistenziale, che sembrava eliminato e che ha suscitato tante reazioni da parte delle
filosofie esistenziali.
Tuttavia, stiamo ancora ruotando intorno al rapporto soggettività-intersoggetività rispetto
alla questione della connessione fra il trascendentale e l'esistente e non si è raggiunto il
risultato più significativo, consistente nella delineazione di un'ontologia. Husserl continua
nel testo n. 22 sottolineando che, attraverso il mutamento dell'atteggiamento naturale in
atteggiamento eidetico, il cammino regressivo conduce all'assoluta ontologia, che è
correlativa all'ontologia mondana. E, si può dire a sorpresa, che, scavando fino in fondo, si
è ricondotti alla struttura originaria della hyle originaria con le sue cinestesi originarie, i
sentimenti originari, gli istinti originari. Movendo dal «fatto» si scopre che il materiale
originario si fonde in una unità, che è una forma essenziale prima della mondanità, dove il
termine «prima» ha una particolare rilevanza.
La dimensione hyletica è, quindi, quella che a livello dell'attualità mi dà già
«istintivamente» preindicata la costituzione di tutto il mondo e non solo della mia
soggettività; nella dimensione hyletica le stesse funzioni di possibilità hanno la loro
grammatica essenziale, per cui, attraverso il fatto, scopro che in precedenza c'è una
teleologia.43
Un ulteriore scavo nel rapporto fra teleologia e intenzionalità si trova nel testo n. 34 dello
stesso volume intitolato appunto Universale Teleologie, in cui si parla di una primordialità
del sistema di impulso (Triebsysteme) indicando la presenza di una intenzionalità
impulsiva e confermando quanto già espresso nelle Lezioni sulla coscienza interiore del
tempo, cioè di una intenzionalità non legata all'io (ichlos), non egologica.44
Già nelle Idee per una fenomenologia pura Husserl aveva indicato che sarebbe stato
possibile individuare un campo di ricerca, quello della hyletica pura, da affiancare alla
noetica, sviluppando quanto era emerso dalla ulteriore indagine sugli atti vissuti e sulle sue
due componenti, quella noetica ed hyletica, appunto. Mentre l'analisi noetica è quella che
Husserl tratta più ampiamente e quella che suscita le obiezioni di molti, perché tale
indagine si ferma al momento intenzionale legato alla dimensione coscienziale più elevata,
senza penetrare negli strati profondi, la hyletica, alla quale Husserl aveva accennato e alla
quale accenna nel testo n. 22 che è stato citato, consente un'apertura oltre la soggettività in
due direzioni: in senso ontologico-cosmologico e in senso teologico. Tutto questo è
racchiuso nelle poche righe finali del testo stesso nelle quali si dice che le condizioni di
possibilità della teleologia si trovano nel rinvio ai fatti originari della hyle, anzi senza essi
nessun mondo sarebbe possibile e nessuna soggettività trascendentale, ma ci si domanda
anche se i fatti originari della hyle siano gli ultimi oppure se la teleologia, con la sua
fatticità originaria, non abbia il suo fondamento in Dio.
Si ottengono, allora, due risultati rilevanti: in primo luogo, movendo dalla hyle originaria,
è possibile una divaricazione in senso cosmologico e antropologico, ontologia mondana e
ontologia della soggettività, anche se è la soggettività a rendersi conto di questo; in
secondo luogo, tutto ciò rimanda ancora più in profondità alle quelle che Husserl definisce
«ultime questioni di fatto», alle questioni originarie, alle ultime necessità, alle necessità
originarie, aprendo, quindi, la via alla connessione fra telos e Dio.
Si può notare come il tema della teleologia, che probabilmente egli mutua anche da Kant,
consente di stabilire un confronto con l'uso che quest'ultimo ne fa nella sua Critica del
Giudizio e di osservare come la trattazione di tale tema conduca Husserl ad affrontare più
francamente e dettagliatamente la questione, a suo avviso, più importante per l'essere
umano, quella della conoscenza di Dio, secondo la testimonianza di Dorion Cairns45,
conoscenza teoretica e non solo apertura di fede, che, pure, per lui è determinante in vista
del significato ultimo dell'esistenza.
8. Il paradosso dell'essere umano come soggetto e oggetto di
conoscenza
Dall'esame dei vissuti coscienziali, secondo Husserl, si può risalire alle «realtà» che essi
mostrano; pertanto l'essere umano si rivela come un essere corporeo, psichico e spirituale.
Si risponde, in tale modo, alla domanda radicale: che cosa è l'essere umano? E la risposta
chiara e precisa di Husserl supera senz'altro la posizione kantiana. Se il filo conduttore, che
lega Husserl a Kant, è rappresentato dal tema del trascendentale, è su questo terreno che
bisogna porre la questione relativa all'essere umano, ma essa può essere risolta solo se si
passa attraverso l'ego trascendentale.
Allora che cosa è l'ego trascendentale? Se è bene inteso, secondo Husserl, esso è tale da
superare l'obiezione radicale, consistente nel dire che, se l'io, cioè questo essere umano
(Mensch), esercita la metodica della presa di posizione trascendentale, in tal modo ritorna
al suo puro ego che è un livello astratto dell'essere umano concreto, il suo puro spirito,
come era sostenuto da Cartesio. Chi parla così -- e quindi Cartesio -- ricade, però, in un
atteggiamento ingenuo e naturale, il suo pensiero si muove sul terreno del mondo predato,
invece che nell'ambito dell'epoché: considerarsi come essere umano, in ciò consiste la
presupposizione della validità del mondo. Attraverso l'epoché diventa chiaro che è l'ego,
colui nella cui vita l'appercezione essere umano è mantenuta all'interno della universale
appercezione del senso d'essere del mondo.46
La questione consiste, allora, nel chiedersi se la riduzione all'ego elimina il Mensch come
Mensch in der Welt, l'essere umano come essere nel mondo. Husserl si affretta a
sottolineare che il mondo rimane un tema fondamentale e non viene eliminato, ma
sottratto alla «ingenuità» della conoscenza quotidiana. Allora, qual è la struttura
dell'essere umano che emerge proprio dall'approfondimento della dimensione
trascendentale? Tale tema è stato sviluppato in modo emblematico nel vol. II delle Idee per
una fenomenologia pura, trascritto da Edith Stein ed è, allora, a questo testo che è
necessario riferirci; fra le opere edite è, infatti, il testo più significativo per la delineazione
di un'antropologia filosofica.
Dopo che l'analisi trascendentale ha individuato la coscienza come il luogo su cui si
rispecchiano tutte le dimensioni del soggetto, è possibile descrivere essenzialmente una
serie di vissuti della coscienza stessa, che rimandano alle strutture «reali» dell'essere
umano. Il primo e il secondo volume delle Idee sono, in tal modo, connessi e debbono
essere letti nella loro connessione. Se il primo è teso a dare le connotazioni del metodo e
l'ambito dell'analisi, quello appunto della dimensione trascendentale come luogo di
svelamento del senso della realtà quoad nos, il secondo è rivolto a mettere in luce la
costituzione della natura materiale, alla quale appartiene il corpo, la natura animale,
caratterizzata dalla realtà psichica, e il mondo dello spirito, a cui appartiene l'io personale.
È interessante notare come, dopo aver messo tra parentesi tutte le dottrine tradizionali
riguardanti l'essere umano, in un modo originale perché non deduttivo, ma ostensivo, si
affronti l'analisi del fenomeno essere umano recuperando e avvalorando la sua
tripartizione in corpo, psiche e spirito.
La struttura dell'essere umano si può mostrare iniziando dall'esame del corpo proprio,
Leib, il quale non è di per sé un punto di partenza, ma è rintracciato nelle sue
caratteristiche movendo dalla presenza della percezione, come un atto vissuto nella
coscienza. Se l'apprensione percettiva presuppone i contenuti della sensazione, i quali
svolgono un ruolo necessario per la costituzione degli schemi e così per la costituzione
delle apparizioni delle cose stesse reali, ciò «comporta che in tutte le percezioni, in tutte le
dimostrazioni fornite dalla percezione (esperienza) è presente il corpo proprio in quanto
organo di senso liberamente mobile, in quanto totalità liberamente mobile degli organi di
senso, e perciò che, in virtù di questo fondamento originario, qualsiasi cosa, qualsiasi
realtà del mondo circostante dell'io ha una propria relazione con il corpo proprio».47
Una volta trovato il corpo proprio non ci si aspetterebbe una ripresa del tema della
coscienza attraverso l'io puro, ma Husserl procede in questo modo per ricordare che la
descrizione nei suoi tratti essenziali è possibile grazie a tale capacità dell'essere umano
scoperta attraverso la riflessione che lo fissa; pertanto «questo io non è né misterioso, né
mistico, anzi io prendo me stesso in quanto io puro, mi prendo puramente come ciò che
nella percezione è diretto verso il percepito, nel conoscere verso il conosciuto, nel
fantasticare sul fantasticato [...] In termini più precisi: l'io puro è in riferimento con gli
oggetti in modi molto diversi, a seconda del genere dell'atto che compie».48
Tali atti possono essere quelli dell'attrazione e della repulsione, del desiderio, dell'amore,
dell'odio, della decisione nell'azione, inoltre l'atto del fiat, della volontà, e ancora gli atti
teoretici del delineare un contesto tematico, dello stabilire relazioni, del porre un soggetto
e un predicato, del trarre conseguenze. Si è rintracciata, in tal modo, una struttura
trascendentale sui generis che consente di passare all'indagine dell'essere umano in
quanto natura -- il corpo proprio come latore di sensazioni localizzate -- oppure il corpo
proprio come attraversato dalle sensazioni di piacere, di dolore, di benessere o di disagio,
che costituiscono la base materiale, la base hyletica, per la costituzione dei valori, quindi,
con questo strato si connettono le funzioni intenzionali e i materiali assumono una
funzione spirituale.
Attraverso lo strato di qualità «reali» (base hyletica) -- in quanto si costituiscono in virtù di
una relazione con circostanze reali nell'ambito del reale -- il corpo proprio si intreccia con
la psiche, pertanto si può affermare che «La psiche e l'io psichico "hanno" un corpo proprio
e quindi che esiste una cosa materiale di una natura tale che essa non è mera cosa
materiale, bensì appunto, corpo proprio; la sua caratteristica è quella di essere campo di
localizzazioni di sensazione e di moti del sentimento, in quanto complesso di organi di
senso, in quanto elemento fenomenico e controparte di qualsiasi percezione di cose, cioè
un pezzo fondamentale della datità reale della psiche e dell'io».49
Si è passati, pertanto, ad un altro strato qualitativamente diverso dalla cosa materiale, cioè
la psiche, ma il corpo proprio -- sarebbe meglio dire corpo vivente -- è, appunto, l'intreccio
di questi due momenti. Alcuni manoscritti husserliani analizzano, scavando ulteriormente
nella dimensione psichica, l'ambito dell'istinto, che indica una continuità con il mondo
animale, ma la distinzione con tale mondo si rintraccia nella funzione intenzionale e
spirituale.50
Si è visto sopra che all'io puro fanno capo anche atti, che sono diversi dalle tensioni, dagli
impulsi dalle reazioni, questi sono gli atti volontari, valutativi e teoretici, i quali
caratterizzano la persona umana; si entra in tal modo nella vita dello spirito, che non è in
alcun modo «determinata», ma «motivata», essa è la sede degli atti liberi e delle prese di
posizione razionali. Passività e attività si intrecciano, ma l'attività distingue l'essere umano
«desto», desto eticamente e teoreticamente.
L'io si comporta nei confronti del mondo attraverso atti sui quali è in grado di riflettere,
come, infatti, fa quando, per es., prende nota di se stesso come di un io personale, proprio
come qualsiasi altro può fare a proposito degli stessi atti, attraverso l'entropatia, cioè
cogliendo questi atti come atti della persona in questione, per es. parlando di essa,
chiaramente consapevole, come di una persona . Si procede, pertanto, ad una sorta di
definizione della persona che è tale, appunto, se ha rappresentazioni, sente, valuta,
persegue qualche cosa, agisce, e in ciascuno di questi atti personali è in relazione con
qualche cosa, con gli oggetti del suo mondo circostante.51
Assumere un atteggiamento personalistico nei confronti del mondo circostante significa
assumere un atteggiamento valutativo ed etico. Questo lungi dall'essere artificiale, è il vero
e proprio atteggiamento «naturale».52 Si tratta di uno dei pochi luoghi in cui il termine
naturale è utilizzato in modo positivo; per solito Husserl lo assimila all'uso che ne fa il
positivismo nell'ambito del naturalismo, perciò sostituisce il termine «natura», usato ad
esempio nella filosofia medievale scolastica, con quello di «essenza». Sarà E. Stein che,
riappropriandosi del vocabolario scolastico, si renderà conto di tale equivalenza.
Certamente la posizione husserliana non è una posizione sostanzialista, tutto ciò è lontano
dal suo orizzonte mentale per una serie di ragioni: la sua formazione scientifica, il suo
accostarsi alla filosofia in modo personale, senza i presupposti di una scuola di pensiero, la
sua appartenenza al mondo culturale protestante in polemica con la filosofia medievale e
per il suo rifiuto della metafisica razionalistica dell'età moderna. Tuttavia egli, come si è
detto, è introdotto alla filosofia attraverso Brentano, ex-sacerdote cattolico, erede della
tradizione medievale nell'area austriaca rimasta fedele alla Chiesa di Roma, e sostenitore
di una filosofia rigorosa, benché aperta alle nuove istanze della psicologia. Sempre E. Stein
afferma che tutto ciò non è secondario per comprendere la descrizione «essenziale»
dell'essere umano proposta da Husserl, essenzialità che non ha uno sfondo
dichiaratamente metafisico, ma che consente di delineare l'essere umano nelle sua
caratteristiche proprie. Il risultato, dopo l'epoché di tutte le interpretazione già date, è in
verità il recupero della tradizione occidentale greco-cristiana: la fenomenologia, in quanto
filosofia fenomenologica, approda ad una descrizione che avvalora la tradizione, ma lo fa
seguendo un nuovo percorso.
Nell'antropologia filosofica husserliana -- possiamo in effetti usare ormai questa
espressione anche se si tratta certamente di un'antropologia delineata su un terreno
fenomenologico e quindi ostensivo e non speculativo -- grande spazio è dedicato alla
dimensione etico-religiosa. Prevalentemente è noto l'aspetto gnoseologico della ricerca
husserliana e certamente esso è importante come via per la soluzione di tutti i problemi,
ma egli non ha accantonato, soprattutto nella sua ricerca privata i «problemi ultimi e
sommi» che definisce «metafisici» come afferma in una delle sue opere più importanti, le
Meditazioni cartesiane.53
La questione etico-religiosa si lega alla questione di Dio affrontata in numerosi punti della
sua opera, come si è già notato. Mi sembra importante citare questi aspetti della sua
antropologia dalla quale emerge un essere umano esaminato in tutte le sua potenzialità,
non ridotto solo ad alcune delle sue dimensioni, aperto agli altri -- si pensi alle analisi
husserliane sulla intersoggettività, ma potremmo aggiungere, sulla base di quanto è stato
detto sopra, alla interpersonalità -- e aperto all'Altro come giustificazione ultima della sua
esistenza.54
La posizione husserliana sull'antropologia è avvalorata e confermata dalle stesse obiezioni
che Heidegger muove a Husserl, e anche a Scheler, accomunato quest'ultimo al primo
come bersaglio critico. Nel § 10 di Essere e tempo si legge che l'interpretazione dell'essere
umano come unità corporea-animata-spirituale, quella husserliana e scheleriana, appunto,
è assolutamente insufficiente, in quanto non è possibile concepire questo essere
congiungendo modi di essere come il corpo, l'anima e lo spirito, che, oltre a tutto, vengono
assunti come totalmente indeterminati nel loro essere. Inoltre, un tentativo di indagine
ontologica del genere sarebbe costretto a supporre un'idea dell'essere del tutto e aggiunge
in modo significativo che tutto ciò è legato all'orientamento dell'antropologia grecocristiana, che ha coniugato la definizione dell'essere umano come animal rationale con
l'essere e l'essenza di ordine teologico.
In questa sede non interessa sviluppare che cosa Heidegger contrapponga, ma solo
sottolineare che quella che per lui era un'accusa si rivela come la connotazione di fondo
dell'antropologia proposta da Husserl.
L'analisi husserliana dell'essere umano consente anche di stabilire una differenza con Kant
rispetto al tema dell'etica. In questo modo si coinvolge anche la Critica della Ragion
Pratica. Nelle sue Lezioni sull'etica e sulla dottrina del valore il punto di riferimento è
proprio la dottrina kantiana, che è confutata attraverso la distinzione fra etica formale e
formalismo. Husserl vuole recuperare la dimensione del sentimento senza cadere nella
prospettiva di Hume, anzi crede che sia necessario mantenere l'autonomia del giudizio
morale, il quale, tuttavia, deve recuperare, al contrario di quanto avviene in Kant, la
dimensione del sentimento. Si configura, allora, rispetto a Kant, un'etica materiale, ma non
nel senso di Max Scheler. La posizione di Husserl è intermedia fra i due pensatori, egli
sottolinea che la regolamentazione formale del valutare e del volere non può poggiare sulla
materia del sentimento; se è necessario un «contenuto», al contrario di ciò che sostiene
Kant, il concetto stesso di valore obiettivo richiede l'universalità della ragione in senso
assiologico. In altre parole Husserl sostiene che: «gli atti emotivi sono fonti originarie per
quei valori di verità che sono loro propri e possono ricevere una determinazione logica»55
e tutto ciò consente di evitare la caduta in una prospettiva puramente sentimentale e
quindi relativistica dell'etica. Riprendendo le osservazioni che si sono proposte sopra
riguardo al rapporto etica -- religione, Husserl sottolinea la centralità del sentimento
d'amore, che deve elevarsi fino ad uniformarsi con quello vissuto da Cristo, in modo tale da
diventare, per il cristiano la fonte e la base di un comportamento etico universale.56
In questi pochi accenni alla dimensione pratica, che dovrebbero essere certamente
documentati in modo più ampio in un contesto diverso da quello presente, si può
rintracciare un'ulteriore motivo di distinzione con la descrizione dell'etica proposta da
Kant.
Conclusivamente si osserva che ai tre noumeni, alle tre idee della ragione, indicate da Kant,
secondo Husserl, corrispondono tre realtà ben precise e interconnesse, delle quali è
possibile avere «conoscenza», sempre nei limiti delle capacità umane di dire in che cosa
esse consistano.
Lo sviluppo di queste tematiche avvicina Husserl a molti percorsi presenti nella tradizione
metafisica più di quanto avvenga nel caso di Kant.
Note
1.
Questa posizione di Husserl si trova espressa in modo efficace e sintetico in uno degli ultimi suoi scritti del
1936-37 ora tradotto in italiano, Edmund Husserl -- La storia della filosofia e la sua finalità, Autori moderni
per il terzo millennio, a cura di Nicoletta Ghigi, Prefazione di Angela Ales Bello, Città Nuova, Roma 2004.
2.
E. Husserl, L'idea della fenomenologia. Cinque lezioni, a cura di Elio Franzini, B. Mondadori, Milano 1995.
3.
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. I e vol. II, Nuova edizione a
cura di Vincenzo Costa, Introduzione di Elio Franzini, Biblioteca Einaudi, Torino 2002. D'ora in poi si citerà
Idee I e Idee II.
4.
Idee I, cit., p. 49.
5.
Ivi, § 24, pp. 52-53.
6.
Ivi, § 32, p. 71.
7.
Ivi, §33, p. 74.
8.
Il termine italiano «vissuto» tenta di rendere la parola tedesca Erlebnis intraducibile nella lingua italiana. Per
questa ragione, il primo traduttore di Husserl, Enrico Filippini, nella traduzione delle Idee del 1965 ha
introdotto il termine vissuto attraverso il quale si indica sinteticamente l'espressione più ampia: «ciò che è da
me vissuto», quindi l'atto che sto vivendo; vissuto in questo caso non ha il significato di atto del passato, ma è
piuttosto grammaticalmente un passivo, il quale, tuttavia, si riferisce ad un'attività del soggetto colta nel
momento in cui si presenta.
9.
Idee I, § 33, p. 78.
10. E. Stein, Introduzione alla filosofia, tr. it. di Anna Maria Pezzella, Prefazione di Angela Ales Bello, Città Nuova,
Roma, pp. 151-152.
11. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di Enrico Filippini, Il
Saggiatore, Milano 1987, § 43, p. 182. D'ora in poi Crisi.
12. R. Boehm, individua quattro o cinque vie della riduzione presenti nell'opera di Husserl Erste Philosophie, Vol.
VIII della collana «Husserliana», a cura di R. Boehm, Martinus Nijhoff, The Hague 1959. Nella sua Introduzione
al secondo volume, Boehm indica: 1) la via che passa attraverso la critica delle scienze; 2) la via cartesiana; 3) la
via che contrappone una visione del mondo mitico-pratica all'interesse teoretico la quale potrebbe essere
ricondotta alla 1); 4) la via al dilà delle ontologie positive per raggiungere un'ontologia universale; 5) una via
attraverso la psicologia. I. Kern nel suo articolo «Die drei Wege zur transzendental-phänomenologischen
Reduktion in der Philosophie Edmund Husserls» in Tijdschrift voor filosofie, n. 2, 1962, semplifica a tre le vie:
1) la via cartesiana; 2) la via attraverso la psicologia intenzionale; 3) quella che va oltre le ontologie positive.
13. Avevo già indicato questa via nel mio Husserl -- Sul problema di Dio, cit., p. 35 e segg.
14. E. Husserl, Kant e l'idea della filosofia trascendentale, tr. it. di Claudio La Rocca, Arnoldo Mondadori, Milano
1990, p. 119.
15. Ivi, p. 80.
16. Ivi, p. 81.
17. Ibid.
18. Ivi, pp179-180.
19. Ivi, p. 180.
20. Ivi, p. 183.
21. Idee I, § 35.
22. Kant e l'idea della filosofia trascendentale, cit. p. 134.
23. Ibid.
24. Ivi, p. 135.
25. Ibid.
26. Ibid.
27. Ivi, pp. 135-136.
28. Husserl usa il termine «assoluto» in due sensi diversi, per indicare, da un lato, ciò che è tale relativamente a noi
esseri umani -- e questa è la coscienza di ciascuno come punto di partenza della consapevolezza umana del
sapere su di sé, sulle cose su Dio --, dall'altro, secondo la prospettiva metafisica tradizionale, per indicare
l'Assoluto Principio, cioè Dio. Ciò è espresso molto chiaramente in Idee I, § 58.
29. Kant e l'idea della filosofia trascendentale, pp. 138-139.
30. Ivi, p. 137.
31. Ivi, 154.
32. Ivi, p. 178.
33. Ivi, p. 179.
34. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, tr. it. di Vincenzo Costa, Guerini e Associati, Milano 1989, Sezione
Terza, L'associazione, Capitolo I, Fenomeni originari e forme di ordinamento della sintesi passiva.
35. Ivi, Capitolo II, Il fenomeno dell'affezione.
36. E. Husserl, Esperienza e Giudizio, tr. it. F. Costa e L. Samonà, Bompiani, Milano 1995, §17, Affezione e
volgimento dell'io. Ricettività come grado infimo dell'attività dell'io.
37. Ivi, § 24, Il prendere in considerazione e la sintesi esplicativa.
38. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität II, Husserliana vol. XIV, a cura di Iso Kern, Nijhoff, The
Hague 1973, p. 41.
39. Zur Phänomenologie der Intersubjektivität III, Husserliana vol. XV, testo n. 34.
40. Ho trattato quest'argomento in Husserl. Sul problema di Dio, Studium, Roma 1985.
41. Zur Phänomenologie der Intersubjektivität III, cit., testo n. 22, Teleologie.
42. Cfr. A. Ales Bello, «Phänomenologie as 'the Form of all Forms' and the Inexhaustibility of Research», in A. -T.
Tymieniecka (ed.) The Teleology in Husserlian Phenomenology, Analecta Husserliana, vol. 9, Dordrecht 1979.
43. Zur Phänomenologie der Intersubjektivität II, cit., p. 385.
44. Zur Phänomenologie der Intersubjektivität III, cit. P. 594.
45. Dorion Cairns ricorda che secondo Husserl il problema più importante è quello di Dio (Conversations with
Husserl and Fink, Phaenomenologica 66, M. Nijhoff, The Hague 1976).
46. E. Husserl, Phänomenologie und Antropologie in Aufsätze und Vorträge (1922-1937), Husserliana, vol. XXVII.
47. Idee II, p. 453.
48. Ivi, p. 494-495.
49. Ivi, p. 551.
50. 1 Cfr. A. Ales Bello, «Human World -- animal World. An Interpretation of Istinkt in some late Husserlian
manuscripts», in Analecta Husserliana, LXVIII (2000).
51. Idee II, p. 582.
52. Ivi, p. 579.
53. Per la trattazione di questo tema rimando al mio saggio, Fenomenologia e metafisica, in «Seconda Navigazione
-- Annuario di Filosofia 2000, Corpo e anima, Necessità della metafisica» Arnoldo Mondadori, Milano 2000,
pp. 171-219.
54. Cfr. A. Ales Bello, «La questione di Dio nella prospettiva fenomenologica», in Dio e il senso dell'esistenza
umana, a cura di Louis Romera, Armando editore, Roma 1999, pp. 101-134.
55. E. Husserl, Lineamenti di etica formale, tr. it. di Paola Basso e Paolo Spinicci, Casa Editrice Le Lettere, Firenze,
2002, p. 86. Per un commento all'etica di Husserl anche in rapporto all'etica di Kant, si può consultare
Fenomenologia della Ragion Pratica -- L'etica di Edmund Husserl, a cura di Beatrice Cenci e Gianna Gigliotti,
Bibliopolis, Napoli 2004.
56. Per lo sviluppo di questo tema rimando al mio articolo «Edmund Husserl. Cristo e il cristianesimo. Meditazioni
filosofico-religiose», in Cristo nella filosofia contemporanea, II. Il Novecento, San Paolo, Cinisello Balsamo,
2002, pp. 11-30.
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Nicoletta Ghigi
Dalla Vorhandenheit all'eidetico: una riflessione
sul superamento fenomenologico
dell'atteggiamento naturale
1. Premessa
La questione del superamento dell'atteggiamento naturale, vale a dire in generale di tutti i
tipi di pregiudizi che hanno caratterizzato la storia della scienza, è il Leitmotiv di tutte le
opere husserliane. Sommariamente, possiamo dire, nella Filosofia dell'aritmetica tale
superamento si configura come indagine genetica dei concetti dell'aritmetica contro
l'assunzione preconcetta di ogni atto costitutivo; nelle Ricerche come scoperta delle
idealità e della legalità nei vissuti coscienziali e quindi della logica come teoria di tali
processi da rifondare in forma rigorosa; a partire dalle Idee in avanti esso si delinea come il
mettere in luce che le idee preconcette abbiano limitato nella storia della filosofia il sorgere
di una filosofia autentica, ossia di una fenomenologia trascendentale; ed infine nella Crisi
si imputa alle scienze che si sono affidate a certezze basate su presupposti, la responsabilità
della crisi delle scienze stesse.
Il «fattore negativo» da combattere resta dunque sempre lo stesso: il presupposto e le
assunzioni di presupposti alla base delle scienze; in una parola l'ingenuità
dell'atteggiamento naturalistico, che assume come dati i concetti operativi di cui la scienza
si serve nelle sue funzioni. Poiché questo essere-dato «non può bastare» ad una
fondazione rigorosa delle scienze, secondo Husserl bisogna che i filosofi si assumano il
compito di portare i concetti della scienza a nuova chiarezza dal punto di vista
gnoseologico; in altri termini occorre «tornare alle cose stesse»1 e guardare ai fondamenti
per rintracciarvi le stratificazioni di senso in cui originariamente l'uomo intendeva
spiegare i fatti della realtà e, soprattutto i meccanismi in cui la mente conosce. Qui e
soltanto in tutto ciò può essere cercata la verità perché solo nelle operazioni elementari che
la mente compie vivendo i suoi stessi atti psichici, risiede il senso.
La battaglia contro il presupposto si delinea dunque essenzialmente come l'obiettivo di
trovare il senso effettivo delle cose, il quale appunto soltanto in un atteggiamento critico
non-ingenuo può trovare le sue vere radici.
2. La critica alle scienze
Iniziamo dalla fondazione non-ingenua delle scienze. Essa richiede innanzitutto una
preliminare «purificazione» del concetto di scienza, nell'estrapolarla dal contesto ingenuo
del pensiero naturale, il quale ne «oscura» e ne «dilegua» la vera identità. Il primo passo
per scoprire il senso non-ingenuo della scienza si configura dunque come una sorta di
sospensione dell'atteggiamento naturale.
Boehm ha delineato tale cammino articolandolo in quattro tappe2 che conducono ad una
sospensione del giudizio (epoché) dell'atteggiamento ingenuo (naiv) e preparano il terreno
ad una «fondazione eidetica» e poi «fenomenologica», della conoscenza.3 Attraverso tale
cammino, si procede all'«epurazione» dei concetti operativi dell'indagine scientifica da
tutte le assunzioni acritiche del pensiero naturale, per far luce sul concetto stesso
d'indagine prima ancora che esso sia utilizzato dal pensiero scientifico. Ed è proprio
dell'oggetto primo di ogni indagine, ossia delle evidenze e, di conseguenza, del concetto di
evidenza,4 che le scienze fanno un uso ingenuo.
Sebbene, infatti, la scienza progredisca sistematicamente accrescendo le proprie
conoscenze, essa tuttavia non mai rivolto le proprie indagini ai propri fondamenti e,
paradossalmente, proprio per la mancanza di strumenti, che ne possano garantire
l'assoluta certezza. «In verità, asserisce Husserl, le scienze mancano proprio di quella
piena razionalità, che è costitutiva per l'idea di scienza»5 poiché si ergono su asserzioni che
presuppongono una datità e un'evidenza indimostrate o assunte come tali.
«Le loro teorie, precisa ancora Husserl, sono invero costruzioni prodotte nell'evidenza; ma
l'evidenza usata ingenuamente conduce a concetti e proposizioni fondamentali, che nella
conseguente utilizzazione provocano contraddizioni».6 Ma in che cosa consiste l'evidenza
non-ingenua?
Premettiamo che secondo Husserl il significato di evidenza proposto dalla tradizione
filosofica classica è stato fondato sui concetti di dogmaticità e, soprattutto, di positività e
che, di conseguenza, la ricerca scientifica, a maggior ragione quella psicologica in quanto
ha fatto leva proprio su tale concetto operativo di evidenza, ha sempre assunto la
definizione tradizionale dell'evidenza, senza mai discuterne il fondamento. 7 Il pensiero
ingenuo che ne è scaturito ha così prodotto un metodo per cui «il conoscere come facoltà
originaria (il conferimento di senso, la fondazione dell'essere) degli oggetti noti, non
perviene alla sua legittimità teoretica»,8 ma soltanto ad una chiarezza ingenua basata
sull'evidenza «naturale» o «della positività».
Di ben altra natura è l'evidenza della originaria chiarezza trascendentale dell'origine
(Evidenz der transzendentalen Ursprungsklarheit) «in cui l'origine della produzione
gnoseologica (Erkenntnisleistung), celata nell'evidenza della positività, viene resa
manifesta con il suo orizzonte della motivazione originariamente determinata e delimitata
e così viene compresa dalle origini».9 Eppure nonostante la sua originarietà questa
seconda specie di evidenza non ha ancora garantito quel carattere di apoditticità tipico
della criticata «evidenza positiva».10 È necessario perciò cercare un nuovo senso di
apoditticità che si contrapponga a quello «ingenuo-dogmatico» dell'«evidenza positiva».
«L'evidenza che noi abbiamo, scrive Husserl, ci si deve anche giustificare in quanto
evidenza, ossia noi ci dobbiamo persuadere che la nostra intenzione conoscitiva... rende
veramente effettivo di per sé il conosciuto e che è data... senza le corrispondenti
componenti della autodatità (Selbstgegebenheit)».11
La caratteristica di un'evidenza che ci offre la datità del conosciuto direttamente ed in
maniera, per così dire, «passiva» (cioè senza che la «nostra intenzione conoscitiva» debba
attivare ulteriori processi gnoseologici), fa sì che l'evidenza sia un'evidenza «adeguata»,
ossia che lasci intravedere, anche se solo idealmente, l'idea di compiutezza propria del dato
che si dà (che si evidenzia). Tale carattere di adeguatezza dell'evidenza12 sembra essere
operativo sia nel campo apodittico-positivo sia in quello apodittico non-positivo.
«Possiamo descrivere questa proprietà dell'evidenza adeguata anche come la sua
apoditticità... Perciò possiamo utilizzare entrambe le espressioni come equivalenti...».13
Se vogliamo che la filosofia sia la scienza vera e universale, ipotizza Husserl riguardo
all'Anfangsproblematik, bisogna dapprima ritornare a riflettere laddove si è lasciato
erroneamente qualcosa per scontato. In questa dimensione che Husserl chiamerà eideticotrascendentale, l'apoditticità dell'evidenza «non-ingenua» si identificherà con la
percezione soggettiva dell'autodatità del dato.
Oltre alla problematica dell'evidenza, secondo Husserl, un altro aspetto da liberare
dall'ingenuità è la distinzione fra la causalità propria della coscienza e quella naturale,
idealmente concepita come tale, di cui fa uso la scienza. Qual è la vera causalità? Oppure,
detto diversamente, quale può dirsi la causalità effettivamente «costitutiva»?
«Il causalismo radicale (streng) che la scienza della natura pretende per l'intero regno
della natura, sostiene Husserl, sembra togliere la libertà che l'agente persistentemente
premette e mette in azione», mentre «a questa natura appartiene anche la sovrastorica vita
dell'anima...»14 È il «pregiudizio naturalistico» ad aver tralasciato gli aspetti più propri
della «sfera spirituale», inquadrandoli in un angusto spazio psicologico come quello
rappresentato dallo spirito o dall'anima naturalmente obiettivata.
Per la filosofia naturalista infatti, spiega Husserl, «l'essere psichico non è un mondo a sé,
esso è dato come "io" o come momento di coscienza (Erlebnis) dell'io (per altro in un senso
molto diverso). Esso si mostra parimenti legato per un modo di esperienza ad un
complesso di cose fisiche che diciamo "corpo"; questo è pure un dato immediato e
naturalmente evidente».15 Per di più, secondo quest'immagine dello spirito indagabile in
maniera scientifica, gli avvenimenti dell'anima «concorrono in un annodamento
regolarmente ordinato con la corporeità»,16 quasi seguendo quelle leggi naturali i cui dati
di fatto ne rivelano la dipendenza.
Ma ad un'analisi per così dire «storica», ossia condotta sottoponendo ad un attento
controllo le modificazioni del ricordo che avvengono nella sfera dell'io, questo tipo di
causalità rappresentata dall'aspettativa di una certa realtà naturale, si rivela assolutamente
insufficiente. Infatti lo studio della causalità naturale segue un andamento regolato dai
nessi di causa-effetto, mentre nella sfera dell'io il meccanismo causale è determinato
principalmente dal tempo naturale della coscienza nel suo «tendere ad una meta», ossia
dalla sua Zielmäßigkeit. In altri termini, spiega Strasser, «per il fenomenologo è
sicuramente (freilich) significativo un altro fatto, che non si lascia spiegare secondo la
causalità delle scienze della natura: la Zielmäßigkeit della nostra concreta vita di
coscienza».17
Se, per l'appunto, nell'ambiente (Umwelt) si verifica un sostanziale «causalismo» di tipo
naturalistico che accompagna tutti i fenomeni come dati di fatto, accanto a questo è
all'opera anche una causalità motivazionale propria della coscienza, che ha una struttura
completamente differente in quanto la scansione degli avvenimenti è descrivibile solo a
partire dalla spinta propulsiva che un determinato interesse provoca singolarmente in un
individuo. Ciò è assolutamente improponibile per la «filosofia naturalistica» secondo cui,
come osserva Husserl, «ogni ente ha una natura psico-fisica, ossia è determinato da una
legalità costante» che sembra escludere qualsiasi spinta propulsiva e, di conseguenza,
automaticamente le unità coscienziali, immanenti-intenzionali, incluse nella coscienza.
Per questa ragione, afferma Husserl, la «filosofia naturalistica» perviene in ultima analisi
ad una «naturalizzazione della coscienza» e alla «naturalizzazione delle idee».18
Anche lo storicismo ha messo in luce questa questione che «deriva dalla scoperta della
storia e dalla fondazione delle scienze dello spirito».19 Questo «fenomeno», come lo
chiama Husserl, pretende di occuparsi dei fatti della vita empirica ponendo «in modo
assoluto il vivere psichico, senza naturalizzarlo direttamente»,20 ma giungendo alla fine
alle medesime conclusioni di «naturalizzazione» proprie della filosofia naturalistica.
«Weltanschauung e filosofia della Weltanschauung, scrive appunto Husserl, sono
formazioni culturali che avvengono nel volgere dello sviluppo umano e poi svaniscono; qui
il loro importo spirituale è determinato e motivato fra le relazioni storiche date. Ora lo
stesso vale pure per le scienze rigorose. Ma si sottraggono esse per ciò stesso ad ogni
validità oggettiva?»21
In altri termini, sembra domandarsi Husserl, per ovviare alla «naturalizzazione della
coscienza» e quindi all'oblio della spiritualità e della motivazione che animano il vivere
della coscienza, è necessario ricorrere al «soggettivismo estremo» a cui approda lo
storicismo? Quale valore avrebbe in questo caso la «causazione motivazionale» del mondo
dello spirito, se la sua fondazione scientifica divenisse storicamente relativa e, quindi,
oggettivamente inconsistente?
Chi, come l'autentico storicista, esclude l'esistenza di un determinato sistema e nega la sua
universale validità scientifica, esclude la possibilità di una validità assoluta in generale,
tanto della storia quanto delle scienze. Ed allora, quale senso avrebbe combattere la
riduzione della coscienza a «fatto naturale», se ad essa non viene contrapposta
un'alternativa scientifica pronta a sostituirne i fondamenti naturalistici che ne hanno
sempre impedito una corretta valutazione?
La saggezza della Weltanschauung ha certamente un grande valore, «ma si dovrà
dimostrare che, riguardo all'idea di filosofia, bisogna pur soddisfare ad altri valori, che
sono superiori da certi altri punti di vista, ossia ai valori di una scienza filosofica».22
Infatti, mentre ogni tempo ha una saggezza e quindi una sua idea di Weltanschauung,
l'idea di cui ha bisogno un'autentica fondazione delle scienze dello spirito deve proporsi
come assolutamente valida nel tempo poiché la scienza deve essere intesa come «il titolo di
valore assoluto intemporale».23
Viceversa, omettendo tale verità e, in particolare, riconducendo ogni manifestazione
nell'angusto ambito della causalità naturale, la «filosofia naturalistica» ha impedito
all'originale causalità del regno dello spirito di esprimersi. Così facendo, oltre a
fraintendere la diversità strutturale delle due causalità, ha anche alimentato un certo
«scetticismo» nei confronti di una filosofia radicale, dando vita alla creazione di filosofie
«spirituali» come lo storicismo assolutamente prive di validità scientifica.
«È certo una grande e bella cosa "intendere" la vita spirituale dell'umanità, avverte Husserl
riferendosi direttamente all'intendere storicistico. Ma purtroppo anche questo intendere
non può esserci di aiuto, né deve essere confuso con l'intendere filosofico che deve svelarci
gli enigmi del mondo e della vita».24
Per tale ragione, contro lo storicismo che finisce per «intendere il soggetto filosofante
come interamente determinato dall'esterno, senza contatto col suo proprio pensiero e
votato allo scetticismo, arguisce Merleau-Ponty, ... Husserl vuole riaffermare la razionalità
al livello dell'esperienza... Si tratta di trovare un metodo che permetta di pensare insieme
l'esteriorità che è il principio stesso delle scienze dell'uomo, e l'interiorità che è condizione
della filosofia, le contingenze senza le quali non c'è situazione, e la certezza razionale senza
la quale non c'è sapere».25 «L'impulso alla ricerca non deve provenire dalle filosofie ma
dalle "cose" e dai problemi».26
3. La via cartesiana
Compiuta la prima riduzione, ossia affrancato il concetto di evidenza dall'ingenuità ed
aperta la strada alla fondazione scientifica della «causazione motivazionale» propria del
mondo spirituale, si presenta subito una nuova problematica da porre in questione (in
termini fenomenologici, da «ridurre»), che riguarda l'essere del mondo per noi. Infatti, se
si trattano gli avvenimenti in relazione alla coscienza nei suoi diversi tipi di causazione
emerge spontaneamente la questione dell'essere degli avvenimenti stessi, della loro
autentica realtà e questo «essere del mondo per noi» richiede, secondo l'analisi
fenomenologica, una scrupolosa indagine «riduttiva».
Tale seconda forma di riduzione, corrispondente alla prima vera via verso la sfera
trascendentale, consiste nell'inibire, sulla scorta del dubbio scettico di Cartesio, «ogni
interesse all'essere del mondo, cosicché nel nostro campo visivo entri la soggettività
trascendentale».27 Dunque seguire «rettamente» la via cartesiana equivale a raggiungere
la possibilità di immettersi immediatamente in un campo trascendentale a patto che, come
per la critica all'ingenuità del pensiero scientifico, siano sollevate obiezioni ad una
caratterizzazione «positivo-naturale» e venga eliminato ogni pregiudizio filosofico verso
una conoscenza filosofica autentica.
Intanto, fin dall'inizio di questo percorso è necessario sottoporre a critica l'io riflessivo in
modo da inibirne le intenzioni percettive, perché «ogni percezione spaziale della cosa (che
abitualmente è denominata percezione «esterna»), può rivelarsi deludente, sebbene essa
giunga al suo proprio senso per mezzo di una diretta autoprensione (Selbsterfassung)».28
Del resto, «di principio nulla è nel percepito e del percepito puro e adeguato»29 e anche il
percepire più netto ed indubitabile può rivelare delle «manchevolezze» strutturali.
Ora, a prescindere dall'eventuale precisazione per cui in questa forma di «riduzione» i
concetti di apoditticità e adeguatezza vanno inquadrati in relazione ad una visione non più
naturalistica, ma in relazione ad una visione libera dall'ingenuo «sguardo positivo»
all'apparente datità del mondo, bisogna rilevare che ciò nonostante in questo primo passo
fenomenologico sopravvive una certa ingenuità. Tale «difetto» è causato principalmente
dalla spontaneità del confidare nella «completezza» (qui inequivocabilmente sinonimo di
adeguatezza) della percezione quando invece, come mostra la dubitabilità iperbolica di
Cartesio che Husserl estende anche all'esperienza percettiva, tale «completezza» è
inficiata dal carattere «presuntivo» della percezione stessa. Pertanto la percezione che
ingenuamente risulta «completa» deve essere ritenuta gnoseologicamente inaffidabile.
Questa «manchevolezza» della percezione e la conseguente ricaduta nell'atteggiamento
ingenuo sono dovute essenzialmente al nostro modo di rapportarci alle cose, che sembra
contraddistinto dal restringimento della percezione nella particolare categoria chiamata da
Husserl «anticipazione» per cui «in continuazione noi diciamo: "il" mondo, e lo esperiamo,
unico e medesimo, come autoappreso in carne ed ossa, sebbene questa autoprensione
(Selbsterfassung) è in toto semplice anticipazione...».30 «Anticipare» la percezione del
mondo significa che, secondo la nostra «visione anticipata», il mondo risulta con le
fattezze di un fatto «pre-percettivo», ossia come un qualcosa che precede la percezione
naturale spontaneamente connessa alla rappresentazione del mondo ed, inoltre, che in
questa «visione» l'oggetto-mondo è ipotizzato come ciò che si offre in carne ed ossa
(leibhaftig) prima di ogni esperienza percettiva.
La limitazione gnoseologica della percezione all'anticipazione offre una certa conoscenza
del dato e dell'oggetto-mondo ma, se si osserva più attentamente e si tenta di cogliere
globalmente un aspetto particolare dell'oggetto-mondo, si verifica l'apparire continuo di
ulteriori fatti che rendono tale esperire perennemente (immer wieder) imperfetto.31 Nel
caso in cui si cerchi di individuare un particolare qualsiasi, infatti, bisogna ricorrere ad
ulteriori anticipazioni, che limitano di nuovo l'esperienza percettiva alla percezione di un
solo aspetto e mai del fatto globale. Ciò è dovuto ad un limite costitutivo dell'esperienza
percettiva che è costretta negli argini della conoscenza dei singoli aspetti.
Di fronte a tale limite e per accrescere in qualche modo le possibilità gnoseologiche
dell'esperienza percettiva, Husserl adotta come possibile antidoto l'espediente della
«correzione». Tale espediente consiste nell'«aggiustamento» continuo dell'osservazione di
un determinato oggetto secondo «approssimazioni progressive», che rendono sempre più
completa la «visione» reale. Eppure anche questo «aggiustamento» non conduce alla
verità primordiale, bensì solo ad un «così appare, così allude ad essere», che si rivela
essere «soltanto espressione della effettiva struttura della nostra esperienza universale». 32
In un certo senso quindi, la «correzione» favorisce un'approssimazione valida alla
conoscenza effettiva del mondo, pur tuttavia risulta ancora di per sé insufficiente per la
completa «prensione» cui tende l'esperire per natura. Che il mondo esista in quanto ne
abbiamo una percezione immediata, scrive Husserl, «sarebbe un'idea -- che però significa
che esso d'altro lato è tout court impensabile come percepibile in maniera adeguata».33
Si potrebbe perciò dire, in riferimento all'esperienza percettiva, che la completezza
concerne l'incompletezza del percepito (ossia la visione parziale di esso) e, insieme, la
completezza del percepibile (la compattezza del polo oggettuale). Nel contempo però va
detto che, nonostante questo carattere in qualche modo assoluto e relativo dell'esperienza
percettiva, anche una volta che sono state «corrette» le sue manchevolezze, il processo
percettivo risulterà ancora inadempiente e questo, secondo Husserl, per un «difetto
filosofico» storicamente radicato nell'esperienza gnoseologica generale. «Mentre io
percepisco il mondo e quindi esperisco, e percepisco in ancora più grande pienezza,
mentre, dunque, esso è per me consaputo in una infrantumabile certezza come autodato,
della cui esistenza io per eccellenza non posso dubitare, esso rivela una persistente
contingenza gnoseologica e cioè del senso che questa autodatità in carne ed ossa non
interdica mai ad esso il non essere di principio».34
Il problema della manchevolezza dell'esperienza percettiva dunque non è solo relativo alla
sua struttura, per così dire «difettosa», ma è anche conseguente alla presupposizione,
derivata dalla filosofia cartesiana, dell'esistenza del mondo dogmaticamente assunta come
tale. In altri termini, in conformità a tale presupposto e perciò stabilendo che io posso
dubitare del mondo come autodato, quando decido di metterlo in dubbio stabilisco ipso
facto apoditticamente che esso è così come io lo intendo. «In tutto ciò, precisa
ulteriormente Husserl, consiste l'insopprimibile contingenza dell'affermazione "il mondo
è"».35
Alla luce di questa conclusione, la chiave di volta per ottenere la visione (Einsicht)36
effettivamente autentica della realtà consiste nel mettere tra parentesi tanto il nostro
rapportarci al mondo, quanto l'essere del mondo stesso e non già, nel cercare di risolvere i
problemi essenziali restando ancorati a principi assolutamente infondati, come il pensiero
filosofico ha fatto finora. D'altra parte, se non si mette in dubbio l'esistenza del mondo,
non si può dire nulla circa i suoi fondamenti e si finisce per accettare il mondo come dato
costruendone così una conoscenza di esso ingiustificata e contingente. Per contro, se si
intende la conoscenza del mondo come un continuo esperire della percezione originaria,
si intraprende «correttamente» la via iniziata da Cartesio e si porta a termine l'autentico
scopo del dubbio iperbolico. Inoltre, solo così procedendo e cioè mettendo in dubbio ogni
«dato di fatto», si rende esplicito il pre-gnoseologico della percezione esterna che sarà
l'esperienza per poter raggiungere l'auspicata «visione originaria» delle cose.
Ora, per sondare le effettive carenze di una simile esperienza e dopo aver scoperto
l'inaffidabilità di ogni presupposto gnoseologico riguardante in generale i «dati di fatto»,
occorre rivolgersi alla principale fonte della conoscenza di tali dati, cioè alla cosiddetta
«percezione esterna».
A tale fine premettiamo che questa percezione per Husserl s'identifica con la percezione di
un qualsiasi accadimento esterno in grado di «riprodurre» l'accadimento come tale, nella
sua realtà (nel suo processo dell'accadere). Ma, per conferire un valore scientifico alla
«percezione esterna» nonostante la sua strutturale «manchevolezza» per cui, come si è
mostrato, un fatto è sempre «visibile» solo da un lato e mai globalmente, occorre
sottoporla ad una critica che Husserl denomina critica dell'«esperienza mondana». Tale
critica s'identifica in una scrupolosa analisi dell'esperienza percettiva e risponde allo scopo
di eliminare le forme di pensiero stratificate in seguito alla «visione ingenua», per
restituirle il suo aspetto originario.
L'esperienza mondana invece è l'esperienza dell'ovvio, del ciò che «è alla mano»
(Vorhandenheit) e, dunque, di ciò che è apparentemente «improblematizzabile» perché
ritenuto autoevidente. Altrimenti detto, noi ci disponiamo naturalmente di fronte a ciò che
si presenta ai nostri occhi come se la sua effettiva esistenza sia assolutamente indubitabile;
ma, si chiede Husserl, «come sarebbe la realtà, se proprio nulla fosse?»37o, meglio, se
nulla fosse assolutamente come noi pensiamo che sia, al di fuori del nostro percepire?
Per rispondere a tali interrogativi, occorre analizzare più da vicino l'esperienza mondana
della «percezione esterna». L'Io «percipiente» ossia il mio io, in quanto fattore principale
del momento percettivo, si caratterizza da principio come protagonista attivo di questa
esperienza e quindi come osservatore del fenomeno percettivo. Ora, lo stare-di-fronte-allecose-del-mondo da parte del mio io include anche me tra gli oggetti osservati. È infatti
innegabile «che io, nella critica dell'esperienza mondana cognitiva, ho premesso me e la
mia vita esperiente»38 e quindi che anche «io sono un oggetto della mia esperienza
mondana tra gli altri».39
Come può dirsi a questo punto valida, ovvero scientificamente apodittica, una tale
esperienza, se l'esperiente (der Erfahrende) stesso è sottoposto ad una valutazione e cioè è
anch'esso relativo alla mia valutazione?
Per uscire da questo «circolo» Husserl ritiene di dover abbandonare ancora una volta la
nostra visione naturale delle cose. Quello che ci sembra naturalmente effettivo, ovvio o
naturale, va tralasciato e messo da parte. A questo punto però, «non è molto più evidente
il fatto che a questo punto cominciano a spiccare due differenti significati di io?», l'Iosoggetto dell'esperienza e l'Io-oggetto; e che quindi, diviene evidente che quando mi trovo
di fronte alle cose del mondo, trovo anche me come fatto tra i fatti?
A questo punto bisonga comprovare apoditticamente che «l'Io che è soggetto
dell'esperienza sia identico a quello che, nell'uomo, è diventato Io obiettivo»;40 e quindi
dimostrare apoditticamente che nella percezione che ho dei due Io (l'Io-oggetto e l'Iosoggetto), vi sia la loro identificazione come appartenenti ad un identico Io-uomo.
«L'esperire mondano in cui Io come uomo sono oggetto d'esperienza, non è certificabile
invero, scrive Husserl, mentre io sono così in azione, nel contenuto obiettivo
dell'esperienza; ma esso dapprima giunge alla mia prensione (Griff) attraverso riflessione.
Eppure tale esperire risulta nondimeno -- ed in maniera evidente -- il mio esperire, cioè il
mio come di quest'uomo qui».41 Quindi la difficoltà sembra quella di poter assicurare
un'autentica evidenza all'Io-oggetto dell'esperienza, nello stesso momento in cui io
medesimo compio l'indagine su quell'esperire.
«Ma malgrado tutto ciò, spiega Husserl, simili aporie a cui io vado incontro per una più
esatta considerazione, non riesco a lasciar sfuggire la differenza», che si rivela sostanziale
fra i due Io. Nel processo in cui io compio la critica all'esperienza mondana e guardo ad
essa come verso un qualcosa le cui possibilità di spiegazione risiedono nella mia
costruzione ed esplicazione individuale, «sorge in me di fatto la visione apodittica che, in
relazione alla fattualità, il mondo esperito non ha bisogno affatto di essere».42 In altri
termini, il dato che la critica dell'esperienza mondana mette in luce è il fatto che il mondo
come tale, ossia in quanto oggetto della mia percezione, è frutto della mia attività
percettiva e pertanto, in quanto mondo percepito, potrebbe benissimo essere altro o non
essere affatto. «Stabilito dunque ciò, questo mondo potrebbe non essere affatto e non
sarebbe neppure il mio corpo né dunque io come uomo, così non resterebbe alcunché ... Io
sarei e resterei quello della nullificazione di tutto ciò che è mondo...»43
A causa della «apoditticità relativa del mondo», è dunque necessario togliere all'esperienza
mondana ed alla «esperienza esterna» la loro validità apodittica. D'altra parte anche l'iouomo, in seguito al suo far parte di quel mondo percepito, non ha più la possibilità di
collegare la propria soggettività ad un corpo e, quindi, anche esso deve essere inscritto
nell'orizzonte della contingenza gnoseologica.
Ma, di fronte a tale esito della riflessione, sorge spontanea la domanda: che cosa resta di
apodittico, se si è stabilito con certezza che «nessun essere temporale è riconoscibile in
apoditticità»?44 È vero infatti che una volta messa in crisi l'esperienza mondana si è
raggiunta la consapevolezza della relatività della conoscenza e quindi dell'essere del
mondo. Eppure è altrettanto vero che proprio in virtù di una tale relatività (Husserl parla
di «apoditticità relativa del mondo»), traspare il polo «non più mondano» in cui la
contingenza del conoscere diventa un'esperienza assolutamente apodittica. Si tratta della
Selbsterfahrung, ossia della visione apodittica dell'Io che vede apoditticamente la
contingenza gnoseologica del mondo.45
4. Dal mitico-pratico al teoretico
Riflettendo sulla conoscenza del mondo e sulle difficoltà ad essa conseguenti cui ha
condotto la via cartesiana, secondo Husserl si apre la possibilità di intravedere un nuovo
percorso. «Ho pensato la seconda via come derivante dal contrasto fra la visione del
mondo mitico-pratica e la visione del mondo guidata dall'interesse teoretico».46
Questa nuova via, che egli chiama «la seconda» fondendo in un unico percorso il
cartesianischen Weg e la Wissenschaftskritik, ha la stessa finalità delle precedenti vale a
dire l'eliminazione dell'ingenuità dal pensiero scientifico, ma un diverso punto di partenza,
che l'analisi fenomenologica rinviene nelle originarie formazioni del pensiero mitico.
La «visione mitico-pratica del mondo» corrisponde all'inizio del pensiero allorquando le
prime formulazioni astratte del pensiero umano si sono strutturate in funzione del
conoscere. Da allora il mondo ha cominciato a rivelarsi gradualmente come «il mondo
dell'esperienza». Nello stesso tempo la ragione, guida di tale esperire, da un iniziale stadio
«spassionato» (nüchtern) si è incamminata verso la propria «autoconsapevolezza» ed
«autocostituzione» nelle vesti di ragione dossica o ragione logica. Nella «visione del
mondo guidata dall'interesse teoretico», chiarisce a tale proposito Husserl, «si trova il
proprio inizio: la stabilizzazione dell'esperienza e conoscenza pure e teoretiche e della
concezione «spassionata» del mondo, da cui la cultura autonoma... sorge nella «ragione»
spassionata e sotto la guida della ragione dossica».47
Il cammino del pensiero degli inizi si è mosso da principio in connessione con gli interessi
pratici e con le intenzioni generali che hanno permesso la costituzione di norme e costumi.
È nata così la logica come «scienza degli inizi». Ora, al fine di poter nuovamente
«purificare» il pensiero, in questo caso nel campo della logica, dall'ingenuità della «visione
naturale» che ne ha reso inoperanti le caratteristiche più autentiche, è necessario
ripercorrere le tappe della «formazione logica originaria dell'umanità» secondo l'originaria
ragione «spassionata», e «ricreare», così propone Husserl, «un altro inizio».48
La logica degli inizi era animata da un unico scopo, quello di conoscere e di trovare
soluzioni efficaci per il mondo quotidiano. Per tale ragione l'attività teoretico-speculativa si
è sviluppata in funzione pratica. La visione intellettuale, le norme, la scienza e, in generale,
la conoscenza hanno avuto come scopo principale quello di dar luogo, da un lato ad un
mondo controllabile e dall'altro, quello di controllarlo formalmente riconducendolo entro
un in un contesto logico-razionale. Per questo, nel corso della storia umana, ha preso
forma l'idea di costituire una «scienza assoluta dei principi», in grado di garantire la verità
universale delle affermazioni soggettive.
«Lo sviluppo dell'idea di una Mathesis formale, spiega Husserl, conduce oltre la pura
dottrina delle forme dei significati ad un'analitica specifica- come logica della
contraddizione. Da qui procede la via verso la logica della verità formale».49 Tale logica
appunto ha come scopo quello di produrre «proposizioni giudicative» (Urteilssätze) e di
esprimere così «verità giudicative».
Tuttavia, la difficoltà di questa operazione formale risiede nel fatto che, pur riuscendo a
connettere proposizioni a verità giudicative, una simile logica non garantisce affatto la
«costituzione effettivamente vera» di giudizi e proposizioni. Infatti, sebbene queste ultime
verrebbero ad assumere una forma assolutamente valida, così come i giudizi, esse non
riuscirebbero ad adempiere l'iniziale esigenza che aveva animato lo sviluppo di una scienza
come la logica. Tali proposizioni e tali giudizi, cioè, non rispondono al quesito di base che
la logica sottende, vale a dire non soddisfano l'urgente bisogno di trovare una
corrispondenza tra verità logica e cose «reali», a cui fra l'altro la logica fa riferimento.
Per colmare una tele lacuna, suggerisce Husserl, sarebbe opportuno provare a
«recuperare» il momento «pre-formale», in cui la logica avrebbe dovuto offrire solamente i
mezzi argomentativi alle domanda sulla realtà delle cose. «Stando nella positività
abbiamo... il mondo predato (vorgegebene Welt) e possiamo trovare in esso il prevalutativo mondano attraverso una decostruzione (Abbau)».50 Grazie a questo
procedimento «decostruttivo» è possibile risalire alla «predatità» del mondo e soprattutto
alle strutture formali che lo costituiscono come «predato». «All'apriori di un'esperienza
concordante e dell'essere esperito (nel Logos), precisa ancora Husserl, corrisponde, nel
grado più alto, l'apriori di una valutazione e di un'azione concordante e non come di un
mondo in quanto dato di fatto... bensì di un mondo ideale...».51
Un tale «apriori del mondo» equivale ad un mondo ideale che intende «il mondo non dato
come dato di fatto» e cioè come un episodio semplicemente certificato dall'esperienza che
si verifica «al di fuori», ma piuttosto come «costituito» dalla logica umana e dalla cultura,
per la comunità umana.
Sarebbe questo il senso autentico, contrapposto a quello ingenuo, che la logica dovrebbe
cercare di «recuperare» nella «genuinità» (Echtheit) della vita umana e nel suo correlarsi
ai fatti e al mondo. E d'altra parte solo in questa ottica, a partire cioè dalla scoperta
dell'autentica finalità della logica originaria, è possibile ravvisare in essa la Zielmäßigkeit
umana (la tensione umana alla realizzazione ideale) ed il senso autentico dell'essere del
mondo.
Che cosa succederebbe se invece venisse sollevata la questione del «per sé» del mondo al
di là della sua idealità che Husserl ha risolto in un definitivo a priori? Il problema
sembrava non presentare aporie riguardo al concetto di mondo contenuto nel passo sopra
esaminato come «mondo ideale» il cui «in sé» in verità non è necessario, visto che «un
mondo non ha bisogno di essere» né di avere una «verità in sé».52 Tuttavia, riflettendo più
approfonditamente sulla questione, si vedrà emergere un altro importante aspetto a cui il
percorso husserliano fa riferimento e che offre della concezione del mondo, oltre
all'apriori, un'ulteriore prospettiva.
Spontaneamente noi immaginiamo il mondo facendo riferimento ai fatti ed alle cose che
vediamo. Secondo questa «visione spontanea» il mondo ingloberebbe in sé ogni fatto e
dunque sarebbe «un insieme di fatti». Ma in realtà se è vero che si rivela nei fatti, è anche
vero che il mondo si rivela in questi non nella sua «totalità», bensì solo in alcuni suoi
aspetti, cioè nella sua singolarità. Inoltre, siccome la singolarità, come abbiamo già avuto
modo di dimostrare, non si dà in maniera definitiva e una volta per tutte, la prensione del
mondo che con esso si attua, avviene solo in concomitanza con la prensione di un orizzonte
del singolo fatto, il quale a sua volta rivela una sola ed unica faccia della realtà. Per questa
ragione penetrare l'orizzonte di un accadimento implica che oltre al fatto si colga la
singolarità del mondo a cui l'orizzonte si richiama.
Cerchiamo di chiarire questo punto. Precedentemente si è stabilito che la «visione del
mondo» è visione di un fatto del mondo e di un «singolo» suo aspetto. Di conseguenza,
conoscere il singolo aspetto di un determinato fatto implica il raggiungimento di una
«visione orizzontale» e «limitata» del mondo. Per questo la conoscenza si configura come
una continua prensione di orizzonti e, quindi, di fatti la cui individualità illumina solo una
singola zona del contesto-mondo.
Ora però, dato che il mondo «come totalità» ha un orizzonte «totale» in cui si rispecchiano
tutti gli orizzonti dei fatti, viene spontaneo chiedersi: si tratta di un orizzonte infinito o
delimitato e finito? Qualora infatti sia infinito, come si evince dall'affermazione che i fatti
accadono illimitatamente e sono essi a garantire la «compattezza» al mondo, allora
l'orizzonte del mondo come «totalità» sfugge ad ogni prensione. Nel caso in cui viceversa
sia finito, come risulta immediatamente se è considerato come «contenuto» e dunque
limite dei fatti, allora diventa possibile una sua prensione.
La risposta all'intricata questione sembra contenuta in un Manoscritto che Gerd Brand ha
preso in esame nel suo studio sul problema del mondo in Husserl. «La rappresentazione
del mondo, si legge in questo Manoscritto, non è una rappresentazione fra le mie
rappresentazioni. Essa è un movimento e una sintesi universale nel movimento di tutte le
mie rappresentazioni, tale che tutto ciò che in essa è rappresentato si riunisce nell'unità del
mondo, come unità di qualcosa che è reciprocamente implicato, il correlato dell'unità, che
si è prodotta e che progressivamente si produce di tutte le mie rappresentazioni...».53
Questa «unità di qualcosa che è reciprocamente implicato» e che progressivamente si
produce producendo a sua volta rappresentazioni, dà modo di connettere sia l'aspetto
infinito (nell'infinita capacità di venir rappresentato), sia quello finito (nella sua peculiarità
di essere «correlato dell'unità») dell'orizzonte del mondo. Per questo Brand definisce il
mondo come qualcosa che «non può essere ritrovato nella stessa direzione degli orizzonti»,
bensì come ciò che è «al di sopra e al di là degli orizzonti, un terreno e un fine».54
Secondo tale affermazione, la questione dell'apriori sollevata all'inizio può essere risolta in
questi termini: il «per sé» del mondo deve essere concepito come il suo orizzonte e la sua
idealità, che è la trascendenza del mondo stesso. Il suo apparire, sottolinea la
Trentaquattresima Vorlesung, è infatti «un apparire trascendentale»,55 ossia un apparire
che «noi cogliamo» ed entro cui «noi cogliamo». La struttura di tale apparenza ci permette
pertanto di cogliere l'essere del mondo come «orizzonte del nostro cogliere stesso» mentre
penetriamo gli orizzonti che costituiscono il mondo. «Il mondo è una specie di «visione»
del mondo (Weltanschauung)»,56 sottolinea di nuovo Brand, ma, soprattutto, orizzonte
«in sé», che si offre come terreno per l'esperienza dell'io e funge da terreno al dispiegarsi
degli orizzonti.
Alla luce di una tale conclusione, sembra possibile poter descrivere l'essenza del mondo
come l'avere un orizzonte e l'essere un orizzonte per l'io che, nel suo sfondo, appunto
perviene alla conoscenza della totalità. La «disponibilità» del mondo perciò permette ogni
movimento dell'io; ogni singolarità, di conseguenza, s'iscrive in questo terreno.57
5. La via oltre le ontologie positive
In un'Abhandlung del 1923 intitolata Via verso la fenomenologia trascendentale come
assoluta e universale ontologia attraverso le ontologie positive e la positiva filosofia
prima, Husserl riannoda le fila della sua critica alla scienza, tracciando un percorso
attraverso «l'ontologia positiva» e «la positiva filosofia prima». Questa riflessione è rivolta
a superare il relativismo della scienza ed a ritrovare le sue radici ontologiche. A tale scopo
Husserl insiste ancora sulla distinzione fra il significato «positivo» e quello
«fenomenologico» di ontologia, questa volta chiamando in causa problematiche
«ultrascientifiche».
Che cosa intenda per «positività» lo ha già chiarito nella «critica alle scienze», quando ha
definito «positiva» la «visione naturale» strutturata su un'evidenza ingenua del mondo.
Ma in più, in quest'ultima «via», che Husserl indica come ulteriore allontanamento della
visione «scientifica» da quella «ingenua», il cardine della distinzione tra «positivo» e
«fenomenologico» sembra incentrato sulla puntualizzazione che non si dà un senso
relativo di ontologia, come vorrebbe l'indagine scientifica, bensì soltanto un concetto di
ontologia «trascendental-fenomenologico con valenza di universalità».58 In questo ordine
di idee, occorre chiedersi: che cosa significa ontologia positiva e relativismo ontologico da
un lato, e ontologia e universalità ontologica, dall'altro?
Per rispondere a questa domanda innanzi tutto è necessario riflettere sulla premessa
fenomenologica che l'essere non sia obiettività da indagare sulla base di qualsivoglia
presupposto ma, al contrario, che l'essere sia il vero primo oggetto di un'autentica
ontologia (come «scienza dell'essere»). Tale avvertimento permette di distinguere i
differenti concetti di ontologia «positiva» e «fenomenologica».
L'«ontologia positiva», per tutto ciò che si è già detto sulla «positività», è una «struttura
relativa» ad un preesistente impianto filosofico, ossia un'asserzione scientifica sulla realtà
delle cose, che rimanda a delle premesse non giustificate e, dunque, oscure e infondate.
L'«ontologia trascendentale», per converso, «è eo ipso fondata su se stessa e richiede poi,
di nuovo da se stessa, uno svolgimento graduale (Stufenbehandlung) a cui si dirige per
assicurarsi la propria sistematica completezza ed allo stesso tempo per oltrepassare la
propria originaria ingenuità (un'ingenuità di un livello più alto)».59 Ciò comporta che tale
forma di ontologia, che per questa sua radicalità Husserl definisce l'autentica o «genuina»
(echte Ontologie), sia da intendere già come scienza assolutamente prima in quanto si
interroga sulla struttura dell'essere e dei fondamenti dell'essere stesso.
D'altra parte, come si precisa nella conclusione della citata Abhandlung del 1924, il
significato «autentico» di ontologia deve coincidere con la definizione di ontologia «come
scienza delle necessità apodittiche», che «altro non è che la sistematica costruzione...
dell'idea di scienza».60 È proprio in virtù di questa sua essenzialità, che tale ontologia
permette il superamento del relativismo, poiché indica con i suoi principi la strada «che ci
assicura il dominio su tutte le relatività, su tutte le correlazioni dell'essere. E ciò può
realizzarsi e deve divenire possibile, nel costruire sistematicamente a priori l'essenza della
soggettività trascendentale in un sistema».61
Grazie a questa sua struttura, pertanto l'«ontologia genuina» garantisce la priorità in sé e
l'immediatezza di una scienza prima e assoluta rispetto ad ogni altra formazione
scientifica e, per questo inoltre è in grado di divenire il punto di vista di riferimento fermo
e a priori per qualsiasi scienza. Per tali ragioni, una volta raggiunta la sua completa
fondazione, l'obiettivo di questa ontologia diviene quello di indagare tutta la sfera
originaria e, in particolare, la «forma originaria» (Urform) che guida le azioni e le
intenzioni umane, al fine di assicurare ad esse una fondazione strutturale, assolutamente
autentica.
Ora, ci si chiede: come si struttura tale «forma» che solo un'ontologia originaria riesce a
prendere in esame in maniera radicale?
Secondo un'indagine storica, sembra rilevare Husserl,62 fin dalla reazione socraticoplatonica alla sofistica, era sembrato evidente a filosofi greci che una sorta di «idea
conduttrice» (die Zweckidee) animasse ogni riflessione filosofica sui fondamenti e
promuovesse lo sviluppo scientifico. Ora, in seguito alle riflessioni filosofiche successive ed
in particolar modo ad opera dello scetticismo, questa grande scoperta è stata fraintesa e
soffocata e così è andata perduta la vera essenza della «filosofia prima».
Eppure, replica Husserl, in ogni agire umano è ben esplicita la presenza di una «tensione a
qualcosa»; vale a dire, è sottintesa una «meta dello spirito» (i geistigen Ziele) che vivifica
l'agire umano, pur senza esprimervisi apertamente.
Ebbene, quantunque i filosofi del passato abbiano avuto coscienza di questa «meta ideale»
che in ogni tempo anima lo spirito umano, non hanno tuttavia riconosciuto
«filosoficamente» tale forma e così hanno lasciato «intematizzato» un aspetto essenziale
della filosofia prima. Recuperare tale momento però è ancora possibile, secondo l'analisi
fenomenologica, qualora si riscopra quell'elaborazione spirituale volta ad un fine
(Zweckidee) che sta a fondamento di ogni azione e giudizio umano. Husserl parla a questo
proposito di Ideenwerke63 e distingue una comune da una individuale «tensione-versouno-scopo-ideale» (Selbstzweck o Selbstwert) attraverso cui poter ripercorre a ritroso la
«causalità spirituale» che provoca l'agire, per metterne in luce i fondamenti. Ritiene inoltre
che, in tale indagine, sia possibile riscoprire l'essenza della causalità umana che risiede nel
«progetto preliminare» (Vorentwurf), da intendere unicamente come oggetto di una
scienza radicale ovvero di un'ontologia «vera e genuina», che si occupi della verità
originaria e non dei suoi inautentici surrogati.
Perseguire un obiettivo così radicale impone ad Husserl l'esigenza di soffermarsi sulle
origini remote della «formazione concettuale» e di renderne manifesti gli aspetti, per così
dire, «generanti». Negli scritti raccolti sotto il nome di Zur Phänomenologie der
Intersubjektivität, ritorna sulla questione del superamento della naturalità e, questa volta,
da un punto di vista «interno», cioè affrontando il problema a partire dalla formazione del
concetto stesso di naturalità. A questo riguardo Husserl osserva che originariamente ogni
«funzionalità» dell'io è un consolidamento della naturale mentalità secondo la quale il
mondo ha certe caratteristiche e determinate aspettative. Tale «formazione mentale» deve
poi essere valutata prima che ogni relazione dell'io divenga consuetudine e presupposta
come indiscutibilmente data. Solo in tale maniera è possibile raggiungere l'obiettivo di
poter osservare la «formazione concettuale» e, soprattutto, di poter ravvisare in essa
l'emergenza dell'esperienza originaria.
Prima di passare oltre, valutiamo intanto analiticamente il percorso che Husserl ci indica
per il raggiungimento di tale obiettivo. Come punto di partenza raccomanda di prendere in
esame «la natura originaria come tema da sviluppare in infinitum e da connettere in se
stesso compiutamente».64 Ma, anziché affrontare l'aspetto che spontaneamente si
dipanerebbe e che ci porterebbe di nuovo alla «visione ingenua» del pensiero naturalista,
fa presente che occorre osservare gli oggetti dell'esperienza originaria «nel loro modo di
apparizione, nel loro essere davanti alla mia esperienza ed il modo in cui essi determinano
la mia sensibilità per mezzo del loro apparire ecc.».65
Husserl chiama questo orizzonte d'esperienza «sfera originaria» a cui appartiene lo
«sperimentare la natura» «come si distingue nella mia esperienza originaria: prima di
tutto la natura sperimentata in quanto essente e poi «svalutata» come non essente, cioè
chiarita come non valida...».66 La «sfera originaria» quindi contiene ad un tempo la
percettibiltà degli oggetti ed il «darsi della natura» svalutata nel suo essere. «Esperienza
originaria» significa infatti sperimentare e determinare l'evidente come noto, come
«afferrabile», ossia determinare i mezzi percettivi che occorrono all'esperienza stessa.
Nella «sfera originaria» poi natura ed esperienza originaria si intersecano continuamente
offrendo, in certe connessioni, l'essenzialità. Quando l'esperienza, ad esempio, riporta il
darsi degli oggetti della natura in contatto con la sensibilità, quando cioè si offre il concreto
e la sua descrizione in cui cade anche la soggettività concreta, si ha come risultato una
totalità indivisibile. «Questa, afferma Husserl, è la soggettività concreta, la concreta
oggettività ridotta alla mia esperienza originaria è identica alla concreta soggettività come
mia esperienza originaria».67
Il processo riduttivo della concreta oggettività consiste nel sottintendere la «predatità»
degli oggetti, senza tematizzarla nella sua forma antepredicativa. È questa una sorta di
«appercezione muta» (Husserl parla di «modo non attivo»68) da cui si diramano continue
affezioni pratiche, le quali offrono l'orizzonte d'esperienza, la «sfera originaria», in tutte le
dimensioni. L'appercezione tuttavia, spiega ancora Husserl, può acquisire una certa
intenzione solo qualora entri in gioco la «reattività» dell'io «come senziente volente
(fühlend wollenden)».69
A questo punto si realizza la tematizzazione e la piena attività dell'esperienza originaria,
qui trasformata in esperienza intenzionata e appercepente. Ora, un passo prima di tale
riduzione70 ed uno appena dopo la «predatità», s'incontra l'attività dell'io che, come si è
detto, è ancora «muta». In tale «attivizzarsi» dell'essere reattivo l'io «dà» il suo modo
d'essere concreto, la sua «primordialità», oltre cui è impossibile spingersi. In questo
settore, dove ogni ingenuità è stata fugata, afferma Husserl, sono inclusi tutti i modi di
coscienza nella loro principale funzione di portare «qualcosa a validità e ciò che è valido in
essi appartiene esso stesso inseparabilmente a tutti questi modi di coscienza, ad un
insieme esperito ed esperibile».71
La primordialità dunque è l'assoluta originarietà ultima, l'ultimo «concreto» da cui poter
partire per nuove indagini al di là del concreto, ma in un certo qual modo sempre nel
concreto. L'io come fonte originaria di luce e, al contempo, come luogo da illuminare,
espone l'evidenza come autodatità e in quest'esperienza del tutto concreta e assolutamente
autentica (non-ingenua) illumina il passaggio ad un mondo (e come tale ad un concreto) di
autodatità ed evidenze, la cui principale struttura è l'assolutezza. Da un punto di vista
tematico questo passo era già stato anticipato in Untersuchungen ma, in quel caso, l'attesa
assolutezza era di ordine logico; qui invece il campo delle evidenze concerne piuttosto un
orizzonte «eidetico» di assolutezza con il quale l'analisi fenomenologica deve
necessariamente iniziare a fare i conti.
Note
1.
E. Husserl, Logische Untersuchungen. Erster Band: Prolegomena zur reinen Logik, in «Husserliana» XVIII,
hrsg. von E. Holenstein, M. Nijhoff, Den Haag 1975, p. 6; ed. it.: E. Husserl, Ricerche logiche, Il Saggiatore,
Milano, 2001, p. 271.
2.
Ales Bello indica un'altra «via della riduzione» attraverso l'intersoggettività verso la «Monadologia» (cfr. A. Ales
Bello, Husserl. Sul problema di Dio, Studium, Roma 1985, pp. 35-40).
3.
Boehm offre questa chiave di lettura che seguiremo, nell'introduzione al secondo libro di Erste Philosophie di
Husserl. Cfr. Einleitung des Herausgebers, in E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie
der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, hrsg. von R. Boehm, M. Nijhoff, Den Haag 1959,
pp. XI-XLIII.
4.
Cercare di definire il concetto di evidenza nella fenomenologia di Husserl è un compito veramente arduo
sebbene essenziale. Molto in generale, si potrebbe dire che nonostante le significative sfumature che sono
facilmente rintracciabili nell'evoluzione del pensiero husserliano, l'evidenza si delinea come la vera essenza delle
cose. Non a caso il §51. di Prolegomena la definisce come «il vissuto della verità» (E. Husserl, Logischen
Untersuchungen, III ed., cit., vol. I, p. 190; E. Husserl, Logische Untersuchungen. Erster Band: Prolegomena
zur reinen Logik, cit., p. 193; ed. it.: E. Husserl, Ricerche logiche, a cura di Piana, Il Saggiatore, Milano, 1968,
vol. I, p. 195).
5.
E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in
«Husserliana» VIII, cit., p. 251. .
6.
Ibidem..
7.
Ib., pp. 232- 235.
8.
Ib., p. 27.
9.
Ib., p. 30.
10. Ib., p. 33. Relativamente alla situazione in cui si verifica la mancanza di apoditticità, poco sopra (p. 32) Husserl
parla di una differenza fra le Evidenzmängel che lasciano aperta la porta ad una tensione alla conoscenza, e le
Evidenzmängel che non lo fanno, accontentandosi quasi di giustapporre pezzi ad un'evidenza e ad una
conoscenza considerate «ad un solo lato».
11. Ibidem.
12. D'altra parte Husserl ne aveva parlato in altri contesti dato che la qualità della «adeguatezza» presenta una certa
rilevanza in ambito gnoseologico (cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, I ed., cit., p. 103; in «Husserliana»
XIX/2, Logischen Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der
Erkenntnis. Zweiter Teil, hrsg. von U. Panzer, M. Nijhoff Publishers, The Hague/Boston/Lancaster, 1984, p.
633; ed. it.: E. Husserl, Ricerche Logiche, cit., II vol., pp. 402-403; dove si definisce un'essentia adeguata «come
un'essentia la cui materia si identifica con quella del significato»).
13. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in
«Husserliana» VIII, cit., p. 35. «Adeguato» può coincidere con «apodittico» in due sensi: il primo ed essenziale
è quello «sensitivo-naturale» (si avverte qualcosa al tatto e questo qualcosa è un'evidenza indiscutibilmente
«adeguata»), il secondo è quello che prende forma nella relazione ideale con ciò che ci si aspetta come evidente
(è quindi una presupposizione ingenua). Ma, nonostante questa precisazione che sembrerebbe distinguere la
non-ingenuità dall'ingenuità dell'evidenza, la frattura fra positivo e autenticamente apodittico, ovvero tra
«adeguato-ingenuo» da un lato e «adeguato-non-ingenuo» dall'altro, sembra netta e di conseguenza non è
chiaro se per Husserl «adeguato» è un aggettivo trasferibile anche al piano «non-ingenuo» oppure solo
consegnato all'ambito positivo-naturale delle scienze. Il problema sorge forse in conseguenza dell'equivocità
semantica del termine «adeguato», che probabilmente Husserl intende come sinonimo di «dogmaticamente
presupposto». Per esplicitare maggiormente la questione egli introduce la problematica dell'Adeguazione
immanente, affermando fin dalla prime battute che questa apporta un'apodittica datità (ib., Beilage XXVIII alla
53. Vorlesung, pp. 465-472).
14. Ib., p. 231.
15. E. Husserl, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», p. 298; in «Husserliana» XXV, p. 13; ed. it., p.
19. A proposito del concetto husserliano di Erlebnis e della sua significativa differenza con quello diltheyano,
Ales Bello osserva che «la diversità è legata al modo di intendere l'Erlebnis; per Dilthey con quella espressione si
intende l'esperienza vitale, come fluire della propria vita con tutti i suoi contenuti psichici e spirituali, per
Husserl il termine si riferisce agli atti, e quindi alle strutture della vita interiore, della coscienza...» (Ales Bello,
Sacro e religioso nella fenomenologia della religione, cit., p. 26).
16. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in
«Husserliana» VIII, cit., p. 235.
17. S. Strasser, Das Gottesproblem in der Spätphilosophie Edmund Husserls, in «Philosophisches Jahrbuch»
LXVII (1958), p. 131. In tale saggio è affrontata in modo esplicito la distinzione fra le due causalità.
18. E. Husserl, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», p. 295; in «Husserliana» XXV, p. 9; ed. it., p.
12.
19. Ib., p. 294; p. 8; ed. it., p. 11.
20. Ib., p. 323; p. 41; ed. it., p. 59. Spesso Husserl definisce la Weltanschauung con i termini di «intuizione»,
habitus, «saggezza». In una nota alla sua traduzione a La filosofia come scienza rigorosa che qui seguiamo
nell'edizione originaria, Filippo Costa aggiunge che tale parola rappresenta per Husserl «una deviazione
psicologico-irrazionalista dell'originario impulso filosofico, una accentuazione della "soggettività" definitiva di
ogni concezione del mondo e quindi la perdita del valore "scientifico" della filosofia stessa» (Ib., pp. 7-8).
21. Ib., p. 324; p. 43; ed. it., p. 61.
22. Ib., p. 332; p. 51; ed. it., p. 71.
23. Ib., p. 333, p. 52; ed. it., 72.
24. Ib., p. 336; p. 56; ed. it., pp. 76-77.
25. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia e scienze umane, tr. it. M.C. Liggieri, La Goliardica Editrice, Roma 1985, pp.
33-34.
26. E. Husserl, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», p. 340; in «Husserliana» XXV, p. 61; ed. it., p.
83.
27. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in
«Husserliana» VIII, cit., p. 127.
28. Ib., p. 45.
29. Ibidem..
30. Ib., pp. 46-47.
31. Si può trattare di un particolare qualsiasi che risulta immediatamente come «estraneo» alla precedente
esperienza.
32. Ib., p. 47.
33. Ib., p 48.
34. Ib., p. 50.
35. Ibidem. Questo è anche il titolo della 33. Vorlesung che qui si è presa in esame.
36. «La traduzione del termine Einsicht, (riprendiamo le parole di Giovanni Piana), dà luogo ad alcune difficoltà
documentate dalle varietà dei modi in cui esso viene reso (intuizione evidente, visione intellettiva, evidenza
razionale, intellezione, intuizione intellettuale, ecc.). In senso del tutto generale, esso indica l'afferramento della
verità come verità (cfr. R. L., I, p. 153: «Ich Einsicht habe, d. i. die Wahrheit selbst erfasse»; cfr. anche R. L., I.,
p. 108). Per questo la Einsicht è l'evidenza stessa in quanto viene colta e appresa. Si è perciò reso con evidenza
oppure, nei casi in cui era necessario sottolineare il carattere dell'afferramento, con comprensione evidente,
tenendo conto del fatto che il senso di einsehen è appunto "comprendere"» (E. Husserl, Ricerche logiche. Nota
terminologica, a cura di G. Piana, cit., p. 553). Anche Ales Bello traduce il termine con «visione intellettuale» (A.
Ales Bello, Husserl e la metafisica, in «Aquinas» XXIII 1980, p. 152).
37. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in
«Husserliana» VIII, cit., p. 69.
38. Ib., p. 70.
39. Ib., p. 71.
40. Ibidem.
41. Ib., p. 72.
42. Ibidem.
43. Ib., pp. 72-73.
44. Ib., p. 398.
45. Ib., pp. 74-75.
46. Ib., p. 252.
47. Ibidem. Il termine nüchtern può essere reso anche con «sobrio» o «obiettivo».
48. Ib., p. 254.
49. Ib., p. 255.
50. Ib., p. 256.
51. Ib., p. 257.
52. Ib., p. 258.
53. E. Husserl, Manoscritto KIII 6, p. 111; in G. Brand, Mondo io e tempo nei Manoscritti Inediti di Husserl, tr. it.
E. Filippini, Bompiani, Milano 1960, p. 59.
54. G. Brand, Mondo io e tempo nei Manoscritti Inediti di Husserl, cit., p. 59.
55. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in
«Husserliana» VIII, cit., p. 53.
56. G. Brand, Mondo, io e tempo nei Manoscritti Inediti di Husserl, cit., p. 59.
57. Questa conclusione si prospetterà insufficiente nel contesto metafisico, laddove la singolarità dell'orizzonte
rivendica una certa autonomia ed una particolarissima forma di intenzionalità.
58. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in
«Husserliana» VIII, cit., p. 219.
59. Ib., p. 217. Qui si prende in esame un'altra Abhandlung del 1924, intitolata Idee der vollen Ontologie, pp. 212218.
60. Ib., p. 218.
61. Ib., p. 228.
62. Ib., Vormeditationen sull'inizio apodittico della filosofia; pp. 3-26. (È necessario però tenere presente che
questo titolo, come gli altri, non è sempre di Husserl ma dell'editore).
63. Ib., p. 207.
64. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Zweiter Teil (1921-1928), in
«Husserliana» XIV, hrsg. von I. Kern, M. Nijoff, Den Haag 1973, Beilage LII, p. 438.
65. Ibidem. È proprio «questo modo» ad offrire la novità fenomenologica, seppure non bisogna dimenticare quanto
«poco pura» sia ancora questa fenomenologia mancante delle riduzioni fondamentali che canalizzerebbero
l'attenzione invece che in relazione dell'ovvio verso l'eidetico.
66. Ibidem.
67. Ib., p. 439.
68. Ibidem.
69. Ibidem.
70. Quello della tematizzazione è un passaggio riduttivo che esclude ancora la naturalità in quanto evidentemente
astratto.
71. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass Dritter Teil (1928-1935), in
«Husserliana» XV, hrsg. von I. Kern, M. Nijhoff, Den Haag 1973, Beilage XXXVII, p. 559.
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