IL POSITIVISMO DI COMTE Il significato di «positivo» Considerata

IL POSITIVISMO DI COMTE
Scienza, donde previsione; previsione, donde azione.
Auguste COMTE
Il significato di «positivo»
Considerata anzitutto nella sua accezione più antica e più comune, la parola
positivo designa il reale, in opposizione al chimerico: da questo punto di vista,
essa conviene pienamente al nuovo spirito filosofico, così caratterizzato dalla
sua costante consacrazione alle ricerche veramente accessibili alla nostra
intelligenza, con l’esclusione permanente degli impenetrabili misteri di cui si
occupava soprattutto la sua infanzia.
Sotto questo aspetto, [la parola positivo] indica una delle più eminenti
proprietà della vera filosofia moderna, mostrandola destinata, soprattutto, per
sua natura, non a distruggere, ma a organizzare.
Lo stadio teologico (o fittizio)
Lo spirito umano mira essenzialmente, mediante la ricerca, allo scoprimento
della natura intima degli esseri, delle cause prime e finali dei fenomeni che lo
colpiscono; in una parola, tende alle conoscenze assolute. Si rappresenta i
fenomeni come prodotti dell’azione diretta e costante di agenti sovrannaturali,
più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega le apparenti anomalie
dell’universo.
Lo stadio metafisico (o astratto)
Gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità (astrazioni
personificate) inerenti ai diversi esseri nel mondo, e concepite come capaci di
produrre tutti i fenomeni che cadono sotto la nostra osservazione, e la cui
spiegazione consiste allora soltanto nell’assegnare a ciascun fenomeno l’entità
corrispondente.
Lo stadio scientifico (o positivo)
Questa lunga successione di preamboli necessari conduce infine la nostra
intelligenza, gradualmente emancipata, al suo stato definitivo di positività
razionale.
Avendo spontaneamente constatato l’inanità radicale delle spiegazioni vaghe ed
arbitrarie proprie della filosofia iniziale, sia teologiche che metafisiche, lo
spirito umano rinunzia ormai alle ricerche assolute che convenivano solo alla
sua infanzia e circoscrive i suoi sforzi nell’ambito, perciò rapidamente
progressivo, della vera osservazione, sola base possibile delle conoscenze
veramente accessibili, sagacemente adattate ai nostri bisogni reali.
La logica speculativa era fino ad allora consistita nel ragionare, in modo più o
meno sottile, secondo principi confusi che, non comportando nessuna prova
sufficiente, suscitavano sempre dibattiti senza esito. Essa riconosce ormai,
come regola fondamentale, che ogni proposizione che non è strettamente
riducibile alla semplice enunciazione di un fatto, particolare o universale, non
può presentare nessun senso reale ed intelligibile. I principi di cui ci si serve
sono, essi stessi, soltanto veri fatti, solamente più generali e più astratti di quelli
di cui devono formare la connessione.
Quale che sia, d’altronde, il modo, razionale o sperimentale, di procedere alla
loro scoperta, è sempre dalla loro conformità, diretta o indiretta, con i
fenomeni osservati che risulta esclusivamente la loro efficacia scientifica. La
pura immaginazione perde allora irrevocabilmente la sua antica supremazia
mentale, e si subordina necessariamente all’osservazione, in modo da costituire
uno stato logico pienamente normale, senza cessare tuttavia di esercitare, nelle
speculazioni positive, un ruolo capitale ed inesauribile per creare o perfezionare
i mezzi di connessione, sia definitiva che provvisoria.
In una parola, la rivoluzione fondamentale che caratterizza la virilità della
nostra intelligenza consiste essenzialmente nel sostituire dappertutto,
all’inaccessibile determinazione delle cause propriamente dette, la semplice
ricerca delle leggi, cioè delle relazioni costanti che esistono tra i fenomeni
osservati. Che si tratti di minori o di più sublimi effetti, di urto o di gravità
come di pensiero e di moralità, noi non possiamo veramente conoscere che le
diverse mutue relazioni, proprie del loro modo di compiersi, senza mai
penetrare il mistero della loro produzione.
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FENOMENOLOGIA E NEOPOSITIVISMO
Per me «esiste» è una forma piuttosto enfatica di «è». […].
Ma quando un filosofo dice: «le sedie e le tavole familiari
esistono», cioè, le sedie e le tavole familiari sono …, aspetto
che egli concluda. Sì? Che cosa stavate per dire che sono? Ma
egli non finisce la proposizione. La filosofia mi sembra piena
di proposizioni incomplete, e non so che farmene.
A.S. Eddington
La scienza e la crisi dell’umanità europea
Approfondiamo la questione del Positivismo attraverso una chiarificazione del
senso del sapere scientifico nel Novecento. Nostra guida sarà una celebre
conferenza pronunciata da Edmund Husserl nel 1935 dal titolo La crisi delle
scienze quale espressione della crisi radicale di vita dell’umanità europea. «Lo scritto,
scrive Husserl, si propone di fondare, attraverso una considerazione storicoteleologica degli inizi della nostra situazione critica, scientifica e filosofica,
l’inevitabile necessità di un rivolgimento fenomenologico-trascendentale della
filosofia».
Nostro compito è ora chiarire che cosa intenda Husserl con l’espressione
«inevitabile necessità» e, insieme, comprendere come la storia spirituale
dell’umanità europea sia colta fin dalle sue origini (in Grecia) in termini di un
«dispiegamento della teoria filosofica» – in cui la filosofia deve essere intesa
come un modo di cogliere «l’essente nella sua totalità». «Questo rivolgimento,
scrive Walter Biemel, rende possibile innanzitutto la nascita delle scienze
europee, che poi vengono sempre più in primo piano e finiscono per
misconoscere i propri riferimenti con la filosofia.»
Prestiamo attenzione a quest’ultima proposizione: il fatto che le scienze si siano
sempre più affrancate dal sapere filosofico – misconoscendo così la loro
origine – può essere interpretato come la radice della crisi che sconvolge
l’umanità europea contemporanea. È questo il motivo per cui lo stesso sapere
scientifico è in crisi, nonostante i suoi continui progressi (si pensi alla
straordinaria rivoluzione che investì la fisica nei primi trent’anni del Novecento
grazie alle teorie di Albert Einstein, Max Planck e Werner Heisenberg). Scrive,
infatti, Husserl: «Sia che la fisica sia rappresentata da un Newton da un Planck
o da un Einstein o da qualsiasi altro scienziato del futuro, essa è sempre stata e
continua ad essere una scienza esatta».
Detto altrimenti: nonostante la teoria dei quanti costringa ad abbandonare,
anche teoricamente, il determinismo caro alla fisica di Galileo e Newton
(costringendo a formulare le leggi in termini statistici), la stessa fisica
contemporanea si fonda sul «progetto matematico della natura» pensato da
Cartesio. Secondo le intenzioni dello stesso Husserl, si tratta allora di
«sottoporre a una critica seria e peraltro estremamente necessaria la scientificità
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di tutte le scienze [il fondamento della loro possibilità, ossia il loro significato
per l’esistenza umana], senza pertanto rinunciare al primo senso della loro
scientificità, quel senso che è inattaccabile data la legittimità delle sue
operazioni metodiche».
Lungi dal voler riassumere in poche battute l’andamento della problematica, ci
limitiamo ad individuare il punto di partenza da cui ha inizio la riflessione di
Husserl e su cui si fonda la necessità di un «rivolgimento della filosofia» in
quanto «sapere originario»: «scienza prima», «scienza regina». Scrive Husserl:
«L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo
complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze
positive e con cui si lasciò abbagliare dalla prosperity che ne derivava, significò
un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità
autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto». E ancora: «La
verità scientifica obiettiva è esclusivamente una constatazione di ciò che il
mondo di fatto è».
«La riduzione positivistica dell’idea di scienza a una scienza di fatti» appare
dunque, agli occhi di Husserl, come il segno della mancanza di fondamento
dello stesso sapere scientifico, ormai sempre più svincolato da quell’orizzonte
di senso – «l’essente nella sua totalità», diceva Husserl – che costituisce il
campo tematico della filosofia. È solo da esso che può essere istituito il sapere
proprio di questa o quella scienza. Da qui l’esigenza di una nuova fondazione
del senso del sapere scientifico, a cui corrisponde una determinazione più
adeguata del senso stesso dell’esistenza dell’uomo.
La riduzione della verità operata dalle scienze positive, una volta che esse si
siano svincolate dal proprio fondamento costitutivo, comporta un
allontanamento rispetto alle questioni che decidono del senso autentico
dell’esistenza. Per dirla con le parole del primo allievo di Husserl, Martin
Heidegger, «colui che, oggi, con vista ampia e libero da pregiudizi, rifletta a
fondo sulla situazione della scienza, giunge necessariamente a una veduta, che,
brevemente, suona così: più diviene forte ed esclusiva quell’ingiunzione che –
attraverso la tecnica, il bisogno di effetti pratici e le necessità politiche – chiama
la scienza a produrre continuamente dei risultati, ebbene più decisamente il
sapere scientifico avrà bisogno della filosofia, se esso vuole sopravvivere a tale
ingiunzione».
La scienza e la riduzione del mondo
Per comprendere meglio la riduzione positivistica dell’idea di scienza, possiamo
leggere il manifesto programmatico del Circolo di Vienna, che fu pubblicato
nel 1929 da Hahn, Neurath e Carnap con il titolo di La concezione scientifica del
mondo.
La riduzione della scienza a scienza di fatti, presupponendo la riduzione della
verità a informazione, comporta il definitivo depotenziamento, se non
addirittura l’eliminazione, del ruolo di guida che spetterebbe alla filosofia
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all’interno della ricerca scientifica. Posto, infatti, che solo una conoscenza
empirica – ovvero «basata sui dati immediati» – determini «il limite dei
contenuti della scienza genuina», «taluni fautori della concezione scientifica del
mondo, per sottolineare ulteriormente la loro contrapposizione nei confronti
dei sistemi filosofici, non vogliono assolutamente più applicare al proprio
lavoro la parola “filosofia”. Non si dà alcuna filosofia quale scienza basilare o
universale, accanto o sopra i vari rami della scienza empirica; non si dà – infine
– nessun mondo delle idee, che trascenda quello sensibile».
In questa prospettiva la natura dell’«unificazione della scienza» progettata dal
Circolo diverge in modo abissale dalle intenzioni proprie di quel «laboratorio
fenomenologico» di cui parlano Husserl e Heidegger in quanto filosofi. Più
precisamente: se la volontà di unificare le diverse scienze positive si fonda sul
presupposto non indagato, in quanto autoevidente, che si dà solo conoscenza
empirica, l’obiettivo del lavoro di Husserl è innanzitutto di indagare il senso
stesso del sapere scientifico: l’ipotesi, infatti, è che il sapere scientifico non
possa determinare unicamente a partire da sé il proprio orientamento.
Aggiungiamo che la crisi del sapere scientifico non può essere ridotta al
problema gnoseologico rappresentato dalla «crisi dei fondamenti» che scosse la
scienza nel primo trentennio del XX secolo. Allo stesso modo l’unificazione
della scienza propugnata dal Circolo non è sufficiente, nella misura in cui la
crisi delle scienze europee non è in primo luogo di natura strettamente
scientifica. Possiamo così affermare che lo stesso Circolo si muove all’interno
di un’interpretazione propriamente positivistica: se, infatti, «parlare significa
ricorrere a concetti, ovvero ricondurre a stati di fatto delimitabili
scientificamente», dobbiamo riconoscere che tanto il metafisico quanto il
teologo non suggeriscono «teorie, informazioni, bensì poesie o miti». Se, infatti,
il senso di ogni asserzione scientifica deve poter essere ricondotto ad un dato
di fatto direttamente constatabile, «il chiarimento delle questioni filosofiche
tradizionali conduce, in parte, a smascherarle quali pseudo-problemi; in parte, a
convertirle in questioni empiriche, soggette, quindi, al giudizio della scienza
sperimentale».
Ora, una volta che la filosofia, che precedentemente deteneva il ruolo di guida
all’interno del sapere, sia stata soppiantata da una visione del mondo – in
questo caso la concezione scientifica – che pretende di fornire le direttive di
fondo per condurre la vita, non sorprende che ogni dimensione dell’esistenza
dell’uomo nel mondo risulti improntata a quell’unico modello interpretativo
che viene ritenuto assolutamente indiscutibile. Secondo le intenzioni del
Circolo, infatti, la concezione scientifica del mondo deve informare di sé «le
forme dell’attività personale pubblica, dell’istruzione, della prassi educativa,
dell’architettura» e contribuire a «promuovere l’organizzazione del vivere
economico e sociale secondo principi razionali», per non parlare poi dello
«sviluppo dei moderni principi di produzione, sempre più affinato in senso
tecnico-meccanico e sempre meno sensibile alle istanze metafisiche».
Ogni nuovo progetto non può che ridursi allora a una riproduzione – a
seconda degli ambiti – dell’unico senso assunto come vero: da qui l’illusione
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dei continui progressi garantiti dal metodo scientifico, nella misura in cui essi
altro non sarebbero che il frutto di quell’unidirezionalità interpretativa. In
questa prospettiva, la stessa variazione del paradigma in cui consisterebbe il
progresso della scienza – una nuova teoria, infatti, garantisce una maggiore
capacità esplicativa rispetto a quella precedente –, può essere interpretata come
ultra-potenziamento di quell’indiscutibile senso che sta a fondamento della
visione scientifica in quanto tale.
La scienza e il futuro del sapere
A ulteriore chiarimento della differenza tra Husserl e il Circolo di Vienna,
possiamo leggere uno scritto composto da Heidegger dal titolo La minaccia che
grava sulla scienza. Dobbiamo innanzitutto osservare che «il testo fu composto in
vista di un lavoro da condurre, entro una cerchia ristrettissima, con alcuni
docenti della facoltà di scienze e di medicina dell’Università di Friburgo
durante il semestre invernale 1937-1938».
Questo lavoro seminariale si proponeva di comprendere l’essenza della scienza
in quanto «costruzione del sapere scientifico»: non dunque l’implementazione
di un’«idea» precostituita di scienza, quanto piuttosto il fondamento stesso
della sua scientificità, del senso del suo sapere. Si chiede emblematicamente
Heidegger: «La scienza e il suo sapere – sono poi davvero necessari?».
Non a caso il gruppo di lavoro creatosi intorno a Heidegger era guidato da un
filosofo: grazie all’apporto della filosofia, la stessa scienza può acquisire, nel
processo di costruzione del proprio sapere, chiarezza e orientamento,
assurgendo così al rango di un sapere vero e proprio, ossia non vincolato a
necessità di ordine politico o ideologico. Perché «nessun sapere scientifico può
sapere, a partire da sé, la forma di sapere compiuta a partire da se stesso»…
In questo senso, unicamente a partire dal riconoscimento del limite interno
proprio di ogni scienza, è possibile che «la volontà verso la meditazione e la
forza del domandare del singolo [scienziato] possano giungere ad un intimo
raccoglimento, a una comune appartenenza e a una fermezza tali che, da qui, e
unicamente da qui, possa nascere una nuova fondazione del luogo della ricerca
scientifica e dell’insegnamento ricercante [l’Università]».
Ora, come interpretare detto «limite interno»? Più precisamente: come
interpretare il senso di questo «limite interno», alla luce dello svincolamento
della scienza dalla filosofia a cui si è fatto riferimento? Continua Heidegger:
«Ma tale limite interno al sapere scientifico non è una mancanza; esso è
piuttosto soltanto l’indice che in essa, ancora non dispiegata, giace un’essenza
originaria – essenza che le appartiene a pieno titolo e che deve divenire viva,
posto che il sapere della scienza, per dirsi davvero tale, debba possedere una
consapevolezza di sé corrispondente alla sua propria essenza. Se la scienza,
nella misura in cui si configuri come un sapere, non dispone di una tale
consapevolezza di sé, allora non sa nulla del suo essere, e quindi non può
neppure sapere che cosa davvero voglia. Forse, una volta che sia ridotto ai
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propri risultati, il sapere scientifico può rendersi praticamente indispensabile;
ma esso non potrà mai mettersi in luce da se stesso in quanto effettività
spirituale capace di configurare (dar forma) e di educare entro la storia del
nostro popolo e perciò entro la storia dell’Occidente e, in generale, del
“mondo”».
Tuttavia, la scienza del Novecento ha finito per specializzarsi e tecnicizzarsi
sempre più, elaborando sempre nuovi «ordini delle procedure chiusi in sé».
Così facendo, ogni scienza (esatta o dello spirito che sia) si è sempre più
ampiamente svincolata dal proprio ambito regionale, proprio nella misura in
cui, scrive Heidegger, «un tale rapporto non è più loro [agli scienziati]
necessario per ottenere dei risultati e soddisfare così le esigenze del loro campo
di ricerca e dei suoi progressi».
Non sorprende infine che la stessa scienza venga «assunta dall’industria» o che
si limiti a essere «una tecnica del conoscere e del pianificare nelle svariate
tecniche e pratiche». Per questo motivo lo svincolamento dal sapere originario
(filosofico) da parte delle scienze, che, «senza la filosofia, sembrano rifiorire, e
guadagnare un’unità in virtù del porsi e del perseguire degli obiettivi [utili]», è il
segno, secondo Heidegger, della volontà di «non-più-pensare, del non volere
pensare né domandare». In questo senso «la minaccia [che grava sulla scienza]
viene dal fatto che ognuno vuole avere (o trovare) nella scienza la propria
quiete, invece d’impegnarsi nell’inquietudine del domandare».
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