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Brano : Ab urbe condita II, 44
Autore : Livio
Originale
[44] Et hic annus tribunum auctorem legis agrariae habuit. Tib. Pontificius fuit. Is eandem uiam, uelut
processisset Sp. Licinio, ingressus dilectum paulisper impediit. Perturbatis iterum patribus Ap. Claudius
uictam tribuniciam potestatem dicere priore anno, in praesentia re, exemplo in perpetuum, quando inuentum
sit suis ipsam uiribus dissolui. Neque enim unquam defuturum qui et ex collega uictoriam sibi et gratiam
melioris partis bono publico uelit quaesitam; et plures, si pluribus opus sit, tribunos ad auxilium consulum
paratos fore, et unum uel aduersus omnes satis esse. Darent modo et consules et primores patrum operam
ut, si minus omnes, aliquos tamen ex tribunis rei publicae ac senatui conciliarent. Praeceptis Appi moniti
patres et uniuersi comiter ac benigne tribunos appellare, et consulares ut cuique eorum priuatim aliquid iuris
aduersus singulos erat, partim gratia, partim auctoritate obtinuere ut tribuniciae potestatis uires salubres
uellent rei publicae esse, quattuorque tribunorum aduersus unum moratorem publici commodi auxilio
dilectum consules habent. Inde ad Veiens bellum profecti, quo undique ex Etruria auxilia conuenerant, non
tam Veientium gratia concitata quam quod in spem uentum erat discordia intestina dissolui rem Romanam
posse. Principesque in omnium Etruriae populorum conciliis fremebant aeternas opes esse Romanas nisi
inter semet ipsi seditionibus saeuiant; id unum uenenum, eam labem ciuitatibus opulentis repertam ut magna
imperia mortalia essent. Diu sustentatum id malum, partim patrum consiliis, partim patientia plebis, iam ad
extrema uenisse. Duas ciuitates ex una factas; suos cuique parti magistratus, suas leges esse. Primum in
dilectibus saeuire solitos, eosdem in bello tamen paruisse ducibus. Qualicumque urbis statu, manente
disciplina militari sisti potuisse; iam non parendi magistratibus morem in castra quoque Romanum militem
sequi. Proximo bello in ipsa acie, in ipso certamine, consensu exercitus traditam ultro uictoriam uictis Aequis,
signa deserta, imperatorem in acie relictum, iniussu in castra reditum. Profecto si instetur, suo milite uinci
Romam posse. Nihil aliud opus esse quam indici ostendique bellum; cetera sua sponte fata et deos
gesturos. Hae spes Etruscos armauerant, multis in uicem casibus uictos uictoresque.
Traduzione
44 Quell'anno vide un tribuno, Tiberio Pontificio, proporre la legge agraria: seguendo pari passo le orme di
Spurio Licinio - come se a lui fosse andata bene -, per un certo periodo riusc? a ostacolare la leva. Di fronte
al rinnovarsi delle preoccupazioni senatoriali, Appio Claudio disse che l'anno prima si era avuta la meglio sul
potere dei tribuni e che la vittoria in quella precisa occasione potenzialmente valeva anche per i giorni a
venire, in quanto allora si era scoperto che esso poteva essere annientato proprio con le sue stesse forze.
Infatti ci sarebbe sempre stato un tribuno desideroso di ottenere un successo personale ai danni del collega
e disposto a conquistarsi il favore del patriziato rendendo un servizio allo Stato. E, all'occorrenza, un numero
pi? consistente di tribuni non avrebbe esitato a spalleggiare il console; d'altra parte sarebbe bastato uno
contro tutti. La sola cosa che i consoli e i senatori pi? in vista dovevano fare era questa: cercare di portare,
se non tutti, almeno qualcuno dei tribuni dalla parte dello Stato e del senato. L'intero ordine senatoriale,
seguendo le istruzioni di Appio, cominci? a dimostrare ai tribuni gentilezza e disponibilit?; e gli ex consoli,
contando sull'influenza che ciascuno di essi vantava sui singoli, in parte con favori personali, in parte con
l'autorit? di cui disponevano, fecero in modo che i tribuni mettessero i loro poteri al servizio dello Stato.
Cos?, quattro di essi, contro un solo e ostinato avversario dell'interesse generale, collaborarono coi consoli
nella realizzazione della leva.Fatto questo, part? la spedizione armata contro Veio, dove si erano concentrati
dei contingenti provenienti da tutta l'Etruria, non tanto per sostenere la causa dei Veienti, quanto piuttosto
perch? c'era la speranza che le discordie interne potessero accelerare il crollo della potenza romana. I capi
di tutte le genti etrusche si scalmanavano nelle assemblee sostenendo che l'egemonia di Roma sarebbe
durata in eterno, se essi non avessero smesso di sbranarsi tra di loro in tutte quelle lotte fratricide. Quello
era l'unico veleno, la sola rovina delle societ? fiorenti, nata per far conoscere ai grandi potentati il senso della
caducit?. A lungo contenuto, vuoi per l'accorta gestione dei senatori, vuoi per la rassegnazione della plebe, il
male stava ormai dilagando in maniera incontrollabile. Di uno stato se n'erano fatti due, con tanto di leggi e
magistrati autonomi in ciascuno di essi. Nei primi tempi c'era un'opposizione accesa e sistematica alla leva e
poi, quando si trattava di combattere, erano pronti a obbedire ai comandanti. Qualunque fosse la situazione
interna, bastava reggesse la disciplina militare per tenere in piedi tutto. Ma adesso disobbedire ai magistrati
era diventata una moda che aveva coinvolto anche il mondo militare romano. Che considerassero l'ultima
guerra da loro combattuta: quando lo schieramento allineato era gi? nel pieno dello scontro, ecco che tutti i
soldati avevano deciso di comune accordo di rimettere la vittoria nelle mani degli ormai vinti Equi, di liberarsi
delle insegne, di abbandonare il comandante sul campo e di rientrare alla base contro ogni ordine ricevuto.
Nessun dubbio che se gli Equi avessero fatto ancora uno sforzo Roma sarebbe crollata sotto i colpi dei suoi
stessi soldati. Non ci voleva molto: una semplice dichiarazione di guerra e una dimostrazione di efficienza
militare. Al resto avrebbero pensato il destino e il volere degli d?i. Queste speranze spinsero gli Etruschi a
scendere in guerra, nonostante la lunga sequenza di alterne vittorie e sconfitte.