La rappresentazione della disabilità nella società dell`immagine

La rappresentazione della disabilità nella società dell’immagine
Le rappresentazioni sociali dei fenomeni nascono e si sviluppano per mezzo dei processi di
interazione e comunicazione all’interno di una collettività. Così come per altri fenomeni che
riguardano l’essere umano, anche nei riguardi della disabilità si è, nel tempo, costruita una
rappresentazione sociale, cioè una percezione condivisa all’interno della collettività, che presenta
alcune specifiche caratteristiche che verranno affrontate nel presente contributo.
A questa premessa bisogna aggiungere, inoltre, che per favorire il sedimentarsi di una
rappresentazione sociale è necessaria una efficace comunicazione sociale. Questa comunicazione,
quindi, svolge un ruolo fondamentale. Molto spesso le modalità con cui si parla di disabilità
generano messaggi e conseguenti comportamenti scorretti: prevale uno stile pietistico oppure eroico
o peggio ancora legato alla cronaca nera.
La disabilità appare di frequente come qualcosa che “non ci riguarda”.
In generale, l’immagine della persona con disabilità risulta, quanto meno, poco rassicurante perché
non inquadrata nei canoni estetici predefiniti e, per questa ragione, non viene accettata.
L’immagine corporea rappresenta il primario aspetto su cui si fonda il pregiudizio nei confronti
delle persone con disabilità. Per la maggior parte delle persone, infatti, il dover rientrare nei canoni
di bellezza e perfezione proposti dalla cultura dominante diventa sinonimo di accettazione; di
conseguenza, la disabilità, in quanto differenza da questo ideale estetico, è non accettazione, rifiuto,
paura.
La società occidentale, fin dalle più remote origini, si è fondata su alcuni canoni estetici incentrati
nell’ottica di una corporeità fondata sulla proporzione e sull’armonia. Proprio per questo motivo,
per molto tempo, ha respinto nelle categorie della “mostruosità” e nella “diversità” quelle persone
che – a causa di menomazioni fisiche, psichiche e sensoriali – si discostavano dai canoni estetici
dominanti. Ad esempio, se si pensa a come venivano interpretati i princìpi della bellezza nella
Grecia classica (a partire cioè dal V secolo a. C.), si può vedere che il modello dominante della virtù
– e quindi della realizzazione sociale – corrispondeva ad una precisa immagine di essere umano che
risultasse conforme ai criteri dominati della “bellezza” e della “bontà” (più propriamente, i termini
greci che indicano questo stato sono “kalòs” ed “agathòs”, ed indicano una dimensione psicologica,
fisica e attitudinale improntata sia sulla bellezza estetica, sia sulla rettitudine morale). Più avanti,
nel Quattrocento e nel Cinquecento, l’antropometria assegna letteralmente i “numeri” della
bellezza, individuando in precisi rapporti numerici la “giusta” proporzione dell’uomo sano e bello;
anche in questo caso, chi non rispettava tali dimensioni veniva segregato in luoghi appartati.
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L’antropometria classica ha una funzione determinante ancora oggi, se si pensa che generazioni di
progettisti ne studiano i princìpi fondamentali.
Con queste osservazioni non si vuole naturalmente mistificare il percorso culturale che ha dato vita
– proprio in virtù di precisi canoni estetici – alle più belle opere d’arte della storia; si vuole solo
sottolineare che questi princìpi – soprattutto quando manipolati da ideologie folli come quella
nazista o da pseudo-scienze come la fisiognomica, atte ad eliminare preventivamente coloro che
non erano conformi all’ideologia dominante – sono stati e possono ancora diventare una vera e
propria arma di esclusione delle persone con disabilità.
Quando, oggi, parliamo di disabilità dobbiamo far fronte a tutto questo bagaglio di immagini che
deriva da un passato molto remoto e che, come già detto, ha plasmato, nel bene e nel male, la
cultura contemporanea. Ancora oggi la disabilità è una condizione che molti tengono lontana dalle
rappresentazioni della vita quotidiana, salvo non accentuarne gli aspetti di straordinarietà, pietismo,
sensazionalismo.
Ma per poter parlare di disabilità bisogna innanzitutto capire cosa vuol dire vivere con una
disabilità. Da qui la necessità di informare ed educare alla conoscenza della disabilità. Questo è il
primo passo per evitare incomprensioni e la caduta in obsoleti stereotipi.
Se partiamo dall’idea che la disabilità è una delle possibili caratteristiche della condizione umana,
allora non si sta parlando di qualcosa di sconosciuto, ma di un’esperienza che tutti nell’arco della
vita potremmo trovarci a vivere e che, in quanto tale, va considerata “normale”.
Questo è un modo del tutto nuovo di affrontare la tematica della disabilità che, invece, come si è
visto, nell’evoluzione dell’immaginario comune sulla disabilità, essa ha rappresentato un male da
estirpare, un fenomeno da nascondere. Fino all’epoca più recente il concetto di disabilità è stato
associato soprattutto alle caratteristiche di debolezza del corpo. Da sempre la compromissione di
funzioni o strutture corporee (definite, di volta in volta “deformità” o “debolezze”) è stata
interpretata come una colpa personale, o ne è stato fatto un uso strumentale finalizzato a suscitare
pietismo.
Negli stereotipi più negativi, la disabilità coincide sempre con la malattia e il corpo è considerato un
corpo bisognoso di cure, terapie e percorsi riabilitativi. L’estremizzazione dell’idea di “guarire” il
corpo da ogni limitazione nel funzionamento corporeo porta a non accettare alcuna “imperfezione”
o “differenza” e la disabilità viene rigettata oltrepassando il confine tra la cura di sé e la non
accettazione della disabilità in quanto differenza.
L’immagine che si è costruita delle persone con disabilità ha messo in risalto soprattutto il limite, la
difficoltà, la sofferenza che caratterizza la presenza di una disabilità: la conseguenza è stata
l’esclusione, la marginalizzazione e, persino, l’occultamento.
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È importante parlare della percezione dell’immagine corporea nella costruzione di una
rappresentazione sociale della disabilità, perché quest’ultima è riconosciuta solo laddove è visibile.
Infatti da alcune ricerche statistiche risulta la forte sottostima, all’interno della popolazione italiana,
della presenza di disabilità cognitive e psichiatriche. Nell’immaginario collettivo la disabilità è
quella che riguarda aspetti fisici e motori.
Guardando, ad esempio, alla recente ricerca del CENSIS1 “Le disabilità tra immagini, esperienze e
emotività” sulla percezione sociale della disabilità, emerge che la disabilità fa paura e c’è una
notevole sottostima della presenza di persone che hanno disabilità in ambito cognitivo e
psichiatrico, in quanto disabilità “non visibili”.
La ricerca indaga la configurazione della disabilità nell’immaginario collettivo in quanto indicatore
dell’accettazione e della considerazione sociale delle disabilità.
È emerso che tra gli italiani la conoscenza della disabilità è abbastanza limitata con una visione
distorta della presenza del fenomeno. Inoltre, risulta generalmente poco considerata la questione
degli anziani con perdita di autosufficienza come parte del più ampio tema della disabilità.
La disabilità, quindi, viene percepita dalla maggioranza degli italiani come limitazione del
movimento: interrogati sul tema, infatti, il 62,9% degli intervistati dichiarano di pensare,
istintivamente, anzitutto ad una disabilità in ambito motorio, mentre il 15,9% pensa ad una persona
con disabilità in ambito intellettivo (dovuta a ritardo mentale, demenza, ecc.) ed il 2,9% pensa ad
una disabilità nella sfera sensoriale (dovuta a sordità o cecità). È invece il 18,4% a pensare ad una
disabilità che interessa più aspetti.
Se si guarda, però, ai dati sulla disabilità in Italia, diffusi dall’ISTAT2 nel 2010 e relativi agli anni
2004-2005, sul totale delle persone con disabilità, il 47,9% presenta una disabilità in ambito
motorio. Le disabilità nella sfera sensoriale riguardano invece il 22,9% delle persone. Rispetto a
quanto rilevato dalla ricerca CENSIS, dunque, pur non essendo possibile stabilire in base ai dati
ISTAT l’incidenza delle disabilità in ambito intellettivo, risultano sovrastimate le disabilità in
ambito motorio, che assurgono nell’immaginario collettivo a simbolo della disabilità.
La ricerca del CENSIS indaga anche altri aspetti legati all’accettazione e alla modalità di
relazionarsi degli intervistati con persone che presentano una disabilità. Emerge che nei confronti di
una persona con disabilità la maggior parte degli italiani prova un forte sentimento di solidarietà,
per tutte le difficoltà che la disabilità comporta (91,3%). Risultati simili si rilevano a proposito del
desiderio di rendersi utili e aiutare (l’82,7%, infatti, dichiara di averlo provato molto) e
dell’ammirazione per la forza di volontà e la determinazione che la persona dimostra (anche in
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Realizzata nell’ambito del progetto pluriennale “Centralità della persona e della famiglia nei sistemi sanitari: realtà o
obiettivo da raggiungere?”, a cura della Fondazione Cesare Serono.
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Indagine multiscopo “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”, realizzata ogni cinque anni dall’ISTAT.
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questo caso, l’85,9% dichiara che ha sentito molto questo sentimento). La metà del campione
(50,8%) afferma di provare tranquillità, di fronte a una situazione ritenuta “normale”.
Ma sono diffusi anche sentimenti controversi, di imbarazzo e disagio: il 54,6% degli italiani prova
paura per l’eventualità di potersi trovare un giorno a dover sperimentare la disabilità in prima
persona o che questa possa essere vissuta da un membro della propria famiglia. È emerso anche il
timore di poter involontariamente offendere o ferire la persona con disabilità con parole e
comportamenti inopportuni (34,6%). Il 14,2% degli italiani afferma di provare indifferenza, perché
il problema della disabilità non li tocca minimamente.
Va evidenziato, inoltre, che le dinamiche di rappresentazione della disabilità subiscono una
notevole differenziazione a seconda del fatto che si parli di disabilità in ambito fisico o di disabilità
in ambito psichico. La disabilità di natura motoria, infatti, tende a suscitare nelle persone
l’immagine di un corpo colpito che è impotente ed incapace di fare, ma che al contempo suscita il
desiderio di adattarsi e/o riscattarsi; di contro, la disabilità nella sfera psichica, concepita, in
maniera estremizzata, come “follia”, suscita un’immagine negativa nella quale la persona è vista
come inadeguata per la società.
Proprio nell’indagine del CENSIS emerge chiaramente che «due terzi degli intervistati ritengono
che siano accettate solo a parole soprattutto le persone con disabilità mentale».
Nonostante la presenza di numerosi pregiudizi, l’atteggiamento nei confronti delle persone con
disabilità è molto cambiato e si sta ancora evolvendo nei giorni nostri, grazie alle numerose
battaglie culturali dei movimenti di persone con disabilità e le loro famiglie e grazie allo sviluppo di
un approccio scientifico allo studio della disabilità.
Oggi, sempre di più le persone con disabilità possono parlare da protagoniste e affermare la propria
identità, la diversità non deve più essere sentita come stigma. Fortunatamente, sempre più spesso si
nota un cambio di prospettiva nel binomio corporeità/disabilità, come testimoniano ad esempio la
diffusione di interesse e considerazione per la pratica sportiva. Il fenomeno sociale e culturale dei
Giochi Paralimpici ne è l’esempio più significativo. Il valore della pratica sportiva e il
riconoscimento delle persone con disabilità in quanto atleti contribuisce all’affermazione di
un’identità adulta per la persona con disabilità, di un’immagine positiva, attiva, di inclusione sociale
e non più legata ad antichi stereotipi di assistenzialismo.
L’atleta con disabilità – del quale viene messa in primo piano proprio la dimensione corporea, ma in
senso diametralmente opposto alla stigmatizzazione incentrata sulla sua negazione – può egli stesso
contribuire a produrre un nuovo immaginario, facendo maturare l’idea che la disabilità, la diversità,
ancorché nel corpo, caratterizza intrinsecamente e trasversalmente l’essere umano. E questo anche
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per effetto di una certa comunicazione mediatica come, ad esempio, la storia dell’atleta Oscar
Pistorius.
Il ruolo dei mass media
Come si è detto, le società spingono i propri cittadini a conformarsi ad un tipo ben preciso di
“normalità” basata sull’idea che esista un modello unico di uomo e di donna cui tutti dovrebbero
adeguarsi per essere riconosciuti e riconoscibili come cittadini a pieno titolo. La spinta verso tale
uniformità, troppo spesso, non lascia spazio alla valorizzazione delle differenze individuali.
Non corrispondere al modello proposto significa avere qualcosa in meno rispetto agli altri. Di
conseguenza, una persona con una disabilità che presenta un’immagine corporea che si allontana da
quel modello di perfezione è considerata “diversa” e, quindi, non accettata.
Nella nostra società, ad esempio, i mass media (la televisione in particolare) hanno
progressivamente assunto un ruolo di rilievo nell’affermazione di specifici ideali estetici, di
immagini di perfezione e di messaggi che rincorrono l’ideale di giovinezza, magrezza, apparenza.
Nello sviluppo e diffusione di atteggiamenti e percezioni riguardo alla disabilità, è importante
quindi analizzare quale immagine viene veicolata e quale influenza questa immagine esercita sul
sentire comune. La finzione che vediamo nei servizi televisivi, che leggiamo sui quotidiani, si
unisce alla realtà vissuta dalle persone con disabilità creando degli effetti in termini di accettazione
o meno del fenomeno.
Naturalmente i mass media, nella maggior parte dei casi, altro non fanno che riflettere le idee più
accettate e diffuse tra i consumatori, per cui solo conoscendo gli stereotipi e pregiudizi sulle persone
con disabilità è possibile capire in che modo i mass media li utilizzano per i propri scopi.
Al principio, le persone con disabilità sono state rappresentate in modo molto negativo. Per un
lungo periodo la disabilità fisica veniva spettacolarizzata associandogli un carattere maligno.
Tra gli anni ’50 e ’60 avviene un cambiamento: le persone con disabilità rappresentano una fetta di
popolazione che suscita pietismo (bisogno di cure e assistenza) o sensazionalismo. Anche la visione
delle persone con disabilità come “eroi”, che si sviluppa a partire da questi anni, porta con sé una
distorsione in quanto non si lascia spazio per altri aspetti che non siano la prestazione straordinaria
o il bisogno di assistenza.
In modo particolare nelle pubblicità è presente una rappresentazione della disabilità che enfatizza la
anormalità degli individui. Ad esempio, spesso alcune associazioni benefiche, che svolgono un
lavoro eccezionale a sostegno delle persone con disabilità e le loro famiglie, hanno però utilizzato lo
strumento del pietismo per catturare l’attenzione sul proprio operato. Questo approccio rinforza
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l’idea che le persone con disabilità abbiano sempre bisogno di essere supportate da organizzazioni
caritatevoli, in quanto inadeguati a vivere nella società con piena inclusione e partecipazione attiva.
Troppo spesso nella comunicazione dei mass media il focus rimane sulla menomazione e non sulla
società che “dis-abilita”.
Il cambiamento auspicabile nella comunicazione sulla disabilità dovrebbe andare nella direzione del
rispetto dell’individualità di ognuno, nella rappresentazione della diversità di esperienza vissute
dalle persone e soprattutto nel rispetto dei punti di vista delle persone con disabilità e loro
consultazione diretta. Una maggiore visibilità in contesti normali di vita quotidiana al fine di
considerare la disabilità come uno degli elementi della diversità umana, l’uso dell’umorismo, posso
tutte essere soluzioni per l’abbattimento delle barriere culturali nell’ambito della comunicazione
sulla disabilità.
I più recenti sviluppi, in modo particolare nel mondo anglosassone, vedono un’enfasi sulle abilità
piuttosto che disabilità, puntando molto sulle attività sportive e sulla normalizzazione del corpo.
Conclusioni
Oggi la sfida per le persone con disabilità risiede soprattutto nella possibilità di guadagnarsi lo
spazio per il riconoscimento (per quanto sembri scontato, in realtà non lo è) della propria
individualità, per pensare e progettare guardando al futuro e nel rispetto del riconoscimento della
normalità. La normalità è qui intesa come diritto ed effettive possibilità di partecipare ai contesti di
vita, assumendo, come tutti, i diversi ruoli sociali: nella scuola, come studente che apprende; nel
mondo del lavoro, come individuo che contribuisce alla produzione, nel contesto culturalericreativo, come fruitore, e così via.
La disabilità è il prodotto dell’interazione dell’individuo con la società; per cui, non è la presenza in
sé di una limitazione nelle funzioni o strutture corporee che crea la disabilità e la non accettazione,
ma è la presenza di barriere culturali e fisiche che impediscono la piena partecipazione delle
persone alla vita sociale.
Le persone con disabilità, come tutti gli altri cittadini e come tutti gli esseri umani, vogliono vivere
nei propri normali contesti di vita, non necessitano di contenitori separati dalla vita e dal mondo.
Come tutti, vogliono essere riconosciuti nelle loro competenze, capacità ed interessi; vogliono
essere riconosciuti nella loro individualità, e proprio come chiunque altro affermano il diritto di
poter parlare da protagonisti.
Nell’epoca moderna non si può lasciare che gli stereotipi legati alla disabilità, condizionando il
giudizio collettivo sulle persone che hanno una disabilità, abbiano un’influenza sulle politiche e
interventi pubblici. Come operatori nel sociale e come individui dobbiamo contribuire
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all’abbattimento del pregiudizio sulla diversità. Se le persone con disabilità sono diverse, la
domanda a cui dobbiamo dare una risposta è: “diverse da chi?”.
Claudia Di Giorgio, Pierangelo Cenci e Anna Vecchiarini
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