Immunologia pediatrica Le immunodeficienze primitive (IDP) rappresentano un gruppo eterogeneo di malattie, per lo più monogeniche, caratterizzate da difetti di sviluppo e/o funzione del sistema immunitario. Nonostante la loro rarità, le IDP hanno svolto un ruolo di fondamentale importanza nella storia recente della Medicina. In particolare, la prima applicazione con successo del trapianto di midollo osseo nell’uomo fu realizzata nel 1968 in un bambino affetto da immunodeficienza combinata grave (SCID) X-recessiva. Nel 1990, Michael Blaese e coll. effettuarono il primo tentativo di terapia genica in una bambina affetta da SCID da deficit di adenosina deaminasi (ADA). A distanza di alcuni decenni, lo studio delle IDP continua a fornire importanti spunti di sviluppo per il progredire dei metodi di diagnosi e cura e per una migliore comprensione della fisiopatologia dell’organismo umano. In questo numero, tre articoli di revisione illustrano alcuni di questi recenti sviluppi. Nell’articolo “Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo”, Pignata e collaboratori sfatano il dogma secondo cui elemento caratteristico e imprescindibile delle IDP debba essere necessariamente rappresentato da infezioni gravi, non selettive, per lo più a localizzazione multipla. Al contrario, nel corso degli ultimi 15 anni è stato chiaramente stabilito che difetti genetici a carico del sistema immunitario possono comportare una predisposizione selettiva nei confronti di singoli patogeni. L’articolo di Cirillo et al. si sofferma in particolare sulla suscettibilità mendeliana alle infezioni da micobatteri e sulla candidiasi mucocutanea cronica, ma altri esempi noti di difetti immunitari “selettivi” comprendono la suscettibilità ad infezioni da piogeni e l’encefalite erpetica. È interessante osservare come in alcuni casi il progresso nelle tecniche di analisi genetica, oggi spesso basate su sequenziamento delle intere regioni esoniche o dell’intero genoma, ha portato a “riscoprire” difetti che la Medicina accademica aveva ormai dimenticato. La candidiasi mucocutanea cronica ne è un valido esempio: riconosciuta come entità nosologica negli anni ’70-’80, era poi “scomparsa” dalla lista ufficiale delle IDP formulata dall’apposito Comitato della International Union of Immunological Societies, salvo poi “ricomparire”, una volta identificati difetti a carico di vari geni necessari per lo sviluppo dei linfociti TH17, principale elemento cellulare di difesa contro la candida. Nello stesso articolo, Cirillo et al. forniscono altri esempi “non ortodossi” di IDP, in particolare caratterizati da disreattività immunitaria, come nelle forme leaky dei difetti dei geni RAG o nelle sindromi con iper-IgE. Questa nuova visione, certo più complessa, ma anche più interessante, delle IDP, impone che il medico abbia un atteggiamento meno conservatore nell’approccio diagnostico alle IDP. Per rimanere invece nel capitolo delle forme tipiche di IDP, e in particolare di quelle a presentazione più precoce e a prognosi più grave (le SCID), un’autentica rivoluzione è stata rappresentata dall’avvento di tecniche di screening neonatale. Tale argomento viene sviluppato nell’articolo di Azzari e coll. Partendo da studi in pazienti con AIDS, Douek et al. avevano dimostrato che è possibile quantificare la produzione di nuovi linfociti T nel timo, misurando nelle cellule del sangue periferico i livelli di T cell receptor excision circles (TRECs), un sottoprodotto del riarrangiamento genico del T cell receptor (TCR). Si tratta di frammenti di DNA che vengono generati durante il riarrangiamento del locus del TCRa. Tali frammenti vengono circolarizzati e persistono nei linfociti TCRab+ che vengono rilasciati dal timo, ma vengono poi progressivamente diluiti durante i processi replicativi degli stessi linfociti T in periferia. Indipendentemente dalla natura del difetto genetico, tutte le forme tipiche di SCID sono caratterizzate da un grave difetto di produzione dei linfociti T. Misurando mediante PCR quantitativa (qPCR) i livelli di TREC presenti nei campioni di sangue raccolti alla nascita su cartoncini di Guthrie, è possibile stabilire se il neonato ha una produzione valida di linfociti T (TREC nei limiti della norma) o se al contrario vi è un grave difetto di produzione dei linfociti T (TREC indosabili o gravemente ridotti). Quest’ultima condizione è fortemente sospetta for SCID e deve indurre ad accertamenti di secondo livello (conta linfocitaria, citofluorimetria a flusso, test funzionali) volti ad accertare in modo definitivo la presenza di una SCID. Lo screening neonatale per la SCID basato sulla determinazione dei livelli di TREC alla nascita è attualmente utilizzato in 17 Stati negli USA e oltre 3 milioni di bambini sono stati già sottoposti a screening. Più di 50 casi di SCID sono stati correttamente identificati in epoca pre-sintomatica, permettendo l’immediato ricorso a misure preventive e risolutive. L’importanza della diagnosi precoce delle SCID è sottolineata dall’osservazione che questa condizione, altrimenti inevitabilmente fatale, può essere trattata con successo col trapianto di cellule staminali ematopoietiche (e in alcune forme anche con terapia genica o con terapia enzimatica sostitutiva). Dati prodotti dalla dott.ssa Buckley alla Duke University e recentemente confermati su una ampia casistica del registro nord-americano del Primary Immune Deficiency Treatment Consortium dimostrano che se il trapianto di midollo osseo viene effettuato in bambini con SCID di età inferiore a 3,5 mesi di vita, la percentuale di sopravvivenza è superiore al 90%. Se questi dati dimostrano l’utilità del test di screening basato sui TREC, va tuttavia sottolineato che il test presenta alcuni lati problematici. In particolare, si tratta di un test che identifica non solo le SCID, ma in generale tutte le condizioni di grave linfopenia T, compresi quindi alcuni casi di Sindrome di George, altre sindromi malformative con coinvolgimento timico (CHARGE, Sindrome di Jacobsen, 197 L.D. Notarangelo ecc), condizioni con perdita di linfociti T nel terzo spazio (chilotorace, grave ascite). Inoltre, valori ridotti di TREC sono stati osservati nei nati prematuri. Tutto ciò pone importante problemi di diagnosi differenziale. Al contempo, forme leaky di SCID possono non essere diagnosticate correttamente dal test di determinazione dei livelli di TREC. Ciò vale in particolare per alcune varianti a esordio tardivo del deficit di ADA. Azzari e la Marca hanno realizzato un test alternativo per la diagnosi neonatale di deficit di ADA basato sulla spettrometria di massa, dimostrandone la superiorità rispetto al test basato sui TREC nel riconoscere queste forme leaky di SCID da deficit di ADA. Con la crescente diffusione della spettrometria di massa nello screening neonatale delle malattie metaboliche, è lecito attendersi ulteriori sviluppi anche nella diagnosi di altre forme di immunodeficienza congenita. Infine, diversi gruppi stanno lavorando alla realizzazione di uno screening neonatale dell’agammaglobulinemia congenita, attraverso la misurazione mediante qPCR dei livelli di KRECs (kappa receptor excision circles), un sottoprodotto del riarrangiamento genico al locus kappa delle catene leggere immunoglobuliniche, che testimonia la presenza di un’efficace linfopoiesi B (difettiva invece nei pazienti con agammaglobulinemia congenita). La combinazione TREC-KREC potrebbe infine permettere il riconoscimento più fine di varianti SCID a fenotipo T- B- rispetto a varianti T- B+, in opposizione a condizioni di difetto isolato dei linfociti B (TREC normali, KREC assenti). L’utilità in termini di costi e vantaggi sanitari e sociali di tecniche di screening neonatale che comprendano non solo i TRECs, ma anche i KRECs è tuttavia ancora da dimostrare. Infine, nel terzo articolo di questo numero, Plebani e coll. presentano un’esaustiva rassegna delle indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi di azione delle immunoglobuline. Nel corso degli anni, vi è stata un’importante evoluzione nelle tecniche di preparazione dei preparati di immunoglobuliniche per uso terapeutico. Con le tecniche più moderne di preparazione, è stato possibile produrre preparati molto più sicuri, ovviando in tal modo a gravi infezioni (come diversi casi di epatite C) verificatisi all’inizio degli anni ’80 in pazienti trattati con immunoglobuline per via endovenosa (IVIG). Nel corso degli ultimi quindici anni, importanti variazioni di mercato hanno imposto un ripensamento sulle indicazioni d’uso delle immunoglobuline. In particolare, a fronte di un numero di donatori di plasma che, seppure in crescita, non è variato considerevolmente, è cresciuto enormemente il numero di potenziali pazienti: basti pensare all’ingresso nel mercato di nuovi paesi consumatori di immunoglobuline, come Cina e India. Particolarmente puntuale è quindi la discussione, affrontata da Plebani e coll., su indicazioni consolidate e impiego off-label delle immunoglobuline. La stessa modalità di somministrazione è stata oggetto di rivisitazione. Oltre a formulazioni per uso endovenoso, si è affermato l’impiego per via sottocutanea, che offre al paziente una maggiore convenienza nel decidere quando effettuare la terapia e soprattutto la possibilità di effettuarla a domicilio. Importanti differenze organizzative e nelle procedure di rimborso delle spese sanitarie da paese a paese rappresentano peraltro ancora oggi il fattore che maggiormente incide sulla ripartizione del mercato interno tra somministrazione per via endovenosa e somministrazione per via sottocutanea. Infine, Plebani e coll. discutono i più recenti sviluppi sui meccanismi d’azione (accertati e presunti) delle immunoglobuline, con riferimento in particolare agli studi di Ravetch sugli effetti immunomodulanti della regione F(ab)2 e sull’interazione del frammento Fc delle immunoglobuline con diversi recettori. Più recentemente, l’attenzione dei ricercatori si è soffermata sulla glicosilazione del frammento Fc, che sembra svolgere un ruolo importante nel determinare gli effetti immunomodulanti dei preparati immunoglobulinici stessi. Si tratta di studi ancora in fase iniziale, ma che potrebbero offrire importanti sviluppi, potenzialmente in grado di modificare in modo radicale la procedure di preparazione e modificazione delle immunoglobuline per uso terapeutico. L’immunologia pediatrica è quindi in continua evoluzione. I tre argomenti trattati in questo numero ne sono un’autorevole dimostrazione. Luigi D. Notarangelo Division of Immunology, Boston Children’s Hospital Harvard Stem Cell Institute, Boston, MA (USA) 198