M. Callari Galli Mondi contemporanei e nuovi processi formativi. Matilde Callari Galli, Mauro Ceruti, Telmo Pievani Pensare la diversità Per un'educazione alla complessità umana MELTEMI Definire l'etnicità A scorrere i giornali, ad ascoltare le trasmissioni televisive e radiofoniche, a frequentare le sale cinematografiche, si ha l'impressione che negli ultimi tempi l'etnicità sia divenuta una presenza pervasiva e dominante. E anche passando da questo sistema di informazione più diffuso a quello più ristretto e specialistico delle scienze sociali siamo colpiti dalla rapidità con cui in questi ultimi anni termini quali Etnia", "etnico", "etuicità" abbiano sostituito, direi soppiantato, i termini di "cultura", "gruppo tribale", "tribalismo": così i testi e le monografie abbondano di problemi inerenti ai "confini etnici", ai «conflitti etnici", alle "politiche etniche", alla "integrazione etnica", alla "stratificazione etnica", alla "cooperazione etnica". La denominazione e la catalogazione dei gruppi studiati è un tema che investe ogni disciplina in modo radicale: in base a quali categorie il gruppo è definito, identificato come gruppo e in quanto tale isolato dagli altri, può anche essere un problema facilmente risolvibile se il gruppo può essere ipotizzato come un gruppo privo di consapevolezza di sé senza dinamiche interne, considerato come un oggetto di studio e non come un soggetto sociale che produce relazioni, rapporti, contesti. Questa enucleazione, considerata per decenni preliminare alla ricerca stessa, diviene poi estremamente complessa se da una visione della cultura, quale sistema olistico e in un certo senso Temporale, passiamo a concepire la cultura come sistema di significati condivisi e intersoggettivi che sono prodotti dagli individui per costruire, interpretare e reinterpretare la loro esperienza. Lo studio antropologico, in un mondo sempre più caratterizzato da contatti reali e virtuali che si svolgono quotidianamente ad un ritmo incessante e vertiginoso, che assiste a continui spostamenti di grandi masse di individui, che vede stabilirsi relazione sociali ed economiche sempre più interdipendenti, non sopporta più il modello, teorico ed ideologico insieme, di gruppi isolati e tribali contrapposti a gruppi dinamici e flessibili. È così costretto a porre al centro della sua attenzione le relazioni che coinvolgono tutti i gruppi rurali, urbani, nomadici che siano - all'interno di un contesto che li coinvolge tutti, anche con un continuo moltiplicarsi di dislivelli, di frammentazioni, di cancellazioni. Questo coinvolgimento che per decenni l'antropologia ha praticato a livello dell'equazione personale dello studioso, con le lunghe ricerche sul campo, con i processi di identificazione con i gruppi studiati che divenivano presupposti metodologici della ricerca stessa, si manifesta ora, a livello teorico, con la necessità di comprendere negli schemi interpretativi gli aspetti "emotivi", "affettivi», dell'aggregazione stessa. E sempre di più i gruppi etnici vengono definiti in base a categorie che riflettano i legami e le aderenze manifestate dai membri stessi: così il contributo più rilevante di molti autori è stato quello di risolvere l'arbitrarietà e l'inaccuratezza con cui si era proceduto nel passato a classificare i gruppi -tribali o etnici-, definendo l'etnicità come un processo soggettivo di identificazione, svolto collettivamente per caratterizzare le dinamiche interne al gruppo e le interazioni con il gruppo stesso. Esaminando lo sviluppo storico del termine in antropologia, notiamo un lungo silenzio nella letteratura, documentato dalla ricerca compiuta da Despres che esaminando nel 1971 tredici importanti manuali, in uso nelle università di lingue anglosassoni, non ha trovato che fossero mai citati i termini "gruppo etnico" o l'aggettivo "etnico". Solo dopo quella data inizia la sostituzione di cui abbiamo parlato e al tempo stesso il dilagare di approcci che pongono in risalto la valenza dell'etnia. Mentre l'espressione "gruppo etnico", sia pure nelle sue applicazioni parziali e limitate a determinate aree, ha una lunga tradizione negli studi antropologici, l'uso del termine di "etnicità" è assai più recente e "lo si percepisce come se fosse ancora in movimento". E se gruppo etnico era nel passato usato in antropologia più che altro come sinonimo di gruppo culturale, oggi si preferisce mettere in risalto la valenza politica dell'eroicità e il gruppo etnico è considerato anche, se non soprattutto come un gruppo di potere che lotta per la sua affermazione. Da molti anni il gruppo etnico è per lo più definito come una collettività che condivide alcuni modelli di comportamento normativo e costituisce una parte di una popolazione più ampia che interagisce con altre collettività all'interno di uno stesso sistema sociale: e appartenere ad una collettività implica dimensioni psicologiche, politiche, storiche ed economiche. Nel gruppo etnico, o meglio nel modo come è stato studiato in antropologia, è possibile individuare delle caratteristiche dominanti: così parliamo di "etnicità come predisposizione naturale", di "etuicità politica", di "etnicità situazionale". Etnicità come predisposizione naturale: la solidarietà primordiale Claude Lévi-Strauss, correggendo una sua giovanile posizione, afferma che la cultura umana è un tentativo costante di differenziarsi rispetto alla natura: non un'opposizione originaria, propria della nostra specie, unica a possedere un sistema di comunicazione, a saper progettare, costruire ed usare utensili, a elaborare regole di comportamento. La cultura umana invece, come ci insegna il moderno sviluppo della genetica, della biologia e dell'etologia, deve essere considerata un"'opera difensiva", messa in atto dalla nostra specie per sopravvivere alla sua originaria debolezza affermando la propria unicità, la propria specificità rispetto a tutte le altre forme di vita. Così, prosegue Lévi-Strauss, la cultura ha scavato un solco incolmabile rispetto alla natura, "perché non si sentiva capace di affermare la sua esistenza, la sua originalità, altro che tagliando tutti i passaggi che potrebbero testimoniare la sua originaria connivenza con le altre manifestazioni di vita". E l'antropologo francese indica anche il percorso - il metodo, si sarebbe quasi tentati di dire seguito per operare questa frattura: l'emergenza della specie umana, la sua rottura con gli altri primati si sarebbe prodotta quando si affermarono, nei nostri lontani progenitori, due regole apparentemente opposte ma in realtà concorrenziali rispetto al medesimo fine: la proibizione dell'autarchia interna e la prescrizione dell'alleanza esterna. La diffusione dell'incesto e della prescrizione dei canali esogamici, rivelano la dipendenza della nostra specie dalla cultura, indicano che sin dai primordi la nostra specie, almeno in parte, si è sottratta all'imperio assoluto di una programmazione del suo destino che fosse tutta legata ad una base istintuale. Allo stesso tempo, tuttavia, questa interpretazione della nostra storia evolutiva indica che l'individuo non può sopravvivere senza che una radicale e pervasiva solidarietà lo leghi ai membri del proprio gruppo: le istituzioni, all'interno di ogni società, rendono attivo ed esplicito questo imperativo di interdipendenza. In alcune suggestive e recenti ipotesi che tentano di coniugare tra loro dati appartenenti alla paletnologia, all'etnologia e allo studio dello sviluppo fisiologico della nostra specie, la nascita della cultura umana è collegata ad un radicale mutamento rispetto alla vita animale: e la cultura, secondo queste ipotesi, inizierebbe a prendere forma quando le femmine di alcuni ominidi nostri progenitori imposero un controllo collettivo alla propria sessualità, rifiutando un rapporto sessuale indifferenziato e stabilendolo - in tempi e luoghi determinati dal gruppo stesso - solo con quei maschi capaci di procacciare il cibo e disposti a metterlo a disposizione dell'intero gruppo. Alla base dal vivere sociale è posto, dunque, quel legame che Clifford Geertz ha definito "solidarietà primordiale": un legame che rivela il forte bisogno di appartenenza che anima tutti i gruppi umani ma che al tempo stesso sottolinea il carattere culturale della solidarietà che lega ogni individuo al proprio gruppo. Il legame infatti non accede al livello reale ma a quello simbolico, in quanto ogni gruppo è il risultato di incontri e di scambi molteplici ed incessanti. Il significato, il valore, i confini di questo legame simbolico, sono estremamente vari, mutando da epoca ad epoca, da luogo a luogo, ma rimane, costante e presente ovunque, il bisogno di credere che esistano aspetti comuni che tengono avvinto l individuo a questo o a quel gruppo. Sono i tratti fisici o le tradizioni storiche, le pratiche religiose o le celebrazioni rituali, i codici linguistici o gli ideali politici che di volta in volta coaguleranno le solidarietà, costituiranno i tessuti dei legami: tuttavia, pur nella grande varietà delle esperienze, rimane costante la tensione di tutte le culture, di tutti gruppi, verso l'assolutizzazione di questi coaguli, verso la loro trasformazione in essenze immutabili, sottratte al cambiamento storico, alla dialettica dei rapporti sociali. Etnicità politica Molte sono le interconnessioni che l'etnicità ha con la politica, intesa come la relazione di potere che domina la vita pubblica: in nome di qualità legate a questa o a quella caratteristica del gruppo - razza, lingua, religione, elaborazione della tradizione - si avanzano pretese su benefici economici, che vanno dagli aumenti nei salari a miglioramenti nei quartieri di abitazione, nel raggiungimento dei livelli di istruzione. Ma il differenziale di potere e la lotta per ridurlo o per aumentarlo, pervade anche la vita privata: i rapporti familiari e amicali, le relazioni di vicinato. E se questa invasione nell'ambito "privato", questa valenza "politica" delle relazioni domestiche era data per scontata nelle società preindustriali e nelle cosiddette società "primitive", oggi è caduta ogni illusione di averla ridotta con l'amento delle società urbane ed industriali. Molte relazioni proprie dell'ambito "privato" apparentemente - e in una certa misura fortunatamente anche sostanzialmente rispondono a bisogni personali e sono prive di valenze di potere diretto ed immediato. Tuttavia è sufficiente ricordare da un lato l'insegnamento di Mauss sul potere delle relazioni di reciprocità e dall'altro l'insegnamento di Marcuse sull'influenza che la dimensione personale e gli aspetti amicali hanno sul successo dei grandi gruppi finanziari ed industriali, sulle carriere dei burocrati e dei politici, per capire il rapporto che lega la dimensione del potere alle diverse appartenenze. A questo proposito va anche notato che le differenze etniche vengono trasmesse - e quindi fatte proprie ed interiorizzate soprattutto nei contesti informali di interazione. La totalità delle rappresentazioni che gli antropologi considerano "etnicità politica", e che in termini concreti si traduce come accesa competizione su risorse scarse, non può essere pienamente compresa a meno che prima non si individui "l'etnicità privata", vale a dire il livello immediato delle lotte e delle competizioni. È nell'assetto familiare, nelle relazioni amicali più intime, che si riproducono i contesti culturali di fondo che costituiscono e formano l'identità: è in questi contesti - familiari, amicali, comunitari - che si nutrono i codici e i linguaggi sui quali si alimenta l'intera comunicazione della differenza culturale. Solo se si comprende pienamente il meccanismo della riproduzione dei codici settoriali, dei linguaggi socialmente discriminanti, si può sperare di capire le ragioni e le modalità in base alle quali l'etnicità può essere modellata in una forza politica attiva entro i codici e i linguaggi delle politiche istituzionali. In questa prospettiva il gruppo etnico è considerato un gruppo di interesse, capace di mobilitazione politica, di strategia di opposizione e di resistenza. Dobbiamo sempre ricordare che l'etnicità è contraddistinta da variazioni di intensità e ciò implica livelli diversi di coinvolgimento politico dei gruppi e dei loro singoli membri. Un'analisi della vita dei quartieri di una metropoli come New York, dimostra che le rivendicazioni, la difesa dei diritti, gli oltraggi, le violenze, seguono molto sovente i confini delle diverse etnie, mentre la stessa analisi svolta in un centro urbano della provincia europea potrebbe anche dimostrare che la consapevolezza del potenziale politico è, nelle diverse etnie che V1 confluiscono, superficiale e non organizzata. Questa accentuazione della valenza politica dell'etnicità rivela il ruolo determinante che le élites intellettuali svolgono nella formazione e nella diffusione dell'identità etnica: la ricerca di antiche tradizioni, la valorizzazione della lingua locale e della sua letteratura, la enfatizzazione del valore di perso naggi del passato, la ricostruzione di manifestazioni artistiche e di modelli di vita quotidiani peculiari e specifici, sono tutti contenuti fondamentali della rivedicazione di una identità etnica che non nascono spontaneamente e che riflettono le aspirazioni e gli interessi di gruppi circoscritti e minoritari. Etnicità situazionale L'interpretazione "situazionale" porta, nell'analisi dell'etnicità, in primo piano il valore del contesto e quindi dà conto della variabilità con cui l'identità etnica è vissuta e manifestata. Anche se l'etnicità è considerata essenzialmente nei suoi aspetti relazionali e processuali, molti autori appartenenti a questa corrente di pensiero tentano di evitare la trappola di chiudersi in una eccessiva aderenza al formalismo. E in effetti esistono limiti notevoli sia nel modello fornito dall'analisi storica che dal modello dell'analisi formalista: la prima rischia di sottovalutare le dinamiche che riproducono e ripropongono l'identità etnica a livello di interazione, la seconda rischia di trascurare processi che coinvolgono forze e interessi che travalicano gli individui e le loro capacità di comprensione e di azione. D'altra parte il richiamo "situazionista" è doveroso in quanto l'etnicità coinvolge aggregati diversi sia da un punto di vista delle loro dimensioni, sia degli obiettivi che delle modalità per raggiungerli. In più il coinvolgimento risponde ad un gran numero di variabili che lo r oc. no dinamico sino alla più estrema fluidità. Inserire nell'analisi sull'eroicità i contesti culturali delle differenze etniche anche se deve essere considerato un compito essenziale, complica notevolmente il quadro sia da un punto di vista teorico che da un punto di vista metodologico. Se sottolineiamo l'aspetto dinamico e fluido dell'etnicità, se valorizziamo fino in fondo il suo carattere situazionale, nessuno, nessun gruppo può escludere di divenire, prima o poi, parte attiva e militante di una qualche forma di etnicità. Inoltre l'inserimento di questo aspetto implica un modo nuovo di considerare le rappresentazioni che dell'etnicità danno all'antropologo i soggetti che la vivono: esse non possono certo sostituire l'analisi antropologica ma in essa devono essere tenuíe in gran conto. Questo compito in un mondo quale quello contemporaneo, caratterizzato dalla diffusione a più livelli della conoscenza, può rivelarsi complicato. I membri di un gruppo etnico studiato da un antropologo, possono non condividere le interpretazioni dell'antropologo, possono opporsi alla lettura che egli dà delle loro lotte per l'identità culturale e per l'autonomia sociale che egli, di volta in volta, definisce "manipolazioni di simboli" 0 "meccanismi per mantenere i confini culturali" o "processi metaforici o metonimici". A parte la considerazione che questo processo potrebbe inficiare il rapporto di fiducia necessario all'antropologo per una raccolta approfondita di dati, il vero problema metodologico consiste nel comprendere nell'analisi e nelle interpretazioni finali l'esplicito rifiuto da parte della comunità di accettare lo schema di interpretazione proposto dall'antropologo. L'etnicità nel mondo contemporaneo Lo studio dell'eroicità è di notevole importanza nell'analisi dei processi di simbolizzazione ed indiscutibilmente è un campo in cui gli antropologi possono dispiegare le conoscenze teoriche e metodologiche accumulate nel corso della storia della disciplina; inoltre è un ambito che pur conservando tutta la storia della disciplina e la sua identità costruita in più di un secolo di ricerche, la immette nello studio sistematico delle società complesse I cambiamenti culturali contemporanei sono illuminati in modo nuovo ed originale dagli approfondimenti offerti da uno studio dell'eroicità compiuto con strumenti afferenti alle discipline antropologiche. Così - per citare solo qualche esempio - è stato chiarito che la formazione di un gruppo etnico in una città contemporanea - dell'Asia o dell'Africa o dell'Europa - implica un riadattamento dinamico delle relazioni e dei costumi tradizionali che non può essere considerato il risultato di un tenace conservatorismo culturale e di una strenua difesa della continuità. Molto spesso ci troviamo, è vero, in presenza di un certo livello di continuità dei costumi e di alcune strutture sociali, ma le loro funzioni, i ruoli e gli status connessi con esse, cambiano in modo drastico e spesso drammatico: e questo anche se ad un'osservazione superficiale la situazione può sembrare stagnante, con un elevato grado di conservatorismo e di rimpianto del passato. Si deve all'analisi di Geertz aver messo in luce, sin dall'inizio degli anni '60, come esistessero negli stati nazionali di nuova formazione, contese che potevano esser fatte risalire ai legami di solidarietà primordiale. E le vicende susseguenti a quegli anni e che riguardano gli esempi da lui analizzati - l'ostilità tra Israele e i Palestinesi, la contesa tra India e Pakistan, tra la Turchia e la Grecia per Cipro, tra la Somalia e l'Etiopia - confermano le sue ipotesi. "Man mano che i nuovi stati consolidano le loro posizioni politiche - scriveva Geertz - le dispute probabilmente diverranno più frequenti e più intense" ed egli prevedeva che l'immediato significato delle differenze primordiali si sarebbe essenzialmente connotato per una conflittualità diretta, quasi domestica e familiare, sebbene molti di essi avrebbero dispiegato importanti implicazioni internazionali. Anche in questo caso l'invito ad analizzare, a capire, a distinguere, non è stato raccolto né dagli "esperti" - e cioè da politologi, sociologi, economisti - né dai comunicatori di massa che nella maggioranza dei casi trascurano gli accertamenti possibili, preferendo riproporre vieti stereotipi, vecchi luoghi comuni, pregiudizi culturali. Così l'informazione superficiale, soprattutto facile, quella che conferma i nostri più radicati pregiudizi e le nostre amate false sicurezze, si riproduce, si salda e si amplifica, diviene imbattibile, confermata da sondaggi, sempre più rapidi e avulsi da ogni contesto, corraborata dal desiderio di conferire dignità ai molti fenomeni di teppismo nei quali trova la sua diretta espressione la violenza indotta, sotterranea ma pervasiva, di una società mistificante come la nostra. Allora si fa riferimento in modo indiscriminato e massimalista alla solidarietà primordiale, che viene usata come un generale schema esplicativo per quanto awiene a Cipro, nelle tensioni tra greci e turchi, o in Giordania, tra giordani e palestinesi, in Indonesia, tra giavanesi e abitanti delle altre isole, in Malesia, tra malesi e cinesi, in Iraq, tra sunniti e sciti. E lo schema presenta un mondo ordinato, in cui ognuno appartiene a raggruppamenti lineari, ben definiti e specifici con cui con facilità riesce ad identificarsi e a mantenersi fedele negli anni: e questo di fronte all'evidenza di censimenti etnografici e linguistici che in una sola regione arrivano a stimare la presenza di centinaia di raggruppamenti etnico-linguistici. Si inventano "etnie ed odii antichi' pacificatori dei nostri 'rimorsi coloniali' fra popolazioni africane di cui ignoriamo la storia anche più recente". La realtà ci dimostra invece che "la rete dell'alleanza e dell'opposizione primordiale - come scriveva negli anni '60 Geertz - è densa, intricata anche se con articolazioni precise, prodotto, nella maggioranza dei casi, di secoli di graduale cristallizzazione. Lo stato civile vissuto come estraneo, nato ieri dai magri resti di un esausto regime coloniale, è superimposto su questo tessuto finemente elaborato e conservato con amore -di orgoglio e di sospetto". Il carattere processuale dell'identità culturale Sembrerebbe quasi che l'identificazione tra gruppo culturale e gruppo etnico, possa farsi risalire oltre che ad una visione di un'antropologia "dell'altro" considerato, a livello epistemologico, separato se non scisso dal «sé", anche ad una interpretazione degli incontri tra le diversità più in chiave di integrazione che in chiave di cancellazione, più in chiave di scambio che in chiave di imposizione e di resistenza. Ed allora sono proprio il fallimento dell'assimilazione, l'individuazione dei crudeli poteri divisori operanti sotto la coltre omologante delle istituzioni educative e dei mezzi di comunicazione di massa, che portano oggi in primo piano la discussione sull'etnicità. È una discussione che assume, nella realtà contemporanea, i toni drammatici degli scoppi di guerre e di violenze a cui non ci adattiamo di attribuire l'aggettivo di "umane". La reazione a schemi totalizzanti, diversi sino all'opposizione più netta ma che si riunificano nella pratica della violenza e del totalitarismo, sostenendo tutti una universalità falsa che corrispondeva solo al processo storico del gruppo occidentale dominante, ha portato in primo piano la necessità di difendere i diritti, il valore, l'esistenza stessa delle differenze: di lingua, di religione, di costumi, di valori, di norme. Tuttavia, come scrive Michel Serres, "nel nome di queste differenze, oggi cento guerre si accendono e infuriano in località singole del mondo, procurando al mondo tante sventure quante ne produssero nella nostra gioventù i conflitti imperialisti estesi al mondo intero. Quasi per rendere il quadro ancora complesso, più ambiguo e contrastato, a queste lacerazione si oppone la consapevolezza che la nostra speranza di sopravvivenza ogni anno di più è legata alla realizzazione di una società che possa, prima o poi, abbracciare in qualche modo, tutte le nazioni, tutte le società, tutti i gruppi: l'inquinamento supera frontiere ed oceani, rende irrespirabile l'aria dei ghetti e dei quartieri residenziali, degli ebrei e dei palestinesi, dei veneti e dei pugliesi: la prosperità economica e la stessa convivenza civile dipendono sempre più dalla distribuzione di istruzione a settori sempre più ampi della popolazione mondiale: e questo mentre l'analfabetismo, nelle sue svariate forme, dilaga, invadendo "noi" e gli "altri"; le armi sempre più sofisticate rendono i conflitti difficilmente localizzabili, dagli effetti imprevedibili; e l'idea di un cataclisma generale provocato dall'uomo, non è più un fantasma gratuito. Nel momento in cui in tutte le regioni del mondo, in Europa, nell'Asia, in Africa e nel continente australiano, i gruppi umani sembrano scoprire radici antiche e ad esse, per quanto vaghe ed arbitrarie appaiano rispetto alla realtà storica, attribuire interpretazioni per il presente e obiettivi per il futuro, l'analisi culturale scopre che l'identità non ha un valore di essenza ma deve piuttosto, e più correttamente, essere considerata uno scenario ampio e mobile, non una realtà acquisita ma un polo dialettico che entra in relazione con un processo di differenziazione costante. Così l'identità culturale non è mai data, non è un'entità che si possiede, ma è sempre e soprattutto un processo, una meta da accertare e da raggiungere, mai un valore statico e scontato. Né può essere concettualizzata come un valore che possa meccanicamente essere tramandato da una generazione all'altra: ammesso che possa essere considerata un valore - ma sarebbe più realistico considerarla, oggi, una modalità di coagularsi e scontrarsi di più valori - va considerata nella sua dinamicità: e ogni generazione, ogni gruppo, deve continuamente riformularla nei suoi termini. Se l'identità, come è stata definita in secoli di pensiero e di storia occidentale sembra obbedire - nel presupposto della sua unità- "ad un'esigenza di conservazione, essa contiene oggi, nell'allargamento del panorama culturale che ha dilatato i suoi attributi - una fortissima esigenza di dinamicità e cambiamento". Torna alla mente l'ipotesi di Max Weber del politeismo dei valori e siamo tentati dai suggerimenti di Maffesoli che vede il processo di identità, delineato da filosofi, teologi, scienziati sociali del passato, essere oggi sostituito dalla molteplicità delle identificazioni, che ci propongono una costruzione della persona dinamica, aperta all'alterità, a contrasto dell'individuo isolato e chiuso nella sua specificità. Introducendo nella nostra analisi la riflessione sulla formazione della personalità il quadro assume toni quasi drammatici, con ognuno di noi sottoposto alle torsioni verso l'universalismo e le spinte contrastanti del richiamo alla propria peculiarità: di lingua, di religione, di costumi, di valori. Ed ecco la denuncia di Tobie Nathan nei confronti di un ingenuo razionalismo, assolutamente inadatto ad assicurare il benessere psichico individuale, che liquida i legami con il proprio gruppo in favore di aggregati indefiniti, sempre più vasti e improbabili. ''Sotto i colpi dell'universalismo' - politico, economico, scientifico, sanitario egli scrive - i sistemi tradizionali di cura sono 'entrati in resistenza', seppellendo i loro gorghi paradossali sotto le sabbie informi della pretesa efficacia universale. Per un ricercatore in etnopsichiatria, non è più sufficiente oggi leggere qualche osservazione etuografica, né partire per osservare sul campo un certo rituale terapeutico 0 raccogliere l'autobiografia di un certo shamano. La verità è che ciò che ancora chiamiamo il nostro 'materiale è andato a rifugiarsi nelle profondità dell'anima del l'individuo. Perché il XXI secolo sarà, senza dubbio, l'era delle migrazioni generalizzate e dell'odio per le differenze". Memoria, trasmissione culturale e forme di comunicazione Identità culturale, identità politica, identità etnica sono espressioni che rimandano, sia sul piano teorico che sul piano metodologico, alla relazione che ogni gruppo umano stabilisce tra memoria collettiva e trasmissione culturale. Sono le forme di comunicazione elaborate dalle istituzioni più o meno formalizzate presenti nel gruppo a fornire all'individuo sia i materiali sia i nuclei di elaborazione per la sua memoria individuale. Questo rapporto è capace di offrire una spiegazione nei processi di trasformazione e di intensificazione che caratterizzano la memoria collettiva di questo o di quel gruppo, di questo o di quel periodo: esso dimostra e sottolinea il carattere sociale della memoria. Come scriveva negli anni venti Maurice Halbwachs, "non esiste alcuna memoria possibile al di fuori dei quadri di cui gli uomini che vivono nella società si servono per fissare e ritrovare i loro ricordi". Per ogni gruppo umano gli eventi del passato raccolti dalla memoria collettiva sono fondamentali per la costruzione della propria unità e della propria specificità . Per lungo tempo la memoria collettiva e culturale di un gruppo umano è stata fatta coincidere con l'esistenza al suo interno della documentazione scritta del suo passato, ma gli studi dell'antropologia più moderna, pur mettendo in luce le trasformazioni profonde che l'invenzione della scrittura, e quindi della storia scritta, ha prodotto nella memoria collettiva e culturale dei gruppi che la possiedono, hanno altamente valorizzato le tradizioni orali che permettono di ricostruire il passato anche qualora manchi la sua documentazione scritta. Jan Vansina, studiando le società africane in era pre-coloniale, ha elaborato una metodologia da applicare alle tradizioni orali che ha permesso di scrivere una storia dell'Africa diversa da quella scritta dall'Occidente. I risultati di questi studi dimostrano che nel periodo precoloniale gli africani,lungi dall'identificarsi in entità tribali monolitiche ed esclusive, "si muovevano in un sistema di identità multiple, definendosi ora come suddito di tale capo, ora come membro di tale culto, ora come esponente di tale clan, ora infine come iniziato a tale corporazione professionale". Questo conferma l'intuizione di Vansina che aveva affermato: Ciò con cui il ricercatore si confronta è in una certa misura un'interpretazione del passato, il prodotto di una continua riflessione, il cui scopo non è trovare 'ciò che veramente accadde' ma stabilire che cosa, in quel passato considerato vero, sia rilevante nel presente". La storia di tutti i gruppi umani esaminata nella sua profondità temporale e nella sua indeterminatezza spaziale dissolve e confonde i confini delle singole comunità, dimostra come ogni gruppo umano abbia incontrato, abbia commerciato, si sia mescolato, si sia opposto a un gran numero di altri gruppi: ogni contesto nazionale o regionale o comunale è in realtà un transito in cui si sono incontrati molteplici linguaggi, in cui si sono confrontati modi di vita diversi, in cui la piccola comunità e la società più ampia confluiscono e si compenetrano l'una nell'altra su più livelli, tanto da rendere difficile dire cosa sia locale e cosa invece non lo sia. E’ caduto oggi il mito antropologico, caro agli iniziatori ottocenteschi della disciplina, dei popoli primitivi privi di storta e immersi nel loro infinito presente. Non è chiaro se questo mito abbia mai avuto un qualche sia pur flebile fondamento. Aggiornato e rivisitato, esso può venir illuminato da una qualche luce scientifica, riconducendo l'organizzazione temporale e la localizzazione spaziale alle forme di comunicazione presenti in una data società. In questo senso, una frattura vistosa è stata introdotta dall'invenzione della scrittura, frattura dilatata con l'invenzione della stampa. Si è immaginato un punto zero nella storia dei rapporti tra popoli dotati di documenti scritti e popoli privi di essi costruendo modelli culturali che attribuiscono caratteri diversi alla spazialità e alla temporalità dei popoli a cultura orale e a quelle dei popoli a scrittura alfabetica. Ma questo punto zero, se mai è esistito, si allontana sempre più dalla realtà della società contemporanea, in cui tutte le società hanno introdotto il medium della scrittura come forma di registrazione della loro ufficialità, in cui la dimensione della cultura orale si è tramutata nella dimensione dell'esclusione della cultura analfabeta, in cui la stessa cultura scritta sta subendo trasformazioni profonde e forse radicali con l'applicazione alla sua registrazione dei mezzi elettronici e con una comunicazione che è sempre più invasa dal proliferare delle immagini e dell'oralità televisiva. L'affascinante suddivisione introdotta alcuni decenni fa da Claude Lèvi-Strauss tra "società fredde" e "società calde", le prime così sagge ed esperte nell'opporsi a ogni cambiamento che le trascini nel vortice della storia e le seconde così avide nel precipitarvisi facendo del cambiamento la ragione del loro trionfo e del loro successo sul palcoscenico mondiale, sembra oggi desueta e poco utilizzabile. Tutte le società sembrano coinvolte dai processi di globalizzazione economica e dalle interdipendenze di tutti i tipi, da quelle politiche a quelle dei mercati internazionali del traffico illecito, da quelle delle comunicazioni a quelle culturali. Le "resistenze" si rifanno a rigidi integralismi, mentre la tradizione spesso viene stravolta o inventata per alimentare odi profondi o giustificare faide sanguinose. Interpretare la trasmissione culturale Dopo secoli di contatto, di colonialismo, di processi di decolonizzazione, "società fredde " e "società calde" si sono mescolate, hanno negoziato tra loro valori, norme, costumi, beni, linguaggi: non è più possibile distinguere le une dalle altre. Le élites di tutti i continenti sono sempre più simili nei loro processi di formazione e di organizzazione del potere. La cultura della disuguaglianza si afferma, pur con grandi variazioni qualitative e quantitative, in tutti il mondo. Forse è possibile, però, individuare i meccanismi che in una società agiscono sulla memoria culturale per facilitare il rapporto e la relazione, e individuare i meccanismi che sono invece in grado di facilitare l'antagonismo e l'opposizione. Forse è possibile applicare alcune categorie di analisi proprie dei cultural studies all'idea di nazione, spiegandone la complessità, le stratificazioni spaziali e temporali che accedono all'ermeneutica politica ma anche a quella letteraria. Nella letteratura infatti, o almeno in una parte di essa, si è da un lato sedimentato e concretizzato il mito della nazione, dall'altro esso si è potenziato e diffuso entrando quasi con violenza a far parte della memoria culturale di molti gruppi umani. Queste analisi, che hanno trovato una loro originale aggregazione in un'antologia curata da Homi Bhabha, Nazione e narrazione, affrontano "la nazione come prodotto di scrittura" e tendono a presentare la letteratura che testimonia "nella sua forma narrativa, con proprie strategie testuali, slittamenti metaforici, sotto-testi e stratagemmi figurati, l'emergere della razionalità politica della 'nazione"'. Prestare attenzione principalmente al linguaggio e alla retorica può apparire limitativo e riduttivo, in quanto studiare la nazione attraverso la sua presentazione narrativa può anche implicare un tentativo di alterare la sua interezza. Tuttavia, Bhabha dimostra la natura mitica delle origini delle nazioni e riesce, attraverso la giustapposizione degli strumenti concettuali degli studi culturali e della critica letteraria, a dimostrare le ambivalenze e le ambiguità che hanno caratterizzato il costituirsi delle diverse nazioni. Svelare queste ambivalenze, queste ambiguità, è urgente e necessario di fronte alle relazioni conflittuali che nella seconda metà di questo secolo, in tutti i continenti, si sono sviluppate sia all'interno di vaste aree geografiche sia tra zone non contigue, sconvolgendo e addirittura polverizzando vasti aggregati che per decenni, definendoli "nazioni", abbiamo considerato coesi e unitari. Questo approccio dimostra inoltre che tutte le nazioni nonostante storie dagli andamenti e dalle dinamiche così diverse da abbracciare entità sviluppatesi per secoli e aggregazioni recentissime, così divergenti tra loro come può esserlo un grande impero coloniale e un suo piccolo, esotico, sconosciuto dominio, sono accomunate da una radicale e profonda ambivalenza che investe le loro istituzioni ma anche le parole con cui di esse si parla e le stesse vite di coloro che le vivono. Le commistioni Rompere l'unitarietà dell'idea di nazione, aprendo la prospettiva della sua ambivalenza, oltre a corrispondere maggiormente a molte dinamiche politiche verificatesi nei singoli· contesti nazionali, pone in relazione le produzioni culturali delle minoranze, degli oppressi, dei colonizzati, con quelle della cultura dominante. In questo modo le prime vengono strappate al limbo dell'automarginalizzazione protestataria, mentre vengono svelate le funzioni normalizzatrici di ogni chiusura, di ogni esclusiva aderenza a tradizioni del passato, di ogni rifugio in originarie purezze identitane. Si pone così in discussione lo schema concettuale che vede un «centro" immobile che si oppone con la sua supe riorità a una "periferia" dolente e sottomessa. L'interazione tra "centro" e "periferie", tra "occidente" e "alterità", è stata sempre caratterizzata dalla violenza e dal sopruso e nelle periferie si sono innestati pensieri e azioni che hanno combattuto il "centro", svelando le sue falsità ideologiche. Deve però essere riconosciuto che la dialettica tra questi due poli è stata assai complessa, ambivalente e articolata: il "centro" ha perso ormai molte delle sue sicurezze, incapace di garantire anche al suo interno le promesse di giustizia e di benessere, e le "periferie" lottano a loro volta per divenire "centro", avendone acquisito strutture conoscitive e modalità di distribuzione del potere. In questo quadro interpretativo è importante respingere le generalizzazioni di ogni sorta, anche quelle che tendono a sostituire il nazionalismo con il transnazionalismo, per cui "l'America conduce all'Africa, le nazioni dell'Europa e dell'Asia si incontrano in Australia, i margini della nazione ne spostano il centro, le genti della 'periferia' ritornano per riscrivere la storia e la narrativa della metropoli". Tutto questo è innegabile, come è innegabile la circolazione di beni, messaggi, linguaggi, fra tutti i continenti, F con incontri reali e virtuali continui e frenetici di bengalesi ed egiziani, italiani e senegalesi, tunisini e olandesi. Tutta via nel mondo della fine delle nazioni, ancora si lotta, si combatte, si muore per trovare una patria, per costruire una nazione. Ed è la letteratura che insieme al dolore di questi gruppi, alle loro pene per le torture e per l'esilio, al le sofferenze per la guerriglia e per i genocidi, ci testimonia le relazioni che nonostante tutto ancora li legano tenacemente fra loro e con i loro stessi persecutori. Verso nuove identità Di fronte al dissolversi di molte categorie classificatorie che abbiamo spesso elevato a realtà, di fronte alla consapevolezza che le identità, con il loro livello di fondatezza storica ma anche di costruzione e di finzione sincronica, determinano la nostra percezione del presente e il suo stesso svolgimento, nell'era delle nuove conflittualità occorre assumersi il compito di indirizzare in modo alternativo gli interventi sulla trasmissione culturale, con l'obiettivo di valorizzare in essa modelli culturali che sappiano gestire e contenere la forza distruttiva e destabilizzante dei molti localismi e dei molti integralismi. L'intervento deve essere allora pensato e formulato come libero, proprio a causa della situazione di rottura e di pencolo in CU1 Si opera, da legami e vincoli. Può essere formulato su basi che progettino identità per le nuove generazioni, lontane dalla tentazione di ricorrere a quelle identità che ormai grondano odii, rancori e sangue. Può essere basato su principi che allontanino le tradizionali separatezze (tra sessi, gruppi sociali, codici, linguaggi, espressioni artistiche e culturali) a cui corrispondono ormai troppo spesso solo ferite e lacerazioni. Può ancorarsi a valori che riscoprano in quelli antichi e tradizionali le partecipazioni e le solidarietà multiple avvicendatesi nei secoli passati. Si deve evitare la tentazione di improntare la nuova progettualità culturale a principi riparatori e ricostruttori del passato: operazione sempre spuria e colma di pericoli, per l'inattualità sociologica e la "falsità" storica dei modelli proposti e delle "radici" invocate, ma dai risultati drammaticamente perversi nei casi in cui a questi modelli, a queste radici più o meno correttamente si facciano aderire cause di conflitti, di lutti, di sconvolgimenti personali e collettivi, di soprusi subiti. Il passato non va cancellato né dimenticato: al contrario il passato, nei suoi linguaggi e nei suoi gesti, nelle sue tecniche e nei suoi valori, nelle sue norme e nelle sue manifestazioni estetiche, deve essere conosciuto e adoperato per costruire, magari con la tecnica del bricolage, modelli culturali e percorsi educativi che ne utilizzino trame e pezzi per parlare alle nuove generazioni, per condividere con esse la partecipazione alla vita del gruppo ma anche a quella della comunità più ampia, per svegliare in esse la solidarietà verso il fratello, il compagno, ma anche per lo sconosciuto che condivida un'idea, un bisogno, uno slancio emotivo. È probabile che abbiano ragione quegli analisti che individuano nella progettualità, nella speranza per il futuro, la capacità di apprezzare e di amare il passato. L'immagine assa~ frequente nella letteratura greca, che pone dietro alle nostre spalle il futuro e davanti ai nostri occhi il passato, forse vuole indicare che solo guardando ad esso si vive e si opera Alla luce delle nuove esigenze poste da un mondo sempre più interdipendente nelle sue parti costituenti, che appare sempre più "affollato" di individui, di immagini, di merci, difficili da distinguere e da valutare, i vecchi ma non superati concetti di esclusività e di proprietà vanno rivisitati e aggiornati. Il modello che il passato ci offre, se lo scrutiamo attentamente e senza pregiudizi, non è solo il modello della sedentarietà, della fatica, della solerzia dedicata al piccolo campo, all'edificazione della proprietà e della felicità familiare: nel passato c'è, e più antico e radicato..nel tempo, il modello dell'uomo nomade che apre i suoi interessi allo spazio, al mondo, al percorso. Forse l'aggressività e la violenza con cui si colora il suo vagabondaggio nell'immaginario della nostra società è frutto più del modello posteriore che della sua realtà, nella quale sicuramente accanto ad esse si alternava, si affiancava, si opponeva la solidarietà verso i deboli, la generosità verso i vinti, l'apertura al confronto, allo scambio, all'alleanza e alla pace.