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Percorso 11
Società, cultura,
incontro fra culture
In un suo noto saggio, l’antropologo Ulf Hannerz scrive: «L’homo sapiens è
la creatura che “produce senso”. Lo fa attraverso l’esperienza, l’interpretazione, la contemplazione e l’immaginazione, e non può vivere senza queste
attività. L’importanza della produzione di senso per la vita umana è riflessa
in un campo concettuale affollato: idee, significato, informazione, saggezza,
capacità di comprendere, intelligenza, consapevolezza, capacità di apprendere, fantasia, opinione, conoscenza, credenze, mito, tradizione... A questo
gruppo di parole ne appartiene ancora un’altra, cara agli antropologi: cultura. […] Studiare la cultura significa studiare le idee, le esperienze e i sentimenti, e insieme le forme esteriori che questi aspetti interiori assumono
quando diventano pubblici, a portata dei sensi e dunque realmente sociali»
(U. Hannerz, La complessità culturale, Bologna, il Mulino, 1998, p. 5).
Al tema delle culture e delle loro reciproche relazioni è dedicato questo percorso di lettura. Il primo brano, L’incontro fra culture, prende in esame le
dinamiche di scambi e flussi continui fra le diverse culture. Il secondo testo,
opera dell’antropologa Vanessa Maher, affronta due concetti cui, soprattutto in passato, si è spesso fatto ricorso per distinguere gruppi umani e
affermare la superiorità dell’uno sull’altro: quello di razza e quello di etnia.
Per quanto si sia dimostrata l’infondatezza del concetto di «razza», l’integrazione fra culture costituisce tuttora un problema, soprattutto nei Paesi
che sono stati recentemente interessati da massicci flussi migratori. Fra
questi rientra anche l’Italia: la sua situazione è esaminata nel terzo brano
del percorso, Flussi migratori e modelli di integrazione, del sociologo
Maurizio Ambrosini. A tematiche simili è dedicato anche il brano Il multiculturalismo, in cui si descrive l’emergere del concetto di «multiculturalismo» negli anni Ottanta del secolo scorso e si auspica una positiva convivenza fra culture diverse.
Tra le parole più usate per definire l’epoca contemporanea, accanto a «multiculturalismo» compare spesso «globalizzazione». A quest’ultimo concetto,
o meglio ad alcune sue conseguenze sul piano culturale, è dedicato il brano che conclude il percorso, tratto da un testo del sociologo polacco
Zygmunt Bauman.
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ITINERARIO DI LETTURA
T1
L’incontro
fra culture
T2
Identità, razza
e gruppo etnico
T3
Flussi migratori
e modelli
di integrazione
T4
Il multiculturalismo
T5
Le conseguenze
della globalizzazione
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Società, cultura, incontro fra culture
T1
L’incontro fra culture
Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera
Ogni cultura è sempre il prodotto di processi di contaminazione e di ibridazione con altre culture. Del resto, sarebbe impossibile immaginare una
società «autosufficiente» dal punto di vista culturale. Per questo motivo,
oggetto specifico dell’antropologia può essere ritenuto il «traffico» delle culture. Il crescente incontro e scambio tra culture non porta alla creazione di
una cultura omogenea su scala planetaria. Si sviluppa piuttosto un flusso
in continuo mutamento, che è possibile cogliere a diversi livelli.
Le culture prendono forma all’incrocio tra dinamiche interne ed esterne,
locali e globali. Queste dinamiche si realizzano in un mondo caratterizzato
da squilibri persistenti, sul piano economico, politico e sociale, tra Paesi
centrali e periferici. Queste asimmetrie si manifestano anche a livello culturale tra i Paesi occidentali e quelli del cosiddetto Terzo Mondo. Nello stesso tempo, si formano «culture transnazionali» costituite da flussi culturali
veicolati da reti che si estendono in comunità e luoghi diversi, travalicando
i singoli Stati nazionali.
«Culture ibride» e «pensiero meticcio» sono due espressioni che, in un
certo senso, potrebbero riassumere rispettivamente l’oggetto e la natura dell’antropologia. Le culture ibride […] sono quelle che si producono in un sempre più rapido processo di «incontro» fra culture. Le culture ibride sono le nuove sintesi, i nuovi profili, i nuovi paesaggi che caratterizzano il mondo contemporaneo dal punto di vista socioculturale: sintesi, profili e paesaggi del
mondo che nascono appunto dall’incontro, oggi sempre più intenso, di individui e gruppi con storie, memorie, conoscenze e identità diverse, spesso fondate su premesse esperienziali e concettuali molto distanti tra loro.
Da un certo punto di vista, parlare di culture «ibride» sembrerebbe
quasi voler sostenere che esistono anche culture «pure». Sul piano empirico le
culture sono sempre state «ibride», almeno nel senso che ciò che costituisce il
mondo della nostra esperienza condivisa, pratica e simbolica, è sempre frutto
di incontri, di apporti e di mentalità differenti tra loro, di oblii e di ricordi che
attingono a esperienze culturali diverse. Questi apporti, incontri, ricordi e oblii
che dipendono naturalmente, e in primo luogo, dal modo in cui le culture si
combinano e si ricombinano in base a determinati rapporti di forza, hanno oggi
assunto una frequenza e un’intensità che sono notevolmente superiori rispetto
al passato, anche a un passato piuttosto recente. Da un punto di vista empirico, di conseguenza, l’espressione «culture ibride» è un modo per esprimere ciò
che accade nel mondo, una metafora dell’intensità e della frequenza che caratterizzano l’incontro fra culture nel mondo contemporaneo. […]
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Su di un piano più astratto, concettuale, parlare di «culture ibride»
significa invece mettere l’accento sulle strategie, pratiche e simboliche, che le
culture intese come insiemi più o meno coerenti di significati interconnessi mettono in atto per risituare continuamente se stesse in un contesto di contatto e
di cambiamento accelerati […]. È per questo motivo che gli scienziati sociali si
interrogano, oggi più di un tempo, sulle dinamiche che caratterizzano i fenomeni di ibridazione culturale e sulle implicazioni che tali dinamiche rivestono
per i modi di vivere, i rapporti politici, giuridici, economici e per l’immaginario dell’umanità contemporanea.
Se l’antropologia culturale è un sapere che si occupa principalmente
della dimensione culturale della vita umana, e se quest’ultima dimensione è una
dimensione «ibrida» (perché ibride sono le culture), con l’antropologia siamo
di fronte a un «pensiero meticcio» […].
L’antropologia è un «pensiero meticcio» perché nasce sulla linea d’incontro, sulla «frontiera» fra tradizioni culturali diverse. […]
Intendiamo pertanto fornire qui alcuni strumenti utili per una
migliore comprensione di quel complesso di fenomeni che possiamo sinteticamente definire con la metafora del «traffico culturale». Con l’espressione
«traffico delle culture» vogliamo infatti intendere quelle molteplici e complesse dinamiche caratterizzanti i fenomeni di ibridazione che sempre più hanno
luogo nel mondo contemporaneo e di cui abbiamo quasi sempre una percezione parziale, sovente contraddittoria, a volte banale e talvolta assolutamente
«misteriosa». […]
Ciò che vorremmo chiarire fin da ora, però, è che questo «traffico» di
beni, simboli, idee, valori ecc. che caratterizza il mondo contemporaneo non si
risolve in una serie di «prestiti» e «acquisti», ma comporta invece una loro continua riformulazione, o «riposizionamento significante»1 in base al contesto in
cui questi beni, idee ecc. vengono acquisiti o ceduti.
La percezione dei flussi di traffico che caratterizzano il mondo contemporaneo ha portato a un esito paradossale. Da un lato vi è la sensazione diffusa, e per certi versi senz’altro giustificata, che i contatti e gli scambi favoriscano la tendenza a un’omogeneizzazione planetaria dall’aspetto sinistro o perlomeno inquietante. […] Dall’altro lato, e in ragione della conflittualità di cui
questi contatti sembrano essere responsabili, si ha la sensazione che le culture e
le etnie siano delle entità isolate, irrimediabilmente prigioniere delle proprie
logiche e della propria storia (e quindi quasi necessariamente in conflitto tra
loro). Senza negare l’effettivo carattere paradossale – o quantomeno problematico – del mondo contemporaneo, la questione va impostata in maniera tale da
non offrire interpretazioni mutualmente esclusive della situazione attuale e futura, e cercare di cogliere il senso che convergenze e divergenze culturali assumono nelle diverse situazioni.
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Percorso 11
1.
riposizionamento
significante: il «traffico
culturale» è un processo
dinamico: non implica
una recezione passiva di
beni, simboli, idee,
valori ecc., bensì uno
scambio attivo, ovvero
una combinazione
mutevole e originale
di questi elementi in
base alle caratteristiche
del contesto storico e
geografico.
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Società, cultura, incontro fra culture
Per lungo tempo si è pensato alle società e alle culture umane come
a entità isolate e «prese» ciascuna nel circuito dei propri significati. Ciò non è
del tutto sbagliato, nel senso che le culture vanno effettivamente studiate nei
termini che sono loro propri se vogliamo capire che senso abbiano certi comportamenti e certe idee. Tuttavia ci si è anche resi conto che da sempre le culture «cambiano», mutano cioè nel tempo i loro valori, le loro strutture, le loro
istituzioni ecc. Quando la questione del mutamento ha cominciato ad attirare
apertamente l’attenzione degli antropologi (dagli anni quaranta in avanti), è
apparso sempre più chiaro come le trasformazioni a cui andavano soggette le
società da loro studiate […] non potessero essere spiegate solo ed esclusivamente
in base all’azione di processi interni o solo all’intervento di fattori esterni, ma
anche come conseguenza dell’interazione tra una dinamica interna e una dinamica esterna. […]
Negli ultimi decenni, la prospettiva intesa a cogliere le società e le culture come entità dinamiche sottoposte all’influenza di forze sia interne che esterne è andata ulteriormente affinandosi, per sfociare in quella che, con una formula per la verità ormai un po’ abusata, viene definita «la dialettica del locale
e del globale». Quest’ultima si configura non come una serie di sovrapposizioni o di commistioni, bensì come un processo di «intreccio» dagli esiti il più delle volte imprevedibili.
In tale processo, una cultura vede trasformati i propri valori e significati (locali) in rapporto a ciò che le giunge dall’esterno. Questo «esterno» non
si configura però come un’altra cultura […], ma come un insieme di fenomeni che interessano indistintamente tutte (o quasi) le culture. Ad esempio, il mercato delle materie prime; oppure la televisione. Tali fenomeni, che definiamo
globali, una volta assunti dalla cultura che li riceve, non sono più «esterni» ad
essa, ma diventano parte di quella cultura, la quale continua a formulare i propri significati secondo le proprie esigenze locali che devono tuttavia tenere conto, a loro volta, delle forze globali. […]
Così, invece di pensare al mondo come a un’entità che va soltanto
omogeneizzandosi (processo che per certi aspetti non può essere negato: consumi, informazioni, linguaggi), o che è composto da realtà socioculturali sottoposte alla dialettica di dinamiche «interne» e dinamiche «esterne» (il che è senz’altro vero), […] dobbiamo sforzarci di intenderlo come un vasto scenario al
cui interno le varie tradizioni culturali recepiscono logiche globali che, pur
avendo origine altrove, sono suscettibili, una volta che siano assimilate, di riformulare altre logiche a livello locale, in un processo virtualmente infinito. […]
Gli scienziati sociali tendono sempre più a parlare di culture transnazionali. Per culture transnazionali si intendono […] delle «strutture di significato che viaggiano su reti di comunicazione sociale non interamente situate in
alcun singolo territorio» […].
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Società, cultura, incontro fra culture
Un esempio, ancorché limite, di cultura transnazionale potrebbe essere rappresentato dalle comunità che si costituiscono su Internet. Internet è la
rete globale che dovrebbe, stando alle previsioni, avvolgere il pianeta nel giro di
pochi decenni consentendo collegamenti in tempo reale fra i punti più diversi
della superficie terrestre, con la possibilità di accedere a banche-dati sterminate e di connettere tali dati navigando da un sito all’altro. Da un punto di vista
planetario, Internet è ancora poco diffuso, e c’è la possibilità che la sua diffusione non comporti affatto, come qualcuno invece spera, un uso «democratico» delle informazioni. Può darsi invece che, siccome le macchine hanno potenze diverse e sempre maggiori, e siccome alcuni individui saranno più formati di
altri nella loro utilizzazione, Internet possa venire a costituire la condizione per
l’emersione di un’élite2 informatica transnazionale i cui membri, dialogando a
distanza e al di là delle barriere costituite dagli stati-nazione e dalle loro politiche economiche, perseguono strategie proprie in campo monetario, finanziario, imprenditoriale ecc. come di fatto già in parte avviene.
È chiaro che, in un contesto come quello appena delineato, il quale
rimane ancora ipotetico per il suo aspetto «totale» (ma di cui possiamo avere
un’intuizione se pensiamo alle operazioni finanziarie compiute già oggi su scenari economici così diversi da persone sparse in vari punti della Terra), il mondo ci appare per molti versi svincolato dalle iniziative «culturali» delle nazioni
singole, e percorso da flussi transnazionali.
Oggi i processi di traffico culturale non sono più comprensibili in termini di flussi a livello «inter-nazionale», ma piuttosto transnazionale. Questo
significa che, in conseguenza di vari processi quali la progressiva mondializzazione del mercato e dell’informazione, oltre che dell’intensificarsi degli spostamenti degli individui, i messaggi culturali, i significati e le forme espressive (gusti,
comportamenti, idee ecc.) si intersecano e si articolano seguendo canali che sfuggono il più delle volte alle logiche dei rapporti tra i singoli stati-nazione.
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2.
élite: (francese) cerchia
ristretta di persone
dotate di prestigio,
influenza e potere, che
può costituire la classe
dirigente di una società,
oppure un gruppo che
possiede specifiche
caratteristiche e
capacità (ad esempio, di
tipo intellettuale), e si
distingue per un elevato
livello di competenza in
un determinato campo
dell’attività umana.
(U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale. Introduzione all’Antropologia,
Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 165-69, 178-79)
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. Che cosa si intende con l’espressione «culture
ibride» e perché l’antropologia è definita dagli
autori un «pensiero meticcio»?
2. Spiega quale contributo ha offerto la «dialettica
del locale e del globale» allo studio antropologico del mondo attuale.
3. Perché le comunità che si costituiscono su
Internet possono rappresentare delle «culture
transnazionali»?
4. Spiega la metafora del «traffico culturale», contenuta nel brano che hai letto.
5. Suddividi il brano in sequenze e a ciascuna attribuisci un titolo.
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T2
Identità, razza e gruppo etnico
Vanessa Maher
1.
Linneo: Carlo Linneo
(italianizzazione di Carl
von Linné), naturalista
svedese vissuto tra
il 1707 e il 1778.
2.
movimento positivistailluminista: movimento
intellettuale del
Settecento, di critica
della tradizione culturale
e istituzionale, che
si proponeva di
diffondere l’uso della
ragione e di favorire
il progresso intellettuale
sociale e morale.
3. tratti morfologici: tratti
esteriori: infatti, le razze
sono distinte in base
ad alcune caratteristiche
somatiche
degli individui.
4.
stock genetico:
patrimonio genetico,
vale a dire l’insieme
delle caratteristiche
ereditate attraverso
i cromosomi.
5. Lévi-Strauss: Claude
Lévi-Strauss (1908-viv.),
noto antropologo
francese,
rappresentante dello
«strutturalismo», in base
al quale i fenomeni
osservabili sono
la manifestazione
superficiale di strutture
organizzative profonde.
L’identità viene spesso rappresentata come qualcosa di fisso e strutturato che «identifica» una persona o un gruppo. Per questo motivo è ricorrente nella storia il riferimento ai concetti di razza e di etnicità, considerati
come l’«essenza» dell’identità di un certo gruppo sociale.
Molte ricerche, condotte soprattutto da antropologi ed etnologi, hanno
mostrato, tuttavia, il carattere «costruito» o «inventato» dell’identità.
L’antropologo Francesco Remotti sostiene al riguardo che l’identità è «un
fatto di decisioni», nel senso che dipende «da ciò che vogliamo trattenere
di un fenomeno; dipende dal nostro tipo di interessi per quel fenomeno;
dipende dal modo con cui intendiamo perimetrarlo, recingerlo, con bordi più
larghi o più stretti».
I confini che definiscono l’identità sono tracciati, dunque, secondo criteri
variabili. L’antropologa Vanessa Maher mette in evidenza proprio la relatività dei confini rispetto ai concetti di razza e di etnicità. Nei confronti del
primo concetto, sembra ormai acquisito che le differenze culturali non
abbiano un fondamento biologico, mentre resta controverso il riferimento
all’identità etnica. Di particolare interesse sono le concettualizzazioni degli
antropologi Fredrik Barth e Abner Cohen: il primo considera l’etnicità come
categoria attraverso la quale si organizzano socialmente le differenze culturali; il secondo ritiene che essa si riferisca a modelli di comportamento
condivisi, e che quindi possa essere usata come fonte di solidarietà e come
risorsa politica in una lotta di potere. L’etnicità è dunque una categoria che,
oltre a essere costruita, si presta a essere continuamente «manipolata».
Il concetto di una specie umana divisa in razze ricevette il suo battesimo ufficiale da Linneo1 alla fine del Settecento europeo, come parte del
movimento positivista-illuminista2 di classificazione dei gruppi viventi che è
tuttora in atto. E così le «sei razze di Linneo» entrarono a far parte sia di molti trattati dotti, sia del senso comune europeo. Secondo Linneo, le sei razze
umane erano: l’americana, l’europea, l’asiatica, l’africana, la selvaggia e la
mostruosa. Ma questa bizzarra classificazione, in modo evidente basata sui tratti morfologici3, era fondata più su caratteri acquisiti che non su quelli ereditari. I primi, comunque, riflettono solo in modo parziale lo stock genetico4
degli uomini. Ma se persino le differenze fisiche fra le persone hanno una relazione molto lontana con l’informazione genetica, le differenze culturali non ne
hanno affatto. Lévi-Strauss5, fra gli altri, ha notato che la grande diversità intellettuale, estetica, sociale dell’umanità non è collegata da nessuna relazione causale alle diversità osservabili sul piano biologico, fra raggruppamenti umani.
Due culture elaborate da persone appartenenti alla stessa popolazione biologi-
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ca possono differenziarsi quanto o più di due culture appartenenti a gruppi
biologicamente lontani.
Biologicamente, una specie può dividersi in razze autonome solo se
le popolazioni che la compongono sono isolate sessualmente, e di stock genetici distinti. La prima condizione si è verificata molto raramente per l’uomo,
visto che la specie umana si può adattare, grazie alla cultura, ad ambienti molto diversi fra di loro e questa facoltà ha permesso agli uomini di spostarsi frequentemente, rendendo più probabili i contatti fra gruppi.
[…] Nel tentativo di affrontare il problema della definizione terminologica dei rapporti fra gruppi sociali, farò riferimento soprattutto ad alcune
tesi dell’antropologia sociale anglosassone degli ultimi trent’anni. Prenderò in
considerazione alcune ricerche e teorizzazioni riguardanti «il gruppo etnico» e
«l’identità etnica» che vengono viste in queste ricerche come entità fluide, definite in relazione ad altri «gruppi» e altre identità. Infine, tratterò «l’etnicità» e
il processo sociale che definisce i confini fra «gruppi etnici», quel processo che
l’antropologo norvegese Fredrik Barth ha chiamato «l’organizzazione sociale della differenza culturale».
Barth, che si è formato anche in università anglosassoni come antropologo, ha fatto notare che alcuni degli antropologi funzionalisti6 degli anni
trenta e quaranta7 hanno contribuito a creare il mito di un’umanità divisa in
gruppi, ognuno con la sua cultura, organizzazione e lingua, concezione che è
stata ampiamente utilizzata, per esempio, in Sud Africa.
In particolare, se la prende con le equivalenze facili che descrivono il
gruppo etnico come una popolazione:
a) in grado di perpetuarsi biologicamente;
b) che condivide valori culturali realizzati in forme culturali comuni;
c) che costituisce un campo di comunicazione e di interazione;
d) che ha membri che si riconoscono in gruppi identificati da altri come componenti delle categorie distinte dello stesso ordine.
Tutto ciò assomiglia molto al concetto di razza che abbiamo già criticato come «mito sociale»: popolazione vale razza, che vale cultura, che vale lingua, che vale sistema sociale.
Barth afferma che non c’è nessuna coincidenza fra gruppi biologici e
gruppi che condividono la stessa cultura, né ci sono coincidenze necessarie tra
gruppi etnici e gruppi che condividono la stessa cultura. Un esempio che l’autore porta a riprova di questo fatto è quello dei lapponi, che occupano varie
«nicchie ecologiche». Ci sono i lapponi che allevano le renne, i lapponi che vivono lungo i fiumi, i lapponi che vivono sulla costa. Quelli che vivono sulla costa
sono indistinguibili dai norvegesi dal punto di vista culturale. Però, diversamente dai norvegesi, fanno parte di un gruppo etnico che comprende i lapponi che vivono nelle altre «nicchie» e che sono differenziati culturalmente fra di
loro. L’area culturale non coincide con l’area linguistica, né il gruppo biologico
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Percorso 11
6.
antropologi funzionalisti: il
«funzionalismo» è una
corrente
dell’antropologia e della
sociologia che evidenzia
la necessità di studiare
ogni società come un
insieme di strutture
sociali e culturali tra
loro interdipendenti,
ciascuna delle quali
svolge una specifica
funzione per l’esistenza
e la riproduzione di
un determinato sistema
sociale o di una sua
parte. Questa
concezione ha favorito,
in alcuni autori, una
visione della cultura
come entità statica e
coerente, in cui ogni
parte è spiegata in base
alla funzione svolta per
soddisfare i bisogni
fondamentali del tutto.
In questa prospettiva,
ogni cultura risulta di
conseguenza
differenziata dalle altre.
7. trenta e quaranta: si fa
riferimento agli anni
trenta e quaranta
del Novecento.
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validità euristica: validità
conoscitiva; capacità
di favorire la scoperta
di nuovi risultati.
9. cognitiva: conoscitiva.
8.
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con il gruppo che condivide la stessa cultura, e il gruppo etnico è altro ancora.
Secondo Abner Cohen il gruppo etnico può essere definito in termini operativi come una collettività di persone che da un lato condividono alcuni modelli di comportamento normativo (comportamento normativo significa
pensare che ci si deve comportare nello stesso modo e esprimere giudizi dello
stesso tipo sul comportamento), dall’altro fanno parte di una popolazione più
grande e interagiscono in un contesto sociale comune, con persone che provengono da altre collettività.
È ovvio che questa definizione è così ampia che potrebbe comprendere quelle categorie sociali che normalmente non vengono descritte in termini etnici. Cohen osserva che converrà forse abbandonare l’uso del termine
«gruppo etnico» e cominciare da capo. Per mettere in luce il fatto che il termine «gruppo etnico» indica in genere delle categorie sociali non-bianche, e che
contiene un elemento razzista implicito, propone di impiegarlo in modo «neutro» per esaminare la sua validità euristica8.
Un esempio provocatorio che Cohen ha dato di un gruppo etnico che
non viene normalmente descritto come tale è la collettività degli uomini d’affari che lavorano nella City di Londra. La City di Londra è un’area di circa
3-4 kmq all’interno della quale si trovano tutte le banche, tutte le attività assicurative e della borsa, tutto ciò che concerne il mondo della finanza inglese.
Le persone che lavorano in questo piccolo territorio – così lo si potrebbe chiamare – sono poche migliaia. Spesso non si conoscono personalmente,
non hanno rapporti faccia a faccia, ma hanno tutte frequentato le stesse scuole, riconoscono i nomi dei componenti del gruppo e aderiscono a comportamenti normativi che rappresentano dei simboli di appartenenza comune.
Per esempio, se un uomo d’affari va a trovarne un altro, invece di parlare subito della situazione della borsa si metterà a fare due chiacchiere sui risultati delle ultime partite di cricket, su chi ha sposato chi, perderà del tempo. Egli
lancia una serie di segnali di tipo culturale che l’altro riconosce come simboli
etnici e che qualificano chi li trasmette come una persona degna di fiducia.
Questo è un gruppo molto coeso, i componenti del quale sono legati da parentele assai strette e diffuse, perché si sposano ampiamente all’interno
delle stesse famiglie. Abner Cohen ritiene che questo è un gruppo analogo a
molti dei gruppi che vengono definiti «etnici».
Per Cohen l’etnicità è una forma di interazione tra gruppi culturali
che agiscono all’interno di un contesto sociale comune. Ora, spesso i rapporti
fra gruppi immigrati e quello di accoglienza vengono descritti in termini di etnicità ma per Cohen il termine etnicità si riferisce al grado di conformità, da parte dei membri del gruppo etnico, alle norme che condividono nel corso dell’interazione sociale.
Cohen vede il gruppo etnico non soltanto come una categoria cogni9
tiva che permette alle persone di classificare in modo approssimativo […] quel-
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le di provenienza diversa in una situazione plurietnica, ma come qualcosa di
reale i cui componenti condividono interessi precisi, formando un «gruppo d’interesse». Nell’assenza di canali istituzionali legittimi per avanzare le loro pretese politiche, il gruppo d’interesse tenderà a connotarsi etnicamente. […]
È chiaro che l’etnicità, come il genere o l’età (il genere nel senso del
modo in cui vengono costruite culturalmente le differenze sessuali), è un attributo che nel gergo antropologico è «discriminatore». Se una persona si definisce o viene definita in termini etnici o di genere, molto spesso questa definizione riflette il ruolo che viene costretta a svolgere nella società. Così, le donne
devono fare il lavoro domestico, devono operare in un settore definito del mercato del lavoro, ecc. Gli «extracomunitari» devono fare «i lavori che gli italiani
non vogliono fare».
Le categorie etniche sono prodotte anche come un aspetto delle relazioni fra gruppi. Le categorie non sono ferme, sono create storicamente e possono scomparire, se ne possono inventare di nuove. I «gruppi etnici» presenti
nelle città plurietniche, per esempio, rappresentano categorie inedite di persone. Gli italiani che vivono nei luoghi di origine degli italo-americani sono diversi socialmente e culturalmente da loro. In qualche modo, si è creata una cultura e delle forme di relazione sociale che sono nuove rispetto alla cultura di provenienza, perché corrispondono a delle necessità funzionali di tipo diverso. […]
L’identità etnica da una parte viene determinata socialmente, dall’altra rimane condizionata dall’esperienza affettiva del singolo. Ma l’esperienza
affettiva e di socializzazione non finisce con l’infanzia. L’identità etnica va definita come la somma delle identità che una persona assume nel corso della vita
e ha sempre una valenza relativa e situazionale.
(V. Maher, Razza e gruppo etnico: il mito sociale e la relatività dei confini, in V.Maher [a cura di],
Questioni di etnicità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994, pp. 15-16, 21-25, 31)
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. Spiega perché la divisione dell’umanità in razze
formulata nel Settecento da Linneo è in realtà
un «mito sociale».
2. Qual è la critica che l’antropologo norvegese
Fredrick Barth ha espresso nei confronti degli
antropologi funzionalisti?
3. Spiega perché Cohen definisce un «gruppo etnico» la collettività degli uomini d’affari che lavorano nella City di Londra.
4. Individua la definizione di «gruppo etnico» elaborata da Cohen.
5. Esponi il contenuto del brano in un riassunto di
20 righe.
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T3
Flussi migratori e modelli di integrazione
Maurizio Ambrosini
Si stima che il numero di stranieri, cioè di persone che vivono in un Paese
diverso da quello in cui sono nate, abbia raggiunto, all’inizio del nuovo secolo, la quota di 175 milioni di individui, ovvero quasi il 3% della popolazione
mondiale.
Nel volgere di pochi decenni, anche l’Italia si è trasformata da Paese di
emigrazione a Paese di immigrazione. La crescita dei flussi migratori avviene contestualmente a profondi cambiamenti del sistema economico. In tutti i Paesi occidentali non è più la domanda di lavoro nelle grandi imprese
industriali ad attivare processi migratori. I lavoratori stranieri trovano, infatti, occupazione soprattutto nelle piccole imprese, nell’edilizia, nei settori dei
servizi alle persone, ma anche in agricoltura e nel campo del turismo e della ristorazione. Gli immigrati svolgono attività rifiutate dai lavoratori autoctoni, soprattutto in occupazioni caratterizzate da salari modesti e condizioni di lavoro disagevoli.
Nonostante sia ormai ampiamente riconosciuto il ruolo positivo svolto dai
lavoratori stranieri rispetto al sistema produttivo, restano ancora aperti i
problemi relativi alla loro inclusione sociale. Nei Paesi europei possono
essere distinti diversi modelli di integrazione degli immigrati, anche se, nella maggioranza dei casi, l’immigrato continua a essere visto come una persona «desiderata ma non benvenuta».
Il sociologo Maurizio Ambrosini delinea le peculiarità della situazione italiana, simile per molti aspetti a quella che caratterizza l’area mediterranea,
ma diversa rispetto a quella dei Paesi che da più lungo tempo ospitano una
consistente popolazione straniera.
L’Italia ha iniziato a diventare un paese di immigrazione proprio quando i paesi dell’Europa centro-settentrionale, che per decenni avevano importato manodopera straniera, hanno deciso di non esserlo più. Almeno ufficialmente.
Le origini di questa svolta possono essere rintracciate nella severa
recessione del 1973-74: la prima crisi petrolifera aveva messo in ginocchio le
economie dei paesi sviluppati, segnando la fine dei «trent’anni gloriosi» del progresso economico postbellico. […]
Tra i provvedimenti adottati dai governi dei paesi più sviluppati del
continente, rientra la brusca inversione di rotta nella politica migratoria: fine
della possibilità di ingresso per ragioni di lavoro per le persone non appartenenti ai paesi della Comunità europea, chiusura delle frontiere, ammissione soltanto per ricongiungimento familiare o per asilo politico, incentivi al rimpatrio.
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[…] Nel breve volgere di qualche anno, l’Italia si trasforma, sotto il
profilo dei flussi di popolazione, da paese di emigrazione a paese di immigrazione […], senza quasi rendersene conto e senza essersi preparata a governare
la nuova situazione, né dal punto di vista istituzionale né a livello sociale e culturale. […]
In punta di piedi, gli immigrati cominciano invece a entrare nell’economia informale1, dapprima soprattutto nelle regioni meridionali, come
braccianti agricoli, uomini di fatica sui pescherecci, manovali edili, lavapiatti
nei ristoranti. Oltre naturalmente alle collaboratrici domestiche delle città, con
Roma e Milano in testa. […]
Nasce così, nella seconda metà degli anni ’80, il problema immigrazione. Si comincia a chiedere agli esperti e alle istituzioni statistiche di spiegare quanti sono gli immigrati, si cerca disperatamente di contarli, si formulano
stime mirabolanti, espressive più dello sconcerto e dell’allarme sociale che il
fenomeno suscita che dell’effettiva capacità di quantificare un universo così eterogeneo e sfuggente. […]
In realtà, la querelle2 che da allora oppone coloro che pensano che gli
immigrati siano un numero enorme e coloro che fanno notare che sono molti
meno, in termini assoluti e relativi, rispetto ai paesi dell’Europa centro- settentrionale, ha poco senso: se gli immigrati siano troppi, oppure un numero modesto e tollerabile, è una questione relativa agli assetti della società ospitante, alla
sua disponibilità all’apertura, alla sua fiducia nel saper governare e gestire il fenomeno, alla sua percezione di un fabbisogno di queste nuove forze, alla sua capacità di integrazione. […]
Non esiste una soglia obiettiva e predeterminata a cui sia possibile fare
riferimento per decidere quale sia il numero di stranieri «accettabile». […]
A questo punto possiamo tentare di inquadrare il caso italiano di inclusione degli immigrati, confrontandolo con le principali esperienze europee.
Come abbiamo visto, contrariamente alle esperienze più mature di
gestione del fenomeno, nessuna delle quali è peraltro esente da contraddizioni ed effetti perversi, l’arrivo di una popolazione straniera in cerca di lavoro e
condizioni di vita accettabili è avvenuto in maniera spontaneistica, tra rigide
chiusure di principio e opaca accettazione di fatto, specialmente laddove la
domanda di lavoro latamente3 intesa (quella delle imprese, ma anche quella
delle famiglie) richiedeva manodopera flessibile, poco esigente, disposta ad
assumere ruoli occupazionali e condizioni di impiego non più accettati dai
lavoratori italiani […]. Una situazione sanzionata dalle ricorrenti (e annunciate) sanatorie4, a vantaggio degli immigrati in un modo o nell’altro entrati
in Italia, ma anche – dato quasi sempre dimenticato – nei confronti dei loro
datori di lavoro. Credo pertanto si possa parlare, nel caso italiano ma anche
negli altri paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo, di un «modello
implicito» di integrazione degli immigrati […], contrapposto ai principali
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Percorso 11
1.
economia informale:
insieme delle attività
economiche che hanno
luogo fuori dalla sfera
dell’occupazione
regolare e che, quindi,
non seguono, in tutto o
in parte, le norme
ufficiali che regolano
i rapporti di lavoro e
la produzione di beni e
servizi.
2. querelle: (francese)
disputa.
3.
4.
latamente:
implicitamente.
sanatoria: detto di
provvedimento
legislativo che mira
a regolarizzare una
situazione considerata
in precedenza illegale o
non corretta dal punto
di vista amministrativo.
Nel caso degli immigrati,
riguarda la possibilità
di regolarizzare, in base
ai criteri previsti
dalla legge, la propria
posizione rispetto
alla permanenza e
al soggiorno nel Paese
di arrivo.
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Percorso 11
5.
informare: indirizzare,
6.
7.
foriera: anticipatrice.
enclave etniche:
conformare.
espressione con cui
si intendono gruppi
etnici, concentrati in uno
specifico territorio (ad
esempio, un quartiere),
i cui membri non hanno
la possibilità
di integrarsi con
la popolazione del
paese di immigrazione.
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Società, cultura, incontro fra culture
modelli identificati con diverse sfumature dalla letteratura sull’argomento:
temporaneo, assimilativo, multietnico. […]
Il primo modello è quello dell’immigrazione temporanea, esemplificato, almeno fino alla riforma del ‘99, dal caso tedesco, in cui l’immigrazione
è stata vista come un fenomeno temporaneo, di lavoratori ospiti che venivano
chiamati in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del
lavoro, ma che non dovevano mettere le radici: ci si attendeva che tornassero
in patria dopo un certo periodo, per essere eventualmente sostituiti da altri, o
che fosse possibile rimandarli indietro quando fossero cessate le ragioni del loro
utilizzo. […]
Il secondo modello, definito assimilativo, può essere esemplificato dal
caso francese, o anche da quello americano del passato. Qui la spinta è verso
una rapida assimilazione anche culturale dei nuovi arrivati. È un modello che
punta all’integrazione degli individui, intesi come soggetti sprovvisti di radici e
autonomi (o da rendere tali) rispetto a comunità e tradizioni. […] La convinzione della superiorità del proprio modello civile e nazionale ha informato5 l’ottimismo francese sulla capacità di assimilare gli stranieri in quanto individui,
mentre la formazione di comunità minoritarie è stata lungamente scoraggiata,
in quanto foriera6 di appartenenze parziali, tendenzialmente contrapposte all’identità nazionale. […]
Il terzo modello è quello multiculturale […]. Ha radici nel modello
flessibile e pluralistico della democrazia britannica, e trova attuazioni più avanzate negli Stati Uniti di oggi, in modo ancora più esplicito in Canada […].
Questo modello è ravvisabile nelle società in cui le minoranze interne o straniere si sono consolidate e si è affermata un’idea di tolleranza nei confronti degli immigrati e delle loro culture. Punta a costruire un’organizzazione
sociale di tipo pluralistico, valorizzando e sostenendo la formazione di comunità e di associazioni di immigrati. […]
Comporta però anche effetti contraddittori, di cui si è cominciato a
prendere coscienza: l’enfasi sul mantenimento della lingua e della cultura del
paese d’origine, favorita da programmi educativi specifici, può condizionare il
futuro delle nuove generazioni, favorendone la permanenza nelle enclave etniche7, ma svantaggiandole nello sforzo di inserirsi negli studi superiori e nel mercato del lavoro più aperto. […] Può arrivare a produrre forme di isolamento e
ghettizzazione delle minoranze, anziché inclusione e comunicazione reciproca.
[…]
Vediamo ora, rispetto a queste esperienze, come si colloca il caso italiano e più in generale dell’Europa meridionale. […] Più che di un modello
progettato e costruito esplicitamente dalle istituzioni politiche, si tratta qui di
un modello che si è formato in maniera opaca e inintenzionale, ma non di meno
leggibile a posteriori come una costellazione relativamente coerente di caratteri identificabili:
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Percorso 11
– un arrivo e un insediamento spontaneistico, non derivante da politiche di
reclutamento di manodopera, né da misure efficaci di programmazione degli
ingressi;
– una scarsa regolazione istituzionale, in cui le misure legislative hanno piuttosto rincorso il fenomeno con ricorrenti sanatorie, anziché precederlo e
governarlo;
– un’influenza rilevante degli attori locali (amministrazioni locali, volontariato, associazionismo, istituzioni ecclesiali, sindacati) nelle (minimali) iniziative di accoglienza, rispetto ad una debole regia delle istituzioni pubbliche
nazionali;
– una ricezione contrastata da parte della società ospitante, con aperture motivate su basi umanitarie e crescenti fenomeni di chiusura e rigetto, giustificati sulla base della scarsa percezione di una funzione economica positiva dei
nuovi arrivati, delle crescenti ansie per la sicurezza e l’incolumità personale,
dell’impressione di un processo non governato in maniera efficace, con componenti massicce e inquietanti di clandestinità;
– un inserimento nel lavoro inizialmente contraddistinto in larga misura dall’informalità e dalla precarietà, ma con successivi progressi verso situazioni
più regolari e stabili, anche grazie alla mobilità territoriale e settoriale […];
– una capacità di cogliere i fabbisogni del sistema economico del paese ricevente e di adattarsi ad essi, con riferimento ai settori in cui si sono manifestate negli anni ’90 carenze di offerta di lavoro: essenzialmente le aree del
lavoro povero e flessibile […];
– un’evoluzione piuttosto rapida verso fasi più mature del ciclo migratorio,
con il consolidamento di catene di richiamo e mutuo aiuto, ricongiungimenti familiari, nascita di una seconda generazione, ingresso di questa nel
sistema scolastico.
(M. Ambrosini, La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia,
Bologna, il Mulino, 2001, pp. 15-18, 20-21, 24, 26-29)
Comprensione del testo
1.
2.
3.
Rielaborazione e produzione
Quando l’Italia è divenuto un Paese di immigrazione e quali sono state le prime possibilità occupazionali per gli immigrati stranieri?
Descrivi il «modello implicito» di integrazione
degli immigrati, che caratterizza il caso italiano
e in generale l’Europa meridionale.
Quali sono le differenze tra i modelli di integrazione (temporaneo, assimilativo, multiculturale)
presenti nei Paesi occidentali?
4.
5.
169
Nel quadro dell’immigrazione nell’Europa meridionale, quali sono i limiti delle politiche nazionali sottolineati da Ambrosini?
Nel brano che hai letto l’autore scrive: «non esiste una soglia obiettiva e predeterminata a cui
sia possibile fare riferimento per decidere quale
sia il numero di stranieri «accettabile»». Dopo
averne spiegato il significato, elabora un breve
commento. Sei d’accordo con la tesi dell’autore?
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T4
Il multiculturalismo
Alberto Melucci
Il termine «multiculturalismo», la cui origine può essere datata agli anni
Ottanta del secolo scorso, si è rapidamente diffuso nel linguaggio quotidiano, oltre che in quello scientifico. Il successo del termine è dovuto alle
profonde trasformazioni delle società occidentali, soprattutto con riferimento ai problemi sollevati dal confronto tra soggetti culturalmente diversi
che condividono lo stesso spazio sociale.
Il multiculturalismo non segnala la semplice presenza della diversità culturale nella vita quotidiana, ma mette in evidenza i conflitti che essa può provocare e l’esigenza di considerare le differenze culturali come un valore da
preservare. Esso non riguarda, infatti, soltanto il principio di eguaglianza,
ma chiama in causa il problema del riconoscimento delle specificità culturali. La richiesta di riconoscimento vuole essere alla base delle cosiddette
«politiche della differenza», vale a dire di interventi mirati in grado di valorizzare e difendere le caratteristiche specifiche di un gruppo particolare,
assicurando al tempo stesso le condizioni che favoriscono la convivenza e
la comunicazione interculturale.
L’idea di una società multiculturale non è tuttavia facile da realizzare. Come
osserva Alberto Melucci (1943-2001), uno dei più importanti sociologi italiani, ogni persona appartiene a differenti collettività, ciascuna delle quali
gli conferisce una particolare identità, di diversa importanza a seconda del
contesto. Gli individui sono contemporaneamente membri, cittadini, persone: «appartengono cioè a diversi gruppi; sono inclusi in diverse cerchie di
cittadinanza (sistemi che implicano diritti e doveri verso una collettività);
sono infine individui dotati di una propria autonomia personale e tesi verso qualche forma di realizzazione di sé» (Culture in gioco. Differenze per
convivere, Milano, Il Saggiatore, 2000). Il dibattito sul multiculturalismo rivela dunque una serie di tensioni, tra le quali risultano rilevanti quelle che
scaturiscono dalla necessità «di tenere conto simultaneamente delle differenze e dei bisogni di integrazione».
Il fatto stesso che negli ultimi anni il dibattito sul tema del multiculturalismo abbia assunto diffusione e rilievo internazionali è la testimonianza più
esplicita di un mutamento profondo in corso nella cultura contemporanea. Tale
dibattito mostra anzitutto che non possiamo più essere ingenui sulle parole.
Infatti una larga parte delle discussioni in corso riguarda proprio quali parole si
utilizzano per definire i fenomeni sociali di cui ci stiamo occupando. La nozione di «multiculturalismo», e la parola stessa, sono oggetto di una controversia
che non è solo scientifica, ma riverbera piuttosto nella discussione accademica
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tensioni e lacerazioni sociali che in certi casi assumono dimensioni minacciose
e che hanno riflessi immediati sulle politiche. […]
Perciò la domanda da porsi in partenza riguarda proprio il perché la
diversità sia diventata ad un certo punto un problema. Il momento culturale in
cui ciò è avvenuto per il mondo occidentale si può identificare con una certa
precisione cronologica. È infatti alla fine degli anni ottanta che il tema della differenza culturale diventa oggetto nello stesso tempo di attenzione politica e
scientifica […].
Questa particolare focalizzazione dell’attenzione sul tema delle differenze culturali avvenuta alla fine degli anni ottanta richiede dunque una riflessione sulle condizioni che si sono modificate e che hanno trasformato una
dimensione strutturale permanente della società in una emergenza che ha travolto le certezze della cultura occidentale. Perché dunque la diversità è diventata un problema in questo particolare momento? Nella forma più sintetica, si
può dire che la ragione fondamentale sta nel fatto che nel corso degli anni ottanta, e soprattutto dopo il cataclisma socio-politico rappresentato simbolicamente dal crollo del muro di Berlino, è diventata visibile ed esplicita la fine di una
possibilità su cui la diversità nelle società occidentali aveva sempre potuto contare: il fatto cioè che ci fosse sempre un esterno su cui era possibile proiettare
la diversità stessa.
Alla fine degli anni ottanta, mentre si affermano i processi di integrazione su scala planetaria e cade la divisione bipolare del mondo, si affaccia
in Occidente la consapevolezza esplicita […] che non esiste più un esterno su
cui proiettare le nostre diversità e dunque che lo spazio-tempo nel quale ci
muoviamo comprende l’intero pianeta. Mentre l’Occidente sembra trionfare
come unico punto di riferimento per il mondo intero, esso realizza che lo
spazio-tempo del pianeta, il solo che abbiamo a disposizione, deve contenere
tutte le differenze e che, paradossalmente, la cultura occidentale rappresenta
solo una di esse. L’unico spazio-tempo planetario rende inevitabilmente visibili le differenze e ne fa le componenti necessarie di qualunque possibile convivenza.
Il multiculturalismo, come termine anzitutto, è uno dei risultati di
questa raggiunta consapevolezza. […]
Il dibattito sul multiculturalismo riguarda fenomeni qualitativamente non unificabili, la cui interpretazione richiede quadri analitici assai diversi.
In primo luogo ci sono i fenomeni che rappresentano una eredità tipica dello
stato moderno. Uno dei residui del processo di costruzione dello stato-nazione
è infatti la creazione di minoranze interne marginalizzate: nel corso della unificazione statuale gruppi etnici e territoriali sono esclusi o resi marginali rispetto
ai diritti e alle possibilità che caratterizzano la nuova cittadinanza nazionale. È
questo un tipico problema che caratterizza storicamente la formazione degli stati-nazione occidentali […]. Oggi esso si estende alla formazione di nuovi stati
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Percorso 11
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nei paesi in via di sviluppo, ma si manifesta in certi casi anche come un effetto di consapevolezza proprio grazie all’estendersi del dibattito sulle differenze
[…]. Si tratta in ogni caso di fenomeni che dal punto di vista qualitativo sono
comparabili a quelli che caratterizzano le minoranze rimaste storicamente ai
margini del processo di costruzione dello stato moderno.
Della stessa qualità è il problema delle culture o delle etnie divise fra
più stati, anche se le vicende storiche che hanno prodotto questo tipo di questioni etnico-nazionali sono diverse. Anche qui si tratta di un’eredità del processo di costruzione degli stati moderni e del modo in cui si sono stabilite le
frontiere. Sono spesso questioni difficili, con una lunga storia di conflitti anche
violenti, ma che dobbiamo considerare un residuo irrisolto del processo di formazione dello stato-nazione moderno.
Di tutt’altra natura sono quei fenomeni che derivano dalla creazione di nuovi spazi sovranazionali: pensiamo alla Comunità europea o a quello
che sta avvenendo nel continente nordamericano e nei rapporti tra le due
Americhe. Si tratta di processi di allargamento dei mercati, di estensione della cittadinanza, di integrazione economica e/o politica, all’interno dei quali
emergono nuovi problemi di identità per le minoranze o le comunità locali, si
affermano nuovi diritti alla diversità e nuove domande legate al riconoscimento
di tale diversità.
Ancora diversi sono i problemi legati all’emigrazione. Non è necessario ricordare che le migrazioni sono state da sempre un fenomeno che si è
accompagnato o ha addirittura messo in moto processi di profondo cambiamento sociale. Oggi c’è però, rispetto alle esperienze storiche note, una qualità
specifica e nuova dei processi migratori: essi si concentrano ormai su scala mondiale in una sola direzione e riguardano i rapporti tra sud e nord del mondo.
Sud e nord non sono più solo entità geografiche, ma riferimenti sociali e culturali che qualificano il rapporto tra modello dominante, quello capitalistico
occidentale, e quelli ad esso subalterni: in questo senso si possono leggere nella stessa chiave le migrazioni dai paesi ex-socialisti o le migrazioni regionali verso i centri più sviluppati di un’area sub-continentale (come per esempio nel sudest asiatico). Oggi i processi migratori avvengono tutti all’insegna di questa unica spinta e direzione: dalle periferie verso i centri che rappresentano su scale
diverse la realizzazione del modello di società affluente realizzato dalle grandi
capitali del mondo occidentale. I fenomeni migratori contemporanei espongono in modo violento e rapido le culture subalterne all’impatto con il modello
dominante, oltre che al confronto ravvicinato tra loro producendo anche forme diverse di razzismo […].
Per concludere vorrei affrontare il paradosso introdotto dalle differenze. La differenza mano a mano che si afferma produce altre differenze, e viceversa, via via che si riconoscono e si legittimano delle differenze se ne creano
altre. La differenza ha dunque un potere autogenerativo e autopropulsivo.
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Società, cultura, incontro fra culture
Il problema che nasce, e che la situazione statunitense ha messo bene
in evidenza, è di sapere dove ci si ferma. Il riconoscimento delle differenze culturali e dei diritti delle culture escluse fa appello alla nostra migliore coscienza
democratica ma sottace il fatto che nella situazione contemporanea la spirale
che si è avviata è potenzialmente senza arresto perché nessuno ha il potere di
delimitare il campo.
L’avvitamento su se stessa della Identity Politics1 negli Stati Uniti è l’esempio più evidente di questo paradosso. Benché l’appello alle differenze sia stato un motore importantissimo del cambiamento dagli anni settanta in avanti,
esso è diventato un fattore di frammentazione e di potenziali conflitti intergruppo. Si apre qui una riflessione che rilancia verso gli attori, i soggetti che
affermano la differenza, la responsabilità di una sorta di autolimitazione nella
definizione della propria identità. Tenendo conto che nessuna autorità centrale o nessuna fonte di legittimazione generalizzata può porre oggi dei limiti a tutte le possibili differenze, si deve prevedere una quota quasi inevitabile di conflitti, ma nello stesso tempo occorre lavorare per accrescere le capacità di autolimitazione degli attori.
Da una parte si tratta di costruire gli assetti istituzionali che possano
assumere al meglio la funzione di delimitazione delle differenze, e dall’altra
occorre alimentare nelle culture il potenziale di autolimitazione. C’è a questo
fine una risorsa implicita già presente nella situazione contemporanea: il fatto
che nessuna cultura può oggi riconoscersi come autosufficiente.
C’è in tutte le identità che si costruiscono o ricostruiscono una quota di mancanza e di sofferenza che può costituire una leva forte per la convivenza possibile: riconoscere che gli altri ci mancano significa imparare a limitare le pretese della nostra differenza. Questa capacità di autolimitarsi dovrebbe
costituire uno dei perni centrali dell’educazione «multiculturale», perché quello che ci manca e che gli altri hanno per noi è in questo momento una delle
chiavi fondamentali per fondare il riconoscimento della convivenza.
Percorso 11
1.
Identity Politics: politica
finalizzata a riconoscere
le differenze culturali e
i diritti delle culture
escluse.
(A. Melucci, Multiculturalismo, in Parole chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali,
Roma, Carocci, 2000, pp. 149-53, 155-56).
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. Spiega perché secondo Melucci il multiculturalismo è divenuto dagli anni Ottanta un problema,
oggetto di dibattiti politici e di studio in ambito
accademico.
2. Quali sono i fenomeni sociali riconducibili alla
problematica delle diversità culturali?
3. Spiega il significato del paradosso introdotto dal
riconoscimento delle differenze.
4. Quali sono i presupposti di una «educazione multiculturale»?
5. Elabora uno schema di sintesi del contenuto del
brano.
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Percorso 11
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Società, cultura, incontro fra culture
T5
Le conseguenze della globalizzazione
Zygmunt Bauman
I processi di globalizzazione hanno effetti rilevanti non solo a livello economico e politico, ma anche sul piano culturale. Lo studioso polacco
Zygmunt Bauman (1925-viv.), uno dei più noti sociologi contemporanei, è
un acuto osservatore delle conseguenze della globalizzazione sulla vita quotidiana delle persone. Innanzitutto, cambiano i modi attraverso i quali sono
percepiti ed esperiti lo spazio e il tempo. In un mondo che è in continuo
movimento, gli individui non possono stare fermi. Questo fenomeno è evidente se si considera che da una società basata sulla produzione si è passati a una società incentrata sul consumo. Nella società attuale, infatti, non
si può fare a meno di consumare. La possibilità di consumo, tuttavia, non
è uguale per tutti gli individui. La globalizzazione produce nuove diseguaglianze: quelli che stanno «in alto» e quelli che stanno «in basso» si distinguono per il diverso grado di mobilità.
Bauman mette in evidenza proprio le nuove forme di stratificazione che derivano dalla globalizzazione: si crea una polarizzazione tra chi ha la capacità
e le risorse per «attraversare il mondo» e chi, invece, è costretto a «vederselo passare accanto». Le conseguenze culturali e psicologiche di questa
polarizzazione sono enormi. Da una parte, ci sono coloro che sono liberi di
muoversi e di consumare; dall’altra, coloro che non hanno praticamente
libertà di scelta.
La nostra è una società dei consumi. Ma quando parliamo di società
dei consumi, abbiamo in mente qualcosa di più che non la banale osservazione che tutti i membri della nostra società consumano; tutti gli esseri umani, e
anche tutte le creature viventi hanno sempre «consumato», da tempo immemorabile. Ciò che abbiamo in mente è che la nostra «società dei consumi» lo è
nello stesso senso profondo e fondamentale in cui la società dei nostri predecessori, la società moderna nella sua fase di fondazione, industriale, era una
«società della produzione, dei produttori». […]
La società attuale forma i propri membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società impone una
norma: saper e voler consumare. […]
Le differenze sono così profonde e multiformi che giustificano pienamente che si parli della nostra come di una società dei consumi, un modello separato e distinto. Il consumatore di una società di consumatori è una creatura totalmente diversa dal consumatore di qualsiasi altra società precedente. Se
tra i nostri antenati filosofi, poeti e predicatori si ponevano la questione se si
lavorasse per vivere o si vivesse per lavorare, il dilemma che più spesso si sente
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rimuginare oggi è se si abbia bisogno di consumare per vivere o se si viva per
consumare. […]
La parte del consumatore la si può far balenare a tutti; tutti possono
voler essere consumatori e godere delle opportunità che quel tipo di vita comporta. Ma non tutti possono essere consumatori. Volerlo non basta; per rendere il
desiderio davvero desiderabile, e per poter quindi trarre piacere dal desiderio,
bisogna avere una ragionevole speranza di avvicinarsi a ciò che si desidera. Questa
speranza, che per alcuni è realistico nutrire, per altri è vana. Tutti noi siamo condannati a una vita di scelte, ma non tutti abbiamo i mezzi per scegliere.
Come tutte le società che conosciamo, la società postmoderna, dei
consumi, è una società stratificata. Ma è possibile distinguere un tipo di società dalle altre guardando alle dimensioni che assume la stratificazione dei loro
membri. La misura che definisce quelli «in alto» e quelli «in basso» in una società di consumatori discende dal loro grado di mobilità, cioè dalla libertà di scegliere dove collocarsi.
Una differenza tra quelli «in alto» e quelli «in basso» sta nel fatto che
i primi possono lasciare indietro i secondi, ma non viceversa. Le città contemporanee sono luoghi di una «apartheid1 al contrario»: quanti se lo possono permettere, abbandonano la sporcizia e lo squallore delle zone cui è invece condannato chi non se lo può permettere. […]
C’è poi un’altra differenza. Quelli «in alto» sono convinti di viaggiare attraverso la vita di loro volontà e di scegliere le varie destinazioni in base alle
soddisfazioni che offrono. Quelli «in basso» spesso vengono buttati fuori da
dove vorrebbero stare. […] E se non si muovono, spesso la terra viene strappata sotto i loro piedi, per cui ci si sente comunque in movimento. Se prendono
la strada, nella maggior parte dei casi la loro destinazione la scelgono altri; di
rado è piacevole, e comunque non viene scelta in base alla piacevolezza. Può
darsi che occupino un luogo assolutamente modesto, che lascerebbero volentieri, ma non hanno dove altro andare, dato che non sarebbero i benvenuti da
nessun’altra parte e difficilmente sarebbero autorizzati a piantarvi le tende. […]
Tutti possono essere ormai dei nomadi, nei fatti o nelle attese, ma c’è
un abisso difficile da superare tra le esperienze che si possono avere, rispettivamente, al vertice e alla base della scala della libertà. […]
In effetti, i mondi sedimentati ai due poli, al vertice e al fondo della
emergente gerarchia della mobilità, differiscono nettamente; e tra di essi scende poco alla volta l’incomunicabilità. Per il primo mondo, il mondo di chi è
mobile su scala globale, lo spazio ha perduto la sua qualità di vincolo e viene
facilmente attraversato sia nella sua versione «reale» sia nella sua versione «virtuale». Per il secondo mondo, quello di coloro che sono legati a una località, di
coloro cui è vietato muoversi, costretti perciò a sopportare in modo passivo qualsiasi cambiamento che il luogo cui sono legati è costretto a subire, lo spazio reale si va rapidamente restringendo. […]
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Percorso 11
1.
apartheid: politica di
segregazione razziale.
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Percorso 11
2.
ridondante:
sovrabbondante.
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Società, cultura, incontro fra culture
Il contrarsi dello spazio abolisce il fluire del tempo. Gli abitanti del
primo mondo vivono in un perpetuo presente, immergendosi in una sequenza
di eventi che quasi un cordone sanitario isola sia dal passato sia dal futuro.
Questa gente è costantemente occupata e non «ha» mai «tempo», dato che ogni
istante è privo di estensione, un’esperienza identica a quella di un tempo che ti
impegna fino al colmo, quasi a soffocarti. La gente condannata al mondo opposto è schiacciata dal peso di un tempo che non passa mai, ridondante2 e inutile, un tempo che non si sa come riempire. In quel tipo di tempo «non succede
mai niente». Questa gente non «controlla» il tempo, ma non ne è neppure controllata, a differenza dei nostri antenati che timbravano il cartellino all’entrata
e all’uscita, assoggettati al ritmo senza volto della fabbrica. Essi possono solo
ammazzare il tempo, e ne sono lentamente uccisi.
I residenti del primo mondo vivono nel tempo; lo spazio non conta
per loro, dato che attraversare qualsiasi distanza è ormai istantaneo. […] I residenti del secondo mondo, invece, vivono nello spazio: pesante, gommoso, intoccabile, che lega il tempo e lo tiene al di fuori del controllo dei residenti. Il loro
tempo è vuoto; nel loro tempo «non succede mai nulla». […]
Per gli abitanti del primo mondo […] i confini statali sono aperti, e
sono smantellati per le merci, i capitali, la finanza. Per gli abitanti del secondo
mondo, i muri rappresentati dai controlli all’immigrazione, dalle leggi sulla residenza, dalle «strade pulite» e dalla «nessuna tolleranza» dell’ordine pubblico, si
fanno più spessi; si fanno più profondi i fossati che li separano dai luoghi dove
aspirerebbero ad andare e dai sogni di redenzione, mentre tutti i ponti, appena
provano ad attraversarli, si dimostrano ponti levatoi. I primi viaggiano quando
vogliono, dal viaggio traggono piacere (specialmente se viaggiano in prima classe o con aerei privati), sono indotti a viaggiare o vengono pagati per farlo e,
quando lo fanno, sono accolti col sorriso del benvenuto e a braccia aperte. I
secondi viaggiano da clandestini, spesso illegalmente. Accade ancora che paghino per l’affollata stiva di barche puzzolenti e rabberciate più di quanto gli altri
non paghino per il lusso dorato della «classe affari». Ciononostante, li si guarda con disprezzo e, se la fortuna non li assiste, vengono arrestati e immediatamente deportati al primo arrivo.
(Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone,
Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 89-91, 96-100)
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. Quali sono le caratteristiche della società del
consumo in cui viviamo?
2. Perché la globalizzazione crea una nuova stratificazione, differenziando chi sta «in alto» e chi
sta «in basso»?
3. Spiega perché l’autore definisce le città contemporanee «luoghi di una apartheid al contrario».
4. Suddividi il brano in sequenze e a ciascuna attribuisci un titolo.
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