Liceo Linguistico V anno (Progetto Brocca)
Programma di Latino
Disegno storico della letteratura latina dall'età di Tiberio fino alla caduta dell'Impero
Romano d'Occidente, integrato convenientemente dalla lettura di testi in originale o in
traduzione italiana.
L'insegnante curerà una sintesi della storia della letteratura latina in modo da consentire
all'alunno di seguire l'essenziale svolgimento attraverso le varie epoche, con particolare
riguardo ai seguenti scrittori:
a)
b)
c)
d)
e)
f)
g)
h)
i)
j)
k)
l)
m)
n)
o)
p)
q)
r)
s)
Catullo;
Cesare;
Cicerone;
Livio;
Lucrezio;
Varrone;
Orazio;
Ovidio;
Petronio;
Plauto;
Plinio il Vecchio;
Quintiliano;
Sallustio;
Sant’Agostino.
Seneca;
Tacito;
Tertulliano;
Virgilio;
Vitruvio;
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Latino
Catullo
Nasce intorno all'84 a.C. a Verona nella Gallia Cisalpina da famiglia benestante e in rapporti di
stretta amicizia con Cesare.
Dopo essere stato preparato dai migliori grammatici della Gallia Cisalpina, forse dopo aver
indossato la toga virile, si portò a Roma per raffinare, con i tradizionali studi di retorica, la propria
preparazione culturale. A Roma conobbe importanti personalità del mondo culturale: tra esse lo
storico Cornelio Nipote. Ma, certo, ai fini della carriera poetica, si rivelò importante l'incontro con
altri giovani, prevalentemente provenienti, come lui, dalla Gallia Cisalpina, interessati alla
proclamazione di nuovi ideali di poesia, in aperto conflitto con la tradizione precedente. Tra essi,
definiti sprezzantemente poetae novi da uno strenuo difensore della tradizione letteraria quale fu
Cicerone, furono particolarmente cari a Catullo, Licinio Calvo ed Elvio Cinna.
Accanto al poeta stava sempre, però, l'uomo, con i suoi affetti. Importante fu quello che lo legò al
fratello, alla morte del quale (avvenuta nella lontana Troade intorno al 60 a.C.), per circa due anni,
abbandona la dimora romana per far ritorno a Verona, presso la sua famiglia.
Importante -centrale si potrebbe dire, alla luce della traccia che ha lasciato nell'opera poetica- risultò
certo l'incontro con Lesbia, la donna del cuore.
Nel 57 Catullo andò in Bitinia, al seguito del governatore Gaio Memmio: l'anno dopo, sulla strada
del ritorno, nella Troade, per la prima ed ultima volta, rese omaggio alla tomba del fratello (carme
101). Un paio di anni dopo, a trent'anni di età, la morte.
Catullo Carme 5
Viviamo davvero, mia Lesbia, e amiamo
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum seueriorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
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2
Commento:
Carme di fondamentale importanza, il 5, per saggiare, intorno alla tematica dell'amore, la novità
delle posizioni dei poetae novi rispetto a quelle del mos maiorum. L'amore è vissuto da Catullo
come l'esperienza capitale della propria vita, capace di riempirla e di darle un senso. All'eros non è
più riservato lo spazio marginale che gli accordava la morale tradizionale (come ad una debolezza
giovanile, tollerabile purché non infrangesse certe limitazioni e convenienze soprattutto di ordine
sociale), ma esso diventa centro dell'esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la
fugacità della vita umana.
Versi 1-3 A tutti i tradizionalisti, Catullo oppone la sua nuova filosofia della vita, condensata
nell'equazione vivere uguale amare, e dichiarata con energico piglio al v.1. Il poeta esorta la sua
donna a vivere intensamente (vivo ha qui un significato più pieno e forte del solito) e ad amare. La
vita, dunque, per Catullo coincide nella sua più vera essenza con la passione amorosa. Notevole è la
disposizione dei due verbi all'inizio e alla fine del medesimo verso.
Con la terza esortazione Catullo invita a non tener conto (nota l'efficace accostamento omnes
unius ad inizio di verso!) i rimbrotti dei vecchi troppo severi di coloro, cioè, che, vuoi per ragioni
anagrafiche, vuoi per un radicato conservatorismo morale, non riescono proprio a giustificare
l'equazione vivere davvero uguale amare, definita dal poeta al v.1. Dunque la vera vita non è quella
indicata dal mos maiorum e spesa al servizio della comunità, nei ranghi della politica o in quelli
dell'esercito, bensì quella al cui centro sta la relazione con la donna amata, vissuta con un'intensità
tanto vera da non aver bisogno dei vincoli giuridici del matrimonio.
Versi 4-6 In questi tre versi il poeta giustifica il suo nuovo sentimento della vita. Questa va vissuta
intensamente nel vortice della gioia amorosa, perché destinata a spegnersi presto nel buio di una
notte senza fine, non valendo per l'uomo quel ritmo, mai smentito, che vale, invece, per la natura ("i
soli possono tramontare e risorgere": v.4). Lux e nox (equivalenti rispettivamente a vita e morte
secondo una metafora comune nel linguaggio poetico) sono collocati alla fine (e il monosillabo
finale è davvero una raffinata rarità metrico - stilistica) e all'inizio di due versi successivi, quasi a
marcare ulteriormente la loro opposizione semantica.
Versi 7-9 La giustificazione dei vv. 4-6 ha fatto dimenticare, con le sue immagini di morte, l'invito
ad amare con cui si era aperto il carme. Catullo sente perciò ancora più intensa la necessità dello
slancio passionale ed invita Lesbia a sommergerlo di baci (dal congiuntivo esortativo dei primi tre
versi si passa all'ordine, deciso e risoluto dell'imperativo da: v.7), senza sosta (cfr. usque del v.9 che
vale, appunto, "di continuo").
Versi 10-13 Non importa, sembra dire nei versi precedenti Catullo, la forma assunta dall'amore, ma
la sua sostanza, la sua profondità: la calda passione (una vera cascata di baci è quella richiesta nei
vv 7-9), vissuta con sincera intensità, è la sola a dare vero significato alla nostra esperienza terrena,
destinata a spegnersi nel buio di una notte senza più giorno (vv.4-6). I baci travolgono Lesbia e
Catullo, ma sarà prudente, quando saranno migliaia, non tenerne più il conto (come invece accadeva
nei versi precedenti) per non saperne il numero (e, probabilmente, spaventati da esso, smettere)
oppure perché qualcuno, venuto a conoscenza della grande quantità di baci, non getti malevolo sugli
amanti il malocchio.
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Marco Tullio Cicerone
La vita
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino , nei pressi dell' attuale Frosinone , da agiata
famiglia equestre ; compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro
sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso e dei due Scevola . Strinse con Tito
Pomponio Attico un' amicizia destinata a durare per tutta la vita .
Nell' 81 , o forse anche prima , debuttò come avvocato e nell' 80 difese la causa di Sesto Roscio (
accusato di parricidio ) , che lo mise in conflitto con autorevoli esponenti del regime sillano . Tra il
79 e il 77 si allontanò da Roma ( forse per paura di rappresaglie dopo il grande successo della sua
orazione a difesa di Roscio ) ed effettuò un lungo viaggio in Grecia e in Asia dove studiò la
filosofia e , sotto la guida di Molone di Rodi , la retorica .
Al ritorno sposò Terenzia , dalla quale nacquero Tullia ( che Cicerone appellò affettuosamente "
Tulliola " ) , nel 76 , e Marco , nel 65 . Nel 75 fu questore di Sicilia e nel 70 sostenne trionfalmente
l' accusa dei Siciliani contro l' ex governatore Verre , accusato di truffa e di empietà ( faceva rubare
le statue dai templi ! ) ; con questa esperienza Cicerone si guadagnò fama di oratore principe .
Nel 69 fu edile , nel 66 pretore e diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo poteri
straordinari per la lotta contro il re del Ponto, Mitridate , facendo così gli interessi degli equites ( lui
stesso era di famiglia equestre ) che venivano ostacolati nel loro lavoro di esattori delle imposte da
Mitridate, ma nello stesso tempo tutelò anche i suoi stessi interessi , accattivandosi la simpatia del
ceto equestre.
Nel 63 fu eletto console e soffocò in modo duro la congiura di Catilina , che aveva cercato di salire
al potere in modo illegale e di stravolgere la res publica : in quest' occasione compose le quattro
Catilinarie , con le quali svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta
vistosi sconfitto nella competizione elettorale : esse , con i loro toni veementi , minacciosi e carichi
di pathos , possono essere considerate il suo capolavoro consolare : il celebre inizio ( Quo usque
tandem abutere , Catilina , patientia nostra ? ) é molto esplicativo in tal senso . In esse fece , tra l'
altro , uso di un artificio retorico singolare : l' introduzione di una prosopopea ( personificazione )
della Patria , la quale rimproverava aspramente Catilina stesso .
Dopo la formazione del primo triunvirato , cui Cicerone guardava con preoccupazione perchè
riteneva che potesse essere insidiosa per l' autorità senatoria , il suo astro iniziò a decadere : nel 58
dovette recarsi in esilio , con l' accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina e
la sua casa venne rasa al suolo . Richiamato a Roma , vi rientrò trionfalmente nel 57 .
Nel 52 Clodio , acerrimo nemico di Cicerone , rimase ucciso e questo fatto pesò su Milone , il
diretto rivale di Clodio ; Cicerone assunse le difese di Milone componendo la Pro Milone , una
delle sue opere meglio riuscite.
Nel 51 fu governatore di Cilicia , pur avendo accettato a malincuore di allontanarsi da Roma . Allo
scoppio della guerra civile ( 49 ) aderì con scarso entusiasmo alla causa di Pompeo ; dopo la
sconfitta di quest' ultimo ottenne il perdono da Cesare.
Negli anni successivi divorziò da Terenzia e si risposò con la sua giovane pupilla Publilia , dalla
quale tuttavia divorziò dopo pochi mesi . Nel 45 morì la figlia Tullia e in quegli anni iniziò la
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composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo teneva distante
dalle vicende politiche.
Nel 44 , dopo l' assassinio di Cesare , tornò alla vita politica e cominciò la lotta contro Antonio ;
pronunciò le Filippiche ( in totale18 ) per indurre il senato a dichiarargli guerra contro il nemico
pubblico; sono orazioni in cui serpeggia l' odio, dove Antonio viene presentato come un tiranno
assoluto, un ladro di denaro pubblico, un ubriacone ( " che vomita in tutto il tribunale pezzi di cibo
fetidi di vino " ). Ma la manovra politica di Cicerone era destinata a fallire . Con un brusco
voltafaccia , Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato , e strinse un accordo con Antonio e un
altro capo cesariano , Lepido ( secondo triumvirato ). I tre divennero così padroni assoluti di Roma.
Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone , il cui nome venne inserito nelle liste di
proscrizione. Venne raggiunto dai sicari presso Formia, dopo che aveva intrapreso un tentativo di
fuga , ai primi di dicembre del 43 ; pare che le sue mani, autrici di una miriade di scritti , siano state
appese nel foro.
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Gaio Giulio Cesare
Nato a Roma, nel quartiere popolare della Suburra, ebbe subito ambizioni politiche di carattere
popolare legate a Mario. La morte di Catilina e il ritorno di Pompeo dall'Asia sembrava avessero
rinsaldato la posizione dell'oligarchia senatoria, ma Pompeo si trovò di fronte l'opposizione del
Senato e due rivali: Crasso e Cesare, appunto.
L'atteggiamento dei senatori, che rifiutarono di concedere le terre ai suoi veterani, spinse Pompeo a
intendersi con Crasso e Cesare, coi quali strinse un accordo prima segreto e poi palese, di carattere
privato, che fu detto triumvirato, per una spartizione amichevole delle forze militari e dei comandi
nelle province.
A Cesare fu assicurato il consolato per l'anno 59 a. C., Pompeo ebbe il governo della Spagna,
Crasso il comando di una spedizione in Asia contro i Parti; a Cesare toccò inoltre per cinque anni il
comando della Gallia Narbonese. L'accordo ebbe attuazione pratica con l'elezione di Cesare al
consolato; egli fece approvare la legge che assicurava la distribuzione di terre ai veterani di
Pompeo.
Cesare poté quindi intervenire nella Gallia dove era stato chiamato in aiuto gli Edui, minacciati
dalla migrazione degli Elvezi. Scacciò i Suebi in Germania e sottomise i Belgi. Sbarcò in Britannia
negli anni 55 e 54 a.C., ma non poté insistere in questa impresa a causa della rivolta generale dei
Galli sotto Vercingetorige (52 a.C.), capo di eccellenti qualità militari, che Cesare, dopo aver perso
a Gergovia, costrinse a chiudersi ad Alesia, nella famosa battaglia dei due valli, ed a darsi
prigioniero: la Gallia nel 51 a.C. era sottomessa.
Durante la guerra gallica a Roma non erano cessati i disordini e si avvertiva il bisogno di stabilire
un maggiore equilibrio fra i triumviri. Così a Lucca, nel 56 a. C., si riunirono i triunviri e si
concordò che Cesare e Pompeo, divenuti consoli per l'anno 55 a.C. avrebbero spartito il potere. Ma
l'equilibrio fu rotto nel 53 a.C. per la morte di Crasso nella guerra contro i Parti: restavano di
fronte Cesare e Pompeo.
Cesare e Pompeo
Il conflitto tra i due avversari scoppiò nell'anno 50 a.C.. Pompeo voleva conseguire il primato a
Roma con il consenso e la sanzione del Senato; Cesare, senza scrupoli costituzionali, mirava a un
potere fondato sull'appoggio dell'esercito. A una dubbia decisione del Senato di sostituirlo nel
comando della Gallia, Cesare, non avendo altra via che la ribellione per conservare il proprio
potere, si oppose con la forza e nella notte del 10 gennaio dell'anno 49 a.C. varcò in armi il
fiume Rubicone (che segnava il confine fra l'Italia propria e la Gallia Cisalpina), occupò Rimini e
avanzò su Roma, dalla quale fuggirono Pompeo ed i senatori.
La battaglia decisiva fu combattuta a Farsalo in Tessaglia, e Pompeo, vinto, fuggì in Egitto
dove Tolomeo XIV lo fece uccidere a tradimento (48 a. C.), provocando un sincero dolore in
Cesare.
Quest'ultimo, occupata l'Italia e le isole, passò in Egitto dove assegnò a Cleopatra, di cui si era
innamorato, il potere tolto a Tolomeo XIV .
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Nel 47 a.C. intraprese una campagna militare che rapidamente concluse a Tapso (febbraio del 46); i
superstiti seguaci di Pompeo fuggirono in Spagna, ove la resistenza anticesariana fu spezzata
definitivamente con la vittoria di Munda, nel marzo del 45 a. C.
La dittatura
Cesare era padrone di Roma: si fece conferire la dittatura e anche la praefectura morum, propria dei
censori, per dieci anni e iniziò una vasta opera di riforma dello Stato: completò l'allargamento della
cittadinanza estendendola ai Galli dell'Italia Transpadana, restituì i tribunali al Senato e ai cavalieri,
limitò il lusso, restrinse l'elenco dei proletari che avevano diritto alle distribuzioni gratuite di
frumento, attuò un largo piano di colonizzazione in Italia e fuori d'Italia (nella Gallia Narbonese, in
Africa dove fu ricostruita Cartagine, in Grecia con la ricostruzione di Corinto); riformò il calendario
portando anche gennaio, agosto e dicembre a 31 giorni e a 30 aprile, giugno, settembre e novembre,
formando così l'anno di 365 giorni, ai quali veniva aggiunto il 366° ogni quattro anni (anno
bisestile).
Per l'attuazione delle riforme e per la sistemazione del dominio romano, Cesare disponeva di una
grande potenza materiale basata sull'esercito e di un ascendente morale senza limiti. Rispettoso del
potere politico della plebe, conservò all'assemblea plebea (i comizi tributi), il diritto di nominare i
tribuni e gli edili e di promulgare plebisciti; ma tolse al popolo il diritto di associazione, abolendo le
corporazioni artigiane.
Pensò che fosse urgente assicurare la giustizia amministrativa nelle province, eliminando ogni
abuso di funzionari, per mezzo della legge de repetundis , che conservò valore fino a Giustiniano.
Favorì l'elevazione graduale delle popolazioni per giungere a un livellamento fra l'Italia e il mondo
romano, ma era persuaso che alle province orientali si dovesse lasciare il loro carattere culturale
greco, mentre l'opera di romanizzazione doveva attuarsi in occidente.
Ma mentre Cesare stava preparando una spedizione contro i Parti per vendicare la sconfitta di
Crasso, i capi dell'opposizione, Gaio Cassio Longino e Marco Giunio Bruto, congiurarono contro
di lui: Cesare fu ucciso il 15 marzo del 44 a. C .
De Bello Gallico
Il De bello Gallico (in latino "La guerra gallica") è lo scritto sicuramente più conosciuto di Gaio
Giulio Cesare. In origine, era probabilmente intitolato C. Iulii Caesaris commentarii rerum
gestarum, mentre il titolo con cui è oggi noto è un'aggiunta successiva.
Cesare visse in prima persona tutte le vicende riguardanti la conquista della Gallia. Uomo di grande
cultura, appassionato di arte e filosofia, descrisse minuziosamente la sua campagna militare,
inserendo nella narrazione molte curiosità sugli usi e sui costumi delle tribù barbariche con cui
veniva a contatto, oltre a tentare di difendere il proprio operato. Non si potrà dunque ritenerla
un'opera davvero rigorosa dal punto di vista storico, proprio perché in parte autobiografica, anche se
l'aspetto stilisticamente semplice (e perfino talora volutamente trasandato) potrebbe far pensare ad
una raccolta di burocratici rapporti al Senato.
L'opera fu scritta fra il 58 e il 50 a.C. e si divide in otto libri.
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Nei primi sette, dettati da Cesare ai suoi luogotenenti, è offerta una puntigliosa descrizione etnicogeografica non solo della Gallia ma anche della Germania prossima al Reno e della Britannia, ed è
data una rassegna delle forze in campo; si concludono con la narrazione della battaglia di Alesia,
presso Digione, vinta contro Vercingetorige, re degli Arverni (tribù stanziata nell'odierna Francia
centrale).
L'ottavo libro, scritto da Aulo Irzio, narra gli eventi successivi alla guerra, in particolare le
spedizioni finalizzate a sedare gli ultimi focolai della rivolta.
Il De bello Gallico fu redatto da Cesare in terza persona, come diario di guerra, con l'intento di
conferire una patina di oggettività e di difendere la propria persona e la propria condotta politicomilitare, osteggiata a Roma da gran parte del senato. L'ambizione e le capacità politiche del
condottiero erano, infatti, eccezionali e assai temute da una corporazione politica, indebolita dal
volgere degli eventi e dai mali di sempre: corruzione, interesse personale nell'attività pubblica e
vendette tra fazioni. Oltre alla terza persona, una caratteristica dello stile di Cesare è l'uso della
"oratio obliqua" ovvero del discorso indiretto per ottenere uno stile più uniforme e privo degli
artifizi dell'arte oratoria.
Cesare ricorse spesso a temi di riferimento ideologico: Fortuna, Clementia, Iustitia e Celeritas.
Si trattava di veri e propri slogan politici, parole d’ordine celebrative che sarebbero state utilizzate
in seguito anche nella guerra contro Pompeo. Con particolare insistenza Cesare celebrava Fortuna,
la dea del fato che aveva nelle mani il destino di ogni esercito.
Il merito della vittoria e del successo era dunque nient’altro che derivato dal favore della sorte e, di
conseguenza, anche simbolo di protezione divina.
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Quinto Oratio Flacco
Quinto Orazio Flacco, è stato un poeta romano. Considerato uno dei maggiori poeti dell'età antica,
nonché maestro di eleganza stilistica e dotato di inusuale ironia, seppe affrontare le vicissitudini
politiche e civili del suo tempo da placido epicureo amante dei piaceri della vita, dettando quelli che
per molti sono ancora i canoni dell'ars vivendi.
Nacque l'8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, Basilicata, figlio di un fattore liberto che si trasferì poi
a Roma per fare l'esattore delle aste pubbliche (coactor), compito poco stimato, ma redditizio. Il
poeta era dunque di umili origini, ma di buona condizione economica. Orazio seguì perciò un
regolare corso di studi a Roma, sotto l'insegnamento del grammatico Orbilio e poi ad Atene, all'età
di circa vent'anni, dove studiò greco e filosofia. Qui entrò in contatto con la lezione epicurea ma,
sebbene se ne sentisse particolarmente attratto, decise di non aderire alla scuola. Sarà all'interno
dell'ambiente romano che Orazio aderirà alla corrente, la quale gli permise di trovare un rifugio
nell'otium contemplativo.
Quando scoppiò la guerra civile Orazio si arruolò, dopo la morte di Cesare, nell'esercito di Bruto,
nel quale il poeta incarnò il proprio ideale di libertà in antitesi alla tirannide imperante e combatté
come tribuno militare nella battaglia di Filippi (42 a.C.), persa dai sostenitori di Bruto e vinta da
Ottaviano.
Nel 41 a.C. tornò in Italia grazie a un'amnistia e, appresa la notizia della confisca del podere
paterno, si mantenne divenendo segretario di un questore (scriba quaestorius): in questo periodo
cominciò a scrivere versi, che iniziarono a dargli una certa fama.
Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario, probabilmente incontrati nel contesto
delle scuole epicuree di Sirone, presso Napoli ed Ercolano. Dopo nove mesi Mecenate lo ammise
nel suo circolo. Da allora Orazio si dedicò interamente alla letteratura, non si sposò mai e non ebbe
figli.
Mecenate gli donò nel 33 a.C. un piccolo possedimento in Sabina, le cui rovine sono ancor oggi
visitabili nei pressi di Licenza (RM), cosa molto gradita al poeta che, in perfetta osservanza del
modus vivendi predicato da Epicuro, non amava la vita cittadina.
Con la sua poesia fece spesso azioni di propaganda per l’imperatore Augusto. Esempi di
propaganda augustea sono, ad ogni modo, alcune Odi e il Carmen saeculare, composto nel 17
a.C. in occasione della ricorrenza dei Ludi Saeculares.
Morì nel novembre dell'8 a.C. e fu sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo amico Mecenate,
morto solo due mesi prima.
Orazio e il rapporto con la morte
Verso la fine dell'impero la romanità cominciò a perdere fede nel sistema religioso del paganesimo,
che non li difendeva più dai nemici e soprattutto dai barbari. L'epicureismo è una delle scuole di
pensiero che si fa domande sull'uomo e sul suo comportamento, in fondo cerca una risposta ai mali
e ai dolori del mondo, che non devono offuscare la gioia di vivere.
Orazio aderisce parzialmente all’epicureismo, anch’egli alla ricerca di risposte sui grandi temi
esistenziali, risposte che di fatto non troverà mai: il poeta sembra infatti non essere mai sfuggito
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all’angoscia della morte, percepita sempre come imminente. È interessante analizzare la visione che
il poeta latino aveva dell’aldilà, in quanto è indubbiamente molto sincera: sebbene velata da una
certa sicurezza, propria di quella "aurea mediocritas" di cui Orazio voleva essere esempio, in
molteplici occasioni traspare una vena di malinconia, accompagnata da cupe note di lirismo e di
elegia, che tradisce il suo reale stato interiore. Orazio appare, a sprazzi, come quello che forse
veramente era: un uomo che ha trovato nella vita il rifugio dalla morte, ma che in verità non è mai
riuscito a curare del tutto la paura della morte, che preferisce fuggire piuttosto che combattere
stoicamente. La sua personalità può quindi risultare, ad una prima lettura, ambigua: tale ambiguità
nasce dalla discordanza che talvolta si viene a creare tra l’immagine che Orazio voleva dare di sé, e
la vera personalità del poeta che inevitabilmente trapassa dalla righe.
Dai versi di Orazio, quando il poeta parla della morte, risulta davvero difficile cogliere una nota di
serenità, di gioia: il sentimento che invece predomina e che si identifica nella reazione psicologica
del poeta di fronte alla morte, è una triste accettazione di un fatto naturale.
Inutile e vana è la religione, incapace di porre un rimedio (moram) all’incalzante vecchiaia e alla
morte: questo è il punto di vista del poeta riguardo alla religione, e traduce un sentimento diffuso ed
esteso a tutta la romanità del secolo. La religione è ormai incapace di dare spiegazioni sufficienti
riguardo alla vita dopo la morte, il fervore religioso (pietas) non potrà salvare l’uomo dalla sua
naturale condizione di mortale.
Risulta chiara la percezione che Orazio aveva della morte, percezione che spiega e motiva la sua
scelta di vita: una vita caratterizzata dal godere del presente e delle poche gioie che la vita ci offre
(identificabili principalmente nell’amicizia, nel convivio, nella pace interiore) e che ci consentono
di vivere con serenità e stabilità. Orazio appare a tratti molto pessimista: la morte è sempre in
agguato e la vita potrebbe finire in ogni momento; è meglio, quindi, non riporre le proprie speranze
nel domani. Questa idea di brevità della vita è un ulteriore invito a godersi la vita il più possibile,
concetto che ritroviamo in numerosi versi.
Il tempo è in una fuga perpetua, che non lascia adito a speranze future: occorre sfruttare al massimo
il tempo che ci è concesso, e considerare ogni giorno che ci è dato come un dono.
Orazio è considerato dal classicismo uno dei più importanti poeti latini, citato addirittura
nell'Inferno di Dante nel Limbo, al verso 89 del Canto IV. Molte delle sue frasi sono diventate modi
di dire ancora in uso: esempi sono carpe diem, nunc est bibendum e aurea mediocritas.
Le opere
a) Satire (Saturae o Sermones, come le definisce l'autore), in due libri che comprendono 18
satire, scritte tra il 41 e il 30 a.C.: il I libro (10 satire) fu dedicato a Mecenate e pubblicato
tra il 35 e il 33 a.C., mentre il II libro (8 satire) fu pubblicato nel 30 a.C. insieme agli Epodi.
b) Epodi (Epodon libri o Iambi, come li definisce l'autore), 17 componimenti, pubblicati nel 30 a.C.
c) Odi (Carmina, come li definisce l'autore), in tre libri con 88 componimenti, pubblicati nel 23
a.C. Un quarto libro con altri 15 componimenti venne pubblicato intorno al13 a.C.
d) Epistole, in due libri. Il I libro comprende 20 lettere composte a partire dal 23 e pubblicate
nel 20 a.C., con dedica a Mecenate, mentre il II libro, con tre lettere, scritto tra il 19 e il 13 a.C.,
comprende l'epistola ai Pisoni, o Ars Poetica in 476 esametri, che fu presa a canone per la
composizione poetica nelle epoche successive.
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e) Carme secolare (Carmen saeculare), del 17 a.C., scritto per incarico di Augusto e destinato alla
cerimonia conclusiva dei ludi saeculares.
Il Carmen saeculare è un inno in diciannove strofe saffiche. Esso fu cantato il 3 giugno del 17
a.C. sul Palatino e sul Campidoglio da un coro di giovani fanciulle durante i Ludi saeculares, voluti
dall'imperatore Augusto per celebrare la venuta dell'età dell'oro preannunciata dalla IV ecloga
di Virgilio.
Lo stile del carme è elevato e solenne e possiede un carattere rituale e religioso. Infatti sono
frequenti le invocazioni ad Apollo, a Diana, al Sole, a Ilizia, alle Parche e alla Terra. Il
componimento termina con l'encomio ad Augusto, considerato discendente di Venere.
Nel carme Orazio manifesta la sua partecipazione all'ideologia augustea e la sua fede nella
grandezza di Roma.
Il carme secolare è la celebrazione di Augusto e della potenza di Roma sul mondo ed esprime
l'augurio che essa non possa mai morire. Il carme è un invito agli dei a dare lunga prosperità ai
romani. Il carme risulta una preghiera perfetta e si può dire che rappresenta l'apoteosi della cultura
pagana e la perfezione della poesia di Orazio.
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Publio Ovidio Nasone
Biografia
Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona nel 43 a.C. da famiglia di rango equestre e, giovanissimo,
si recò a Roma ove frequentò le migliori scuole di eloquenza e di retorica. Abbandonò tuttavia
presto gli studi per dedicarsi alla poesia, sorretto da uno straordinaria facilità a comporre versi.
Fece parte del Circolo di Messalla e divenne il poeta alla moda, cantore di una società che, dopo
essere uscita dall’incubo dalle guerre civili, assaporava i frutti della pace abbandonandosi al lusso e
al consumismo, in palese contraddizione con i programmi di restaurazione morale che costituivano
uno dei punti fondamentali del programma di Augusto. Ovidio diede a questa società il prodotto
letterario che ne rispecchiava fedelmente i modelli di comportamento e per questo riscosse un
successo immediato e strepitoso.
Nell’8 d.C., con procedura eccezionale, Ovidio venne relegato da Augusto a Tomi (oggi Costanza),
sul Mar Nero, nella Scizia, e nonostante le suppliche sue, della moglie e degli amici, vi rimase fino
alla morte avvenuta nel 17 o nel 18 a.C. Sulle vere ragioni dell’esilio, è calata, sin dall’antichità,
una fitta e impenetrabile cortina di silenzio e la vicenda di Ovidio costituisce ancora oggi un enigma
per la cui soluzione si possono formulare soltanto ipotesi: la più probabile è che Ovidio sia stato più
o meno involontariamente complice o per lo meno testimone di qualche grosso scandalo che
coinvolse la stessa famiglia imperiale.
La produzione di Ovidio è vastissima e comprende varie opere di carattere amoroso come
gli Amores , le Heroides, l’Ars Amatoria, i Remedia Amores, di argomento mitologico come
le Metamorfosi e i Fasti, di carattere personale come i Tristia e le Epistulae ex Ponto scritte
dall’esilio per impietosire Augusto e cercare invano di ottenere la revoca del grave provvedimento.
Le opere
“METAMORFOSI”
Le "Metamorfosi" ("Metamorphoseon libri XV") sono l’opera più importante e impegnativa di
Ovidio, il "poema delle trasformazioni", che l’autore iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15
libri di esametri (unica opera, nella sua produzione, scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti
uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della
natura, animata e inanimata.
Opera in apparenza disorganica e "barocca", frutto quasi di un'obbedienza eccessiva alle norme
della "varietas", le "Metamorfosi" rivelano invero la loro unità nella concezione di una natura
animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura
intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una
creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso.
Numerose possono essere considerate le "fonti" ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori
che Ovidio deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla
letteratura alessandrina, ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e,
occasionalmente, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni
trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci).
E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e
colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro
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sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e
l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega
l'uomo alla natura.
L'opera, così, inizia dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a
pervenire alla trasformazione in astro (= "catasterismo") di Cesare divinizzato e alla celebrazione di
Augusto, ripercorrendo in tal modo tutte le fasi del mito e della storia universale, attraverso il
motivo conduttore della mutazione continua.
Il poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera, di comporre un "carmen continuum",
un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche - come visto - dal punto di vista "cronologico".
Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, Ovidio pone sulle
labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell'universo, inteso appunto come
luogo di eterna trasformazione. Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle
dichiarazioni stesse del poeta, le "Metamorfosi", nonostante apparenti disuguaglianze strutturali
(per cui, mentre alcuni miti sono largamente esplicitati, altri sono di sfuggita accennati in pochi
versi), restano tuttavia un poema unitario e di superiore armonia.
Accanto al mito, l'amore è l'altro grande tema del poema, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e
galanterie, cantato negli "Amores" e nell’ "Ars", bensì l'amore del mito,un amore che conosce
un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa,
alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro
trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre il loro amore coniugale, così come solo la
trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d'alloro si
trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare.
Strani, questi amori delle "Metamorfosi", spesso impossibili o abnormi: di Eco, innamorata di
Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire,
si ridurrà a un fiore. Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le
forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che
egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di
donna viva; cosi è della ninfa Salmacide, che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue
membra a quelle dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà
sciogliersi: l'Ermafrodito; così e dell'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che
intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori: muoiono entrambi a causa di un
tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi, le bacche del gelso (l'albero del loro fatale
incontro) da bianche divengono scure.
Tutto questo è solo un breve accenno alla costellazione di miti e trasformazioni che puntellano ed
impreziosiscono il racconto. Infine, si può deplorare che l'opera non ha potuto avere l'ultima lima
del poeta, quando questi subì la condanna. Anzi, essa sarebbe andata perduta (se è vero che Ovidio,
in un momento d'ira contro la prosapia d'Augusto da lui pur glorificata, l'aveva gettata alle fiamme),
se non fosse stata pubblicata, dietro incarico del poeta stesso da Tomi, a cura d'un amico, che ne
possedeva fortunatamente una copia.
ALTRE OPERE: Ovidio fu uno scrittore particolarmente fecondo; le sue opere sono raggruppabili
all’interno di tre cicli: OPERE ELEGIACHE: -Amores: tre libri di elegie, che cantano l’amore del
poeta per Corinna e altre donne, e raccontano avventure galanti nella cornice della frivola società
romana.
OPERE EPICO-MITOLOGICHE: - Fasti: in sei libri (il progetto originario ne prevedeva dodici,
uno per ogni mese dell’anno), vengono presentate le feste del calendario romano, spiegando le
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origini sia delle stesse festività sia delle leggende, delle tradizioni e delle usanze civili e religiose.
OPERE DELL’ESILIO: - Tristia: raccolta di elegie, in cinque libri, dedicate all’amare esperienza
dell’esilio e scritte spesso in tono lamentoso e afflitto, nella speranza di ottenere il ritorno a Roma. –
Epistulae ex ponto: vero e proprio epistolario, in quattro libri, che comprende lettere sottoforma di
elegie, indirizzate ad amici e familiari; vengono affrontati gli stessi temi dell’opera precedente tra
disperazione, pianti e suppliche al fine di ottenere il ritorno.
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Petronio Arbitro
Le notizie in nostro possesso a proposito figura di Petronio Arbitro sono
fortunatamente scarsissime ed anche incerte: i cenni sporadici di alcuni autori che ne parlano ( per
lo più eruditi e grammatici ), a partire dal II-III secolo d.C., non permettono quindi di tracciare un
profilo sicuro. Le ragioni di tale “silenzio” si possono probabilmente individuare nelle
caratteristiche stesse del capolavoro di Petronio, il Satyricon, romanzo spregiudicato, quindi poco
adatto ad essere diffuso a livello scolastico.
La testimonianza fondamentale, alla quale generalmente ci si riporta, è quella offerta da Tacito negli
Annali, dove si parla di un maestro di raffinatezze, arbitro del buon gusto ( elegantiae arbiter ),
vissuto alla corte di Nerone, costretto al suicidio perché odiato dal prefetto Tigellino e
compromesso nella congiura pisoniana del 66 d.C.
Satyricon
Il Satyricon è un poema della letteratura latina in versi e in prosa attribuito a Petronio Arbitro. La
frammentarietà e la lacunosità del testo pervenuto in età moderna hanno compromesso una
comprensione più precisa dell'opera.
Titolo
I manoscritti che tramandano l'opera sono discordanti riguardo al titolo, riportandone diversi:
Satiricon, Satyricon, Satirici, o Satyrici (libri), Satyri fragmenta, Satirarum libri. E’ consuetudine,
però, riferirsi all’opera di Petronio con il titolo di Satyricon, da intendersi probabilmente come
genitivo plurale di forma greca (dov’è sottinteso libri), analogamente ad opere del periodo classico
(come le Georgiche di Virgilio).
I codici, tuttavia, tramandano come titolo dell'opera anche Saturae, termine interpretabile in due
modi: "libri satirici" e "libri di cose da satiri", cioè "racconti satireschi", perché connessi alla figura
del satiro. Entrambe le accezioni del titolo concorrono a meglio definire il genere dell'opera come
comico-satirico di contenuto licenzioso.
L'identità dell'autore
L'identità dell'autore dell'opera non è certa, dal momento che il testo non fornisce riferimenti precisi
per riconoscerlo in modo inequivocabile. L'indicazione fornita dai manoscritti è, infatti, limitata al
solo nomen dell'autore, ovvero Petronio, senza alcuna altra indispensabile specificazione. Se nel
passato furono elaborate ipotesi divergenti, attualmente s'è piuttosto concordi nell'ascrivere l'opera a
Gaio Petronio (detto arbiter elegantiarum), personaggio in vista della corte di Nerone ma
improvvisamente caduto in disgrazia presso l'imperatore e condannato al suicidio nel 66. Di lui ne
parla Tacito nei suoi Annales. Se tale identificazione fosse corretta, costituirebbe un'ulteriore prova
a sostegno di una datazione dell'opera al I secolo, attorno al 60 d.C., che, nonostante alcune
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opposizioni, trova conferma anche nelle numerose allusioni a fatti e persone dell'epoca di Nerone, e
in altri dati di natura linguistica.
Frammentarietà dell'opera
L'opera è frammentaria e lacunosa. Stando ai codici, il Satyricon originariamente era molto ampio:
le parti a noi giunte appartengono soltanto ai libri XV e XVI dello scritto. L'inizio e la fine della
storia narrata sono di fatto impossibili da ricostruire in modo soddisfacente. Gli studiosi hanno
suddiviso i frammenti tramandati in 141 capitoli.
La mutilazione dell'opera è attribuibile alla licenziosità dell'argomento e al realismo degli ambienti
descritti, che producono un'immagine moralmente disdicevole della Roma imperiale e poco
edificante per il lettore.
Trama
L'opera racconta le vicissitudini di Encolpio, il giovane protagonista, Gitone, il suo amato efebo, e
dell'infido amico-nemico Ascilto.
L'antefatto, soltanto deducibile, racconta di un oltraggio commesso da Encolpio nei confronti della
divinità fallica Priapo, che da lì in poi lo perseguita provocando al protagonista una serie di
insuccessi erotici.
La narrazione tradotta si apre con una discussione tra Encolpio e il retore Agamennone sul tema
della decadenza dell'eloquenza. Il protagonista poi s'allontana per cercare il suo convivente Ascilto,
che ritrova in un lupanare. Qui i due sono forse coinvolti in un'orgia. Scampatene, Encolpio
apprende che Ascilto s'è unito col suo amato Gitone. Da qui la rivalità dei due personaggi che,
separatisi, intraprendono due percorsi diversi, per poi ricongiungersi in breve tempo.
I due fanno a Napoli, o forse Pozzuoli, i conti col sacrilegio commesso nel tempio di Priapo: la
sacerdotessa interrotta durante il rito costringe Encolpio e Ascilto ad un'orgia come metodo di
redenzione. In questa è coinvolto anche Gitone, che poi viene spinto ad unirsi con la settenne
Pannichide. Terminato la vicenda, ritornano tutti a casa.
Il racconto da qui si sposta a casa di Trimalcione, un liberto arrichitosi immensamente attraverso
l'attività commerciale. Qui s'apre la scena della "cena". Occupando quasi metà dell'intero scritto
pervenutoci, l'episodio costituisce la parte centrale dell'opera. Al convivio sono ospiti, oltre ai tre
giovani, anche vari personaggi dello stesso rango di Trimalcione. La portata del cibo è spettacolare
e altamente coreografica, accompagnata da giochi acrobatici dei servi del padrone di casa e da
racconti tra i commensali. I convitati intrattegono poi una lunga conversazione, che tocca i più
svariati argomenti: la ricchezza e gli affari di Trimalcione, l'inopportunità dei bagni, la funzione del
funerale, le condizioni climatiche e l'agricoltura, la religione e i giovani, i giochi pubblici, i disturbi
intestinali, il valore del vetro, il destino, i monumenti funebri, i diritti umani degli schiavi. Tutto
offre uno spaccato vivace e colorato, non senza punte di chiara volgarità, della vita di quel ceto
sociale.
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In seguito, Encolpio, allontanatosi dagli altri due compagni, incontra Eumolpo, un vecchio letterato
che, notato l'interesse di Encolpio per un quadro raffigurante la presa di Troia, gliene declama in
versi il resoconto (è la celebre Troiae halosis). I due diventano quindi compagni di viaggio, rivali in
amore a causa di Gitone e dopo una serie di avventure, che li vedono viaggiare per mare e rischiare
anche la vita, si ritrovano, insieme nella città di Crotone, dove Eumolpo si finge un vecchio
danaroso e senza figli, ed Encolpio e Gitone si fanno passare per i suoi servi: così essi scroccano
pranzi e regali dai cacciatori di eredità.
Nei frammenti successivi, Eumolpo recita un brano epico, in cui viene descritto il Bellum civile
("La guerra civile") fra Cesare e Pompeo, e successivamente si legge di Encolpio che, per l'ira di
Priapo, diventato impotente, è vittima di una ricca amante che si crede disprezzata da lui e lo
perseguita. Eumolpo, invece, scrive il suo testamento dove specifica che gli eredi avranno diritto
alle sue ricchezze solo se faranno a pezzi il suo corpo e se ne ciberanno in presenza del popolo.
Il genere
Pastiche
Il Satyricon di Petronio non rientra in un unico genere letterario codificato: è combinazione di
generi molto diversi tra loro. E' per questo definito pastiche letterario.
L'opera è sicuramente formata sul modello della satira menippea, da cui trae la tecnica della fusione
di parti in prosa e parti in poesia, dal taglio satirico pungente e moraleggiante. Come deducibile dal
titolo stesso, il Satyricon è anche ispirato al genere della satira. Questo è, però, realizzato attraverso
un lucido distacco, privo quindi del forte intento moralistico degli autori satirici precedenti.
Allo stesso modo, il Satyricon fu influenzato dal mimo, rappresentazione teatrale dal forte realismo
descrittivo. In ultima, sebbene molto più limitatamente, il rimando alla favola milesia, dalla quale
prende spunto per gli episodi macabri o licenziosi (come quello della Matrona di Efeso).
Esiste infine un'ipotesi più suggestiva, tuttavia non condivisa all'unanimità dagli studiosi, che
accomuna il Satyricon al modello del romanzo ellenistico. Con esso l'opera condivide diversi
aspetti: la struttura complessa, il rapporto amoroso fra i protagonisti e le disavventure che essi
devono affrontare. Tuttavia, considerando le evidenti differenze con cui gli stessi temi del romanzo
ellenistico sono trattati da Petronio, alcuni critici hanno sostenuto la tesi di un solo intento
parodistico di Petronio verso questo genere ben conosciuto e popolare.
Parodia
All'estrema varietà di generi del Satyricon, s'aggiunge la grande componente parodica. La critica
suppose, nell'ultimo 800, che il Satyricon fosse sistematica parodia del romanzo erotico greco:
alla coppia di sposi casti e fedeli, subentra una coppia omosessuale di infedeli cronici. Questo
carattere è strettamente legato ad una tradizione parodistica già presente in Grecia e suffragata dal
Romanzo di Iolao, di recente ritrovamento.
Il Satyricon è, altrettanto evidentemente, parodia dell'Odissea di Omero, romanzo di viaggio per
eccellenza. L'opera di Petronio riprende, infatti, il tema del viaggio, della persecuzione del dio, del
naufragio e di particolari minori, quali l'avventura tra Encolpio-Polieno e Circe.
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Allo stesso modo, si può intravedere la parodia dell'Eneide di Virgilio, di alcuni episodi in
particolare. Questo conferma l'intento parodistico rivolto a tutta la letteratura epica in generale.
Stile
Realismo
Il carattere realistico del Satyricon interessa tutti i livelli descrittivi: degli ambienti, dei personaggi e
del loro sistema dei valori. Lo stesso Petronio dichiara apertamente la sua tecnica narrativa al
capitolo 132 dell'opera: rappresentare con linguaggio schietto e distante da moralismi tutti gli
aspetti della vita quotidiana del ceto medio-basso.
L'esempio emblematico è costituito dalla Cena, dove il realismo descrittivo ha il suo culmine con la
rappresentazione del comportamento e dello stile di vita dei liberti ospiti di Trimalcione.
Ritmo narrativo
Il ritmo narrativo dell'opera di Petronio è svelto e incalzante. Questo s'alterna, tuttavia, con momenti
di riflessione dei personaggi, dove la fabula del racconto non procedono. Il ritmo è consono alla
situazione dei protagonisti: quando l'azione si fa più movimentata, il ritmo accelera, quando
giunge un momento di tregua e requie, il ritmo s'interrompe.
Linguaggio
Il realismo descrittivo di Petronio interessa, in modo quasi unico nella letteratura classica, anche il
linguaggio. L'autore corrisponde allo status sociale del personaggio un determinato registro
linguistico. Così, il colto Eumolpo utilizza un registro più alto, l'umile ma non infimo Encolpio un
registro medio-basso (sermo familiaris), mentre, per ultimi, gli ospiti di Trimalcione uno ancora
inferiore (sermo plebeius) a cui si somma l'uso di espressioni tipiche popolari.
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Tito Maccio Plauto
La vita
Sappiamo poco di Plauto uomo (Sarsina circa 250 a.C.- forse Roma 184 a.C.) e le notizie che
possediamo sono poco attendibili: nato come attore di successo, avrebbe investito malamente il
capitale in commercio, ricoprendosi di debiti e costringendosi a guadagnarsi da vivere in un mulino
girando la macina.
In questo periodo cominciò a comporre commedie, fra cui il "Saturio" (L’uomo satollo) e
l’"Addictus" (Lo schiavo per debiti), che già dai titoli richiamano gl'infelici rovesci personali; e una
terza, dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono l’inizio di una fortunata attività
teatrale durata oltre un quarantennio: alieno della politica, ma non insensibile agli avvenimenti del
tempo (la sua produzione si svolse, del resto, praticamente durante la II guerra punica), visse
interamente della sua arte, praticata con instancabile fervore creativo: egli, insomma, scriveva per
vivere, la sua scrittura era non più che mera professione.
Inoltre, Cicerone, nel "De senectute", afferma che PLAUTO compose da "senex" alcune commedie
fra cui lo "Pseudulus": nel 191 a.C., doveva essere quindi già vecchio. Sempre Cicerone, nel
"Brutus", ci rivela l'anno della sua morte.
I codici, che contengono le commedie di PLAUTO, ci hanno tramandato il suo nome completo, Tito
Maccio Plauto. Ma "Tito" e "Maccio" sembrano fittizi: "Maccio", infatti, deriverebbe dall'omonima
maschera atellana; lo stesso termine "Plautus" può significare o "piedi piatti" oppure "orecchie
lunghe e penzoloni". Molto probabilmente, quindi, si tratta di nomi d’arte che PLAUTO aveva
usato durante l’attività di attore.
Alla sua morte, entrarono in circolazione tutta una serie di commedie a suo nome, molte delle quali
rivelatesi in seguito dei falsi. Nel I sec. a.C., ne circolavano addirittura 130 titoli: evidentemente il
nome di Plauto era una garanzia di successo che spingeva commediografi e capocomici a false
attribuzioni.
Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio Varrone, le studiò ("De comoedis Plautinis") e le suddivise
in tre gruppi:
- 21 certamente plautine (dette appunto "Fabulae Varronianae");
- 19 di attribuzione incerta;
- tutte le altre considerate spurie.
L’autorità di Varrone fu tale che si continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. Tuttavia, da varie
testimonianze degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre commedie sicuramente
plautine, e oggi perdute. Le commedie plautine per comodità didattica e anche per una certa affinità
di struttura si possono catalogare in sei gruppi:
a) dei Simillimi (o dei Sosia): riguarda lo scambio di persona, dello specchio e del doppio;
b) dell'Agnizione: alla fine di questo tipo di commedie avviene un riconoscimento improvviso ed
imprevedibile dell'identità di un personaggio;
c) della beffa: in questo tipo sono organizzati scherzi e beffe, bonari o meno;
d) del romanzesco: dove compaiono i temi dell' avventura e del viaggio;
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e) della caricatura (o dei Caratteri): contenenti una rappresentazione iperbolica, esagerata di un
personaggio;
f) composita: che racchiude al suo interno uno o più elementi delle sopraccitate tipologie.
Plauto: la sua grandezza
Plauto il primo autore della letteratura latina di cui conserviamo opere intere, è anche il primo
scrittore che si dedica esclusivamente ad un unico genere letterario - la commedia - operando una
sintesi originale della commedia nuova greca e di elementi attinti alla tradizione popolare della farsa
italica.
Per le sue straordinarie capacità fantastiche ed espressive, per la straordinaria ricchezza, scioltezza,
potenza del suo linguaggio, per la varietà metrica, si riconoscono unanimemente i tratti più originali
ed il valore più genuino della sua arte. Dopo la fortuna goduta fino ai temi di Adriano, Plauto si
avvia a sparire dall’interesse degli uomini, che parve non volessero più ridere: i sui scherzi tacquero
per circa un millennio.
Un ricordo di seconda mano è quello di Dante (Purgatorio, XXII, 90), che lo ricorda tra gli spiriti
magni dell’antichità: voce isolata in un periodo in cui il nome del poeta era quasi dimenticato.
Plauto tornò alla luce delle scene in età rinascimentale; e fu un ritorno clamoroso, che parve
rinnovare i rumori e la popolarità della prima volta. La cultura allora stava subendo un processo di
laicizzazione, che metteva in crisi la sacra rappresentazione, da cui si stava sviluppando il dramma
profano. La scoperta di Plauto accelerò enormemente questo processo, dando un impulso
incalcolabile alla nascita del teatro moderno.
Anche fuori dall’Italia, il teatro moderno subì l’influenza di Plauto che molte volte fu imitato assai
da vicino: dallo Shakespeare (la Commedia degli errori), dal Molière (Amphitryon e Avare), dal
Beaumarchais (Le mariage de Figaro), dal Kleist (Amphitryon), dal Lemercier (Plaute ou la
Comedie latine).
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Gaio Plinio Secondo
Gaio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio è stato uno scrittore latino.
Era proprio del suo stile descrivere le cose in diretta, dal vivo, ed egli è per noi un vero cronista
dell'epoca. Morì infatti tra le esalazioni sulfuree dell'eruzione vulcanica del Vesuvio che distrusse
Ercolano e Pompei, mentre cercava di osservare il fenomeno più da vicino. In suo onore viene usato
il termine di eruzione pliniana per definire una forte eruzione esplosiva, simile appunto a quella del
Vesuvio in cui perse la vita.
La Naturalis Historia, che conta 37 volumi, è il solo lavoro di Plinio il Vecchio che si sia
conservato. Quest'opera è stata il testo di riferimento in materia di conoscenze scientifiche e
tecniche per tutto il Rinascimento e anche oltre. Plinio vi ha infatti registrato tutto il sapere della sua
epoca su argomenti molto diversi, quali le scienze naturali, l' astronomia, l' antropologia, la
psicologia o la metallurgia.
Biografia
Plinio il Vecchio nacque sotto il consolato di Gaio Asinius Pollion e di Gaio Antistio Veto fra il 23
e 24 d.C.. Discusso è il luogo della sua nascita: Verona per alcuni, Como (Novo comum) per altri.
Plinio il Vecchio rivestì la carica di Ufficiale di cavalleria (eques) in Germania. Prima del 35 suo
padre lo portò a Roma, dove affidò la sua istruzione ad uno dei suoi amici, il poeta e generale
Publio Pomponio Secondo. Plinio vi acquisì il gusto di apprendere e,alcuni anni più tardi, gli
dedicherà una biografia.
Sotto l' influenza di Seneca, diventò uno studente appassionato di filosofia e di retorica ed iniziò ad
esercitare la funzione d' avvocato. Plinio ricoprì cariche civili sotto Vespasiano e Tito. Comandante
della flotta tirrenica di stanza a Miseno, morì durante l'eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei,
Ercolano e Stabia.
Plinio il Giovane, suo nipote, ce lo rappresenta come un uomo dedito allo studio ed alla lettura,
intento ad osservare i fenomeni naturali ed a prendere continuamente appunti, dedicando poco
tempo al sonno ed alle distrazioni.
Il racconto della sua morte, contenuto tra l'altro in una lettera del nipote Plinio il Giovane, ha
contribuito all'immagine di Plinio come protomartire della scienza sperimentale (definizione
datagli da Italo Calvino), anche se, sempre secondo il resoconto del nipote, si espose al pericolo
anche per recare soccorso ad alcuni cittadini in fuga dall'eruzione.
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Le opere
L'elenco delle opere di Plinio ci è fornito dal suo stesso nipote:
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De iaculatione equestri, libro sull'arte di tirare stando a cavallo, frutto della sua esperienza
di ufficiale di cavalleria.
De vita Pomponii Secundi, due libri sulla vita di Pomponio Secondo, poeta tragico a cui era
legato da amicizia.
Bella Germaniae, venti libri sulle guerre di Germania, che servirono a Tacito per i suoi
Annales.
Studiosus, tre libri sulla formazione dell'oratore tramite lo studio dell'eloquenza.
Dubius sermo, otto libri sui problemi di lingua e grammatica che presentavano oscillazioni
ed incertezze nell'uso, tenute in gran conto dai grammatici posteriori.
A fine Aufidii Bassi, trentuno libri di storia che riprendevano la narrazione dove aveva
concluso Aufidio Basso, ovvero dalla morte dell'imperatore Claudio.
Naturalis historia, trentasette libri che formavano un'opera enciclopedica di larghissimo
respiro, l'unica rimastaci per intero.
La Naturalis historia
Il solo frutto del suo instancabile lavoro che persiste al giorno d'oggi è la sua Naturalis Historia che
fu utilizzata come riferimento durante numerosi secoli da innumerevoli allievi.
La Naturalis historia fu pubblicata nell'anno 77 d.C.; già nel titolo l'opera si presenta come ricerca a
carattere enciclopedico sui fenomeni naturali: il termine historia conserva il suo significato greco di
indagine, e va notato che la formula ha dato la denominazione alle scienze biologiche, cioè alla
storia naturale nel senso moderno della locuzione.
Il primo libro fu completato dal nipote Plinio il Giovane dopo la morte dello zio, contiene la dedica
a Tito, il sommario dei libri successivi ed un elenco delle fonti per ciascun libro. Partendo dal
lavoro di Lucrezio, l'autore vuole far conoscere all'uomo i vari aspetti della natura, perché possa
elevarsi dalla sua condizione animale. L'informazione tratta svariati temi:
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La descrizione dell'universo (II libro)
La geografia ed etnografia del Bacino del Mar Mediterraneo (III-VI libro)
L'antropologia (VII libro)
La zoologia (VIII-XI libro)
La botanica e l'agricoltura (XII-XIX libro)
La medicina e le piante medicinali (XX-XXVII libro)
La medicina ed i medicamenti ricavati dagli animali (XXVII-XXXII libro)
La mineralogia (XXXIII-XXXVII libro)
L'ultima parte, trattando della lavorazione dei metalli e delle pietre, contiene anche una sorta di
storia dell'arte dell'antichità.
Sebbene non si possa chiedere all'autore originalità ed esattezza scientifica, si deve riconoscere
l'altissimo valore documentario dell'opera, e l'enciclopedismo pratico dell'autore, spesso
soffermatosi in credenze superstiziose e gusto del fantastico.
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Lo stile dell’opera è estremamente vario e discontinuo, anche per influsso delle diverse fonti cui
attinge. Prevale un tecnicismo arido e disadorno, mentre nelle digressioni lo stile si fa ricercato e
artificioso e il tono si eleva fino all'enfasi declamatoria.
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Quintiliano
Marco Fabio Quintiliano è l’intellettuale più tipico della cultura <<restaurata>> dell’età flavia;
maestro e trattatista di retorica, ripropose l’esaltazione dei modelli classici (soprattutto di Cicerone)
e la teoria dei generi letterali, avendo come principio ispiratore quello di servire temporibus.
Egli non ebbe però molto successo né presso i contemporanei né presso gli intellettuali delle età
successive, sebbene gloria Romanae togae fu detto da Marziale e, in tempi più vicini a noi, il
Mommsen ne formulò un entusiastico giudizio.
Il suo merito più grande fu quello di consegnare ai posteri i cardini dell’insegnamento ciceroniano
di retorica e di aver codificato una concezione formalistica dell’umanesimo nei suoi risvolti ideali.
Egli nacque a Calagurris in Spagna tra il 35 ed il 40 d.C..
Il padre, maestro di retorica, lo fece studiare a Roma dove egli fu allievo di Remmio Palemone, e
del retore Domizio Afro;completati gli studi, ritornò in Spagna dove iniziò la carriera di maestro di
Retorica.
Nel 68 d.C. l’imperatore Galba lo condusse con se a Roma e con l’avvento di Vespasiano il ruolo e
la fama di Quintiliano nella cultura romana si consolidarono definitivamente; egli infatti ebbe
dall’imperatore uno stipendio di 100mila sesterzi e forgiò culturalmente la migliore gioventù del
tempo: ad esempio Plinio il Giovane fu suo allievo, e forse pure Tacito. Egli svolse anche la
professione di avvocato e fu nominato console da Domiziano.
Alla fortuna nell’ambito della sfera pubblica fece riscontro una serie di sventure che caratterizzò la
sua vita familiare: egli, infatti, perse la moglie giovanissima e i suoi due figlioletti, vivendo una vita
priva di affetti e morendo nel 96 d.C.
Della sua non molto ampia produzione letteraria molte opere sono andate perdute, tra le quali il
trattato De Causis corruptae Eloquentiae, che egli stesso pubblicò. In esso Quintiliano dibatteva
uno dei problemi più vivi della cultura del tempo, la crisi dell’eloquenza, non dovuta, secondo la
posizione culturale dell’autore, alla situazione politica e al restringersi della libertà, bensì alla
carenza di buoni insegnanti e alla mancata riforma dell’insegnamento che negli ultimi tempi si era
rintanato nel chiuso delle scuole di declamazione e si era allontanato dalla vita, ponendosi sulle
orme di Seneca e del suo stile.
L’opera che meglio e più compiutamente esprime la dottrina di Quintiliano è senza dubbio
l’Istitutio oratoria.
L’Istitutio Oratoria
L’opera, in 12 libri, è dedicata a Vittorio Marcello, amico di Quintiliano e funzionario di Domiziano
ed è preceduta da una lettera all’editore Trifone nella quale Quintiliano gli dice di aver consentito
alla pubblicazione del trattato dietro le sue insistenze, quando ancora non aveva ultimato una
compiuta revisione, specie dal punto di vista dello stile.
L’autore affronta per intero la complessa questione dell’educazione e dell’istruzione dai primi
insegnamenti che si possono dare ad un bambino dalla culla, per così dire, fine a farne
un’intellettuale completo, poiché l’eloquenza non si limita a formare l’oratore dal punto di vista
tecnico, ma coincide con l’arte dello scrivere e col fare cultura.
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Quintiliano vuole formare l’uomo colto che, nella sua integrità, viene prima dell’oratore, risolvendo
l’educazione retorica in quella umana e morale.
La retorica, in lui, si risolve in filosofia, e il maestro di retorica diviene maestro di vita. La stessa
riproposta del modello ciceroniano non è soltanto un invito, in nome di un ritorno a uno stile
armonico, di mettere da parte il virtuosismo stilistico dell’ età neroniana, ma vuole anche essere il
recupero di una misura interiore, insieme con determinati valori legati a quel modello, in una
coerente unione tra espressione stilistica e probità etica e spirituale. In tal senso la lezione
ciceroniana va recuperata nella sua totalità, sia contro l’arcaismo sia contro le intemperanze
dell’asianesimo che aveva trovato in Seneca il suo più alto rappresentante.
Inoltre nella concezione quintilianea l’oratoria, che accentra in sé ogni altra disciplina, è al servizio
dello Stato e quindi della communis utilitas.
L’Istitutio oratoria può essere definita la codificazione della cultura e dei programmi dei Flavi,
oltre ad una raccolta di varie fonti come Aristotele , Dionigi di Alicarnasso, Cecilio di Calatte,
Varrone,Verrio Flacco, Probo e soprattutto Cicerone.
La struttura dell’opera è la seguente: il primo libro presenta la distribuzione della materia ed
affronta il tema della prima educazione del bambino, considerando le varie tappe che conducono
l’allievo ad acquisire, con l’insegnamento della grammatica, le capacità di scrivere e parlare
correttamente. Il secondo libro ha per tema l’insegnamento del retore e vi si discute l’importante
problema delle letture-esercitazioni che l’adolescente deve fare sugli scrittori più adatti per
acquisire lo stile migliore. Dal terzo al nono libro si affronta la trattazione dell’Ars dicendi:
vengono esaminate alcune parti della retorica, si analizzano i diversi stili e si discute sull’uso delle
facezie, prendendo in esame tutti gli strumenti all’Oratio perfecta.
Il decimo libro rappresenta una specie di digressione rispetto all’argomento precedente e un breve
compendio di storia letteraria greco-latina: l’obiettivo dell’oratore, infatti, deve essere
l’acquisizione di uno stile perfetto ed egli non può non nutrirsi di letture che lo portino a questo
fine; occorre fare quindi una scelta di quegli scrittori che più si prestano a forgiare ed affinare lo
stile. L’undicesimo libro tratta delle ultime due parti della retorica, la memoria e l’actio, il
dodicesimo infine disegna la figura ideale del perfetto oratore.
L’Istitutio oratoria non vuole porsi come un puro formulario di precetti teorici, ma tiene anche
conto dell’esperienza e delle concrete condizioni dell’oratoria contemporanea.
Per la formazione dell’oratore Quintiliano considera indispensabile l’ars (la tecnica) e la materia (le
doti di natura) oltre allo studium e l’exsercitatio. Egli insiste sul l’imitatio dei modelli, che si
inquadra nell’importanza generale che gli conferisce alla cultura letteraria per la formazione
dell’oratore; sottolinea la necessità di leggere gli autori greci e latini e insiste sul carattere di una
imitatio che deve divenire aemulatio del modello.
L’opera di Quintiliano sviluppa anche una serie di idee e teorie pedagogiche di enorme importanza.
Il punto di partenza è costituito dalla posizione ottimistica di considerare la scuola e lo studio capaci
di migliorare la natura umana e dal primato che l’impegno nello studio deve avere sulle altre
attività del bambino; tuttavia anche il gioco è necessario ai fanciulli, a patto che non sia esteso a tal
punto da generare l’abitudine all’ozio.
Altra questione interessante è l’analisi del rapporto maestro-scolaro: il maestro ha sempre un ruolo
privilegiato e deve mostrare verso il discente l’atteggiamento del proprio padre, evitando il
pericoloso permissivismo e l’insopportabile autoritarismo. Interessante risulta anche la posizione di
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Quintiliano sul problema della scuola privata o pubblica, preferendo la seconda , unica a consentire
al futuro oratore di vivere e di misurarsi con gli altri fin da piccolo.
Contrario alle punizioni corporali , raccomanda al maestro una delicata moderazione nei confronti
della fragile natura degli allievi, i quali a loro volta dovranno considerare i maestri come genitori,
non del corpo, ma della mente.
Lo stile dell’opera, nonostante il riferimento continuo al modello ciceroniano, è lontano dal
riprodurne la perfezione stilistica, ma risente dell’asaniesimo che egli aveva condannato. Forse
mancò all’autore il tempo per rifinire l’opera secondo le sue intenzioni.
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Gaio Sallustio Crispo
Gaio Sallustio Crispo, o più semplicemente Sallustio (in latino: Gaius Sallustius Crispus,
Amiternum, 1º ottobre 86 a.C. – Roma, 13 maggio 34 a.C.) è stato uno storico romano in lingua
latina e senatore della repubblica romana.
Proveniente da una famiglia plebea legata alla nobilitas municipale, compì a Roma il cursus
honorum, divenendo prima questore, poi tribuno della plebe ed infine senatore della res publica.
Dopo esser stato cacciato dal Senato per indegnità morale, partecipò alla guerra civile del 49 a.C.
tra Cesare e Pompeo, schierato tra le file cesariane. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cesare lo
ricompensò per la sua fedeltà conferendogli la pretura, riammettendolo in Senato e nominandolo
governatore della provincia dell'Africa Nova. Dopo la fallimentare esperienza di governo e a seguito
dell'uccisione di Cesare, si ritirò dalla vita politica; da questo momento si diede alla stesura di opere
a carattere storico, in particolare le due monografie De Catilinae coniuratione e Bellum
Iugurthinum, le prime della storiografia latina, e delle Historiae, un'opera di tipo annalistico.
Grazie queste importanti opere ottenne un'enorme fama ed è annoverato tra gli storici latini più
importanti del I secolo a.C. e di tutta la latinitas.
La vita
Poche sono le notizie certe riguardo la vita di Sallustio; godono di una certa attendibilità la sua data
di nascita, le calende di ottobre (il 1º ottobre) dell'anno 86 a.C., ed il suo luogo di nascita,
Amiternum, un centro sabino del Samnium occidentale. La sua famiglia, probabilmente plebea, ma
di condizione agiata e legata alla nobilitas locale, si trasferì poco dopo a Roma, dove ebbe modo,
come era prassi per i giovani figli della nobilitas municipale, di dedicarsi alla carriera politica.
Si adattò tuttavia ai costumi corrotti dell'Urbe, che in seguito criticò aspramente nelle sue
monografie con risentimento e rimpianto per i valori antichi (le pristinae virtutes) del popolo
romano. In lui però non mancavano una rigorosa tempra morale e delle serie inclinazioni verso la
filosofia; in particolare fu attratto dal neopitagorismo, filosofia allora particolarmente in voga
presso i ceti elevati della società romana, e venne in contatto con la scuola neopitagorica di Nigidio
Figulo.
Non si possiedono però altre notizie precise di Sallustio relative a questo periodo.
Nel 54 Sallustio diede inizio al suo cursus honorum con la carica di questore; la sua carriera
politica si rivelò però anomala, in quanto saltò alcune delle tappe principali del cursus honorum. È
possibile ipotizzare che, essendo un homo novus, abbia trovato naturale schierarsi col partito dei
populares, il cui leader era allora Giulio Cesare, nipote ed erede politico di Gaio Mario. Potrebbe
anche aver avuto un rapporto particolare con Marco Licinio Crasso, di cui era forse cliente (cliens):
infatti, pur non esprimendo mai un giudizio positivo nei suoi confronti, nel De Catilinae
coniuratione (capp. 17,7; 48,9) traspare il fatto che da lui ricevette delle importanti confidenze.
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Nel 52 ricoprì la carica di tribuno della plebe. Nel 51 Sallustio divenne senatore, rimanendo
sempre un fedele sostenitore di Cesare nella lotta contro Pompeo. Nonostante l'amicizia di Cesare,
nel 50 fu espulso dal senato probri causa, cioè "per indegnità morale"; pare tuttavia trattarsi di una
vendetta politica messa in atto da parte dell'oligarchia senatoria.
Subito dopo l'espulsione dal senato, Sallustio raggiunse Cesare in Gallia, mentre si accingeva a
completarne la conquista, e fu al suo fianco nella guerra civile del 49, durante la quale Sallustio
divenne uno dei capi del partito cesariano; lo stesso anno fu riammesso in senato per intercessione
di Cesare, mentre due anni dopo gli fu assegnata la pretura. Durante il conflitto svolse alcuni
importanti incarichi militari e prese poi parte alla decisiva battaglia che ebbe luogo Tapso; in tale
occasione probabilmente diede buona prova di sé, dato che, dopo la sconfitta dei pompeiani, gli fu
riconferita la pretura e fu nominato governatore (con il titolo di propraetor) della neonata provincia
nordafricana dell'Africa Nova, originatasi dal disfacimento del regno di Numidia. Nei diciotto mesi
del suo mandato poté, secondo il malcostume del tempo, arricchirsi a dismisura, impadronendosi
delle ricchezze dell'ultimo re numida, Giuba I, ed incassando tangenti sugli appalti pubblici. Il suo
malgoverno gli valse, al rientro a Roma, l'accusa de repetundis.
Tornato a Roma nel 44 a.C., con i soldi accumulati durante il suo proconsolato acquistò una
proprietà a Tivoli, precedentemente appartenuta a Cesare, e si fece costruire nell'Urbe una sontuosa
dimora fra il Pincio e il Quirinale nota col nome di Horti Sallustiani ("Giardini sallustiani"), dal
nome dei grandiosi giardini (hortus significa infatti giardino) che circondavano il suo palazzo.
Accusato nuovamente di concussione, riuscì con estrema difficoltà ad evitare la condanna, ma la
sua carriera politica, irrimediabilmente compromessa a seguito di questo episodio, poteva dirsi
definitivamente conclusa. Fu forse lo stesso Cesare a suggerirgli, o addirittura imporgli, il ritiro a
vita privata per evitargli un'ulteriore condanna ed una nuova e degradante espulsione dal Senato.
Con la morte di Cesare, avvenuta alle idi di marzo (il 15 marzo) del 44 a.C., ebbe termine
definitivamente la carriera politica di Sallustio. Egli si dedicò allora all'otium privato ed alla
composizione delle sue opere storiche: le due monografie De Catilinae coniuratione e Bellum
Iugurthinum e le Historiae, rimaste però incompiute a causa della morte dello storiografo, avvenuta
intorno al 35-34 a.C. (molto probabilmente il 13 maggio del 34), all'età di 52 anni.
In realtà nel proemio del De Catilinae coniuratione Sallustio vuole far credere di aver sempre
ritenuto la sua carriera politica come una tormentata fase transitoria prima di giungere al sospirato
approdo alla storiografia.
Sta di fatto che in politica ruoli di primo piano, eccetto il governatorato dell'Africa Nova, non ne
ebbe mai; non sarebbe azzardato addirittura affermare che politicamente abbia fallito, non essendo
riuscito ad affermarsi come altri suoi contemporanei.[7] Tuttavia la grande fama, che lo ha reso noto
sino ai giorni nostri, gli è stata data dalle sue opere storiografiche.
Opere
Sallustio è autore di importanti opere storiche, tramandate per tradizione diretta dai codici
medioevali: le due monografie, il De Catilinae coniuratione ed il Bellum Iugurthinum, composte e
pubblicate negli anni fra il 43 e il 40 a.C., e le Historiae, di cui restano numerosi frammenti, iniziate
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intorno al 39 a.C. e rimaste incompiute, che forse dovevano fungere da allaccio tra le due
monografie.
Sono state attribuite allo scrittore di Amiternum anche diverse opere considerate oggi spurie: due
Epistulae ad Caesarem senem de re publica e l'invectiva in Ciceronem, probabilmente esercizi
scolastici di età posteriore.
Prima dell'esperienza monografica di Sallustio nella storiografia romana, salvo rari
casi,http://it.wikipedia.org/wiki/Gaio_Sallustio_Crispo - cite_note-celio_antipatro-18 la tipologia
di opere principalmente redatte erano i regesti, nei quali gli eventi erano narrati secondo una
scansione per annum, ovvero anno per anno. Sallustio è dunque colui che introduce a Roma il
genere monografico, che consiste nel raccontare solo un determinato fatto, arricchendolo di
un'accurata indagine introspettiva atta ad esaminare il contesto e le cause più viscerali che hanno
contribuito al suo scatenarsi.
Sallustio crea una storiografia di carattere politico e una storiografia di carattere filosofico.
L'obiettivo di quest'ultima è storico, ma il risultato finisce per essere una filosofia della storia: il
continuo scontro fra il bene e il male.
De Catilinae coniuratione
Il De Catilinae coniuratione è la prima vera e propria monografia storica mai composta in tutto il
mondo latino. L'opera, come si comprende dal titolo, tratta la congiura di Lucio Sergio Catilina e il
moto che ne seguì nel 63-62 a.C. Alla trattazione della cospirazione Sallustio fa precedere un'analisi
della condotta cesariana del 66-63, dimostrata (anche se non lo fu realmente) del tutto esente da
colpe nel tentativo insurrezionale e vista come unica valida alternativa al corrotto "regime dei
partiti" («mos partium atque factionum») di cui auspica la fine, con conseguente riflesso sulle sue
scelte politiche.
Dopo un proemio moraleggiante e filosofico (cap. 1), basato sull'affermazione che l'uomo è
composto di anima e di corpo e che le facoltà spirituali devono prevalere su quelle materiali (le
facoltà spirituali principali sono l'attività politica, militare, oratoria e storiografica), tutta la prima
parte restante dell'opera è, effettivamente, un'analisi e una forte introspezione della figura di
Catilina e dell'inquietante fenomeno rivoluzionario, alla luce di categorie storiche, morali e
psicologiche. Ne risulta perciò un quadro largamente dipinto a tinte fosche, ma estremamente
vivace, di una società estremamente corrotta, su cui campeggia come figura dominante Catilina,
definito un monstrum (una stranezza) in quanto assomma nella sua complessa e contorta personalità
caratteristiche diverse, persino opposte e contrastanti tra loro: è intelligente, coraggioso e malvagio;
una figura sinistra, ma estremamente affascinante, al cui carisma sembra non riuscire a sottrarsi
neanche lo stesso Sallustio.
Accanto a Catilina si trovano poi altri personaggi "studiati" con simile interesse: i congiurati, tra cui
campeggia Sempronia, Cicerone (per quanto ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone il
Giovane, messi a confronto nei capitoli 53,5 e 54 e visti ambedue come estremamente positivi,
persino "complementari" per la salute della res publica di Roma, in quanto avevano una simile
visione del mos maiorum: uno con la sua liberalitas, munificentia e misericordia; l'altro con la sua
integritas, severitas, innocentia.
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Sallustio, cesariano di ferro e quindi suo avversario politico, nel “De Catilinae coniuratione”, scritto
tra l’altro nel 43/42, poco dopo la morte di Giulio Cesare, riconosce ed esalta le virtù di Catone
confrontandole proprio con quelle eccezionali, ma estremamente diverse del dittatore.
Ed è proprio Sallustio a dirci che Catone era ritenuto da tutti grande per l’integrità della vita e che il
suo rigore morale aveva accresciuto la sua dignità. L’Uticense, a differenza di Cesare, aveva
conquistato la gloria senza elargire nulla, anzi in lui si vedeva la rovina dei malvagi. Catone, per
altro, riponeva ogni cura nella moderazione, nel decoro e nel rigore della vita. Non gareggiava in
ricchezza con i ricchi o in faziosità con i faziosi, ma in virtù con i virtuosi, in pudore con i modesti
ed in disinteresse con gli onesti. Egli preferiva essere retto piuttosto che sembrarlo e per questo,
anche se non cercava la gloria, era questa che di più lo seguiva.
In Sallustio, per altro, Catone Uticense, in occasione della congiura di Catilina, quasi costringe
Cicerone ad un ruolo marginale diventando egli il vero responsabile delle decisioni e della fermezza
del Senato. Lo storico, inoltre, ritiene che sia proprio Catone, e non Cicerone o altri, l’essenza del
pensiero repubblicano, il vero rappresentante di una classe aristocratica in possesso di una
supremazia morale, che ormai non esiste più, in contrasto con Caio Giulio Cesare, politico accorto e
vigile delle istanze del tempo presente.
Come già si può desumere da quanto detto, il metodo e il fine adottati nell'analisi sono moralistici:
Sallustio ritiene che l’antica grandezza della repubblica fosse garantita dall' integritas e dalla virtus
dei cittadini, e vede nel successo, nella ricchezza e nel lusso (ambitio, avaritia atque luxus) le cause
della decadenza e la possibilità di tentativi di "impadronirsi dello stato" (rei publicae capiundae)
come quello di Catilina.
Pensiero
La figura di Sallustio è fortemente rappresentativa della complessità e delle tensioni della societas
romana, che, proprio durante la vita dell'autore, era protagonista di una gravissima crisi che portò al
collasso della res publica ed all'avvento del principatus con Ottaviano Augusto. In un tale intrigo di
vicende, in cui era incredibilmente brutale la lotta per il potere ed appariva evidente un quasi
incolmabile vuoto di ideali, non era sicuramente agevole assumere una posizione ideologica
definitiva. A riprova di ciò è possibile scorgere in Sallustio un'enorme contraddizione tra il suo
comportamento politico e le dichiarazioni di principio. Il suo fu un comportamento da arrivista ed
opportunista senza scrupoli, e per ciò ricevette le adeguate condanne;
http://it.wikipedia.org/wiki/Gaio_Sallustio_Crispo - cite_note-RefInternet1-2 al contrario le sue
concezioni ideologiche sono improntate ad un irreprensibile moralismo, con una forte nostalgia per
le virtù antiche ed una altrettanto forte condanna del malcostume generale delle classi al governo di
Roma.
Rimedi contro la corruzione del Senato
Quanto ai rimedi, Sallustio auspica la fine del «mos partium et factionum» ("regime delle fazioni",
Bellum Iugurthinum, cap. 41,1) e l'avvento di un potere super partes, nelle mani di Cesare, che dia
corpo ad un programma di riordinamento delloSstato e di rinsaldamento delle sue strutture sociali.
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Oltre a ristabilire la concordia tra i ceti possidenti, bisogna ampliare la base senatoria, "arruolando
nuove leve" dall'élite municipale. Erano questi i punti salienti del programma intrapreso da Cesare
nella breve durata della sua dittatura ed è ben noto che Sallustio, oltre ad essere fiero oppositore
della classe senatoria, era un aperto sostenitore della politica cesariana. Il piano riformista di Cesare
si basava sull'alleanza di classe tra gli equites (che detenevano in esclusiva il monopolio
commerciale) e l'allora potentissimo esercito.
Si trattava di un disegno antinobiliare ed antisenatoriale, un disegno che Cesare aveva tentato di
rendere più accettabile, a differenza delle soluzioni più radicali della politica dei Gracchi, evitando
di intaccare i privilegi dei ceti possidenti della penisola, a cui lo stesso Sallustio apparteneva. Verso
i due celebri fratelli tribuni della plebe Sallustio mostra un'aperta diffidenza: a suo avviso non la
rivoluzione sociale, la distribuzione delle terre ai nullatenenti o la cancellazione dei debiti potevano
costituire il rimedio alla crisi, bensì l'ampliamento della classe dirigente e, soprattutto, la sua
profonda rigenerazione morale.
Stile
Sallustio è considerato il rinnovatore della storiografia latina. Il suo stile è fondato
sull'inconcinnitas (disarmonia) e trae origine da due illustri modelli: lo storico greco Tucidide, e in
particolare il suo capolavoro "La guerra del Peloponneso" e il noto predecessore Marco Porcio
Catone, detto il Censore.
Sallustio attinge dallo storico greco la capacità di ampliare la portata di un fatto per inserirlo in un
più vasto contesto di cause.
Da Catone invece prende la concezione moralistica della storia come edificazione morale collettiva,
e quindi come celebrazione nostalgica e severa di un passato glorioso da opporre agli elementi
disgregativi che funestano la civitas contemporanea.
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La Patristica
Con il termine patristica si intende la filosofia cristiana dei primi secoli, elaborata dai Padri della
Chiesa e dagli scrittori ecclesiastici. Essa consiste nell’elaborazione dottrinale delle verità di fede
del Cristianesimo e della difesa della stessa fede cristiana dagli attacchi dei pagani e degli eretici.
Con la patristica, si cerca di interpretare il Cristianesimo mediante concetti ripresi dalla filosofia
greca, e la stessa filosofia greca viene riletta alla luce dei principi cristiani.
Agostino d’Ippona
Agostino d’Ippona (Tagaste 354-Ippona 430) fu un filosofo, vescovo e teologo latino. Padre,
dottore e santo della Chiesa Cattolica, è conosciuto semplicemente come sant’Agostino, detto anche
Doctor Gratiae (Dottore della Grazia).
La sua opera più celebre sono le “Confessioni”. A lui si rifanno numerose forme di vita religiose, tra
i quali l’Ordine di Sant’Agostino, chiamato anche degli Agostiniani.
La vita
Agostino nacque in Algeria, ma la sua cultura era totalmente ellenistico-romana. Anche se molto
rispettabile, la sua famiglia non era ricca, e suo padre, Patrizio, uno dei consiglieri municipali della
città, era un pagano; l’influenza della madre Monica, però, portarono alla lunga Patrizio alla
conversione.
La madre, venerata come santa dalla Chiesa cattolica, eserciterà una forte influenza anche
sull’educazione e sulla vita di suo figlio Agostino.
Questi, da giovane, fu mandato dal padre a studiare a Cartagine. In questa città, Agostino,
appassionatosi di filosofia, iniziò a studiare la maggior parte dei testi della cultura ellenistica e
latina.
A Cartagine Agostino conobbe anche una donna, dalla quale ebbe un figlio, Adeodato, e con cui
visse in concubinato per quindici anni.
Dotato di un forte senso critico e animato da un desiderio bramoso di verità, Agostino approdò al
Manicheismo, di cui, insieme al suo amico Onorato, divenne uno dei massimi esponenti e
divulgatori. Una volta unitosi a questo gruppo,infatti, Agostino gli si dedicò con tutto l’ardore del
suo carattere: ne lesse tutti i libri, adottò e difese tutte le sue idee.
Insegnò grammatica e retorica a Tagaste e poi a Cartagine. Nel 383 Agostino cedette all’irresistibile
attrazione che l’Italia aveva per lui: giunto a Roma, si ammalò gravemente.
Quando guarì, aprì una scuola di retorica, ma disgustato dai trucchi dei suoi alunni che non
volevano pagargli le lezioni, fece domanda per un posto vacante come professore a Milano.
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Qui incontrò il vescovo Ambrogio e iniziò a seguire regolarmente le sue predicazioni. Egli conobbe
così, gradualmente, la dottrina cristiana fino a farsi battezzare dallo stesso vescovo Ambrogio nel
387.
Più tardi, Agostino tornò in Africa e qui iniziò a seguire quell’ideale di vita perfetta, dedicata a quel
Dio che era giunto ad amare in età adulta.
Cominciò a vendere tutti i suoi beni e a dare l’incasso ai poveri. Poi lui e i suoi amici si ritirarono
nel suo appezzamento di terreno per condurre una vita comune in povertà, in preghiera e nello
studio della letteratura sacra.
Nominato vescovo di Ippona, rivestì questa carica per 34 anni. Morì il 28 agosto 430, all’età di 76
anni.
Il pensiero teologico e filosofico
Per comprendere il pensiero di Agostino non si può prescindere dal suo vissuto esistenziale: egli
cercò sempre di conciliare le esigenze della vita pratica e attiva con l’atteggiamento contemplativo.
Pertanto, il suo pensiero consiste nel tentativo grandioso di tenere uniti la ragione e il sentimento, lo
spirito e la carne, il pensiero pagano e la fede cristiana.
Fu proprio l’insoddisfazione per quelle dottrine che predicavano una rigida separazione tra bene e
male a spingerlo ad abbandonare il manicheismo, e a subire l’influsso del neoplatonismo, il quale
riconduceva il dualismo in unità.
Rispetto al neoplatonismo, però, Agostino inserì alcuni concetti di stampo marcatamente religioso,
e attinenti in particolare alla fede cristiana: ad esempio, concepì la creazione dell’universo non
semplicemente come un processo necessario, tramite il quale Dio si manifesta e produce se stesso,
ma come un libero atto d’amore, tale cioè che si sarebbe anche potuto non realizzare. E soprattutto
il Dio di Agostino non è quello impersonale di Plotino, ma è un Dio vivente che si è fatto uomo.
Secondo Agostino di conseguenza, anche il mondo e gli enti incorporei, essendo frutto dell’amore
divino, hanno un loro valore e significato, mentre i neoplatonici tendevano a svalutarli. Questo
tentativo di collocare la storia e l’esistenza terrena entro una prospettiva celeste, dove anche il
male trovi in qualche modo spiegazione, rimase sempre al centro delle sue preoccupazioni
filosofiche.
Il problema del male
Alcune delle questioni fondamentali a cui Agostino cercava di dare una risposta erano le seguenti:
A) Se c’è Dio, che è buono e vuole il bene delle sue creature, allora perché permette che ci sia il
male e il dolore?
B) Perché l’uomo fa il male?
Agostino sosteneva che esistono tre tipi di male: il male metafisico, il male morale e il male
fisico.
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Il male, per Agostino, non esiste; o meglio, esiste solo il bene, e il male non è una sostanza, ma è
“privazione”, mancanza del bene. A sostegno di questa tesi, egli propone un sillogismo: tutte le
cose sono state create da Dio; Dio è sommamente buono; allora tutte le cose da lui create sono
buone.
Ma avendo Dio creato le cose, queste stesse cose create saranno “altro” da Lui. Dunque non
possono partecipare alla sua perfezione, alla sua immortalità. Appare quindi evidente che Dio deve
aver creato tutti gli enti e che questi sono stati disposti su una scala “gerarchica”. Quando l’uomo
sceglie i beni inferiori, egli sceglie pur sempre dei beni, ma questi rappresentano, di fronte al
“Sommo Bene”, una privazione.
Lo stesso peccato originale non consiste nell’aver mangiato la mela, che, creata da Dio, è anch’essa
buona, bensì nell’aver rinunciato al Sommo Bene, cioè a Dio.
Il male morale, per Agostino, è determinato da un errore della volontà dell’uomo: essa indirizza
l’uomo verso qualcosa, un bene particolare scambiato per il Sommo Bene.
Per quanto riguarda il male fisico, Agostino non negava la sofferenza e il peccato (nel senso
cristiano). Egli operò una prima distinzione tra il male fisico del corpo e il male morale dell’anima,
legata al peccato. In questo modo superò una convinzione diffusa nel periodo precedente, che
concepiva la malattia e il dolore come una conseguenza e una sorta di punizione divina delle azioni
umane.
Agostino escluse questa possibilità perché “Dio è Amore”, ed un’eventuale espiazione dei peccati si
colloca in una vita ultraterrena. Dolore, fame, malattia e peccato hanno però la stessa origine
metafisica, sono cioè mancanza di essere, nell’anima o nel corpo.
Il libero arbitrio
Connesso al problema del male è quello del libero arbitrio. Infatti, se l’uomo non fosse libero, allora
non avrebbe né meriti, né colpe.
Dio, essendo onnisciente e conoscendo il futuro, ha dato all’uomo piena libertà, ma sa che,
lasciandolo libero, questi peccherà. E infatti l’uomo ha commesso il peccato originale, con cui ha
compromesso la propria libertà, volgendola contro se stesso.
Dio, con la Grazia, dona ad alcuni la possibilità di salvarsi, mentre ad altri lascia la libertà di
dannarsi. Tuttavia questa non è una scelta divina arbitraria, ma è semplicemente la prescienza di
Dio che, nell’eternità (cioè oltre il tempo), vede coloro che possono ricevere la Grazia e coloro che
non possono. Questi ultimi anche se la ricevessero, non solo non si salverebbero, ma si
dannerebbero ancora di più.
Dunque, per Agostino, la volontà di Dio precorre semplicemente la volontà dell’uomo, non la
costringe.
Il problema del tempo
Così come il male è semplice non-essere, così anche il tempo, per Agostino, non ha una sua vera
consistenza, essendo soltanto mancanza, privazione dell’essere.
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Il problema del tempo non riguarda Dio: il tempo, anzi è una sua creatura. La dimensione di Dio è
quella dell’eternità.
Se il tempo, però, non è un problema di Dio, esso lo è per la comprensione degli uomini. Il tempo è
infatti una strana realtà: il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente non può essere
identificato nell’istante attuale, perché questo è subito trascorso, e quindi non è più.
Perciò, Agostino propone una soluzione assolutamente originale: per concepire il tempo, realtà
dinamica, non si può utilizzare una definizione statica. Lo scorrere del tempo è concepibile
attraverso la coscienza, che permette che si abbia la comprensione del tempo come memoria del
passato, attenzione al presente e attesa del futuro.
Dal dubbio alla Verità
Nel pensiero di Agostino permane, come esigenza fondamentale, l’ansia e la ricerca della Verità.
Per Agostino la Verità esiste e ha le seguenti caratteristiche:
a) La Verità è infinita, perfetta, eterna ed esisterà anche quando il mondo scomparirà;
b) La Verità si trova nel mondo interiore dell’uomo, mentre gli scettici sostenevano che non vi
fosse nessuna verità o meglio che non fosse possibile trovarla;
c) La Verità viene da Dio, è la luce di Dio, anzi la Verità è Dio. Questa concezione collega
Agostino a Plotino che affermava che la Verità, cioè l’Uno, è Dio.
La visione della Storia
Agostino fu il primo pensatore ad inserire la Storia nella filosofia, una dimensione ignota al
pensiero greco.
Egli si appropriò della dimensione escatologica dell’Antico Testamento, secondo cui Dio si serve
della Storia per realizzare i propri progetti di redenzione. Ciò significa che Dio interviene
attivamente nella vita terrena degli uomini, interessandosi a loro per educarli e volgerli alle gioie
celesti.
Secondo Agostino, si possono identificare due città, ovvero due comunità fondamentali in cui sono
riuniti gli esseri umani: la città di Dio, cioè la comunità di coloro che sono predestinati a salvarsi e
risorgere, e la città degli uomini, ovvero la comunità governata dall’amor di sé e delle ricchezze
terrene, opposta alla prima. Sebbene scegliesse come simboli Gerusalemme e Roma, cioè la Chiesa
e l’Impero Romano, Agostino non identificò mai la città di Dio con la Chiesa (perché anche in essa
convivono buoni e cattivi) , né fa coincidere la città terrena con uno Stato preciso.
Fu questa tuttavia l’interpretazione che allora prevalse tra gli studiosi dell’opera agostiniana,
secondo cui la città di Dio è rappresentata sulla Terra dalla Chiesa come comunità dei credenti
animati dall’amor Dei, mentre la città degli uomini venne identificata in tutto e per tutto con Roma
ed il suo Impero. E fu questa un’interpretazione che si protrasse per tutto il Medioevo, specie in
seguito alle lotte per la supremazia tra il Papa e il Sacro Romano Impero.
35
Le opere
Scritti autobiografici:
Le Confessioni: sono la storia della sua maturazione religiosa. Il nocciolo del pensiero agostiniano
presente nelle Confessioni sta nel concetto che l’uomo è incapace di orientarsi da solo:
esclusivamente con l’illuminazione di Dio, a cui deve obbedire in ogni circostanza, l’uomo riuscirà
a trovare l’orientamento nella sua vita.
Le Ritrattazioni: scritte verso la fine della sua vita, sono una revisione, un riesame dei propri lavori
ripercorsi in ordine cronologico. Rappresentano una guida di inestimabile valore per comprendere
l’evoluzione del pensiero agostiniano.
Le Epistole o Lettere: utili per la conoscenza della sua vita e della sua dottrina.
Scritti filosofici:
Contro gli Accademici: l’opera filosofica più importante;
La Vita Beata;
L’Ordine;
Soliloqui, in due libri;
L’Immortalità dell’Anima;
La Musica, in sei libri.
Scritti apologetici:
La città di Dio: in 22 libri; essa rappresentava la risposta di Agostino ai pagani che attribuivano la
caduta di Roma all’abolizione del paganesimo. L’opera costituisce una vera e propria apologia del
Cristianesimo messa a confronto con la civiltà pagana: in essa Agostino cerca di dimostrare che la
decadenza della così detta città degli uomini (contrapposta a quella di Dio e da lui identificata
proprio con l’Impero Romano d’Occidente) non poteva essere imputata in alcun modo alla religione
cristiana, essendo il frutto di un processo storico teologicamente preordinato da Dio.
De doctrina cristiana: Da quando Agostino fu ordinato sacerdote incominciò seriamente ad
interessarsi all’esegesi delle Sacre Scritture. Quest’opera, redatta in quattro libri, raccoglie la sua
esperienza di commentatore biblico: i primi tre libri trattano della comprensione dei contenuti (res)
e delle parole (signa); l’ultimo tratta della corretta esposizione dei contenuti (proferre).
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Seneca
Lucio Anneo Seneca, nacque a Cordoba il 21 maggio del 4 a. C., in una ricca famiglia provinciale
di rango equestre. Ancora giovane si trasferì a Roma, dove si dedicò allo studio di filosofia e
retorica. Seneca aspirava a condurre una vita contemplativa, dedita allo studio e alla riflessione,
tuttavia abbandonò tale proposito per assecondare i desideri del padre, Lucio Anneo Seneca detto il
Retore, che lo spingeva ad intraprendere la carriera politica.
Vennero subito riconosciute ed apprezzate le sue doti oratorie, che avrebbero potuto assicurargli
una brillante carriera politica, se non avesse avuto dei rapporti così difficili con gli imperatori
romani. Caligola gli fu talmente ostile da progettare di farlo uccidere. Claudio, nel 41, istigato dalla
moglie Messalina, lo accusò di adulterio con Giulia Lavilla, e lo condannò all’esilio in Corsica,
dove rimase fino al 49, quando, per intercessione della nuova moglie di Claudio, Agrippina, venne
richiamato a Roma.
Avendo ormai più di cinquant’anni, Seneca non intendeva riprendere l’attività politica, tuttavia
dovette accettare l’incarico di precettore di Nerone, figlio che Agrippina aveva ottenuto dal suo
primo matrimonio e che Claudio aveva adottato.
Nel 54, alla morte di Claudio, Nerone divenne imperatore, e Seneca si trovò ad essere consigliere
imperiale di un sovrano molto giovane (non ancora diciottenne): di conseguenza si trovò ad avere
nelle sue mani il potere imperiale.
In quegli anni, Seneca aveva concepito la speranza, espressa nel De Clementia, di fare del giovane
Nerone un sovrano esemplare: speranza che ben presto si rivelò un’illusione.
Nel 59 Nerone, in rotta con la madre Agrippina, la fece uccidere. Seneca continuò a seguire
l’imperatore anche dopo il matricidio, ma la sua influenza su Nerone divenne sempre più debole, e
quindi chiese di abbandonare l’incarico di consigliere, per dedicarsi completamente allo studio e
alla riflessione.
Dal 62 al 65, anno in cui morì, Seneca realizzò quella vita contemplativa cui aspirava fin da
giovane. Tuttavia non riuscì ad evitare l’ostilità dell’imperatore, che lo accusò di aver partecipato
alla congiura ordita contro la sua persona. Seneca fu costretto a togliersi la vita, affrontando la
morte con coraggio, come avevano fatto Socrate e molti altri grandi filosofi prima di lui.
Pensiero
Seneca è un eclettico pensatore stoico, nel De Brevitate Vitae afferma:
"Ci è consentito disputar con Socrate, dubitare con Carneade, riposar con Epicuro, vincer la
natura umana con gli Stoici, trascenderla coi Cinici. Poichè la natura ci permette di entrare in
comune con ogni età, perchè non dovremmo, movendo da questo esiguo e caduco tratto di tempo,
dedicarci con tutta l'anima a quelle cose che sono immense, che sono eterne, cui partecipiamo
insieme con gli spiriti migliori?".
Lo stoicismo vede nella razionalità universale che plasma la materia "l'anima del mondo".
Seneca considera Dio non solo natura, uscendo così dal dogma panteistico stoico. "Dio è vicino a
noi, - egli scrive - è con noi, è dentro di noi; uno spirito santo risiede in noi, osservatore e custode
delle nostre azioni; e noi dobbiamo vivere con gli uomini come se Dio ci vedesse e parlare con Dio
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come se gli uomini ci ascoltassero".
Seneca sottolinea il dualismo tra anima e corpo più di quanto lo stoicismo lo affermi, poiché evoca
dottrine medioplatoniche.
Per Seneca la coscienza, cioè la conoscenza del bene e del male, è il giudice interiore e infallibile
dell'uomo; inoltre egli scopre e dà un'autonomia alla volontà che agisce indipendentemente dalla
conoscenza del bene e del male, in quanto l'uomo è peccatore per sua natura.
Ciò lo porta in contrasto con il pensiero stoico e greco, che concretizza nella figura del saggio il
simbolo della possibilità per l'uomo di raggiungere la perfezione.
Per Seneca, invece, la figura del saggio è solo ideale, è un valore deontologico. La virtù è il vero
valore e la vera nobiltà dell'uomo.
Seneca segue la legge cosmica universale tradizionale del pensiero stoico della parità dei diritti e
della solidarietà umana.
"La schiavitù - egli scrive - non esiste nella natura umana, come non esiste la nobiltà: queste
condizioni sono dovute o all'ingiustizia o alla fortuna".
Per Seneca la filosofia è la via per il sommo bene, essa "splende per tutti"; la sua è una ricerca di
vita autentica perché la sua filosofia si vive intimamente come intimamente l'uomo vive il rapporto
con Dio; è una ricerca del principio universale, di quel Dio che pure all'uomo non è estraneo.
Il suicidio è visto da Seneca come scelta privilegiata rispetto all'asservimento alle passioni, è visto
quindi come liberazione e annullamento da ciò che imprigiona l'uomo:
"L'uomo forte e saggio non deve fuggire dalla vita, deve uscirne; e soprattutto egli eviterà quella
passione troppo comune, la libidine della morte." La nuova coscienza comportò che l'uomo potesse
scegliersi il proprio destino e porsi in una condizione privilegiata rispetto alle sue stesse passioni,
alle sue stesse pulsioni e quindi al suo istinto. L'uomo stoico crea un ordine per riaversi
dall'indeterminazione caotica del proprio esistere; è ancora ignaro del lungo processo a cui pure
partecipa; ma è proprio il suo atteggiamento di autentica e rigorosa ricerca ciò che permette
all'uomo di oggi di riconoscerlo ancora vivo ed attuale.
Le Naturales quaestiones
Sviluppate in sette libri, le Naturales quaestiones furono composte nell'ultima parte della vita di
Seneca. L'edizione a noi giunta non è integrale e differisce quasi sicuramente dall'edizione originale
per ordine e composizione. Interessante è il fatto che, per molti versi, Seneca appare ben poco
stoico e più vicino a considerazioni di tipo platonico, anche se egli non rinnegherà il suo stoicismo.
Principi "platonici" possono essere ritrovati soprattutto nella prefazione al primo libro, nella quale si
avverte un forte contrasto tra anima e corpo (visto come prigione dell'anima) e dalla
caratterizzazione trascendentale di Dio privo di corporeità e non immanente. Questi,
principalmente, sono gli argomenti su cui Seneca si sofferma:
•
•
•
1. libro: I fuochi - Gli specchi
2. libro: Lampi e folgori
3. libro: Le acque terrestri (completo)
4. libro: il Nilo - Neve, pioggia, grandine
5. libro: I venti
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6. libro: I terremoti
7. libro: Le comete
Innanzitutto per comprendere appieno il testo è necessario capire che lo scopo che Seneca si
prefigge, non è quello di raccogliere ordinatamente ogni conoscenza dell'epoca, bensì quello di
liberare l'uomo dalla paura e dalla superstizione intorno i fenomeni naturali.
Affrontando il testo, troviamo fin dal primo libro una chiara presa di posizione di Seneca nella
quale si scopre l'intento primo dell'opera: permettere all'uomo, una volta scevro dalle false credenze
che avvolgono la natura, di ascendere ad una dimensione più divina. Di particolare importanza sono
il paragrafo 8-9: Hoc est illud punctum quod tot gentes ferro et igne dividitur? O quam ridiculi sunt
mortalium termini! ("È tutto qui quel punto [la Terra,] che viene diviso col ferro e col fuoco fra
tante popolazioni? Oh quanto ridicoli sono i confini posti dagli uomini!"), nel quale l'anima libera
oramai dalla sua fisicità, comprende l'inutilità degli affanni, dell'avidità e delle guerre.
Spesso quest'opera viene tacciata di poca scientificità, tuttavia viene da domandarsi se di
scientificità si possa propriamente parlare: anche se per certi versi Seneca mostra alcuni
atteggiamenti "scientifici", quali l'osservazione diretta, la riflessione razionale posteriore ad essa e
la discussione di eventuali altre teorie, per Seneca la conoscenza è solo un mezzo per elevarsi sino a
Dio; molto spesso, inoltre, l'autore divaga in argomentazioni e questioni di tipo morale o religioso e
non sono rare le parti propriamente "filosofiche".
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Tacito
Publio Cornelio Tacito è considerato uno degli storici più importanti dell’antichità.
Il luogo e la data di nascita di Tacito sono ancora oggi incerti.
Nacque probabilmente intorno al 50-58 d.C. nella Gallia Narbonese (o forse a Terni, o addirittura
nella stessa Roma), da una famiglia ricca e molto influente, di rango equestre.
Studiò a Roma, frequentò probabilmente anche la scuola di Quintiliano, acquistò ben presto fama
come oratore (dovette essere anche un valentissimo avvocato), e nel 78 sposò la figlia di Gneo
Giulio Agricola, statista e comandante militare.
Fu pretore ai tempi di Domiziano. Per almeno quattro anni Tacito fu lontano da Roma, tanto che
non poté assistere con la moglie ai funerali dei suoceri.
La carriera politica di Tacito continuò con la carica di console affidatagli probabilmente da
Domiziano nel 97.
L’ultimo incarico ufficiale fu il proconsolato d’Asia.
Per l’epoca della morte si possono fare solo delle congetture; la più probabile è che sia avvenuta nei
primi anni del principato di Adriano, attorno al 120.
Le opere
.L’Agricola- L’Agricola fu iniziata da Tacito nel 97 dopo l’ascesa di Traiano. Si tratta di un’opera
di 46 capitoli. Nei primi versi Tacito scrive in onore del suocero, Agricola, ricordandone la
giovinezza e la carriera.
L’opera continua con un altro tema importante,la narrazione storica della campagna in Bretagna.
Negli ultimi capitoli si parla di come il successo di Agricola susciti l’invidia di Domiziano, nonché
della morte di Agricola e dei sospetti di avvelenamento.
Un ombra di tristezza dà tono a tutta l’opera, culminando nello splendido elogium funebre.
.La Germania- Si tratta di un’opera in 46 capitoli, scritta sempre nei primi mesi dell’impero di
Traiano. L’opera si compone di due parti: nella prima sono descritti la geografia della regione, gli
usi e i costumi politici, religiosi e militari dei Germani. Nella seconda sono descritte le
caratteristiche delle popolazioni degli Elvezi e dei Cimbri.
Con questo testo Tacito voleva rispondere alla curiosità diffusa in Roma su quelle genti lontane,
curiosità molto più viva dal momento che Traiano, alla morte di Nerva, non era ancora venuto a
Roma per essere acclamato imperatore.
.Le Historiae- Le Historiae (Storie) di Tacito costituiscono un'opera di storiografia, scritta intorno
al 100 d.C. Dell'opera ci sono pervenuti solo i primi cinque libri, nei quali sono raccontati gli
avvenimenti degli anni 69 e 70 d.C. Nelle Historiae Tacito racconta le guerre civili del 69 d.C., la
morte degli imperatori militari Galba, Otone e Vitellio, l'assedio di Gerusalemme e la prima guerra
giudaica.
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.Gli Annales_ Gli Annales narrano del periodo storico successivo alla morte di Augusto nel 14 d.
C. Essi furono l'opera finale di Tacito.
Tacito scrisse almeno 16 libri, ma i libri 7-10 sono andati perduti e parti dei libri 5, 6, 11 e 16 sono
mancanti.
Il libro 6 finisce con la morte di Tiberio e i libri dal 7 al 12 coprivano presumibilmente i regni di
Caligola e Claudio. I libri rimanenti riguardano il regno di Nerone, probabilmente sino alla sua
morte nel giugno 68.
La seconda parte del libro 16 è andata perduta (finisce narrando gli eventi dell'anno 66). Non si sa
se Tacito completò l'opera o se decise di finire prima gli altri lavori che aveva pianificato di
scrivere; morì prima di poter mettere mano alle storie di Nerva e Traiano, e non si ha nessun
frammento della parte dell'opera su Augusto e gli albori dell'impero con cui aveva deciso di finire il
suo lavoro di storico.
Così come aveva già scritto nelle Historiae, Tacito sostiene la sua tesi sulla necessità del
principato. Se da un lato elogia Augusto per aver garantito pace allo stato romano dopo anni di
guerra civile, dall'altro mostra gli svantaggi di una vita vissuta sotto il dominio dei Cesari.
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Tito Livio
Scarse le notizie della sua vita. Di lui non si conosce il cognome. Si sa che nacque a Padova nel 59
a.C. Presto si trasferì a Roma, dove entrò nelle grazie dell'imperatore Augusto, che gli affidò, a
quanto pare, l'educazione culturale del nipote adottivo Claudio, futuro imperatore. Ebbe una figlia
ed un figlio, Tito, divenuto poi famoso geografo.
Di idee conservatrici, improntò la sua vita e la sua opera ad equilibrio morale e religioso e allo
spirito patriottico. Il suo essere un convinto pompeiano, e quindi critico nei confronti di Cesare, non
gli impedì di comprendere lo spirito nuovo dei tempi, di ammirare l'opera riformatrice imperiale e
di celebrare la pace augustea e la figura stessa dell'imperatore.
Morì a Padova nel 17 d.C.
Le opere
Pochi frammenti ci sono pervenuti dei suoi scritti filosofici e retorici, che noi conosciamo
soprattutto tramite le testimonianze di successivi autori come Quintiliano e Seneca.
Ma il suo capolavoro è rappresentato dalle Storie. Iniziato tra il 27 ed il 25 a.C., occupò tutta la sua
vita.
Originariamente il titolo doveva essere Ab Urbe condita libri e comprende in 142 libri
annalisticamente, anno per anno o per gruppi di anni, la storia di Roma dalle origini sino al 9 a.C.,
anno della morte di Druso Maggiore (figliastro di Augusto), il governatore delle Gallie che
combatté contro le popolazioni germaniche.
E' probabile che l'opera dovesse comprendere, nel disegno originario, 150 libri e concludersi con la
morte di Augusto (14 d.C.).
L'autore la pubblicò, man mano che procedeva nella composizione, per sezioni staccate,
raggruppandole in decadi (10 libri) o pentadi (5 libri), corrispondenti per lo più a determinati cicli di
fatti storici.
Dei 142 libri ne avanzano solo 35 : le decadi 1a, 3a, 4a e i primi cinque libri, lacunosi, della 5a. Degli
altri 107 rimangono alcuni frammenti ed i riassunti che vennero fatti di tutta l'opera, forse ad uso
scolastico, ad eccezione dei libri 136 e 137.
Con le sue Storie Tito Livio si colloca tra i più grandi storici antichi.
Nei secoli è stato accusato di mancanza di senso critico nell'interpretazione e nell'uso delle fonti, di
contraddizioni ed anacronismi, di esaltazione fanatica della romanità e disinformazione cronologica,
geografica ed etnologica.
Ma c'è da dire innanzitutto che la stessa vastità dell'opera è causa di difetti, incongruenze e
contraddizioni. Bisogna poi pensare a Tito Livio come ad uno storico dotato di una peculiare
personalità che lo portava ad essere particolarmente sensibile nei confronti della tradizione :
l'accoglie qual è, senza discuterla o documentarla, la considera patrimonio sacro ed ideale del
popolo romano, germe stesso del futuro destino imperiale. E' questa una visione integrale della
romanità che lo porta a narrare, più che ad interpretare, le vicende ed i valori civili, morali e
spirituali in esse contenuti che devono costituire esempio e norma di vita.
E', la storia, "magistra vitae".
Nella concezione storica di Livio è insito un moralismo attraverso il quale Roma è proiettata in uno
sfondo di fatti grandiosi, nati da un fondamento etico, civile e religioso, che costituisce l'espressione
più elevata di tutta la vita romana. Le sue figure di eroi e matrone sono presentate con accenti epici,
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assurgono a simboli di valore e di virtù e le loro gesta vanno oltre il proprio spazio temporale per
assumere una dimensione ideale eterna.
Anche la religiosità che pervade tutta l'opera è un'altra caratteristica di questo Autore. La visione
che Tito Livio ha della storia è visione fondamentalmente religiosa: la storia è governata dagli dei.
La legge superiore, il Fatum oNecessitas, che domina anche gli stessi dei, dirige il mondo e fissa
l'ordine degli eventi umani. Da esso dipendono vita e morte, prosperità e miseria, vittoria e
sconfitta, pace e disordine. Proprio in questo sentimento religioso Livio trova la risposta al dubbio
tacitiano: ciò che accade nel mondo, accade per caso o per volontà divina?
Altro fondamento per comprendere l'opera è la romanità che Tito Livio ha nella sua concezione
storica. Roma è il suo pensiero dominante, tutto ciò che accade al di fuori di essa non lo interessa.
Compito suo è quello di "esporre i fatti che il popolo romano ha compiuti".
Questa sua sconfinata ammirazione per "il popolo principe della terra" domina tutta l'opera, ma
soprattutto la prima parte, dove l'antica età di Roma è narrata con un nostalgico desiderio del
passato, di quando Roma, forte di condottieri imbattibili, grandi guerrieri, magistrati assennati ed un
popolo disciplinato, poneva le fondamenta della sua storia. Anche lo stesso nascente impero non è
altro, per Livio, che il fatale svolgimento di tali presupposti eroici, un tutt'uno in continuo progresso
verso nuove conquiste militari e civili.
E' chiaro che una tale concezione della romanità ha comportato limitazioni di giudizio nello storico,
giacché l'esaltazione "patriottica" si risolve spesso a sfavore dei popoli stranieri, perlomeno
attenuandone le virtù.
Ma ciò non toglie che Tito Livio rimane lo storico latino più grande dell'età augustea, colui che
seppe dare alla storia un volto umano, riuscendo a convertire in realtà la leggenda ed a narrare la
realtà col tono sospeso della leggenda.
La storia di Roma di Livio ebbe una fortuna immediata e durevole e fu di gran lunga la più letta e
apprezzata fino all'epoca rinascimentale: ispirò ad esempio a Niccolò Machiavelli i suoi Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio.
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Tito Lucrezio Caro
Vita
Tito Lucrezio Caro visse nella prima metà del I secolo a.C. (94 a.C. – 50 a.C.)
La composizione del De rerum natura si può datare alla prima metà degli anni cinquanta.
Le poche notizie che abbiamo di Lucrezio provengono da San Girolamo e da Elio Donato.
L’Epicureismo
Lucrezio fu seguace della filosofia epicurea.
La dottrina epicurea poneva al centro del proprio interesse la ricerca del più alto grado di felicità
possibile: la tranquillità dell’animo raggiunta tramite la conoscenza.
La dottrina degli atomi concepiva la materia come il risultato di un’aggregazione meccanica di
elementi minimi. Epicuro poneva alla base della materia e della vita un fondamento fisico unico: la
deviazione o clinamen che deviava gli atomi dalla retta di caduta e li faceva scontrare permettendo
così la loro aggregazione.
Epicuro non negava l’esistenza della divinità, ma la concepiva come modello della perfetta
beatitudine: gli dei in quanto imperturbabili non si occupano dell'uomo, anzi se ne disinteressano
completamente, per questo l'uomo non deve temere né gli dei né il loro castigo.
Il fondamento della vita sociale è l’utilità del bene comune, e la dottrina epicurea preferiva i vincoli
individuali di amicizia a quelli del contratto sociale, condannando i concetti di ambizione, di
successo e di gloria, contrapponendo ad essi la ricerca del soddisfacimento delle necessità materiali.
L’epicureismo avrebbe rappresentato un grave rischio per l’ordine repubblicano tradizionale, ma era
inevitabile che dopo la conquista della Grecia (146 a.C.) la cultura greca penetrasse a Roma.
Il primo circolo sullo stile ellenico fu quello di Scipione Emiliano.
All’epoca di Lucrezio la scuola epicurea contava su due personaggi molto importanti
quali Filodemo e Sirone, ma vedendo in essa una dottrina capace di svalutare pericolosamente
alcuni fondamenti politici e religiosi della società e della cultura romana venne condannata da
Cicerone, che screditava la diffusione popolare di tale filosofia sostenendo che essa fosse facile da
capire, le dolci attrattive di piacere facevano presa sulle persone, era la migliore produzione
filosofica del momento.
Il programma di Lucrezio
Lucrezio vuole illuminare, attraverso lo studio della fisica, le norme etiche in modo da superare le
banalizzazioni del volgo e offrire un nuovo equilibrio spirituale.
Per effettuare ciò l’autore ha bisogno dell’appoggio di un personaggio politico, e questo spiega le
dedica a Memmio, uomo politico ambizioso.
Lucrezio celebra l’uomo riscattato dalla ragione e dalla scienza.Per realizzare il suo progetto,
Lucrezio si cimenta in un’opera dottrinale del massimo livello; egli sceglie il genere poetico,
rifiutato dal maestro Epicuro, per imitare i padri della poesia: Omero, Ennio, Empedocle.
Poesia e retorica
A causa dell’indiscindibilità della poesia e dell’ammaestramento, Lucrezio sceglie il genere
didascalico, che comunica sotto forma di trattato il suo messaggio, in cui prevale l’immediatezza
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dell’insegnamento proposto.
La poesia è una scelta obbligata per ottenere l’attenzione dell’interlocutore e per creare un contatto
con questo.
Il registro poetico è posto a servizio della persuasione, scopo primario del progetto didascalico
lucreziano.
DE RERUM NATURA
Il De rerum natura è il primo grande esempio del genere didascalico nella letteratura romana, e
Lucrezio è consapevole dell’importanza e della novità che esso comporta.
Il De rerum natura è suddiviso in sei libri tutti appartenenti al genere didascalico, genere fondato
sulla finzione di un insegnamento; Lucrezio espone la dottrina epicurea rivolgendosi a Memmio,
protettore di Lucrezio, in modo sollecito, partecipe e informale.
Il testo è organizzato in gruppi di due libri, dìadi, con tematiche ben definite ed evidenti confini, che
illustrano i meccanismi alla base di ogni esistenza:
- libri I°-II° = dottrina degli atomi;
- libri III°- IV° = natura dell’organismo umano;
- libri V°-IV° = vicende dell’universo e cause dei fenomeni naturali; Il poema presenta due
proemi: uno, l’invocazione a Venere, all’inizio, mentre l’altro a metà dell’opera dove il poeta esalta
la novità e gli scopi della sua impresa poetica.
Nell’opera è quasi del tutto assente il mito, data la filosofia abbracciata da Lucrezio e le aspre
critiche mosse contro ogni forma di credenza.
L’unica eccezione è data dal proemio iniziale, dove però le figure di Venere e Marte hanno valore
puramente simbolico. Gli altri riferimenti a dei e mostri sono usati per smentire la loro presenza.
Lucrezio espone una sua personale teoria antropologica: i primi uomini, come tutti gli esseri viventi,
furono generati dalla terra; il susseguirsi di progressive acquisizioni culturali ha portato l’uomo a
essere come è oggi.
Con questa teoria Lucrezio sfata i miti di perfezione attribuiti all’età dell’oro, accentuando i difetti e
le mancanze tipiche della natura e dell’uomo.
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Marco Terenzio Marrone
Vita
Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti nel 116 a.C. e morì a Roma nel 27 a.C.
Egli acquisì nel campo della cultura una tale fama da essere ritenuto in tutta l’antichità, sino al
Medioevo, “il più grande erudito romano”.
Fu questore e, successivamente, tribuno della plebe nonché pretore.
Fu al seguito di Pompeo, che seguì nella guerra contro Sertorio, in quella contro i pirati e nella
campagna contro Cesare: comandò allora come legato le truppe pompeiane nella Spagna Betica, ma
si arrese nel 49 a.C. a Cesare, che lo volle amico e lo propose alla direzione della prima biblioteca
pubblica (46 a.C.).
Il secondo triumvirato gli si mostrò ostile e lo proscrisse (46 a.C.), ma fu graziato e poté trascorrere
tranquillamente nello studio il resto dei suoi giorni.
Si fece seppellire secondo il rituale pitagorico.
Opere
La vasta produzione di Varrone fu suddivisa da San Gerolamo in un catalogo (incompleto, poiché
sono elencati circa la metà degli scritti del reatino); in totale, le opere varroniane sono
verosimilmente 74, suddivisi in 620 libri o volumi:
a) opere di erudizione, filologia e storia;
b) opere giuridiche e burocratiche;
c) epitomi di grandi opere;
d) opere di filosofia e agricoltura;
e) poesia, orazioni, satire, varie prose.
Di questa grande produzione è pervenuta (quasi integra) solo un'opera: il De re rustica; del De
lingua Latina sono pervenuti solo 6 libri su 25.
L’opera linguistica di gran lunga più importante è un trattato in venticinque libri, il De lingua
Latina, composto fra il 47 e il 45 a.C.
La principale opera didascalica è De re rustica, scritta nel 37 a.C. e indirizzata alla moglie
Fundania in occasione dell’acquisto del podere.
È divisa in tre libri dedicati rispettivamente a Fundania e gli amici Turranio Nigro e Pinnio e consta
di una serie di dialoghi tenuti in date e luoghi diversi, con interlocutori il cui nome richiama la
materia trattata.
Varrone parla ai ricchi possidenti e allevatori amanti del guadagno e del lusso. Egli dimostra un
sincero amore per la campagna e tenta di esprimersi in una lingua corretta e, talora, artisticamente
elevata.
Pensiero
Più che di una filosofia di Varrone si può parlare di implicanze filosofiche della sua cultura
generale. Infatti, propriamente, il nostro autore non si occupa specificamente di filosofia: eppure
essa è costantemente presente sullo sfondo dei suoi scritti.
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La sua concezione dell’anima come «pneuma» e del Divino come «anima del mondo» sono in
perfetta sintonia con l’Eclettismo stoicizzante di Antioco.
La dottrina filosofica per cui egli è più noto consiste nella distinzione delle tre forme di teologia
(una distinzione che ha radici molto antiche):
1) la «teologia favolosa o mitica» dei poeti;
2) la «teologia naturale» propria dei filosofi;
3) la «teologia civile», che si esprime nelle credenze e nei culti delle città.
Varrone riteneva la seconda forma di teologia come la più vera; al tempo stesso, egli insisteva
molto sul fatto che la religione fosse una creazione umana.
Si ricordi, infine, l’utopia filosofica tratteggiata da Varrone in un’opera intitolata
Marcopolis (letteralmente: La città di Marco): su di essa non sappiamo pressoché nulla perché,
purtroppo, è andata perduta; però non è inverosimile pensare che la città utopica così come Varrone
la immaginava fosse saldamente legata al passato tradizionale di Roma, e non tanto a valori
rivoluzionari.
Questo aspetto può essere desunto dal pensiero stesso di Varrone, accanito difensore del “mos
maiorum”( i “costumi dei padri”), ma anche da un’altra sua opera, intitolata Sexagesis, in cui
raccontava di un personaggio che, addormentatosi da ragazzo, si svegliava a sessant’anni per
accorgersi che a Roma tutto era mutato in peggio. Ancora in un altro passo dei suoi scritti, Varrone
guarda con ammirazione alla società perfetta delle api, alla loro operosità e alla loro solidale
convivenza.
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Publio Virgilio Marone
Virgilio (PublioVirgilio Marone) è considerato il più grande poeta latino. Nacque ad Andes (odierna
Pietole), vicino a Mantova, il 15 ottobre dal 70 a. C.
Il futuro poeta, figlio di un piccolo agricoltore, compì i primi studi a Cremona poi a Milano e nel 53
a. C. raggiunse Roma, nelle scuole del retore Epidio. Virgilio era una persona timida e pare che non
fece molti progressi nell'oratoria, oltre a questo si dice avesse una pronuncia poco ortodossa per i
dotti romani. Forse per questi motivi si dedicò alla filosofia, alla medicina e alla matematica, sotto
la guida di Sirone epicureo che lo influenzò nell'osservazione attenta e nell'esattezza delle
rappresentazioni.
In questo periodo Virgilio aderì quella corrente rinnovatrice dell'arte chiamata dei poetae novi e
trovò una notevole fonte di ispirazione nel poema di Tito Lucrezio Caro: De rerum natura, pur
senza accettarne la concezione che tendeva a negare l'immortalità dell'anima.
Nel 44 a. C. Virgilio tornò a Pietole, dopo la morte di Cesare (15 di marzo), dove sperava forse che
nella quiete della campagna natia non lo raggiungessero gli echi delle furibonde lotte civili che
stavano per ricominciare, dopo la morte del grande condottiero romano. In questo periodo era
intento alla stesura sua prima grande opera Le Bucoliche in cui avrebbe dovuto riflettersi la
serenità dell'animo suo nel magistero di un'arte ormai matura, quando gli eventi precipitarono e in
quelle pagine idilliche dovette versare il pietoso dolore suo e dei suoi compaesani, spogliati dei loro
beni a beneficio dei veterani di Cesare.
Il poeta lasciò definitivamente Pietole portando a Roma, le Bucoliche, dieci egloghe (componimenti
a sfondo pastorale), imitate dagli idilli del greco - siculo Teocrito (III sec. a. C.), ma con impronta
artistica nuova e con espressione lirica personalissima di stati d'animo, scaturiti dall'amore della
terra, che gli procurarono l'ammirazione del pubblico e la benevolenza di Ottaviano.
Il futuro Augusto gli donò un podere a Napoli come risarcimento dei beni perduti nei luoghi natii,
e Mecenate gli offrì una casa a Roma, nel quartiere dell'Esquilino. Da allora la vita di Virgilio si
svolse tutta all'ombra di Augusto e del suo grande ministro. Non partecipò alle guerre, ma
accompagnò e favorì gli sforzi riformatori di Ottaviano.
Primo frutto di tale cooperazione fu il poema delle Georgiche, suggeritogli da Mecenate e
composto fra il 37 e il 30 a. C.; poema in 4 libri, capolavoro di tutta la letteratura latina per
perfezione formale, limpidezza e intima commozione, il quale assecondava il disegno politico
dell'imperatore: condurre all'agricoltura le persone inclini all'ozio ed alle abitudini corrotte, per
avere una gioventù vigorosa capace di difendere e di consolidare l'Impero.
Virgilio era a questo punto il primo poeta di Roma, e da lui Augusto e tutta la capitale si attendeva
un grande poema dell'impero. Il grande poema, l'Eneide, si concretizzò quando Virgilio canterà la
leggenda di Enea e, attraverso questo eroe mitologico, la celebrazione stessa dell'Impero Romano e
la glorificazione della Casa Giulia a cui apparteneva Augusto.
L'Eneide, riassume la storia di Roma da piccola villaggio fluviale, e di tutti i popoli italici che nel
dominio di Roma si erano fusi, assumendone la lingua e le istituzioni. Latini, Etruschi, Volsci,
Rutili, Messeri, Campani, Sabini, Equi e Marsi erano i vinti che sarebbero diventati i fratelli dei
vincitori.
L’esaltazione della Casa Giulia era l’intima convinzione politica dle poeta che un nuovo ordine
stesse cominciando, dopo tante guerre, dopo tanto sangue, anche cittadino, sparso in lotte feroci.
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L'Eneide, scritto da Virgilio in undici anni, è anche un poema religioso, nei suoi aspetti rituali e nel
suo significato latino, perché è il poema del dolore umano nella buona o nella cattiva sorte, verso un
destino ineluttabile.
Nel 19 a.C., Virgilio s'imbarcava per l'oriente col proposito di visitare i luoghi del suo eroe Enea;
ma ad Atene s'incontra con Augusto reduce dalle province orientali; stanco e malato, l’imperatore lo
induce a ritornare con lui in Italia.A Brindisi, appena sbarcato, Virgilio muore il 22 settembre dello
stesso anno. Le sue ossa furono sepolte a Napoli, sulla via di Pozzuoli.
Il poema fu pubblicato dagli amici del poeta Vario e Tucca, per volere di Augusto senza aggiunte di
sorta, divenendo subito un poema sacro, che attraversò incolume i secoli di decadenza, e la fine
dell'Impero, riaffiorando di tanto in tanto con la sua vitalità .
L’Eneide
L'Eneide (latino Aeneis) è un poema epico, considerato il più rappresentativo dell'epica latina,
scritto dal poeta e filosofo Virgilio nel I secolo a.C., tra il 29 a.C. e il 19 a.C.
Il poema racconta la leggendaria storia di Enea, un principe troiano fuggito dalla città, dopo la
conquista dei greci, che arrivò in Italia, dove diventò il precursore del popolo romano. Alla morte
di Virgilio il poema, composto da dodici libri, restò incompiuto; nel suo testamento aveva lasciato
detto di bruciarlo nel caso non fosse riuscito a completarlo, ma Augusto si oppose personalmente e,
a sua volta, ordinò a Vario, uno dei migliori amici del poeta, di curarne la pubblicazione.
Il motivo della pubblicazione dell'Eneide da parte dell'Imperatore era dovuto al fatto che Virgilio
aveva scritto il poema con il proposito di realizzare un'opera capace di celebrare allo stesso tempo,
sia i motivi ideali e le qualità morali che avevano contribuito alla costruzione dell'impero di Roma,
sia la presunta discendenza divina della Gens Iulia, ossia la famiglia cui apparteneva lo stesso
Augusto, che in quel momento era alla guida dell'Impero romano.
I libro: compaiono già i personaggi e i temi principali dell'opera, che inizia con la descrizione della
tempesta provocata dalla dea Giunone, la quale, accanendosi contro Enea e i suoi seguaci che erano
partiti dalla Sicilia alla volta delle coste italiane, li costringe a naufragare sul costa africana.
Qui trovano rifugio e ospitalità presso la regina Didone, occupata nella costruzione di Cartagine,
dopo essere stata costretta all'esilio dalla città fenicia di Tiro.
II libro: Enea, durante un banchetto, riferisce alla regina Didone della distruzione di Troia,
soffermandosi su episodi più violenti come le uccisioni di Laocoonte, Polite e Priamo. Su ordine di
Venere, Enea è riuscito a fuggire dalla città in fiamme portando con sé il padre Anchise, il figlio
Ascanio, i sacri Penati ed un gruppo di seguaci, con i quali dovrà fondare una nuova Troia.
III libro: Enea continua il suo racconto a Didone, descrivendo sia episodi dolorosi e violenti (come
quelli di Polidoro, delle Arpie e di Polifemo) con altri più dolci e tristi (l'incontro con Andromaca e
la morte del padre Anchise). In questo stesso libro si narra anche della profezia ricevuta dagli esuli
troiani, a Delo, da parte dell'oracolo di Apollo, che li incita ad andare in cerca dell'Italia per
compiere la loro missione.
IV libro: è incentrato sulla tragica vicenda d'amore di Didone, che si è innamorata di Enea e si
sente tradita quando egli abbandona l'Africa, perché incalzato da Giove a completare il suo viaggio.
La regina, allora, decide di suicidarsi, non prima però di aver maledetto Enea e il suo popolo,
profetizzando eterna guerra tra i Cartaginesi e i discendenti dei Troiani, cioè i Romani.
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V libro: è completamente dedicato alla descrizione dei giochi funebri per il primo anniversario
della morte di Anchise si conclude con il triste racconto della morte del nocchiero Palinuro, caduto
di notte in mare, dopo essersi addormentato durante il viaggio verso l'Italia.
VI libro: arrivato a Cuma, in Campania, Enea viene accompagnato dalla Sibilla giù nell'oltretomba,
al di sotto del lago d'Averno. Nei Campi Elisi incontra l'ombra di Anchise, che rivela al figlio che è
stato scelto dagli dei per fondare l'Impero di Roma.
VII libro: giunto nel Lazio, Enea incontra il re Latino, che gli promette in sposa la figlia Lavinia.
Questa però era già stata promessa in matrimonio al re dei Rutuli, Turno che, grazie anche alla
complicità della moglie del re Latino, prima fa in modo che si rompa il patto nuziale e
successivamente incita la formazione di un'alleanza contro gli esuli troiani, dando così inizio alla
guerra.
VIII libro: Enea si trova in difficoltà a causa dell'eccessiva potenza delle forze nemiche, ripercorre
il Lazio e proprio nel luogo dove sorgerà Roma, riceve aiuti dal re degli Arcadi, Evandro, che
ordina al figlio Pallante di mettersi al comando di un piccolo esercito al fianco dei Troiani. Nel
frattempo, su ordine di Venere, Vulcano fabbrica le armi di Enea, tra cui uno scudo decorato con le
future magnificenze di Roma.
IX libro: in gran parte di questo libro troviamo la descrizione dell'assedio del campo troiano
durante l'assenza di Enea e soprattutto spicca l'episodio dei giovani troiani Eurialo e Niso, il cui
coraggioso sacrificio, avvenuto nel corso di una spedizione notturna, non porta ad alcun esito
determinante per i Troiani.
X libro: la scena di guerra si movimenta con l'alleanza fra Etruschi e Troiani. Sul campo di guerra
Turno uccide Pallante, mentre Enea uccide Mezenzio, potente alleato di Turno.
XI libro: nella prima parte si narra del rito funebre per la morte di Pallante e dalle speranze di pace
che hanno i combattenti; nella seconda parte tornano altri scontri bellici, nel corso dei quali perde la
vita anche Camilla.
XII libro: l'opera si conclude con lo scontro decisivo fra Turno ed Enea, il quale, dopo aver ridotto
all'impotenza l'avversario e dopo essere stato sul punto di concedergli indulgenza, decide infine di
ucciderlo, dopo aver visto che indossava la cintura d'oro di Pallante.
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Marco Vitruvio Pollione
Marco Vitruvio Pollione (latino Marcus Vitruvius Pollio; ... – I secolo a.C.) è stato un
architetto e scrittore romano, attivo nella seconda metà I secolo a.C., fu il più famoso teorico
dell'architettura di tutti i tempi.
Assolutamente incerto è il suo luogo di origine; di volta in volta sono stati indicate, tra le altre, le
città di Roma, Fano, Fondi, Verona, Formia, l'area campana in genere e addirittura la Numidia,
senza alcuna certezza. Anche dello svolgersi della sua vita si hanno scarse notizie, tutte dedotte da
note autobiografiche inserite nel suo trattato. Dovrebbe essere stato ufficiale sovrintendente alle
macchine da guerra sotto Giulio Cesare e poi architetto-ingegnere sotto Augusto, anche se l'unica
opera che lui stesso si attribuisce di aver progettato e costruito è la basilica di Fano.
L'importanza di Vitruvio è dovuta al suo trattato De architectura (Sull'architettura), in 10 libri,
dedicato ad Augusto (che gli aveva concesso una pensione), scritto probabilmente tra il 29 e il 23
a.C. L'edizione dell'opera avvenne negli anni in cui Augusto progettava un rinnovamento generale
dell'edilizia pubblica e mirava probabilmente a ingraziarsi il sovrano, a cui l'autore si rivolge
direttamente in ciascuna delle introduzioni preposte ad ogni libro.
Il De architectura è l'unico integro testo latino di architettura e pertanto il più importante, tra i pochi
giunti, in modo più o meno frammentario, fino a noi; l'influenza sulla cultura occidentale è
principalmente dovuta proprio al questa sua unicità. Tuttavia l'influenza dell'opera di Vitruvio sui
suoi contemporanei sembra sia stata molto limitata, anche perché il suo trattato fu scritto in un
momento in cui l'architettura romana stava per rinnovarsi profondamente con le grandi costruzioni
in laterizio e l'utilizzo di volte e cupole, di cui Vitruvio, praticamente non si occupa.
Nel XV secolo la conoscenza e l'interesse per Vitruvio crebbero sempre di più, soprattutto per
merito di architetti e umanisti come Lorenzo Ghiberti, Leon Battista Alberti, Francesco di Giorgio
Martini, Raffaello, Fabio Calvo, Paolo Giovio, fra Giocondo da Verona.
Nel 1490 il trattato fu pubblicato a stampa per la prima volta da Sulpicio da Veroli. Nel 1521 uscì la
prima edizione tradotta in italiano da Cesare Cesariano. Subito dopo apparvero varie traduzioni ed
edizioni negli altri paesi europei.
A partire dal XV secolo il trattato è stato uno dei fondamenti teorici dell'architettura occidentale
fino alla fine del XIX secolo.
In questo trattato, Vitruvio dà all'architettura il titolo di scienza, ma non si limita a questo: anzi, la
eleva al primato, in quanto contiene praticamente tutte le altre forme di conoscenza. Nella
fattispecie, l'architetto deve avere nozioni di:
geometria: deve conoscere le forme con cui lavora;
matematica: l'edificio deve stare in piedi, per questo vanno fatti dei calcoli specifici;
anatomia e medicina: costruisce luoghi per la vita dell'uomo, per questo deve conoscere le
proporzioni umane, deve fare attenzione a illuminazione, arieggiamento e salubrità di città ed
edifici;
ottica ed acustica: basti pensare ai teatri;
legge: chiaramente, la costruzione deve seguire norme ben precise;
teologia: nel caso di edificazione di templi, questi dovevano essere graditi agli Dei
astronomia: particolari tipologie di edifici, soprattutto luoghi di culto, dovevano tenere conto della
posizione degli astri;
meteorologia: il microclima del luogo di costruzione dell'edificio è fondamentale per le
caratteristiche che deve avere.
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L'architettura è imitazione della natura, l'edificio deve inserirsi armoniosamente nell'ambiente
naturale. L'architetto deve possedere una vasta cultura generale, anche filosofica, oltre alla
conoscenza dell'acustica per la costruzione di teatri ed edifici simili, dell'ottica per l'illuminazione
degli edifici, della medicina per l'igiene delle aree edificabili.
Vitruvio, nei proemi, mira anche a conferire all'architetto prestigio culturale e sociale solitamente
negato ai tecnici antichi.
La lingua utilizzata da Vitruvio, che già apparve "oscura" agli studiosi rinascimentali, fu
severamente giudicata dai filologi ottocenteschi, a confronto con il contemporaneo latino classico
del periodo ciceroniano. Si tratta in effetti di un linguaggio poco letterario e disadorno, ricco di
elementi colloquiali e tecnicismi anche di origine greca; una sorte di latino specialistico e "volgare",
anticipatore di future evoluzioni linguistiche.http://it.wikipedia.org/wiki/De_architectura cite_note-11
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Tertulliano
Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (in latino Quintus Septimius Florens
Tertullianus; Cartagine,155 circa – 230 circa) è stato un apologeta cristiano latino.
Tertulliano nacque a Cartagine verso la metà del II secolo (intorno al 155) da genitori pagani, figlio
di un centurione proconsolare e, dopo essere stato verosimilmente iniziato ai misteri di Mitra, compì
gli studi di retorica e diritto nelle scuole tradizionali imparando il greco.
Dopo aver esercitato la professione di avvocato dapprima in Africa e in seguito a Roma, ritornò
nella città natale e probabilmente verso il 195 si convertì al Cristianesimo. Nel 197 scrisse la sua
prima opera, Ad nationes ("Ai pagani").
Presi gli ordini sacerdotali, adottò posizioni religiose molto intransigenti e nel 213 aderì alla setta
religiosa dei montanisti, nota proprio per la sua intransigenza e il suo fanatismo.
Negli ultimi anni della sua vita abbandonò il gruppo per fondarne uno nuovo, quello dei
Tertullianisti.
Quest'ultima setta era ancora esistente all'epoca di Sant'Agostino, che riferisce di averla fatta
rientrare nell'alveo dell'ortodossia. Le ultime notizie che si possiedono su Tertulliano risalgono
al 220. La sua morte si data dopo il 230.
Sono pervenute trenta opere teologiche e polemiche contro i pagani, contro gli avversari religiosi e
contro i cristiani che non condividevano le sue tesi.
È considerato un grande teologo cristiano e introduce la teologia trinitaria attraverso una
terminologia latina rigorosa.
Come Dio è unico e distinto in Persone divine che sono "relazioni sussistenti", il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo, allo stesso modo ogni uomo partecipa alla natura umana, ma è distinto nella sua
dignità di persona.
Tertulliano è un grande teorico e un acuto pensatore che assume un posto di rilievo nel panorama
letterario del suo tempo.
È attribuita a Tertulliano la famosa locuzione latina Credo Quia Absurdum. In realtà la frase esatta è
"Natus est Dei Filius; non pudet, quia pudendum est: et mortuus est Dei Filius; prorsus credibile
est, quia ineptum est" (De Carne Christi) che si traduce in: "Nato Figlio di Dio; non si vergogna,
perché v'è da vergognarsi: e il Figlio di Dio è morto: che è del tutto credibile, poiché è del tutto
incredibile".
Tertulliano usa nei suoi scritti un linguaggio specificamente tecnico preso dal gergo avvocatizio e
costruisce i periodi in modo volutamente irregolare, con interrogazioni, esclamazioni, battute ad
effetto, giochi di parole, anastrofe, metafore, così da rendere più incisivo il discorso.
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