Innovazione nei Progetti di Vita per le Persone con Disabilità

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VI° Congresso Nazionale SIRM
Innovazione nei Progetti di Vita
per le Persone con Disabilità Intellettiva:
Esperienze, Ricerche e Proposte
Programma
Atti del Congresso e degli Eventi satellite
A cura di:
Ciro Ruggerini
Sumire Manzotti
3
11-12-13 Dicembre 2008
Casa Famiglia di Nazareth, Via Formigina, 319
MODENA
Comitato Scientifico
E. Aguglia, G. Albertini, M. Bertelli, A. Castellani, C.M. Cornaggia, P. Frilli, G.P. La Malfa, S. Lassi, S. Monchieri, G.F. Placidi, C. Porcelli , C. Ruggerini, , R. Salvini, A. Virzi
Comitato Organizzatore
C. Ruggerini, G.P. La Malfa, A. Castellani, G.P. Guaraldi, S. Monchieri, G. Griffo, S.
Manzotti
Comitato Esecutivo
Comune di Modena - Memo
AUSL di Modena e di Modena e Reggio Emilia
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Associazioni dei Genitori dell’Emilia-Romagna
Consorzio delle Cooperative Sociali della
Provincia di Modena
Istituti Polesani Ficarolo (Ro)
Istituto Charitas Modena
4
Indice
Presentazione
Ciro Ruggerini ..................................................................................................................... 11
Introduzione
Adriana Querzé.................................................................................................................... 13
Programma generale ......................................................................................................... 15
EVENTI SATELLITE
I mondi possibili
Aldo Giorgio Gargani.......................................................................................................... 23
La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite
Giampiero Griffo....................................................................................................... 26
Conoscere la storia per favorire l’innovazione
Psichiatria e Pedagogia nella assistenza ai bambini con disabilità intellettiva
tra fine 800 e inizio 900 nella esperienza degli Istituti san Lazzaro di Reggio Emilia....... 34
SESSIONE PLENARIA
L’empowerment della famiglia: una meta da raggiungere per uscire dall’assistenzialismo
Grazia Minelli...................................................................................................................... 41
Nuovi contributi dalla ricerca psichiatrica nel campo della disabilità intellettiva
Marco Bertelli, Angela Hassiotis, Shoumitro Deb, Luis Salvador-Carulla......................... 42
Il ruolo nuovo della psichiatria nell’assistenza alle persone disabili
Marco Bertelli...................................................................................................................... 49
Disabilità intellettive, prestazioni scolastiche e adattamento sociale: surplus
rispetto alle capacità cognitive? Ovvero sull'influenza di un ambiente arricchito
Renzo Vianello, Silvia Lanfranchi ...................................................................................... 50
Il ruolo nuovo della Neuropsichiatria Infantile nel favorire lo sviluppo
dei bambini con disabilità
Ernesto Caffo....................................................................................................................... 51
Una esperienza di applicazione del documento OMS “Innovative Care
for Chronic Conditions (ICCC)” alla condizione della disabilità intellettiva:
metodo, risultati, criticità
C. Ruggerini, A. Dalla Vecchia, S. Manzotti, F. Beneventi, K. Covati .............................. 52
SIMPOSI
Simposio 1
L'Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti (IESA) in Italia:
storia e considerazioni sullo stato attuale.
Gianfranco Aluffi ................................................................................................................ 59
Riflessioni sui vissuti familiari nell’esperienza sugli affidi a Lucca (IEFA)
G. Ambrogini, L Cagnoni, A. Del Soldato, V. Fioretta, E. Marchi, M. Migli, F. Re ......... 59
L’accoglienza familiare è possibile. La casa famiglia: una esperienza consolidata
Valter Martini ...................................................................................................................... 60
5
Foster family care programme Geel (Belgium): Community based care model
for mentally ill and mentally handicapped adults
Wilfried Bogaerts, Kris Roels ..............................................................................................62
Simposio 2
Formazione degli specialisti medici e dei tecnici dei servizi territoriali
in tema di ritardo mentale in età prescolare: aggiornamento o empowerment?
P. Caggia, R. Mari, R. Tassi, L. Foschi, S. Parenti, S. Valentini, B. Velardi, M. Natali,
F. Franzoni, S. Manzotti, V. Moretti, C. Ruggerini .............................................................63
Qualche riflessione sulla psicologia dell'area della disabilità
Lucia De Uffici.....................................................................................................................65
Il Servizio per adulti con Ritardo Mentale all'interno del Dipartimento di Salute Mentale. L'integrazione tra servizi e la formazione: strumenti per abbattere gli stereotipi
Anna Maria Agostini, Daniele Marchetti.............................................................................69
Quale formazione è utile agli insegnanti di sostegno?
Maria Assunta Barbieri, Giacomo Guaraldi.........................................................................69
La Formazione degli Operatori nelle Aziende Socio-sanitarie
P. Vescovi, V. Pederiva, P. Piazza .......................................................................................70
Simposio 3
Il gruppo di auto-mutuo aiuto come strumento per promuovere le autonomie quotidiane
Genitori dell'Associazione “Crescere Insieme” di Rimini ...................................................71
Weekend: primi passi verso l'autonomia abitativa
Indipendente-mente .............................................................................................................71
Pensarsi autonomi
Enrico Savelli .......................................................................................................................72
Progetti di vita autonoma nelle due case scuola Viola e Gialla
Patrizia Frilli.........................................................................................................................72
Adolescenza come trampolino di lancio per l’autonomia
Silvia Coltri ..........................................................................................................................73
Simposio 4
Partecipazione a una Ricerca nella Comunità: una esperienza di Self - Empowerment
di famiglie di persone con disabilità intellettiva
Anna Messori e genitori del Progetto di Ricerca “Rafforzamento del self-management
nelle famiglie di persone con disabilità intellettiva” ...........................................................74
Empowerment
Rossana Gombia...................................................................................................................76
La certezza di poter migliorare: l’esperienza di un Gruppo Genitori Mediatori
Cristina Cattini .....................................................................................................................81
Genitori e tempo libero a Modena: esperienza di ANFASS ONLUS Modena
Massimo Bergonzini, Maurizio Schenetti............................................................................85
L’Empowerment come risorsa per l’ innovazione: i suoi effetti nei modelli
economici per la distribuzione delle spese sanitarie
Sumire Manzotti................................................................................................................... 86
6
Simposio 5
Assistenza e ricerca nella psichiatria della disabilità nell’esperienza
dell’istituto Charitas di Modena
Ciro Ruggerini, Francesca Villanti, Gian Paolo Guaraldi ................................................... 88
Abilitar suonando: il progetto Orchestra Invisibile
P. Politi, M. Boso, I. Bonoldi, D. Broglia, L. Mancini, M. Marini, C. Perelli,
F. Podavini, U. Provenzani, S. Ucelli di Nemi.................................................................... 91
Residenzialità per persone con Disabiltà Intellettiva:
aspetti di criticità e proposte di cambiamento
Sergio Monchieri ................................................................................................................. 92
L’esperienza alberghiera come modello residenziale alternativo
Marco Buzzi ........................................................................................................................ 97
Simposio 6
Progetto di accoglienza rivolto ad adulti disabili ospiti delle strutture residenziali
del distretto di Modena
G. Ganzerla, A. Colantoni, A. Luciani ................................................................................ 98
L'approccio del MMG alle problematiche sanitarie in persone
con disabilità intellettiva grave e gravissima:
l'esperienza di sette anni di attività in un centro residenziale.
Loredana Perticarari, Massimo Marcon ............................................................................ 100
Simposio 7
Programma Regionale Integrato per l’assistenza ai disturbi dello spettro Autistico
in Emilia-Romagna
Elisabetta Fréjaville, Francesca Ciceri .............................................................................. 102
Sviluppo di ricerche empiriche finalizzate al miglioramento della efficacia
della assistenza psichiatrica alle persone con ritardo mentale e disturbo mentale:
i primi risultati
C. Ruggerini, G. Neri, F. Fontana, F. Villanti, V. Moretti, A. M. Agostini, D. Marchetti,
L. Mauri, G. Giuliani, M. Marcon, S. Manzotti, G. P. Guaraldi ...................................... 104
Il problema della polifarmacoterapia nei pazienti con gravi disturbi
dello sviluppo: ottimizzare la sicurezza delle prescrizioni
Marco Venuta, Mattia Venuta, Andrea Venuta................................................................. 107
Disabilità: un concetto in evoluzione: nulla su di noi senza di noi.
Giampiero Griffo ............................................................................................................... 110
Simposio 9
Il punto di vista delle famiglie su un percorso integrato di riabilitazione equestre
Anna Marotta, Eugenio Bosna, Luca Schiavone............................................................... 111
Flessibilità dell’intervento: aspetti clinici ed operativi
Cesare Porcelli................................................................................................................... 112
Integrazione tra approccio farmacologico, psicoterapia e riabilitazione
nella disabilità intellettiva: l’esperienza di un Centro di riabilitazione
Claudio Ciavatta, Michele Germano, Francesco Mango................................................... 113
7
COMUNICAZIONI LIBERE
Le sfide del prendersi cura del disabile intellettivo nelle fasi terminali della vita
M. Arneodo, S. Magari.......................................................................................................117
La sfida dell’empowerment
Monica Balestrini ...............................................................................................................119
Rosa Bianca: l’inserimento etero familiare attraverso un’associazione di
volontariato di Modena
T. Barbieri, G. Frigieri, G.P. Guaraldi, C. Ruggerini, E. Moretti, S. Zini .........................120
Dove e come vivono gli ex ospiti dell'ospedale-ricovero San Giovanni
Gabriella Boilini.................................................................................................................121
Formazione interna: un’esperienza per favorire la cultura del cambiamento
S. Bultrini, E. Dili, B. Salsone ...........................................................................................122
Medicina basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 2: L’obiettivo sovraordinato del progetto educativo/abilitativo:
il miglioramento della Qualità della Vita del soggetto e della sua famiglia
Paola Caggia e Sumire Manzotti .......................................................................................123
Il comportamento problema è un messaggio
S. Checchia, P. Martinelli...................................................................................................125
Disturbi mentali ed epilessia: studio di prevalenza in adulti con IDD,
in setting residenziali
Giuseppe Chiodelli, Laura Galli, Serafino Corti, Francesco Fioriti, Mauro Leoni,
Luigi Croce.........................................................................................................................126
Clinica ed Educazione della Disabilità Intellettiva:
che cosa abbiamo imparato dal Modello dei Sostegni
Luigi Croce, Giuseppe Chiodelli, Serafino Corti, Francesco Fioriti, Mauro Leoni...........128
Il lavoro con le famiglie.
Lo spazio della genitorialità: l’esperienza con i gruppi multicoppie
M. Cundari, C. D’Anzica, M. Olivieri, M. Santacroce .....................................................129
La nuova longevità della disabilità intellettiva
Elisa De Bastiani,Tiziano Gomiero, Ulrico Mantesso, Luc Pieter De Vreese ...................130
Assessment for Adults with Developmental Disabilities questionnaire (AADS):
uno studio di attendibilità della versione italiana della scala
Luc Pieter De Vreese, Tiziano Gomiero, Ulrico Mantesso, Elisa De Bastiani..................132
Dementia questionnaire for person with intellectual disabilities:
presentazione dell’edizione italiana del manuale e della validazione italiana
Luc Pieter De Vreese, Tiziano Gomiero, Ulrico Mantesso................................................134
Inserimento socio-lavorativo di soggetti con ritardo mentale: il progetto Icaro
Mariella Dell’Oro...............................................................................................................137
Il servizio di educativa territoriale del Comune di Modena:
un nuovo approccio al bisogno di socializzazione
Servizio di Educativa Territoriale ......................................................................................138
Intervento psicoeducativo su comportamento di rigurgito alimentare
in soggetto istituzionalizzato con disabilità intellettiva grave
Francesco Fioriti, Giuseppe Chiodelli, Serafino Corti, Mauro Leoni, Laura Galli,
Paolo Merli, Luigi Croce, Equipe RSD-1 ..........................................................................139
8
Supports Intensity Scale (SIS©):
applicazione e standardizzazione italiana
Mauro Leoni, Serafino Corti, Francesco Fioriti, Giuseppe Chiodelli, Laura Galli,
Luigi Croce, Lucio Cottini, Daniele Fedeli ....................................................................... 140
Riabilitazione e inclusione sociale nel nuovo “Villaggio San Sebastiano”
Leandro Lombardi ............................................................................................................. 141
La motivazione nel care giver
L. Lorenzoni ...................................................................................................................... 142
Percorsi di cura, prassi terapeutiche e differenze individuali
in anziani con sindrome di Down
Ulrico Mantesso, Tiziano Gomiero, Luc Pieter De Vreese............................................... 144
Percorso verso la conquista dell’autonomia delle persone disabili
S. Marchesini, R. Truzzi, G. Minelli, B. Severi, M. Mercatelli, K. Tangerini.................. 146
Medicina basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 5: “Mamma mi vuoi bene?”
Rita Mari, Sumire Manzotti e Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero Universitaria
Policlinico di Modena........................................................................................................ 147
Applicazione e utilità del sistema di gestione della qualità ISO 9001:2000
ad un servizio semi-residenziale per adulti con Disabilità Intellettiva Grave
e Disturbo dello Spettro Autistico
Daniele Mugnaini, Stefano Lassi ...................................................................................... 149
Specifica vulnerabilità negli adulti con Disabilità Intellettiva Grave
e Disturbo dello Spettro Autistico
Daniele Mugnaini, Stefano Lassi ...................................................................................... 149
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 4: Evoluzione del ruolo della famiglia dei bambini con disabilità
intellettiva, disabilità associate e alta dipendenza: da “recettore” a “regista”
Milena Natali, Sumire Manzotti e Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero
Universitaria Policlinico di Modena.................................................................................. 150
La Valutazione Psicodiagnostica Standardizzata nelle persone
con Ritardo Mentale (VPS-RM): esperienze in contesti Residenziali e Clinici
V. Neviani, S. Vicini ......................................................................................................... 153
Disabilità intelletive.it
Lucia Onfiani..................................................................................................................... 155
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 3: Oltre il linguaggio: l’importanza di un approccio “olistico”
ai bambini con disabilità intellettiva e disturbo di sviluppo del linguaggio verbale
Stefania Parenti, Sumire Manzotti e Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero
Universitaria Policlinico di Modena.................................................................................. 157
Casa Claudia: Un progetto di casa-famiglia propedeutico
Carla Patrizi, Elisabetta Lulli ............................................................................................ 159
L’opera lirica per una lettura degli affetti e delle emozioni:
il caso del sig. M. e della sig.ra T.
F. Pirone, S. Magari........................................................................................................... 160
Osservazione lavorativa e utilizzo di schede personalizzate per raggiungimento di
obiettivi prefissati
Il Quinterno ....................................................................................................................... 161
9
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 1: “Abbracci non voluti”: il problema della definizione diagnostica
e della condivisione del progetto “riabilitativo”
Ciro Ruggerini, Sumire Manzotti e Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero
Universitaria Policlinico di Modena ..................................................................................162
Un percorso di certificazione evoluta per persone con ritardo mentale
che afferiscono ad un dipartimento di psichiatria
C. Ruggerini, F. Villanti, F. Mazzi.....................................................................................164
Valutazione della Qualità attraverso la misurazione Epidemiologica
dei risultati ottenuti nel corso del tempo
Roberto Salvini...................................................................................................................167
Validazione di un test per la valutazione dell’autismo. Rapporto preliminare
Roberto Salvini, Giampaolo La Malfa ..............................................................................168
Il controtransfert istituzionale e le emozioni dell’equipe curante
nell’incontro con la disabilità: il caso di una cooperativa sociale bresciana
Giuliana Tonoli ..................................................................................................................169
La forza dei genitori: una esperienza di Scandiano
Roberto Vassallo ................................................................................................................171
Palestre Agricole
Daniele Vecchi, Roberta Setti ............................................................................................172
Il servizio di temporaneità ed emergenza come risposta, all’interno della rete
dei servizi del Comune di Modena, ai bisogni delle famiglie
con un disabile. L’esperienza dell’Istituto Charitas
Daniele Vecchi, Chiara Arletti ...........................................................................................174
Caregiver Difficulty Scale ID:
uno studio di attendibilità della versione italiana della scala
E. Weger, C. Dalmonego, E. De Bastiani, U. Mantesso, T. Gomiero, L. P. De Vreese ....176
10
Presentazione
Soluzioni realmente innovative, che costituiscono un vero e proprio salto di paradigma rispetto al passato, sono sempre più il supporto dei progetti di vita delle persone con disabilità intellettiva.
Soluzioni innovative si possono trovare nella domiciliarità e nell’organizzazione delle esperienze di vita al di fuori delle famiglie, così come nell’organizzazione dei vari servizi
medici e nella ricerca scientifica (che sembra avviarsi verso un intreccio sempre più stretto
con l’assistenza).
Esperienze di sicuro valore rimangono spesso, tuttavia, nell’ombra mentre potrebbero costituire modelli in grado di sollecitare capacità di innovazione e creatività.
Lo scopo di questo Congresso è di offrire un panorama di:
•
tutte le esperienze innovative già realizzate, mettendone in risalto sia i presupposti
che la fattibilità
•
progetti attualmente in elaborazione, focalizzando l’attenzione sulle criticità ai quali sono rivolti ricerche scientifiche in atto, sottolineandone le relative implicazioni
assistenziali.
Il filo conduttore degli interventi è costituito da una riflessione sui fattori che rendono possibile l’innovazione e la creatività attraverso la valorizzazione dell’insieme delle risorse
presenti nei disabili e nelle loro famiglie, così come nell’intera Comunità.
Il “Piano Attuativo 2008-2010” in applicazione del “Piano Sociale e Sanitario della regione
Emilia Romagna pone tra i “Valori ed obiettivi” quello della Innovazione definendola in
questo modo:
“…L’innovazione è un valore contrapposto alla autoreferenzialità. Se è vero che ogni identità affonda le sue radici nella esperienza individuale, nella tradizione ed in ultima analisi
in meccanismi autoreferenziali, la loro assolutizzazione costituisce un grave pericolo e la
via maestra per la mortificazione istituzionale. Rapidi cambiamenti dello scenario sociale
inducono spesso irrigidimenti identitari ed autoreferenzialità proprio laddove innovazione
e sperimentazione sarebbero più necessari…
Perseguire l’innovazione in ogni sua forma, tecnica, organizzativa, culturale significa valorizzare il capitale più importante di cui le istituzioni dispongono, il capitale umano e sociale…”
Ciro Ruggerini
Presidente del Congresso, Membro del Consiglio Direttivo della SIRM
Neuropsichiatria Infantile e Psichiatra
Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico di Modena
11
12
Introduzione
13
14
PROGRAMMA
EVENTI SATELLITE
Conferenza 1
Relatore
Titolo
Aldo Giorgio Gargani
I mondi possibili
Conferenza 2
Relatore
Titolo
Giampiero Griffo
La convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità
Mostra di Storia di Psichiatria
Coordinatore
Titolo
Inaugurazione
Titolo
Paolo Curci
Conoscere la storia per favorire l'innovazione
Valeria Babini
La Questione dei Frenastenici tra Psichiatria e Pedagogia
Mostra d’arte
Titolo
Le condizioni della creatività secondo due artisti modenesi:
P. Paganelli e A. Capucci
RELAZIONI IN PLENARIA
RELATORE
Grazia Minelli
Renzo Vianello e Silvia
Lanfranchi
Marco Bertelli
Marco Bertelli
Giampaolo La Malfa
Ciro Ruggerini
Ernesto Caffo
Alessandro Castellani
G. Galli Carminati
Tavola rotonda
TITOLO
L’empowerment della famiglia: una meta da raggiungere per uscire dall’assistenzialismo
Disabilità intellettive, prestazioni scolastiche e adattamento sociale: surplus rispetto alle capacità cognitive? Ovvero sull'influenza
di un ambiente arricchito
Il ruolo nuovo della psichiatria nella assistenza alle persone disabili
Up-date sulle innovazioni nell'assistenza ai problemi di salute
mentale nella disabilità intellettiva
Innovazione nell'approccio alla vunerabilità
Una esperienza di applicazione del documento OMS 'Innovative
Care for Chronic Conditions': metodo, risultati, criticità
Il ruolo nuovo della neuropsichiatria infantile nel favorire lo sviluppo dei bambini con disabilità
Comportamenti problme o problema dei comportamenti?
Strategie innovative nell'assistenza domiciliare: l'esperienza di Ginevra
La "Consensus Conference sulla salute mentale nelle condizioni di
disabilità intellettiva: lo stato dell'arte
15
SIMPOSI
SIMPOSIO 1
TITOLO
AFFIDAMENTO ETEROFAMILIARE: STORIA, ESPERIENZE ATTUALI, PROSPETTIVE FUTURE
RESP. ORG.
CHAIRMAN
RELAZIONI
Associazione Rosa Bianca (Modena)
Ciro Ruggerini, Giuliana Frigieri
G. Aluffi: L’inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti (IESA) in Italia:
storia e considerazioni sullo stato attuale
V. Martini: L’accoglienza familiare è possibile. La casa famiglia: una esperienza consolidata
L'esperienza di Geel (Belgio):
K. Roels : Essere di nuovo padre. Racconto di una Storia di vita.
W. Bogaerts: La Community Care di Geel
Coordinatore: S. Zini
G. Ambrogini, L. Cagnoni, A. Del Soldato, V. Fioretta, E. Marchi, M. Migli, F.
Re: Riflessioni sui vissuti familiari nell’esperienza sugli affidi a Lucca(IEFA)
V. Martini: L'accoglienza familiare è possibile. La casa famiglia: un'esperienza
consolidata
S.Galezzi – Referente Progetto Prisma, fondazione “Città del Sole”, Perugia
Responsabile Comunità Monte Tauro, Rimini
G.Frigieri, E.Moretti ( Associazione Rosa Bianca), Modena
G.P.Guaraldi
TAVOLA ROTONDA
CONCLUSIONI
SIMPOSIO 2
TITOLO
RESP. ORG.
CHAIRMAN
RELAZIONI
ESPERIENZE INNOVATIVE DI FORMAZIONE SULLA DISABILITÀ
INTELLETTIVA
Giacomo Guaraldi
Paolo Soli, Sergio Monchieri
P. Vescovi, V. Pederiva, P.Piazza: La Formazione degli Operatori nelle Aziende
Socio-sanitarie
M.A. Barbieri, G. Guaraldi: Quale formazione è utile agli insegnanti di sostegno?
Gruppo di lavoro sulla disabilità intellettiva in età prescolare AUSL/Azienda Policlinico Modena: Formazione degli specialisti medici e dei tecnici dei servizi
territoriali in età prescolare: aggiornamento o empowerment?
L. De Uffici, M. Fantera: Qualche riflessione sulla psicologia dell'area della disabilità
A. M. Agostini, D. Marchetti: Il Servizio per adulti con Ritardo Mentale
all’interno del Dipartimento di Salute Mentale. L’integrazione tra Servizi e la
formazione: strumenti per abbattere gli stereotipi
S. Monchieri, A. Ferrandi: Esperienza di formazione di cooperative
SIMPOSIO 3
TITOLO
RESP.ORG.
CHAIRMAN
RELAZ. INTR.
ESPERIENZE DI AUTONOMIA
Associazione Crescere Insieme
Sabrina Marchetti, Patrizia Frilli
E. Savelli: Pensarsi autonomi
16
RELAZIONI
M. Sintica Pagliarani: Week- end: primi passi verso l'autonomia abitativa
Ass. Crescere Insieme: Il gruppoAMA (auto-mutuo aiuto) come strumento per
promuovere le autonomie quotidiane
P. Frilli: Progetti di vita autonoma nelle due case scuola Viola e Gialla
E. Farnetani: La vita in residenza: una occasione per ritrovare percorsi di autonomia
S. Coltri: Adolescenzialità come trampolino di lancio per l'autonomia
SIMPOSIO 4
TITOLO
RESP.ORG.
CHAIRMAN
RELAZ. INTR.
RELAZIONI
EMPOWERMENT DELLE PERSONE DISABILI E DELLE LORO FAMIGLIE
Rossana Gombia
Flavia Franzoni, Giampiero Griffo
R. Gombia: L’empowerment e i suoi effetti
Immovilli: L’esperienza di Cavriago
T. Barbieri: Una esperienza di Modena
D. Cesi: Accoglienza a Reggio Emilia
M. Bergonzini: Genitori e Tempo Libero a Modena
C. Cattini: La certezza di poter migliorare: l’esperienza di un Gruppo Genitori
Mediatori
A. Messori: Partecipazione a una ricerca nella Comunità: una esperienza di
Self-Empowerment di famiglie di persone con disabilità intellettiva
S. Manzotti: Effetti economici dell’Empowerment personale e sociale
SIMPOSIO 5 (presso ASP Charitas di Modena)
TITOLO
RESP.ORG.
CHAIRMAN
INTERVENTI
PREORDINATI
RELAZ. INTR.
RELAZIONI
INTERVENTI
PREORDINATI
INNOVAZIONI NEI CENTRI DIURNI E NELLE RESIDENZE
Alessandro Castellani, Sergio Monchieri
Patrizia Guerra, Sergio Monchieri
Sen. G. Manzini, Presidente dell'ASP Charitas di Modena
S. Monchieri: Residenzialità per persone con Disabiltà Intellettiva:aspetti di criticità e proposte di cambiamento
A. Ferrandi: L’ approccio Qualità della Vita nelle Residenze
A. Moretti: L’evoluzione e l’innovazione dei centri semiresidenziali per disabili:
due modelli a confronto - Il modello socio-sanitario, il modello socioassistenzialeM. Buzzi: L’esperienza alberghiera come modello residenziale alternativo”
C. Ruggerini, F. Villanti, G. P. Guaraldi: Assistenza, ricerca, innovazione nella
psichiatria della disabilità nella esperienza dell’ASP Charitas di Modena
P. Guerra, M. Lugli: Modello Fondazione Vita Indipendente
Operatori del Comune di Modena: "Residenzialità per le persone con disabilità
acquisite"
P. Politi: Abilitar suonando: il progetto Orchestra Invisibile
SIMPOSIO 6
TITOLO
RESP.ORG.
CHAIRMAN
RELAZ. INTR.
ASSISTENZA MEDICA NELLA DISABILITÀ INTELLETTIVA
Alessandro Castellani
Massimo Marcon, Gianpaolo La Malfa
S. Lassi: La medicina di base e specialistica per le persone con disabilità intellettiva nel Servizio sanitario Nazionale
17
RELAZIONI
INTERVENTI
PREORDINATI
G. Ganzerla, A. Colantoni, A. Luciani: Progetto di accoglienza rivolto ad adulti
disabili ospiti delle strutture residenziali del distretto di Modena
L. Perticarari, M. Marcon: L'approccio del MMG alle problematiche sanitarie in
persone con disabilità intellettiva grave e gravissima: l'esperienza di 7 anni di
attività in un centro residenziale
P. Maestrelli: Il Day – Hospital per disabili: l’esperienza di Verona
Bagarolo: Intermediate Care Facility: l’esperienza di Milano
E. Genovese: Impianto delle protesi uditive nelle persone con Disabilità Intellettiva
A. Giuliari: Infettivologia e disabilità
SIMPOSIO 7
TITOLO
RESP. ORG.
CHAIRMAN
RELAZIONI
PSICHIATRIA DELLA DISABILITA’ INTELLETTIVA
Gian Paolo La Malfa e Marco Bertelli
G. Neri , G.P. Guaraldi
G. Griffo: Disabilità: un concetto in evoluzione: nulla su di noi senza di noi
E. Frejaville, F. Ciceri: Programma regionale Integrato per la assistenza ai disturbi dello spettro Artistico in Emilia Romagna
C. Ruggerini, G. Neri, F. Fontana, F. Villanti, V. Moretti, A. M. Agostini, D.
Marchetti, L. Mauri, G. Giuliani , M. Marcon, S. Manzotti, G. P. Guaraldi: Realizzazione di un progetto regionale sullo sviluppo di ricerche empiriche per il
miglioramento della assistenza psichiatrica alle persone con Disabilità Intellettiva: primi risultati
M. Venuta: La polifarmacoterapia nelle persone con disabilità intellettiva: ottimizzare la sicurezza delle prestazioni
L. De Vreese: La Psicogeriatria della Disabilità
SIMPOSIO 8
TITOLO
RESP. ORG.
CHAIRMAN
RELAZIONI
AGGIORNAMENTO IN TEMA DI INTERVENTI TERAPEUTICI
Gian Paolo La Malfa e Marco Bertelli
Gian Paolo La Malfa, Camillo Valgimigli
G. Spinetti: Disabilità di fronte ai grandi eventi traumatici: tipi di interventi psicosociali
G.P. La Malfa: Nuove tendenze nell'approccio psicoterapico con le persone con
disabilità intellettiva
M. Bertelli: Attualità nella psicofarmacologia per le persone con disabilità intellettiva: gli antipsicotici di 2a generazione
M.P. Verri: Aspetti psichiatrici life-span delle persone con disabilità intellettiva
su base genetica
SIMPOSIO 9
TITOLO
RESP.ORG.
CHAIRMAN
RELAZIONI
FLESSIBILITÀ E VARIABILITÀ DELL’INTERVENTO NELLA DISABILITÀ INTELLETTIVA DAL BAMBINO ALL’ETÀ ADULTA
Cesare Porcelli
A.P. Verri, C. Porcelli
C. Porcelli
Flessibilità dell’intervento: aspetti clinici ed operativi
M. Germano, C. Ciavatta, F. Mango: Integrazione tra intervento farmacologico,
psicoterapia, attività riabilitativa e formazione professionale in un gruppo di DI
B. Montomoli: Influenza di life-events nella vita dei disabili
F. Poli: Implicazioni dello sviluppo della sessualità
18
A. Marotta, E. Bosna, L. Schiamone: Il punto di vista delle famiglie su un percorso integrato di riabilitazione equestre
Opera Don Calabria: Una rete per conoscerci: percorsi verso l'autonomia
19
COMUNICAZIONI LIBERE
P. Caggia et al.
Medicina basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 2. L’obiettivo sovraordinato del progetto educativo/abilitativo: il miglioramento della Qualità della Vita del soggetto e della sua famiglia
C. Ruggerini et al.
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 1: Abbracci non voluti: il problema della definizione diagnostica e della condivisione del progetto “riabilitativo”
Percorsi di cura, prassi terapeutiche e differenze individuali in anziani con sinU. Mantesso et al.
drome di Down
Caregiver Difficulty Scale_ID uno studio di attendibilità della versione italiana
E. Weger et al.
della scala.
L.P. De Vreese et al. Assessment for Adults with Developmental Disabilities questionnaire (AADS):
uno studio di attendibilità della versione italiana della scala
L.P. De Vreese et al. Dementia questionnaire for person with intellectual disabilities, presentazione
dell’edizione italiana del manuale e della validazione italiana
E. De Bastiani
S. Marchesini
C. Ruggerini et al.
La nuova longevità della disabilità intellettiva
Percorso verso la conquista dell’autonomia delle persone disabili
Un percorso di certificazione evoluta per persone con ritardo mentale che afferiscono ad un dipartimento di psichiatria
L. Lombardi
S. Parenti et al.
Riabilitazione e inclusione sociale nel nuovo “Villaggio San Sebastiano”
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 3. Oltre il linguaggio: l’importanza di un approccio “olistico” ai bambini con disabilità intellettiva e disturbo di sviluppo del linguaggio verbale
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 4. Evoluzione del ruolo della famiglia dei bambini con disabilità intellettiva, disabilità associate e alta dipendenza: da “recettore” a “regista”
Il servizio di educativa territoriale del Comune di Modena: un nuovo approccio
al bisogno di socializzazione
Osservazione lavorativa e utilizzo di schede personalizzate per raggiungimento
di obiettivi prefissati
La forza dei genitori: una esperienza di Scandiano
Rosa Bianca: l’inserimento etero familiare attraverso un’associazione di volontariato di Modena
Applicazione e utilità del sistema di gestione della qualità ISO 9001: 2000 ad un
servizio semi-residenziale per adulti con Disabilità Intellettiva Grave e Disturbo
dello Spettro Autistico
Specifica vulnerabilità negli adulti con Disabilità Intellettiva Grave e Disturbo
dello Spettro Autistico
Inserimento socio-lavorativo di soggetti con ritardo mentale: il progetto Icaro
M. Natali et al.
Cooperativa
Gulliver
Cooperativa
Gulliver
R. Vassallo
T. Barbieri et al.
D. Mugnaini et al.
D. Mugnaini et al.
M. Dell'Oro
M. Balestrini
D. Vecchi et al.
D. Vecchi et al.
C. Patrizi et al.
S. Bultrini et al.
M. Cundari et al.
F. Pirone et al.
M. Arneodo
S. Checchia et al.
L. Lorenzoni
Quinterno
di Modena
G. Tonoli
L. Onfiani
V. Neviani et al.
La sfida dell’empowerment
Palestre Agricole
Il servizio di temporaneità ed emergenza come risposta, all’interno della rete dei
servizi del Comune di Modena, ai bisogni delle famiglie con un disabile: L'esperienza dell'Istituto Charitas
Casa Claudia: Un progetto di casa-famiglia propedeutico
Formazione interna: un’esperienza per favorire la cultura del cambiamento
Il lavoro con le famiglie : Lo spazio della genitorialità: l’esperienza con i gruppi
multicoppie
L’opera lirica per una lettura degli affetti e delle emozioni: il caso del sig. M. e
della sig.ra T.
Le sfide del prendersi cura del disabile intellettivo nelle fasi terminali della vita
Il comportamento problema è un messaggio
Strategie motivazionali e supportive nel percorso ri/abilitativo individualizzato:
la motivazione nel care giver
Osservazione lavorativa e utilizzo di schede personalizzate per raggiungimento
di obiettivi prefissati
Il controtransfert istituzionale e le emozioni dell’equipe curante nell’incontro
con la disabilità: il caso di20una cooperativa sociale bresciana
disabilitàintellettive.it
La Valutazione Psicodiagnostica Standardizzata nelle persone con Ritardo Mentale (VPS-RM): esperienze in contesti Residenziali e Clinici
21
Eventi
Satellite
22
23
I mondi possibili
Aldo Giorgio Gargani
Il principio metodologico del costruttivismo attraversa differenti ambiti della cultura contemporanea, sia l’ambito delle scienze fisico-matematiche e delle scienze naturali, sia quello delle
scienze umane. Il concetto stesso di vincolo costruttivistico, mentre trasforma la nozione di verità, penetra con i teoremi di limitazione nelle discipline logico-matematiche; la meccanica quantistica stabilisce che nessun dispositivo sperimentale può determinare se un elettrone attraversa
l’uno o l’altro dei due fori dell’antico esperimento di Thomas Young del 1804, – definito “esperimento archetipo” da Richard Feynman – e introduce così il vincolo del principio di sovrapposizione. secondo il quale non si può dire né che la particella passa per entrambi i fori, né che non ci
passa, né che passa per uno soltanto dei fori, né che non passa per uno di essi1.
In luogo della visione dell’immagine univoca di un fenomeno abbiamo un repertorio di possibilità che si sovrappongono in una complessità che segna il deficit di ogni immagine e rappresentazione intuitiva.
Analogamente la funzione d’onda di Schrödinger non è la rappresentazione di una reale onda fisica, perché essa è un’onda fantasma, precisamente uno schema matematico che descrive un’area
di possibilità e di probabilità relative agli stati quantici del sistema. Nell’ambito delle scienze sociali, nel campo delle teorie delle organizzazioni, delle aziende, delle comunità produttive e delle
istituzioni pubbliche e private, i lavori fondamentali di Herbert Simon2 e sulla sua scia quelli di
Cziert e March3 hanno introdotto la nozione di razionalità limitata, bounded rationality, prendendo atto del fatto che un’impresa non è definibile entro presunte condizioni ottimali di conoscenza
come uno stato di equilibrio riassumibile mediante un’equazione matematica. L’introduzione
della soggettività nel mondo imprenditoriale ha esemplarmente accompagnato l’introduzione del
ruolo dell’osservatore nelle scienze fisico-matematiche, dalla relatività alla meccanica quantistica, e poi dall’epistemologia della complessità di Ilya Prigogine e Gregory Bateson, fino alle teorie del caos di Paul Davies e Richard Ford4, e in anni più recenti alla proposta di una teoria
dell’evoluzione cosmologica dell’universo nelle teorie di Lee Smolin e di Carlo Rovelli5.Ma la
scoperta del vincolo che limita le possibilità del sapere è sopravvenuta ed emersa in epistemologia e nella contemporanea filosofia della scienza dalla crisi, ad opera di W. O. Quine, del programma neo-positivista del “Wiener Kreis”. Wittgenstein osserva nella fase successiva al Tractatus logico-philosophicus, come la prassi costruttiva del linguaggio rimpiazzi la mitologia filosofica di un presunto flusso di coerenza e continuità analitica, senza limiti e vincoli, che connetterebbe i passi del pensiero e poi i passaggi da un enunciato ad un altro, sulla base di un presunto
nesso che attraversa le fibre proposizionali di un testo.
Wittgenstein afferma nell’unico scritto destinato alle stampe dopo il Tractatus, e cioè nelle Ricerche Filosofiche, che ad ogni passo di una proposizione aritmetica è richiesta non già una nuo-
1
Cfr. J. Barbour, The End of Time, The Next Revolution in Physics, edited by J. Barbour, 1999, (trad. it. La
fine del tempo, Einaudi, Torino 2003, p. 225).
2
Cfr. H. A. Simon, Il comportamento amministrativo, Il Mulino, Bologna 1979, p. 51.
3
Cfr. Czyert e J. March, Teoria del comportamento d’impresa, Angeli, Milano 1970; M. D. Cohen, J. G.
March, J. P. Olsen, A Garbage Can Model of Organisational Choice, in «Administrative Science Quaterly»,
n. 17 (1972), pp. 1 – 25.
4
Cfr. P. Davies, Il Caos, in AA.VV. Immagini e metafore della scienza, a cura di L. Preta, Laterza, RomaBari 1993, pp. 84 sgg.; Id., La «Nuova fisica»: una sintesi in AA.VV., La Nuova Fisica, Bollati Boringhieri,
Torino 1992, pp. 6-7; J. Ford, Che cos’è il caos e perché preoccuparsene, in AA.VV., La Nuova Fisica, cit.,
pp. 364-365.
5
Cfr. L. Smolin, The Life of the Cosmos, Oxford University Press, New York-Oxford 1997, (trad. it., La vita
del cosmo, Einaudi, Torino 1998).
24
va intuizione (Anschauung), bensì una nuova decisione (Entscheidung)6: ci presenta quello che io
propenderei a definire il volto opaco della verità, ossia una nozione di verità che non consiste in
una normatività ideale, intrinseca, autotrasparente e che non discende da quello che ironicamente
il filosofo austriaco definiva “il super-ordine fra super-concetti” (die Über-Ordnung zwischen
Über-Begriffen)7. Quando Wittgenstein nel Big Typescript scrive che la filosofia non esige da lui
alcun sacrificio dell’intelletto, bensì il sacrificio della volontà e del sentimento8, egli coglie la rinuncia ad un regime rischiarato, trasparente di verità e dichiara il passaggio ad una nozione esternalista, opaca della verità. Onnipotenza e onniscienza sono le matrici e l’origine di errori, paradossi e contraddizioni.
È stata talmente pervasiva ed influente l’assunzione della generalità illimitata e per conseguenza
dell’onniscienza nella concezione del sapere umano, che scegliendo a caso una disciplina o
l’altra, ci si imbatte invariabilmente nello scontro tra la facoltà della generalizzazione illimitata e
un vincolo, spesso inatteso, che richiama l’attenzione su una nuova negoziazione concettuale e
linguistica. Si suppone che esista un linguaggio universale, dunque la possibilità che al di là di
lingue naturali, dialetti e idioletti si possa sempre comunicare, si possa sempre travasare contenuti di pensiero da una lingua ad un’altra.
L’olismo quale approccio globale di una teoria nei confronti dell’esperienza è il segno di un vincolo epistemologico che elimina l’assolutezza e la rigidità dei termini che si credevano avessero
un’identità per se stessi, dunque assoluta e illimitata. Olismo, relazione, contesto: queste nozioni
stanno scardinando il regime apodittico che si erano arrogate la fisica classica e la filosofia che
ne aveva costituito la giustificazione, ossia la deduzione trascendentale di Kant.
Se non si applica il principio di gauge, ossia se non si definiscono i concetti di qualunque entità
fisica entro relazioni (come già aveva intuito Leibniz)9, se non si applicano le procedure di ricalibro delle grandezze fisiche sulla base delle loro relazioni e contesti, se non si introducono punti
di rottura di simmetria ossia, in termini più generali, se non si considerano differenze, scarti e relazioni contestuali, l’universo si riduce ad un’unica particella. Varietà, scambio, differenza, relazione rendono concepibile un universo come il nostro, che risulta intelligibile soltanto
dall’intreccio delle sue relazioni complessive. Ma un punto in cui un vincolo logicoepistemologico come quello affacciato da Quine presenta punti di affinità con un’altra versione
esternalista ma non logico-epistemologica, bensì di carattere filosofico-antropologico è costituito
dall’opera del secondo Wittgenstein. Con quest’ultima si può considerare esaurita e superata la
concezione di un ordine ideale del pensiero, immanente a se stesso, intrinseco e necessario.
Si è esaurita, come direbbe Richard Rorty, la nozione di verità come stato di coazione sotto regole10. Con il neurofisiologo Gerald Edelman diciamo anche che è finita l’epoca culturale
dell’istruzione e che in luogo di questa è subentrata l’epoca culturale dell’evoluzione11. È stato
Wittgenstein ad insegnarci che i termini “vero” e “falso” hanno cessato di costituire oggetti logi6
L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, cit., I, §§ 186, 213; Id., Bemerkungen über die Grundlagen Mathematik, a cura di G.H. von Wright, R.Rhees e G.E.M. Anscombe; Basil-Blackwell, Oxford 1956,
(trad. it. di M. Trinchero Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino 1971), parte I,
§74; Id., Über Gewissheit, a cura di G.E.M. Anscombe e G.H. von Wright, Basil-Blackwell, Oxford 1969
(trad. it. di M. Trinchero, Della certezza. Analisi filosofica del senso comune, Einaudi, Torino 1978), § 198.
7
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., I, § 97.
8
Cfr. Ludwig Wittgenstein, The Big Typescript in Ludwig Wittgenstein, Wiener Ausgabe, Band 11, hrsg.
Michael Nedo, Springer-Verlag, Wien-New York, 2000 (trad. it. a cura di A. De Palma, Einaudi, Torino
2000, p. 407): “Come ho detto più volte, la filosofia non comporta per me nessuna rinuncia, poiché non mi
trattengo dal dire qualcosa, ma piuttosto abbandono come insensata una certa combinazione di parole. In un
altro senso, tuttavia, la filosofia richiede una certa rassegnazione, sebbene non dell’intelletto, ma del sentimento”.
9
Sul rapporto tra la fisica contemporanea e l’opera di Leibniz, si veda L. Smolin, La vita del cosmo, cit.
10
Cfr. R. Rorty, Scritti filosofici, a cura di A. G. Gargani, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1994 e vol. II, ivi 1993.
11
Cfr. G. Edelman, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993.
25
ci, hanno smesso di designare proprietà intrinseche degli enunciati. “Vero” e “falso” diventano
ciò che gli uomini dicono entro il contesto di una concordanza di abiti, reazioni, istituzioni e regole interpersonali e intersoggettive costituite da una Lebensform, da una forma di vita.12.
Non vi è nulla di intrinsecamente vero o falso ossia qualcosa di iscritto in un ordine ideale precostituito rispetto alle forme storiche di vita degli uomini. “Vero” e “falso” è ciò che viene definito
dai vincoli che disciplinano una forma di vita umana e che all’interno di questa dirigono la prassi
di una tecnica grammaticale. Il vincolo è il fattore che è subentrato nella nostra cultura per delimitare il raggio d’azione costituito dall’esercizio di una razionalità illimitata, senza confini e
senza storia.
Non è vero che esistono concetti di universalità illimitata; non c’è un’unica definizione di “gioco”; una partita di calcio non somiglia al “solitario” nel gioco delle carte. Quindi, come ammoniva Wittgenstein, «non pensare, guarda!“. Non c’è un unico approccio verso le patologie cliniche:
la follia, come ha insegnato Foucault, nel secolo XVII è esclusa dal consorzio umano e reclusa
negli istituti manicomiali, mentre la peste viene analizzata, investigata, tenuta sotto osservazione
e sottoposta a rilievi statistici. Se, in un certo arco storico, c’è stata una scienza medica in un caso e nessuna nell’altro, è perché era valido e operante un vincolo, connesso al rapporto precognitivo che quella società intratteneva con le patologie, prima di investigarle e conoscerle
scientificamente, ossia prima ancora di farne gli oggetti di un sapere. La tradizionale teoria della
verità come corrispondenza, come adaequatio rei et intellectus, è di nuovo l’espressione di una
sublimazione della razionalità umana che pretende di possedere un raggio di azione illimitato,
ossia di costituire da sé il dispositivo e il repertorio di ogni possibilità. Si può caratterizzare in
termini di finitezza umana la matrice e il centro del lavoro filosofico che consiste delle parole
che un essere umano, in una fase storico-temporale, in un certo stadio della storia della filosofia
proferisce.
La consapevolezza che il discorso deve riconoscersi come testo, come gesto disegnato attraverso
segni e non già come una presa illimitata di se stesso insieme al mondo afferrato nel suo discorso
e nella sua autotrasparenza è il riconoscimento del vincolo che accompagna e condiziona la prassi del pensiero-linguaggio. Il vincolo relativizza, senza sconfinare nello scetticismo o nel relativismo-folk, come la teoria relativistica in fisica relativizza ogni sistema di riferimento, per cui non
ha senso dire che qualcosa si muove, se non si indica prima il sistema di riferimento rispetto al
quale si verifica e si misura tale moto, come non ha senso asserire che due eventi sono simultanei, se essi non vengono assunti entro la definizione di un sistema di riferimento, per esempio
l’arrivo del treno in stazione e la posizione delle lancette dell’orologio. L’esperienza del vincolo,
la consapevolezza di esso, pone di fronte al problema di rinunciare ad una concezione e visione
della verità che si attribuisce un raggio d’azione illimitato, una validità irresistibile, una certezza
apodittica. Siamo gli eredi di una storia di vincoli, questa è poi l’origine di noi uomini contemporanei e se si va a vedere nei campi diversi del sapere e delle discipline fisico-matematiche, così
come nelle scienze sociali, il patrimonio che abbiamo raccolto è un repertorio di vincoli, di limitazioni, di incompletezze. In luogo della verità come rispecchiamento, come «glassy essence»,
diventa più interessante il gioco della prassi, per esempio inventare o escogitare una società più
bella e più giusta, anziché scoprire la società più vera. Si tratterà di un’etica senza filosofia13,
senza teoria, senza teoremi, lemmi e scolî, sarà qualcosa che solo la prassi (non per questo cieca)
potrà generare entro i vincoli dei contesti e delle situazioni storiche. E il vero, allora, lo perdiamo? Ma no, il vero sarà, come sempre sarà, come è sempre stato, la conseguenza tardiva di un
gesto sociale che l’ha preceduto, che gli ha preparato il posto da riempire insieme all’ordine della
sua costituzione.
12
Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., I, § 241.
Cfr. J. C. Edwards., Ethics without Philosophy - Wittgenstein and the Moral Life, University Presses of
Florida, Tampa 1982.
13
26
La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità
delle Nazioni Unite
Giampiero Griffo
L’entrata in vigore della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità14 delle Nazioni
Unite il 3 maggio 200815 è un evento storico, la cui portata sarà possibile valutare solo nell'arco di decenni.
Molte sono le trasformazioni culturali, sociali, politiche e tecniche che questo testo introduce. Si passa dalla lettura tradizionale dell'incapacità come problema individuale e medico alla presa d'atto che le persone con disabilità sono discriminate e senza pari opportunità
per responsabilità della società; dalla condizione di essere considerati cittadini invisibili in quanto esclusi dalla società - a quella di divenire persone titolari di diritti umani; dall'approccio basato sulle politiche dell’assistenza e della sanità a quello che rivendica politiche inclusive e di mainstreaming; dal venir considerati oggetti di decisioni prese da altri a
diventare soggetti consapevoli che vogliono decidere della propria vita. Sono cambiamenti
di approccio che fanno proprio il modello sociale della disabilità basato sul rispetto dei diritti umani e che si sintetizzano nello slogan del movimento mondiale delle persone con disabilità “niente su di noi senza di noi”. Si tratta di un vero e proprio terremoto culturale,
come sbocco di un processo multidecennale16 che avrà conseguenze non solo nel campo
della disabilità. Infatti la nuova consapevolezza che la disabilità è una condizione ordinaria
che ogni essere umano vivrà nel corso della propria esistenza, impone alla società di tenerne conto in tutti in tutte le decisioni legate allo sviluppo ed all'organizzazione sociale. La
tutela dei diritti umani, le politiche di inclusione sociale, l'organizzazione della società basata sull'Universal design17, riguardano le società in generale, tutte le società.
Grazie alla Convenzione la qualità della vita di 650 milioni di persone con disabilità nel
mondo cambierà nei prossimi decenni e non solo nei paesi in cerca di sviluppo (si calcola
che circa il 60% dei più poveri del mondo sia una persona con disabilità), dove legislazioni
e programmi sono a volte inesistenti (sono circa 70 i paesi che non hanno alcuna legislazione sulla materia).
Basta pensare ai dati che sono circolati durante le 8 sessioni del Comitato ad Hoc18 nei 5
anni di discussione al Palazzo di Vetro di New York: nei paesi con scarsità di risorse solo
il 2% della popolazione con disabilità ha accesso ad interventi e servizi; la frequenza in
una scuola è negata al 98% dei bambini con disabilità; l’accesso al lavoro è appannaggio di
meno del 10% della popolazione potenziale. In questi paesi le persone con disabilità sono
cittadini cancellati dalle politiche, persone su cui non si investe alcuna risorsa. Se guardiamo poi ai dati del nostro continente, scopriamo che all’accesso negato ai diritti anche nella
ricca Europa ancora prevalente (sono problematici l'accesso al lavoro, la fruibilità delle
14
Il termine persone con disabilità è quello universalmente accettato a livello internazionale. Per una spiegazione dell’utilizzo di questo termine vedi “Le buone prassi nell’uso delle parole: le parole sono pietre” in Le
idee vincenti. Esempi di buone prassi nello sviluppo della cultura imprenditoriale e dell’accoglienza. Pesaro,
progetto Equal Albergo via dei matti numero zero, [2005].
15
Approvata il 13 dicembre 2006.
16
Il primo documento delle Nazioni Unite sulla disabilità è del 1971.
17
È l'approccio alla progettazione di politiche, ambienti, beni e servizi che tiene conto di tutte le diversità
umane.
18
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 56/168 del 19 dicembre 2001, dietro proposta del Messico, ha nominato un Comitato Ad Hoc (CAH) per verificare l’opportunità di redigere una Convenzione sulla disabilità e, successivamente, con la Risoluzione 57/229 del 18 dicembre 2002 gli ha conferito
il mandato di preparare il testo della Convenzione Internazionale Integrale e Completa sulla Promozione e
sulla Tutela dei Diritti e della Dignità delle Persone con Disabilità, licenziata poi il 25 agosto 2006.
27
nuove tecnologie, l'accesso ai servizi di salute, etc.) si sommano trattamenti fortemente discriminatori: più del 56% dei bambini con disabilità frequenta classi o scuole speciali in 25
dei paesi membri (Euridyce, 2003); le differenze di trattamento e l’ineguaglianza di opportunità sono ancora la norma; l’istituzionalizzazione è ancora una politica importante degli
stati europei visto che 500.000 persone con disabilità sono segregati ancora in 2.500 mega
istituti (Included in society, 2004)19. In pratica le persone con disabilità europee non godono dei diritti dei cittadini europei (libertà di movimento, tutela contro le discriminazioni,
etc.).
La Convenzione vuole combattere proprio questi ostacoli, barriere e pregiudizi, definendo
una nuova politica per le persone con disabilità, basata sulla tutela dei diritti umani, intervenendo in tutti i campi della vita. La semplice scorsa dei titoli degli articoli fa emerge le
importanti innovazioni che il testo introduce. Ad una parte che ripropone articoli di altre
convenzioni ONU sui diritti umani, applicandole alle persone con disabilità (vedi per esempio gli articoli 10, 13, 14, 15, 16, 28 e 29), sono state aggiunte innovazioni significative anche rispetto ai tradizionali diritti umani (vedi per esempio gli articoli 5, 8, 11, 12, 19,
20) e parti che sono spesso contemplate nelle legislazioni nazionali, ma che la Convenzione elabora con differenti approcci (vedi per esempio gli 24, 25, 26, 27, 28).
L’articolo 3 sui principi generali supera la lettura dell'incapacità psico-fisica e pone al
centro molti principi innovativi, validi per tutte le persone, ma spesso non applicati alle
persone con disabilità: dignità, autonomia individuale, libertà di scelta, indipendenza
delle persone; non discriminazione; piena ed effettiva partecipazione ed inclusione nella
società; rispetto delle differenze ed accettazione della disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità; eguaglianza di opportunità; accessibilità; eguaglianza tra uomini e donne, e per i bambini con disabilità rispetto per l’evoluzione delle capacità e del
diritto a preservare la loro identità. Sono i principi su cui si basa il rispetto dei diritti
umani, che proprio perché negati alle persone con disabilità20, hanno portato le Nazioni
Unite ad approvare una nuova convenzione.
La Convenzione riconosce che le persone con disabilità sono discriminate e hanno mancanza di pari opportunità a causa dei trattamenti differenziati senza giustificazione, dei
pregiudizi, degli ostacoli e delle barriere che la società frappone loro. Infatti nel preambolo21 si afferma che “la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”22. La disabilità
quindi è una relazione sociale tra le caratteristiche delle persone e la maniera in cui la
società ne tiene conto. Inoltre vi sono condizioni che producono multidiscriminazioni,
per cui nella Convenzione particolare attenzione viene posta alle donne ed ai bambini
con disabilità, con due articoli specifici (5 e 6).
19
Nell’Unione europea a 25 stati si calcola che il 56,7% degli studenti con disabilità è segregato in una classe
o in una scuola speciale (vedi la pubblicazione dell’Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione per Studenti Disabili “L’Integrazione dei Disabili in Europa”, pubblicata nel 2003 Con il contributo di EURYDICE,
La rete di informazione sull’istruzione in Europa. Vedi sito web: www.european-agency.org). Una recente
ricerca europea ha censito 500.000 persone con disabilità rinchiuse in 2.500 grandi istituti nei 25 paesi membri (vedi sito web: www.community-living.info).
20
Vedi il rapporto 'Human Rights & Disability' (2002), commissionato dall’United Nations Office of the
High Commissioner for Human Rights di Geneva, realizzato dai professori Gerard Quinn, del Research Centre on Human Rights and Disability dell’Universita di Galway, in Irlanda, e Theresia Degener.
21
Vedi Ministero della solidarietà sociale, La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con
disabilità. Roma, Ministero della solidarietà sociale, 2007. Il testo è scaricabile anche dal sito
www.solidarietasociale.gov.it.
22
WHO, ICF. International classification of functioning, disability and health. Geneva, 2001 (la traduzione
italiana è: OMS, ICF. Trento, 2002). Cfr il sitoweb: ww3.who.int/icf/icftemplate.cfm.
28
Per superare questa situazione la Convenzione interviene per garantire la progressiva inclusione sociale delle persone con disabilità. Scopo della Convenzione quindi è proibire
tutte le discriminazioni basate sulla disabilità23 e garantire una eguale ed effettiva protezione legale contro le discriminazioni in ogni settore; a tale scopo gli stati dovranno prendere
appropriate azioni per assicurare la disponibilità di “accomodamenti ragionevoli”24 che superino trattamenti differenziati e barriere. Molti sono i campi dove i trattamenti diseguali,
senza giustificazione, violano i diritti umani delle persone con disabilità.
L'approccio nuovo della Convenzione vuole superare la tradizionale visione istituzionalizzante e segregante, promuovendo il vivere in comunità, anche attraverso il sostegno alla
vita indipendente (art. 19 e 20), trattamenti rispettosi dei diritti umani per le persone che
non possono rappresentarsi da sole (art. 12), accesso a tutti i diritti su base di eguaglianza e
senza discriminazioni.
Un altro importante elemento innovativo si opera nel campo del concetto di riabilitazione.
La Convenzione separa l’art. 26 sull'abilitazione e riabilitazione da quello sulla salute (art.
25). È una rivoluzione culturale, che parte dall’idea che la disabilità è una relazione sociale, non una condizione soggettiva della persona (come del resto l’ICF ha scientificamente
dimostrato). Le persone possono muoversi su sedia a rotelle, orientarsi con un cane guida,
comunicare con il linguaggio dei segni e non avere disabilità, se il mondo con il quale interagisce tiene conto di queste caratteristiche. Non è un caso che la Convenzione sottolinei
che le persone con disabilità rappresentano una delle possibili diversità umane. Perciò
l’obiettivo dei trattamenti a cui sono sottoposte, è di garantire il massimo livello di salute
possibile, ma in un contesto in cui la salute non è l’assenza di malattie, ma il benessere della persona. Quindi piuttosto che occuparsi di ricostruire una condizione di presunta normalità, vanno garantiti alle persone il godimento dei diritti e delle liberà fondamentali, anche a
chi si muove su sedia a rotelle, si orienta con un cane guida, comunica con il linguaggio
dei segni. Inoltre al concetto tradizionale di riabilitazione venne aggiunto quello di abilitazione. Si riabilita se si recupera una funzionalità del corpo persa, si abilita quando si sviluppano nuove abilità.
Gli stati – recita la Convenzione all’art. 26 – “organizzeranno, rafforzeranno e estenderanno servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare
nelle aree della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali”.
I servizi e programmi devono aver “inizio nelle fasi più precoci possibili” e devono basarsi
“su una valutazione multidisciplinare delle necessità e dei punti di forza dell’individuo;”
devono infine sostenere “la partecipazione e l’inclusione nella comunità e in tutti gli aspetti della società”, essere “volontari (…) e disponibili per le persone con disabilità in
luoghi i più vicini possibile alle loro comunità di appartenenza”. Quindi l’obiettivo non è
più quello di guarire, bensì sostenere la vita indipendente e l’inclusione nella comunità (art.
19), non è più quello di offrire ausili, ma di garantire la mobilità personale (art. 20).
È evidente che questa impostazione trasforma l’idea di presa in carico riabilitativa e sociale: la Convenzione infatti riconosce “l’eguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità, in pari condizioni di scelta rispetto agli altri membri”: a tale scopo gli
23
Art. 2 (Definizioni): “per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il
riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle
libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa
include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”.
24
Art. 2 (Definizioni): “per “accomodamento ragionevole” si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità
in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza
con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
29
stati firmatari della Convenzione “prenderanno misure efficaci e appropriate al fine di facilitare il pieno godimento (…) di tale diritto e la piena inclusione e partecipazione
all’interno della comunità, anche assicurando che:
(a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere, sulla base di eguaglianza con gli altri e non siano obbligate a
vivere in un luogo particolare;
(b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria a sostenere la
vita e l’inclusione all’interno della comunità e a prevenire l’isolamento o la segregazione
fuori dalla comunità;
(c) i servizi e le strutture comunitarie per tutta la popolazione siano disponibili su base di
eguaglianza per le persone con disabilità e rispondano alle loro esigenze”.
Anche in questo caso, per tutte le persone con disabilità (pensiamo ai paesi in cerca di sviluppo dove spesso i servizi sociali - quando esistono - si riducono a sistemi segregativi),
ma in particolare per le persone che hanno gravi dipendenze assistenziali e per quelle che
non possono rappresentarsi da sole, si apre una trasformazione radicale delle prese in carico: dalla tradizionale istituzionalizzazione (frutto di una impostazione basata sul modello
medico della disabilità) si passa a sistemi sociali di sostegno al mantenimento nei luoghi di
vita e familiari, a forme di accoglienza a carattere familiare, a politiche e servizi di inclusione sociale.
L'art. 12 (Uguale riconoscimento dinanzi alla legge25) in particolare trasforma l'approccio
verso le persone che non possono rappresentarsi da sole. Più precisamente, il tema
dell’articolo 12 è legato a due grandi tipologie di persone:
− quelle sottoposte a trattamento psichiatrico;
− quelle che a causa di una disabilità intellettiva non possono rappresentarsi da sole.
Nel primo di questi casi, il problema fondamentale è strettamente connesso ai trattamenti
"ospedalizzanti" obbligatori, una soluzione prevalente ancor oggi in quasi 150 paesi e che
produce un percorso di "istituzionalizzazione" quasi certo, ricevendo il soggetto una cura
indipendente dalla sua volontà e venendogli negata la rappresentanza legale dei propri interessi. Le soluzioni possibili sono legate al necessario superamento degli stessi trattamenti
obbligatori.
25
Articolo 12 - Uguale riconoscimento dinanzi alla legge
1. Gli Stati Parti riaffermano che le persone con disabilità hanno il diritto al riconoscimento in ogni luogo
della loro personalità giuridica.
2. Gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità godono della capacità giuridica su base di uguaglianza con gli altri in tutti gli aspetti della vita.
3. Gli Stati Parti adottano misure adeguate per consentire l’accesso da parte delle persone con disabilità al
sostegno di cui dovessero necessitare per esercitare la propria capacità giuridica.
4. Gli Stati Parti assicurano che tutte le misure relative all’esercizio della capacità giuridica forniscano adeguate ed efficaci garanzie per prevenire abusi in conformità alle norme internazionali sui diritti umani. Tali
garanzie devono assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la
volontà e le preferenze della persona, che siano scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita, che siano proporzionate e adatte alle condizioni della persona, che siano applicate per il più breve tempo
possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario. Queste garanzie devono essere proporzionate al grado in cui le suddette misure incidono sui diritti e sugli interessi delle persone.
5. Sulla base di quanto disposto nel presente articolo, gli Stati Parti adottano tutte le misure adeguate ed efficaci per garantire l’uguale diritto delle persone con disabilità alla proprietà o ad ereditarla, al controllo dei
propri affari finanziari e ad avere pari accesso a prestiti bancari, mutui e altre forme di credito finanziario, e
assicurano che le persone con disabilità non vengano arbitrariamente private della loro proprietà.
30
In Italia, è noto, la Legge 180/78 ha introdotto il principio secondo cui - tranne che in uno
stato di crisi, in cui un soggetto può ricevere trattamenti ospedalieri o territoriali - la persona deve poter decidere di ricevere un trattamento psichiatrico, senza però che questo limiti
la sua capacità di rappresentarsi legalmente, a meno che non ci si stia muovendo nell'ambito del crimine.
Si tratta di un provvedimento che ha prodotto nel nostro Paese la sostanziale riduzione delle istituzionalizzazioni nei manicomi psichiatrici, visto che dal 1970 ad oggi si calcola che
da 40-60.000 internati in ospedali psichiatrici si sia passati ai circa 4-6.000 del 2003.
In Italia le persone sottoposte a trattamento psichiatrico – a parte il caso di aver commesso
reati gravi – non vengono interdette, cosa che invece avviene nella maggior parte dei Paesi
del mondo. Si calcola infatti che solo una quarantina di nazioni abbiano sposato, o deciso di
seguire progressivamente, l’esperienza italiana. In tutti gli altri paesi, invece, quando scatta
un trattamento psichiatrico obbligatorio, la persona viene privata della rappresentanza legale, che viene trasferita quasi sempre ad un medico,che diviene in pratica il suo tutore.
In merito a questo aspetto la Lega Mondiale dei Sopravvissuti Psichiatrici (World Network
of Users and Survivors of Psychiatry - WNUSP) si è battuta strenuamente sempre per il rifiuto di qualsiasi intervento che nomini un tutore cui viene delegata la rappresentanza, motivo per cui la stessa Lega ha chiesto che nel testo non venga incluso alcun riferimento a
questo tipo di soluzione. Ciò che i suoi rappresentanti hanno chiesto (ma non ottenuto), invece, è che venisse contemplata la rappresentanza legale di una persona di fiducia, scelta
dallo stesso soggetto interessato. Una sorta, quindi, di amministratore di sostegno, per attuare un parallelo con la realtà italiana.
Anche nel caso di coloro che non possono rappresentarsi da soli a causa di una disabilità
intellettiva, la questione principale verte intorno al tutore che amministra gli interessi della
persona interdetta. Quest'ultimo - quando la famiglia non può più farsi carico
dell’assistenza e della cura dell'interessato - viene spesso individuato in un giudice, un sindaco o nel direttore del centro in cui la persona viene internata.
Ed è proprio per questo motivo che in Italia è stata introdotta la figura dell’amministratore
di sostegno (Legge 6/2004), una figura terza rispetto alla famiglia e a un'autorità generica,
la quale ha competenze in ambito di disabilità, oltreché dovrebbe essere preparata sui problemi e le esigenze della persona di cui deve curare gli interessi.
La Legge 6/2004 ha infatti «la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della
capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle
funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente»
(articolo 1).
Un ulteriore elemento di cui tenere conto in un'analisi di questo genere è il tipo di trattamento cui la tutela legale è correlata, poiché per modificare l’approccio interpretativo
delle forme di tutoraggio o di rappresentanza legale delegata, è essenziale andare oltre
l’idea di istituzionalizzazione del soggetto.
Basarsi infatti su un modello medico della disabilità ha portato come ovvia conseguenza
che in molte legislazioni nazionali (e nei tradizionali approcci culturali e tecnici al problema) la condizione di incapacità collegata alla disabilità intellettiva abbia fatto ricorrere all'istituzionalizzazione. Un approccio basato invece sui diritti umani fa emergere
come il ricorso a questa pratica sia ingiustificato anche per le persone con disabilità.
Possiamo infatti considerare questa condizione un motivo sufficiente per rinchiudere
una persona in un istituto e privarla così di quella qualità della vita di cui aveva goduto
fino a quel momento vivendo in famiglia? In gran parte dei Paesi, d'altro canto, la mancanza di inclusione sociale dei cittadini con disabilità porta alla cancellazione di molti
31
diritti umani che sono ovvi per altre persone e dunque, in tutte queste realtà, i processi di
istituzionalizzazione sono ancora molto forti.
L'art. 12 della Convenzione sottolinea come l’accoglienza offerta dalla società alle persone con disabilità produca il rispetto dei loro bisogni, e quindi la tutela dei loro diritti umani.
Quanto più la tutela legale, dunque, sarà legata ad un trattamento rispettoso di questi diritti,
tanto più la medesima non avrà una connotazione generica, bensì sarà strettamente connessa alla qualità della vita delle persone. “Gli Stati Parti -sottolinea l'art. 12 - assicurano che
tutte le misure relative all’esercizio della capacità giuridica forniscano adeguate ed efficaci
garanzie per prevenire abusi in conformità alle norme internazionali sui diritti umani”. Non
è un caso che su questo articolo si è manifestata la resistenza dei rappresentanti di molti
governi a superare quel modello medico che vede la persona con disabilità come un soggetto da proteggere "in forma separata" o da considerare pericoloso per sé e per gli altri.
La Convenzione in sostanza afferma che più che riabilitare le persone, bisogna riabilitare la società ad accogliere le persone con determinate caratteristiche.
La scrittura dell'art. 24 (Educazione) è anche frutto dell'iniziativa italiana, che ha potuto
valorizzare il modello scolastico totalmente inclusivo del nostro paese, superandole tante
resistenze sia di alcune associazioni (ciechi e sordi) sia di molti paesi, tra cui molti paesi
della ricca Europa. Il riconoscimento del “diritto all’istruzione delle persone con disabilità” risulta importante soprattutto per i paesi in cerca di sviluppo dove l'accesso alla scuola
è praticamente inesistente; altrettanto importante, per una scuola “senza discriminazioni e
su base di pari opportunità”, è garantire “un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli“.
Anche gli obiettivi dell'educazione (e non dell'istruzione) risultano significativi:
“(a) al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana;
(b) allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità, dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino alle loro
massime potenzialità;
(c) a porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente a una società libera”.
L’approccio basato sui diritti umani si basa sulla capacità dei cittadini colpiti da discriminazioni di denunciarle attraverso il ricorso ai tribunali. È evidente che l’azione delle
associazioni di promozione e di tutela deve quindi affrontare due nuove sfide: da un lato
rafforzare le capacità e gli strumenti culturali dei propri associati nel riconoscimento dei
propri diritti (empowerment) e dall’altro costruire strumenti che sostengano le azioni di
tutela legale che la convenzione introduce.
La Convenzione inoltre rafforza la legislazione non discriminatoria, che in Italia ha già
vari precedenti (l’art 3 della Costituzione, il D. Legisl. 216/2003, la legge 67/2006),
chiarendone il vasto campo di applicazione.
Il 30 marzo 2007 presso il Palazzo di vetro a New York, si è aperto il processo di ratifica
della Convenzione con un valanga di paesi firmatari: mai in passato si erano raggiunti 82
paesi impegnati sin dal primo giorno a far proprie le norme contenute nel testo delle Nazioni Unite26. Il peso delle organizzazioni di persone con disabilità e delle loro famiglie è
stato determinante per conseguire questo risultato. Sia nella scrittura della Convenzione,
dove la società civile ha giocato un ruolo importante, mostrando che l’ONU dei popoli è un
26
Attualmente sono 127 i paesi che hanno firmato la Convenzione, di cui 26 l'hanno già ratificata (Bangladesh, Croazia, Cuba, Egitto, El Salvador, Equador, Filippine, Gabon, Giamaica, Giordania, Guinea, Honduras, India, Libia, Mali, Messico, Namibia, Nicaragua, Panama, Perù, S. Marino, Slovenia, Spagna, Sud Africa, Tunisia, Ungheria).
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obiettivi possibile (erano 800 i leader delle organizzazioni di persone con disabilità e loro
parenti il 25 agosto 2006 quando è stato licenziato il testo della Convenzione dal Comitato
Ad Hoc), sia nei processi di ratifica, implementazione e monitoraggio dovremo essere presenti e vigili. Ogni paese firmatario dovrà introdurre la Convenzione nei propri sistemi
normativi, attraverso l’approvazione di una legge. In Italia il processo di ratifica è fermo al
Parlamento: infatti, dopo l'approvazione del testo e del disegno di legge del governo il 28
dicembre 2007, la caduta della legislatura ne ha bloccato l'iter. Con la ripresa dei lavori
parlamentari, ci auguriamo che il processo di ratifica italiano possa riprendere in maniera
spedita, rispondendo alle aspettative dei 5 milioni di persone con disabilità del nostro paese. Ciò permetterebbe all’Italia di sedere al tavolo della conferenza degli Stati parti che si
riunirà entro sei mesi dalla data di entrata in vigore e che eleggerà il primo Comitato per i
diritti delle persone con disabilità, previsto dalla Convenzione, che avrà il compito di seguire la sua applicazione, attraverso un sistema di monitoraggio internazionale.
Ogni stato che avrà concluso il processo di ratifica, dovrà preparare periodicamente un
rapporto sullo stato di applicazione della Convenzione, da sottoporre alla Comitato internazionale. Sarà importante definire un sistema di monitoraggio nazionale delle politiche
della disabilità, altra sfida importante per il movimento italiano: per la prima volta sarà obbligatorio monitorare le politiche sulla disabilità.
Quanto all'impatto in Italia della Convenzione è importante fare alcune considerazioni.
L’Italia un paese ibrido. Convivono infatti almeno due legislazioni con ottiche differenti: la
legge n. 118/71 esprime un modello medico di approccio alla disabilità; la legge quadro n.
104/92 adotta un modello sociale più vicino al riconoscimento dei diritti umani, ma non del
tutto. La logica sottintesa continua ad essere quella per cui il trattamento è legato al modello medico; allo stesso modo, l’accesso ai servizi è ancora vincolato al modello medico.
Dunque anche nei nostri confronti la Convenzione può stimolare un rinnovamento, nella
direzione di superamento di una logica assistenziale verso una progressiva inclusione, realizzando servizi per tutti, con attenzione alle differenze individuali, qualunque ne sia la
causa ed una maggiore attenzione alle politiche di mainstreaming in tutti gli ambiti. Nello
stesso tempo risulta importante promuovere una formazione curriculare sul modello di disabilità basato sui diritti umani a livello universitario e nei corsi di aggiornamento, che dovrebbero investire tutti coloro che operano a vario titolo nella progettazione, nell'offerta di
servizi, a contatto con gli utenti: la Convenzione lo sottolinea a più riprese in vari articoli27.
Anche per i medici andrà identificato un programma di aggiornamento su tali temi.
Gli stessi gli enti locali possono giocare un ruolo ed impegnarsi per l’applicazione delle
norme contenute della Convenzione. Diventa infatti importante anche il ruolo dei comuni,
27
Art. 4 (Obblighi generali) – comma 1 punto (i) a promuovere la formazione di professionisti e di personale
che lavora con persone con disabilità sui diritti riconosciuti nella presente Convenzione, così da fornire una
migliore assistenza e migliori servizi garantiti da questi stessi diritti; art. 8 (Accrescimento della consapevolezza), comma 2 punto (d) promuovono programmi di formazione per accrescere la consapevolezza riguardo
alle persone con disabilità e ai diritti delle persone con disabilità; art. 9 (Accessibilità), comma 2 punto (c)
fornire una formazione relativa ai problemi di accesso con cui si confrontano le persone con disabilità a tutti
gli interessati; art. 13 (Accesso alla giustizia), comma 2. Allo scopo di aiutare a garantire l’effettivo accesso
delle persone con disabilità alla giustizia, gli Stati Parti promuovono una formazione adeguata per coloro che
operano nel campo dell’amministrazione della giustizia, comprese le forze di polizia ed il personale penitenziario; art. 25 (Salute), comma 2 punto (d) richiedere agli specialisti sanitari di prestare alle persone con disabilità cure della medesima qualità di quelle fornite agli altri, in particolare ottenendo il consenso libero e informato della persona con disabilità coinvolta, accrescendo, tra l’altro, la conoscenza dei diritti umani, della
dignità, dell’autonomia, e dei bisogni delle persone con disabilità attraverso la formazione e l’adozione di regole deontologiche nel campo della sanità pubblica e privata; art. 26 (Abilitazione e riabilitazione), comma 2.
Gli Stati Parti promuovono lo sviluppo della formazione iniziale e permanente per i professionisti e per il
personale che lavora nei servizi di abilitazione e riabilitazione.
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delle province e delle regioni che possono recepire la convenzione con atti ufficiali e costruire un sistema di coinvolgimento delle associazioni di persone con disabilità e loro familiari per applicare progressivamente nei propri regolamenti, nelle politiche e nei servizi
di competenza i principi contenuti nella Convenzione. Agenda 22, strumento di progettazione partecipata, potrà essere la metodologia di lavoro per le azioni di implementazione e
monitoraggio28.
Dal momento che la Convenzione impegna gli stati firmatari a coinvolgere le associazioni
di persone con disabilità e dei loro familiari nella definizione delle politiche e nei processi
di monitoraggio (art.4 comma 329), nuove sfide si profilano per il movimento di liberazione
delle persone con disabilità e delle loro famiglie in Italia. Come sappiamo da anni, non è
una legge che da sola cambia la nostra qualità della vita, ma l’iniziativa continua di chi si
impegna a promuovere e tutelare i nostri diritti umani. “Niente su di noi senza di noi”, non
è uno slogan, ma anche un diritto ed una responsabilità. I processi di inclusione sociale sono efficaci ed effettivi solo con la diretta partecipazione delle persone escluse e discriminate. Questa è la sfida più grande a cui dovremo far fronte. È un momento storico per i 650
milioni di persone con disabilità veder riconosciuti i propri diritti umani al più alto livello,
una nuova priorità viene posta nell’agenda mondiale: non bisogna più rivendicare i nostri
diritti, ora bisogna chiedere di applicarli.
28
La Federazione italiana per il superamento dell'handicap (FISH) ha promosso il progetto Rete in movimento che sta sperimentando in 12 città italiane l'applicazione della Convenzione a livello locale (vedi
www.superando.it).
29
3. Nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle politiche da adottare per attuare la presente
Convenzione, così come negli altri processi decisionali relativi a questioni concernenti le persone con disabilità, gli Stati Parti operano in stretta consultazione e coinvolgono attivamente le persone con disabilità, compresi i minori con disabilità, attraverso le loro organizzazioni rappresentative.”
34
Conoscere la storia per favorire l’innovazione
Psichiatria e Pedagogia nella assistenza ai bambini con disabilità intellettiva tra fine 800
e inizio 900 nella esperienza degli Istituti San Lazzaro di Reggio Emilia
Mostra di storia della psichiatria
Luogo: Sala dei Passi Perduti, Palazzo Comunale, Modena
Periodo: dal 10 Dicembre 2008.
La mostra costituisce uno degli Eventi Satellite al Congresso Nazionale della Società Italiana per lo Studio del Ritardo Mentale (SIRM) che si terrà a Modena nel periodo 11-13
Dicembre 2008.
Introduzione
A. Perché studiare la storia della assistenza?
B. Notizie sul San Lazzaro e il Centro di Documentazione di storia della psichiatria.
Parte 1
L’uso della fotografia nell’Istituto: il primato della nosografia sulla identità.
Parte 2
Le cartelle cliniche, documento delle prassi assistenziali e della episteme sottostante.
Parte 3
Il Padiglione Marro: la sua gestazione nel dibattito culturale della Comunità reggiana dei
primi decenni del 900.
Parte 4
L’Istituzione si rappresenta: l’album del decennale del padiglione Marro (1931).
La ragione della Mostra: perché studiare la storia della assistenza?
Il filosofo Franco Voltaggio (*) ha descritto nei suoi lavori l’intreccio tra medicina e filosofia come uno degli aspetti caratterizzanti del pensiero occidentale.
La sua storia della medicina assume come chiave di lettura l’analisi, nelle diverse epoche,
del rapporto tra episteme e tecnica (arte).
La filosofia, sostiene Voltaggio, nasce dalla medicina: i primi medici della scuola di Cos
(V secolo a.c.), per poter guarire pensavano di dover agire sulla base di una ipotesi sulla
natura dell’uomo (episteme).
Nelle diverse epoche storiche questo rapporto, così stretto all’origine, si allenta, fino a divenire impercettibile.
In questo caso la tecnica si svincola dalla sua episteme e acquista una autonomia propria.
In questo caso la pratica medica perde la sua natura di scienza filosofica ed è posseduta
totalmente dalla tecnica.
Se la pratica medica mantiene la sua natura filosofica –cioè la consapevolezza della episteme ad essa sovrastante– può contribuire alla messa a punto di una conoscenza “intesa
(…) come un luogo in cui si possono incessantemente formulare teorie, agitare problemi,
articolare e dare espressione a dubbi e perplessità”.
Se la pratica e la ricerca medica si assimilano alla applicazione di una tecnica vi è il rischio
che “si rivestano di un’aura salvifica, quasi a riproporre le attese del positivismo…”.
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Per questo “(…) alle competenze che derivano dalle scienze e dall'esperienza, occorre saldare, di fronte a questi rischi di tecnicizzazione e di ciò che Foucault chiamava biopolitica,
il ricorso alle scienze dell'uomo, anche per rispondere al crescente passaggio dalla terapia
delle patologie acute a quelle croniche oggi dominanti, nelle quali si accresce la dimensione relazionale e il coinvolgimento soggettivo“.
Le considerazioni di Franco Voltaggio sono, ovviamente, pertinenti per chiunque, ad ogni
livello, partecipi ad una attività di assistenza e di cura.
La consapevolezza delle ragioni del proprio essere accanto alla persona con disabilità
rimane una fonte di flessibilità potenzialmente creativa.
La applicazione di una tecnica o anche di una comune prassi assistenziale al di fuori di
questa consapevolezza può diventare, all’opposto, una possibile fonte di rigidità e di prevaricazione.
“Il problema centrale“, hanno scritto McGee e Menolascino (1991), non è tanto cosa possiamo fare con la persona in difficoltà, ma chi siamo noi per lei.
Il nostro assunto – episteme, potremmo dire utilizzando il linguaggio di questi paragrafi-, è
che “la nostra vita ha significato solo se vi è reciprocità e reciproca interdipendenza…”.
In sintesi: “la medicina ha bisogno di episteme, ma la ritrova solo nella sua storia; la storia
della medicina è già epistemologia”.
Consiglio Direttivo della Società Italiana di Ricerca sul Ritardo Mentale (SIRM)
* Franco Voltaggio, La Medicina come Scienza Filosofica, 17-18-19 Novembre 1997,
Modena, Fondazione Sigma Tau, Lezioni Italiane.
Il San Lazzaro
Le prime notizie riguardanti un luogo dedicato a San Lazzaro e destinato ad accogliere i
lebbrosi risalgono al 1178, ma è solo nel 1217 che esso verrà ubicato nell'area che occupa
ancor oggi e che progressivamente si estenderà. Sappiamo inoltre che in occasione della
pestilenza del 1348 il San Lazzaro funzionerà da luogo di ricovero per i contagiati, ma bisognerà attendere il 1536 perché nella popolazione che il San Lazzaro accoglie faccia la
sua comparsa un "pazzerello" che annuncia la futura destinazione del luogo ad accogliere
quella vasta ed eterogenea popolazione "sragionevole" che all’alba dell’età moderna i nascenti stati nazionali si occuperanno di controllare e governare. E' infatti a partire dalla
prima metà del XVI secolo che di fronte alla progressiva diminuzione dei lebbrosi, il San
Lazzaro viene destinato ad accogliere anche "invalidi, decrepiti, storpi, epilettici, sordomuti, ciechi, paralitici", entrando così di diritto a far parte, all'inizio dell'età moderna, del più
generale processo di controllo della povertà, del vagabondaggio, della mendicità. Nasce allora il sistema delle Opere Pie, che raggruppa "Ospitali", "Ospizi", ricoveri, i quali verranno unificati, nel 1754, all'interno di un'unica amministrazione, e di cui sarà parte anche il
San Lazzaro, ormai destinato però al ricovero dei soli "poveri mentecatti". Questo complesso dispositivo, in modo tutt'altro che lineare ed obbedendo ad istanze e strategie sovente contrastanti (in un'epoca che va dal governo napoleonico alla restaurazione) si inserirà
nel movimento di riforma e trasformazione della pubblica assistenza (1808) che elabora
nuovi procedimenti di gestione e controllo della "devianza" e promuove, nel ventennio che
va dal 1819 al 1839, la riforma dell'assistenza sanitaria con il duca Francesco IV. Di tale
riforma fa parte la serie di decreti che trasformano il San Lazzaro in "Stabilimento Generale delle Case de' Pazzi degli Stati Estensi". Come direttore viene designato il medico Antonio Galloni, la cui direzione si conclude nel 1855. I ricoverati, dai 21 iniziali, sono diventati 233, con "grande aumento dei degenti cronici istituzionalizzati", secondo una tendenza
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che caratterizza tutta la vicenda delle istituzioni manicomiali in Europa a partire dalla metà
del secolo. A Galloni succede, fino al 1870, Luigi Biagi, con il quale inizia un periodo di
decadenza del rigore clinico, della efficacia terapeutica, delle condizioni di vita dell'istituto, che nel 1859, assume la denominazione di "Frenocomio di San Lazzaro" e diviene
"Stabilimento Generale per l'Emilia". Le polemiche sviluppatesi nel mondo psichiatrico italiano sulle "miserevoli condizioni" dell'Istituto provocano le dimissioni del Biagi che
verrà sostituito alla direzione da Ignazio Zani fino al 1873. Questo sarà un periodo caratterizzato da diverse trasformazioni architettoniche e strutturali, ulteriormente sviluppate dal
successivo direttore Carlo Livi (1873 - 1877), con il quale verranno trasformati ed allargati
sia i fabbricati riservati ai ricoverati sia i servizi generali, e ulteriormente sviluppate le attività della colonia agricola fondata nel 1872. Il San Lazzaro funziona secondo un modello
di vita ordinata, economicamente efficiente ed autosufficiente, organizzato in base a quello
che Livi chiamerà "sistema disseminato". Crescono i beni prodotti, cresce il numero dei
fabbricati. E cresce la popolazione rinchiusa. Il periodo postunitario evidenzia inoltre la
presenza di uno stretto intreccio tra pratica medico- psichiatrica e vicenda politica e sociale
del nuovo stato, volto ad ottenere da un lato la razionalizzazione delle strutture sanitarie, e
dall'altro l'elaborazione di codici teorici in cui sempre più di frequente si assiste all'identificazione di malattia, crimine e devianza. Nel 1875 viene fondata la "Rivista Sperimentale di
Freniatria e Medicina Legale delle Alienazioni Mentali", per oltre un secolo destinata ad
essere il principale organo scientifico della psichiatria italiana. Assistiamo inoltre al graduale tentativo compiuto nel San Lazzaro di adeguare le strutture e i meccanismi del sapere e
della pratica psichiatrici: vengono così avviati nell’istituto l’insegnamento e la ricerca di
clinica psichiatrica in collaborazione con l’Università di Modena (dal 1874); vengono ampliati i laboratori scientifici, a cui si aggiunge un laboratorio di istologia; vengono istituiti
un laboratorio di psicologia sperimentale, un gabinetto elettroterapico, un laboratorio per le
analisi chimiche annesso alla farmacia; vengono creati dei musei (di anticaglie, craniologico ed anatomico); viene in generale sviluppata l’attività di ricerca e di sperimentazione animale. Con la direzione di Augusto Tamburini, dal 1877 al 1907, si compie così la progressiva maturazione scientifica dell'istituto, che accompagna e legittima nuove procedure
d'internamento, l'estensione e l'approfondimento delle pratiche terapeutiche: viene incrementata l'ergoterapia, avviati corsi di canto, costituita una scuola di disegno; appaiono
nuove modalità di assistenza (con l'istituzione della Società di assistenza per malati dimessi o convalescenti; i patronati etero- e omo-familiari per l'affidamento dei malati ai privati);
viene avviata una scuola professionale per infermieri e sorveglianti. La psichiatria si avvia
così a diventare una "scienza sociale" destinata a formare la base di una "funzione di Stato"
come dirà Tamburini. E del resto la legge di riforma "sui manicomi e gli alienati" del 1904
si era incaricata di sanzionare tale funzione pubblica della psichiatria, ridefinendo completamente le tecniche e le politiche di assistenza psichiatrica, ed istituendo inoltre una connessione sempre più difficile da sciogliere tra malattia mentale e pericolosità sociale. Dopo
Tamburini alla direzione del San Lazzaro, nel momento in cui esplode il primo conflitto
mondiale, succede Giuseppe Guicciardi. Nel 1921 viene fondata la colonia- scuola "A.
Marro", istituto medico-pedagogico indirizzato alla profilassi della devianza minorile,
mentre vengono edificati nuovi reparti. Nel 1944 il San Lazzaro, diretto da Aldo Bertolani
a partire dal 1929, viene sottoposto a bombardamenti ripetuti che provocano un centinaio
di morti e decine di feriti, nonché la distruzione od il danneggiamento di numerosi reparti.
E' questa l'epoca in cui prima Virginio Porta (dal 1953 al 1956) e poi Antonio Mazza (dal
1956 al 1964) assumono la direzione dell'Istituto. Dal 1964 direttore diventa Piero Benassi,
ma dal 1967 entra in funzione il Servizio Psichiatrico Provinciale e nel 1969 viene aperto il
Centro di Igiene Mentale, che funzionerà del tutto separatamente, e non senza contrasti, ri-
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spetto al San Lazzaro. La loro riunificazione avverrà solo nel 1980, ma nel frattempo il
processo di contestazione delle istituzioni manicomiali si era ulteriormente accelerato e radicalizzato, conducendo alla promulgazione della legge 13 Maggio 1978 n. 180 che ha abrogato la precedente legislazione ed ha abolito il sistema manicomiale, uniformato il trattamento psichiatrico al trattamento sanitario generico e riconosciuta la tutela della libertà e
dei diritti del malato di mente depenalizzandone il trattamento. Nello stesso anno vengono
abbattute le mura di cinta del San Lazzaro, per il quale comincia un'altra storia.
Il Centro di Documentazione di Storia della Psichiatria
A farsi carico della gestione dei materiali che risultano dalla storia dell'istituzione manicomiale nel corso dei secoli sarà, a partire dal 1991, il Centro di Documentazione di Storia
della Psichiatria. Questo nasce dalla constatazione della ricchezza del patrimonio bibliografico, archivistico, oggettuale e iconografico - esistente presso l'ex-Istituto Psichiatrico
"S. Lazzaro" di Reggio Emilia - che ha rari corrispettivi presso le altre istituzioni manicomiali italiane e dalla necessità di approntare strumenti e strutture tesi a garantire da un lato
la conservazione e salvaguardia di un patrimonio così significativo, e dall' altro a consentire la sua conoscenza, utilizzazione, fruizione a fini di ricerca scientifica e di indagine storigrafica. Costituito nel gennaio 1991 al termine di un lungo percorso di riflessione e discussione, apertosi all'indomani della promulgazione della legge 13 maggio 1978, relativo al
destino del patrimonio bibliografico, documentario, archivistico, iconografico e museografico del San Lazzaro, il Centro è sorto grazie all'iniziativa di diversi enti (Ausl, Comune e Provincia di Reggio Emilia, Istituto regionale per i Beni Culturali della Regione
Emilia Romagna, Università di Modena e Reggio). Le sue funzioni statutarie saranno da
subito definite in base a tre obiettivi precipui: da un lato, garantire la conservazione, la salvaguardia e il riordino del patrimonio suddetto; dall'altro, favorirne la conoscenza, la valorizzazione e l'utilizzazione; infine, sviluppare una riflessione di carattere storico, teorico,
epistemologico, sui problemi dell'esercizio e della pratica della psichiatria e dei sapericorrelati, sulla loro storia e sulla loro situazione attuale. Tra le sezioni principali del Centro ci
limitiamo a ricordare la Biblioteca Scientifica “Carlo Livi”, di cui si segnalano in particolare il “Fondo storico” e i “Periodici antichi”: l’”Archivio”, suddiviso nei due segmenti
dell’archivio sanitario, che raccoglie le cartelle cliniche, l’insieme dei documenti sanitari,
nonché i materiali autografi dei ricoverati, a partire dal 1821, e dell’archivio amministrativo; la sezione degli “Strumenti di Contenzione e Terapia”; quella relativa agli strumenti
dei “Laboratori scientifici”( istologia, batteriologia, chimica, sala anatomica per le autopsie, sale per esperimenti di vivisezione sugli animali; inoltre laboratorio di psicologia sperimentale e laboratorio di antropologia); “Archivio fotografico”, “Archivio video sulla malattia mentale” e infine “Archivio delle opere dei ricoverati”.
Centro di Documentazione di Storia della Psichiatria
Associazione Museo di Storia della Psichiatria San Lazzaro
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Sessione
Plenaria
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L’empowerment della famiglia:
una meta da raggiungere per uscire dall’assistenzialismo
Grazia Minelli
Direttore tecnico delle Associazioni GRD e coordinatrice Coordinamento Emilia Romagna
GRD
Nonostante le modalità d’intervento terapeutico, riabilitativo ed educativo dei bambini/ragazzi e adulti con disabilità, hanno subito, in questi ultimi anni, un sostanziale cambiamento che riflette una trasformazione a livello culturale, sanitario e sociale, la famiglia rimane,
nella maggioranza dei casi, in una situazione di subordinazione nel rapporto con i servizi.
Pur essendo passati,infatti, da una prima fase d’intervento medico, in cui si privilegiava
l’aspetto della cura ad una, più ampia, visione di progettualità multidisciplinare, la famiglia, considerata”non competente” viene lasciata in secondo piano: un ascoltatore passivo e
fiducioso degli interventi degli “esperti”. Se si vuole cambiare in modo sostanziale la cultura assistenziale facendo prevalere il riconoscimento e il benessere della stessa, più che la
sua patologia, si deve superare ogni possibile situazione di emarginazione e/o di sofferenza
delle persone con disabilità e dei loro contesti.
La persona, in qualsiasi condizione di bisogno si trovi, e la sua famiglia non possono essere più visti come oggetti di cura, ma come soggetti attivi e protagonisti consapevoli delle
richieste e delle possibili offerte, per una pianificazione delle risorse corretta ed adeguata ai
loro reali bisogni. La famiglia stessa ha, quindi, bisogno di comprendere, partecipare, non
sentirsi esclusa dalle decisioni prese “sulla sua pelle “ e su quella del figlio, per cui dovrebbe essere accompagnata a conoscere, capire, richiedere, collaborare, attraverso il sostegno di una figura di coordinamento e di mediazione che, iniziando da una prima accoglienza, attraverso una corretta informazione, osserva e costruisce la mappa dei bisogni
della famiglia e del bambino, facendosi mediatore in tutti in contesti. L’azione prioritaria,
quindi, di tutte le associazioni aderenti al Coordinamento è stato ed è un servizio di Tutoring per l’Empowerment familiare.. La finalità è quindi creare una rete di collaborazioni
che sia, un ponte pedagogico tra la famiglia, le istituzioni ed il contesto territoriale, un sostegno di secondo piano per rendere la famiglia e la persona corretti interlocutori delle Istituzioni mediando inizialmente le relazioni, evitando legami di dipendenza poco coerenti
con un’idea di sviluppo di empowerment e soprattutto superando la referenzialità dei servizi per un protagonismo funzionale delle persone a cui è rivolto il sostegno Il servizio del
tutor familiare è un intervento di affiancamento, non di sostituzione delle diverse agenzie
educative e riabilitative, poiché compensa, coordina e sopperisce alla frammentarietà e alla
mancanza di continuità progettuale e operativa, troppo spesso presente nella scuola, nei
servizi delle ASL ed in altri contesti di vita.
Il suo primo compito è il recupero della funzione genitoriale, attraverso la sorveglianza costante delle tappe di sviluppo e delle modalità di approccio del contesto familiare, scolastico e riabilitativo per omogeneizzarne e/o equilibrare gli atteggiamenti relazionali, educativi
e comunicativi di ciascun familiare, operatore o professionista, coinvolto nel progetto di
vita della persona diversabile.
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Nuovi contributi dalla ricerca psichiatrica nel campo
della disabilità intellettiva
Marco Bertelli
Psichiatra, presidente della sezione Disabilità Intellettiva dell’Associazione Mondiale di
Psichiatria
Angela Hassiotis
Psichiatra, professore di psichiatria della Disabilità Intellettiva presso il dipartimento di
Scienze della Salute Mentale dell’University College di Londra, UK
Shoumitro Deb
Psichiatra infantile, professore di psichiatria della Disabilità Intellettiva presso
l’Università di Birmingham, UK
Luis Salvador-Carulla
Psichiatra, professore di Psichiatria e Psicologia Medica presso l’Università di Cadice,
Spagna
La Disabilità Intellettiva (DI) o Ritardo Mentale è una condizione di vita inclusa nel gruppo dei disturbi mentali di tutti i sistemi internazionali di classificazione (ICD-10, DSM-IVTR). Nonostante una porzione consistente sia dovuta a cause prevenibili, la DI ha un’alta
prevalenza in tutto il mondo e si associa spesso ad altri problemi significativi di salute come disabilità multipla, disturbi neurologici, cardiovascolari, osteo-scheletrici o altre condizioni mediche. La condizione di DI ha conseguenze che attraversano tutto l’arco della vita
e determina un carico enorme sulle famiglie e sui prestatori di assistenza. Essa richiede anche notevole assistenza da parte dei servizi e determina costi socio-sanitari molto elevati.
Nonostante ciò la maggior parte delle principali organizzazioni nazionali ed internazionali
continua a misconoscere l’importanza della DI e a non attuare adeguamenti delle politiche
sanitarie.
Data recenti indicano una riduzione del tasso di prevalenza di DI solo nelle società occidentali, mentre una tendenza opposta è individuabile in tutti i paesi più poveri. In paesi a
maggior sviluppo, come la Finlandia o i Paesi Bassi, la prevalenza di DI è attualmente inferiore all’1.0% (van Schrojenstein Lantman et al, 2006). Tuttavia, anche in questi contesti
più fortunati, gli indici di morbilità rimangono nettamente superiori a quelli della schizofrenia o del disturbo bipolare, tanto per rimanere all’interno delle condizioni neuropsichiatriche. Nei paesi in via di sviluppo i tassi di prevalenza possono raggiungere il 4%. Fattori
ambientali, come l’esposizione al piombo, la carenza di ferro o la malnutrizione, problemi
perinatali e molte altre condizioni non genetiche sembrano avere in queste aree geografiche
un ruolo patogenetico prevalente.
La mancanza di dati epidemiologici adeguati e condivisi è stato uno dei motivi principali di
esclusione anche dall’ultimo studio condotto dall’Organizzazione Mondiale di sanità
(WHO) e dalla World Bank Burden of Disease, con le conseguenze che la DI occupa ancora oggi una posizione di rilievo tra i “problemi nascosti” della salute mondiale ed il divario
tra offerta di servizi e bisogni insoddisfatti è diventato incalcolabile.
L’Atlante WHO per la DI (WHO, 2007), di recentissima pubblicazione, rappresenta di fatto la prima occhiata generale che il mondo dà a questo problema. È il primo rapporto completo sulle risorse e sulle condizioni di cura in 170 paesi del mondo.
Fornisce un’ampia descrizione della terminologia, dell’uso dei sistemi di classificazione,
dell’organizzazione dei finanziamenti, dei modelli di assistenza, delle legislazioni, della
diffusione di conoscenza, della formazione, nonché del ruolo delle organizzazioni nazionali e internazionali, delle fonti di informazione e della ricerca.
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Più del 30% delle persone con DI presenta un disturbo psichiatrico, che costituisce
un’entità nosologica indipendente dalla condizione neuropsichica legata alla precoce riduzione del Quoziente Intellettivo (QI). In questa popolazione i disturbi psichiatrici insorgono spesso nell’infanzia e persistono nell’adolescenza e nell’età adulta (Einfeld et al., 2008).
Inoltre, circa un ottavo della popolazione mondiale sembra avere un’intelligenza borderline, cioè al limite della normalità (definita come intelligenza compresa fra 70 e 85 punti di
QI), che sembra ugualmente associata con un alto tasso di prevalenza di varie tipologie di
disturbo psichico e di disabilità sociale (Hassiotis et al., 2008). Ancora una volta, nonostante queste evidenze, la DI e le condizioni psicopatologiche associate vengono considerate un’area marginale della psichiatria. In molti paesi del mondo la formazione professionale pre e post-laurea non prevede nessun corso per le problematiche specifiche della DI.
Per fortuna gli ultimi cinque anni hanno mostrato una crescente attività di ricerca nel settore, che sta passando da una fase descrittiva ed epidemiologica ad una di definizione, sia di
meccanismi etiopatogenetici multidimensionali, sia di valide procedure di valutazione, che
di migliori misure di esito degli interventi.
Terminologia e Classificazione
L’espressione “Ritardo Mentale” è stata sostituita con “Disabilità Intellettiva” da tutte le
principali organizzazioni nazionali ed internazionali operanti nel settore. La sezione specifica dell’Associazione Mondiale di psichiatria è stata denominata “Psichiatria della Disabilità Intellettiva” nel 2006 (Salvador-Carulla & Bertelli, 2008). La WHO ha implicitamente
accettato il nuovo termine nel 2007, permettendone l’uso nel suo recentissimo Atlante della DI (WHO, 2007).
Dal 1980 a oggi i criteri di classificazione della DI non hanno subito alcuna modifica ed il
dibattito sulla revisione dei concetti che potrebbero produrre adeguamenti sembra ancora
lontano dal concludersi. I tre criteri utilizzati nel DSM IV (Manuale Statistico e Diagnostico Americano, IV edizione) e nell’ICD (Classificazione Internazionale delle Malattie, diretta dalla WHO), cioè QI inferiore a 70, compromissione delle capacità adattive e età di
insorgenza inferiore a 18 anni, non sono più al passo con le conoscenze degli operatori del
settore e con le capacità di sviluppo della ricerca. Per di più, la classificazione dei disturbi
psichiatrici dei principali sistemi classificatori si è rivelata inapplicabile alle persone con
DI, rendendo necessario lo sviluppo di adattamenti specifici. L’Associazione Americana
per le Disabilità Intellettive e dello Sviluppo (AAIDD) ha prodotto un sistema di classificazione basato sull’intensità dei bisogni di supporto (Schalock & Luckasson, 2004).
La DI non dovrebbe esser considerata una malattia o una disabilità, ma un raggruppamento
sindromico, o metasindromico, simile a quello della demenza. Infatti essa raggruppa un insieme eterogeneo di condizioni cliniche, i cui fattori causali prevalenti pertengono ad una
gamma molto ampia di discipline mediche e psico-sociali. La metasindrome DI sarebbe caratterizzata da un deficit delle funzioni cognitive precedente l’acquisizione delle abilità
umane mediate dall’apprendimento. L’intensità del deficit sarebbe tale da interferire significativamente col funzionamento normale e si esprimerebbe come limitazione di attività e
restrizione di partecipazione. Seguendo un approccio polisemico-polinomico, le espressioni “sindrome da ritardo dello sviluppo cognitivo” o “deficit cognitivo precoce” sono state
proposte, in affiancamento a “DI”, per definire la metasindrome prima denominata “Ritardo Mentale” (Salvador-Carulla & Bertelli, 2008).
Valutazione Psichiatrica
Negli ultimi anni la comunità scientifica internazionale ha fatto un grosso passo in avanti
nell’individuazione, nella valutazione e nel trattamento dei disturbi psichiatrici nella DI.
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Protagonista di tale progresso è stata la produzione di strumenti diagnostici specifici, come
i DC-LD (Criteri Diagnostici per l’uso con adulti con Disabilità d’Apprendimento) nel Regno Unito (Royal College of Psychiatrists) o il DM-ID (Manuale Diagnostico per la Disabilità Intellettiva) negli Stati Uniti (NADD, 2007).
L’Associazione Nazionale (degli Stati Uniti) per la Doppia Diagnosi (NADD) ha sviluppato il DM-ID in collaborazione con l’Associazione Psichiatrica Americana (APA). Il punto
di partenza è stata la condivisione di un’analisi e di una revisione approfondita delle evidenze esistenti. L’applicabilità è stata testata successivamente attraverso una serie di studi
internazionali. Sebbene il DM-ID copra tutte le principali categorie diagnostiche dei disturbi mentali definite dal DSM-IV TR, i due manuali presentano alcune differenze significative. Nel DM-ID sono presenti criteri specifici per i disturbi dell’Adattamento e dello
spettro Autistico. Inoltre, poiché risultati frequentemente sotto-diagnosticati nella popolazione con DI, i disturbi Ossessivo-Compulsivo e Post Traumatico da Stress sono stati trattati separatamente dagli altri disturbi d’Ansia.
Ulteriori progressi sono stati registrati nell’area dei disturbi dell’umore e dello spettro schizofrenico. Una gamma considerevole di scale di valutazione auto-compilate o basate su informatori è stata utilizzata nei vari studi dimostrando un apprezzabile stato di avanzamento
nell’applicabilità di scale strutturate e semi-strutturate agli individui appartenenti a tutta
l’ambito della DI.
Gli studi di applicazione dei DC-LD agli individui con DI più grave per la valutazione dei
disturbi dell’umore hanno rivelato limiti importanti, con un gran numero di casi che rimaneva incluso nella categoria residua (Felstrom et al., 2005). I comportamenti legati
all’alimentazione e l’aggressività sono stati considerati sintomi frequenti dei disturbi
dell’umore. Altri criteri utili per i raggruppamenti sindromici dello stesso ambito sono stati
considerati i seguenti: tristezza, irritabilità, riduzione dell’interazione sociale, regressione
nel livello di abilità, disturbi del sonno e variazioni circadiane (Hurley, 2006).
Gli studi degli ultimi anni hanno accresciuto le conoscenze anche rispetto alla modalità di
presentazione, alla neuropatologia ed alla valutazione dei disturbi dello spettro schizofrenico (SSDs). Sono stati precisati i punti di forza ed i limiti degli strumenti di valutazione più
utilizzati. Per esempio la checklist della PASS-ADD (Psychiatric Assessment Schedule for
Adults with Developmental Disabilities; Moss et al., 1998) è risultata poco sensibile nella
capacità di individuazione di un disturbo e la famosa scala PANSS (Kay et al., 1987) è risultata, soprattutto per i sintomi negativi, non applicabile alle persone con DI, anche nella
gamma dei casi moderati. I dati delle ultime ricerche indicano anche che le persone con DI
e SSDs presentano un numero più alto di sintomi osservabili, di sintomi negativi ed una
maggiore disfunzionalità rispetto alle persone con SSDs senza DI (Hemmings, 2006).
I Problemi di Comportamento (PC) continuano a rappresentare uno dei principali problemi
della pratica quotidiana con le persone con DI. Essi raggiungono spesso livelli di alta gravità in termini sia di intensità che di frequenza e necessitano di interventi urgenti. La loro
comparsa è determinata da molti fattori complessi.
Il contributo patogenetico di malattie fisiche, disturbi psichiatrici, condizionamenti ambientali o una combinazione di tutte queste cose deve essere valutata attentamente per ogni
singolo caso.
Questo è uno dei motivi principali per cui l’analisi funzionale dei comportamenti viene utilizzata sempre più spesso in tutti i setting in cui le persone con DI tendano a presentare PC.
I risultati delle ultime ricerche hanno mostrato che la formazione del personale nonprofessionista sulla valutazione e sulla gestione dei PC può avere un impatto positivo e significativo sulla frequenza e sull’intensità dei PC stessi (Tassé, 2006).
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Poiché sia gli psichiatri che i terapisti comportamentali sembrano offrire nuovi strumenti
chiave per la valutazione e per la gestione dei PC, è ipotizzabile che un’azione coordinata
di queste due discipline possa fornire il metodo più completo e efficace per la valutazione,
la comprensione ed il trattamento di un’ampia gamma di PC e delle patologie psichiatriche
associate negli individui di tutto l’ambito della DI.
Genetica e Fenotipi Comportamentali
Questa è forse l’area della ricerca dove sono stati fatti i progressi maggiori degli ultimi anni. Alcuni meccanismi biologici e psicologici altamente specifici e di recente individuazione sembrano confermare l’esistenza di uno stretto legame tra genotipo e fenotipi clinici e
comportamentali. Alcuni esempi vengono offerti dall’alto rischio delle persone con sindrome di Down di sviluppare la malattia di Alzheimer, dalla progressiva differenziazione
delle strategie di supporto e di communicazione sulla base della variabilità di sviluppo
all’interno dello spettro autistico e dalla gamma di problemi esperiti dalle persone con le
sindromi di Prader-Willi e di Cornelia de Lange (CdLs).
La CdLs è una sindrome con anomalie congenite multiple caratterizzata da peculiarità
dell’aspetto facciale, microcefalia, ipertricosi, deficit di crescita pre e post natale, ritardo
psicomotorio, problemi comportamentali, aspetti autistici, disturbi del sonno, disfunzioni
cardiache, palatoschisi e difetti agli arti superiori. In Europa la prevalenza generale di
CdLs è stata stimata fra 1.6 e 2.2 casi ogni 100.000 persone (Barisic et al., 2008). Recentemente alcune mutazioni del gene NIPBL, l’omologo umano del Nipped-B della drosofila,
sono state individuate come possibili cause della sindrome. Tali mutazioni sono state infatti riscontrate in circa il 40% dei casi indagati. Un’espressione precoce di questa sindrome
genetica sembra esser rappresentata da una bassa frequenza di contatti oculari nelle interazioni precoci dell’infanzia (Sarimski, 2007). Le caratteristiche comportamentali sono risultate scarsamente correlate alla mutazione (Bhuiyan et al., 2006), sono state invece registrate correlazioni forti con alcuni aspetti sociodemografici, clinici e di funzionamento, come
l’età cronologica, il livello cognitivo ed il fenotipo clinico. Anche i PC, compresi gli aspetti autistici, sembrano correlare fortemente col livello di funzionamento adattivo. La varietà
di profili comportamentali riflette l’ampia variabilità del funzionamento cognitivo e adattivo tra gli individui (Basile et al., 2007).
Un certo numero di studi comparativi ha messo in evidenza differenze significative dei
profili psicopatologici nei disturbi genetici determinanti DI. Le variazioni genomiche “de
novo” del numero di copie sono state identificate come una delle cause principali di DI e di
altri disturbi neuro-psichici complessi, suggerendo che le nuove mutazioni, fino ad oggi
trascurate, rappresentano un fattore etiologico di estrema importanza e che la ricerca sui disturbi monogenici dovrebbe occupare un posto dominante nell’ambito della ricerca genomica (Ropers, 2007). L’introduzione di nuovi metodi di sequenziazione ad alto throughput
(output netto) e a basso costo dovrebbe permettere una rapida convergenza delle tecniche
di sequenziazione e di genotipizzazione con ripercussioni ad alto potenziale positivo sulla
capacità di cura delle malattie genetiche. Queste tecniche avranno infatti un impatto notevole sulla generalizzazione e sulla standardizzazione dello screening genetico nella pratica
clinica di routine.
Trattamento Farmacologico
La letteratura degli ultimi anni è stata dominata dall’interesse per gli antipsicotici di “nuova” o “seconda” generazione come trattamento farmacologico dei PC (Deb & Unwin,
2007). Numerosi studi empirici supportano l’uso di queste molecole, anche se alcune recentissime pubblicazioni appaiono più scettiche rispetto alla qualità delle evidenze(Tyrer et
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al, 2008). Gli effetti indesiderati di questa classe di farmaci hanno suscitato molta attenzione con la formulazione di raccomandazioni sulla prevenzione e sulla gestione di aumento
di peso, iperprolattinemia, dislipidemia, iperglicemia ed allungamento del QTc (indicatore
di possibili aritmie ventricolari acute). Tuttavia questi problemi di collateralità sembrano
avere incidenze diverse per le diverse molecole e sembrano riguardare anche la classe degli
antipsicotici “tipici” o “di prima generazione”, per i quali sono stati confermati effetti indesiderati ad alto potenziale negativo sulla DI, in quanto condizionanti le funzioni cognitive e
neuro-motorie, nonché le capacità trofiche, plastiche e rigenerative del SNC.
La psicofarmacologia attuale tende a valutare l’utilità dei trattamenti in termini di efficienza piuttosto che di semplice efficacia sui sintomi target e sicurezza. Questa nuova misura
di esito, che aggiunge la capacità di determinare la permanenza in trattamento, sembra essere più fortemente correlata con l’esito finale di qualsiasi disturbo.
Il bisogno crescente di altre misure di esito orientate al paziente ha collocato la Qualità di
Vita (QdV) in una posizione centrale tra gli obiettivi della maggior parte dei programmi di
intervento farmacologico e sono state puntualizzate le differenze concettuali tra la QdV
generica e la QdV legata alla salute (Bertelli & Brown, 2006).
In contrasto con i progressi nella diagnosi e nella valutazione, la ricerca sul trattamento dei
disturbi depressivi continua ad essere inadeguata. I farmaci antidepressivi rappresentano
ancora l’unico presidio, vengono spesso prescritti off-label, cioè al di fuori delle indicazioni della scheda tecnica di un farmaco, (Haw and Stubbs, 2005) o senza un’adeguata procedura diagnostica. Le difficoltà di diagnosi e di valutazione favoriscono la persistenza del
criterio ex-iuvantibus nella scelta dei farmaci per il trattamento dei sintomi osservabili e
delle alterazioni del comportamento.
Il Royal College of Psychiatrists e la sezione psichiatria della disabilità intellettiva
dell’associazione mondiale di psichiatria, hanno recentemente sviluppato linee-guida, rispettivamente nazionali (Deb et al, 2007) ed internazionali (WPA, 2008), per fornire ai clinici alcuni consigli sull’uso della terapia psicoattiva nella gestione dei comportamenti di
sfida negli adulti con DI. Entrambe le guide enfatizzano l’importanza del massimo coinvolgimento possibile dei pazienti con DI e dei loro prestatori di assistenza nel percorso decisionale, sottolineano l’utilità di una condivisione a livello di equipe multidisciplinare e
impongono un’attenta considerazione di tutte le opzioni alternative prima di optare per una
prescrizione di farmaci.
Supporti e Bisogni
Nella complessità della loro vulnerabilità bio-psico-sociale le persone con DI necessitano
di sostegni e servizi aggiuntivi per tutta la vita. I report internazionali indicano che non già
quelli aggiuntivi ma persino i bisogni di base non sono ancora soddisfatti dalla maggior
parte dei servizi nazionali di salute del mondo. In Europa le aree più critiche sembrano essere quelle del contatto con i servizi di prima assistenza, la modalità di prescrizione dei
farmaci, l’accessibilità all’informazione, lo sviluppo di interventi efficienti non invasivi di
tipo psicologico per la depressione e i problemi comportamentali, l’assistenza alle persone
con gravi problemi di salute mentale, l’adeguatezza e la praticità del supporto ospedaliero,
l’effetto dei tempi di attesa molto lunghi, la comunicazione tra servizi sanitari e sociali e la
consapevolezza degli enti responsabili della sanità pubblica (O’Hara, 2006). Una prima indagine dettagliata dei bisogni delle persone con DI è stata condotta in Inghilterra nel biennio 2003-04. Le difficoltà più frequenti sono qui risultate l’esclusione sociale, il vissuto di
insicurezza e la mancanza di controllo sulla propria vita (Health and Social Care Information Centre, 2005).
47
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Il ruolo nuovo della psichiatria nell’assistenza
alle persone disabili
Marco Bertelli
Psichiatra, presidente della sezione Disabilità Intellettiva dell’Associazione Mondiale di
Psichiatria
La qualità della cura della salute mentale per le persone con Disabilità Intellettiva (DI) è
molto bassa, poiché basso è il livello di disponibilità di specialisti esperti e adeguatamente
formati. La disposizione degli psichiatri e degli specializzandi in psichiatria verso le problematiche specifiche della DI risulta molto limitata.
La maggior parte di essi esprime preoccupazione rispetto alla possibilità di lavorare nel
settore, denunciando mancanza di conoscenze e di strumenti terapeutici.
Circa un terzo è risultato addirittura indisponibile alla presa in carico di persone con DI e
problemi di salute psichica. Circa la metà ritiene ancora che non sia possibile parlare di disturbi psichiatrici in una persona con una “compromissione di base di tutto il funzionamento mentale”.
Per quegli psichiatri che invece già da tempo prestano la loro opera a persone con DI, numerose evoluzioni si sono proposte negli ultimi anni, sia in termini di sensibilità diagnostica che di interventi terapeutici. Ma il cambiamento più significativo riguarda il ruolo stesso
della psichiatria nell’economia delle discipline che ruotano intorno alla DI. Come in molti
altri paesi del mondo, anche in Italia le esperienze maturate hanno mostrato come la miglior cura della salute mentale sia quella gestita da un team multi-disciplinare, la cui composizione riflette infatti la natura multi-fattoriale dei disturbi mentali e dei trattamenti di
cui necessitano.
Qui lo psichiatra integra le sue conoscenze con quelle dello psicologo, dell’assistente sociale, dell’infermiere, dei vari terapisti (occupazionale, della riabilitazione, del linguaggio,
del comportamento), del fisioterapista, ecc. Il team si incontra con frequenza regolare per
discutere dei nuovi invii, dei casi già presenti e di principi generali, lasciando ulteriori ampi spazi alla formazione ed al tirocinio.
Nella nuova psichiatria della DI la clinica e la terapia perdono ogni carattere di autoreferenzialità per diventare strumenti dello sviluppo della persona, dell’offerta d’interventi per
i problemi emotivo - comportamentali e del sostegno positivo necessario all’autodeterminazione e alla qualità di vita. Lo psichiatra diventa anche protagonista della facilitazione
delle transizioni nelle varie fasi ed età della vita e partecipa allo sviluppo dei supporti che
agiranno nelle famiglie e nella comunità.
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Disabilità intellettive, prestazioni scolastiche e adattamento
sociale: surplus rispetto alle capacità cognitive?
Ovvero sull'influenza di un ambiente arricchito
Renzo Vianello e Silvia Lanfranchi
Università di Padova
Nello sviluppo atipico, così come nello sviluppo tipico, l’ambiente gioca un ruolo molto
importante nell’influenzare lo sviluppo delle abilità scolastiche e sociali. In relazione alle
disabilità intellettive, le ricerche condotte (Vianello, 2006, 2008) hanno messo in luce
l’esistenza di due fenomeni tra loro opposti.
Il contesto ambientale può provocare nelle persone con ritardo mentale quello che è stato
definito il deficit rispetto all’età mentale (Zigler e Bennet-Gates, 1999). Si tratta di una situazione molto diffusa nel passato, soprattutto in contesti non volti all’integrazione.
Si può verificare anche il fenomeno opposto. Adeguati interventi educativi possono favorire il surplus rispetto all’età mentale e in particolare prestazioni scolastiche superiori rispetto
a ciò che ci si potrebbe aspettare dall’età mentale.
Si tratta di un fenomeno abbastanza nuovo, in crescita, frutto dell’integrazione. Esso considera, come adeguati interventi educativi possano permettere prestazioni superiori rispetto
a quelle medie di bambini normodotati che hanno la stessa età mentale (valutata con test di
intelligenza). Nella relazione ci si sofferma soprattutto su questo secondo fenomeno, riportando innanzitutto i dati di ricerche condotte con bambini e ragazzi con sindrome di Down,
dai quali risulta un surplus nelle abilità sociali e nelle prestazioni in lettura. Fenomeni analoghi emergono in ricerche condotte con minori con sindrome di X fragile e di Cornelia De
Lange.
La presenza del deficit o del surplus invita ad interventi educativi e abilitativi mirati.
In caso di deficit è fondamentale: operare sugli aspetti motivazionali al fine di ridurre al
minimo le influenze negative; evitare di rinforzare un orientamento motivazionale estrinseco, dato che esso è correlato a peggiori risultati scolastici, valorizzando incentivi interni più
che esterni; favorire adeguate aspettative di successo con compiti cognitivi all'altezza delle
capacità dell’individuo, cioè tali da portare a successo e non a fallimento; favorire un atteggiamento attivo, esplorativo, curioso; inserire gli allievi con disabilità intellettive in classi
in cui è possibile impegnarsi a diversi livelli di difficoltà.
Il fenomeno del surplus rispetto alle capacità cognitive suggerisce note di ottimismo educativo ed abilitativo da parte di chi conduce interventi fondati teoricamente, mirati e prolungati e un qualche sentimento di orgoglio per quanto si fa in Italia (e negli altri Paesi in cui
si realizza l’integrazione): il surplus rispetto all’età mentale è soprattutto un effetto
dell’integrazione, che, pur tra mille difficoltà ed ulteriori ampi margini di miglioramento, è
realizzata in Italia da più di 30 anni.
Riferimenti bibliografici
Vianello, R. (2006) La sindrome di Down, Bergamo: Edizioni Junior
Vianello, R. (2008) Disabilità intellettive, Bergamo: Edizioni Junior
Zigler, E., Bennet-Gates, D. (a cura di) (1999), Personality in Individuals with Mental Retardation,
Cambridge University Press (Trad. 2002. Sviluppo della personalità in individui con ritardo mentale. Bergamo: Ed. Junior)
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Il ruolo nuovo della Neuropsichiatria Infantile
nel favorire lo sviluppo dei bambini con disabilità
Ernesto Caffo
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Introduzione
Secondo la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) – che prova a coniugare il modello medico con quello bio-psico-sociale - il ritardo
mentale è un deficit delle funzioni intellettuali, correlato ad una limitazione dell’attività e
ad una restrizione alla partecipazione sociale.
Date queste premesse, è evidente che nel trattare bambini e adolescenti con deficit intellettivo i professionisti della salute mentale devono tenere in considerazione non solo i fattori
individuali ma anche quelli ambientali; il principale obiettivo del trattamento, infatti, è
quello di aumentare le attività e la partecipazione di questi soggetti, migliorandone le capacità e la performance fino al maggior livello possibile di funzionamento.
Metodologia
L’Autore proporrà una riflessione sul ruolo dello psichiatra infantile nella cura dei soggetti
con ritardo mentale; in particolare, si soffermerà sulle diverse raccomandazioni suggerite
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalle Organizzazioni delle Persone
Disabili (DPOs, Disabled People Organizations).
Risultati
Alla luce dei documenti dell’OMS analizzati (ICF, CBR, ICCC), lo psichiatra dell’infanzia
e dell’adolescenza è chiamato ad assumere un nuovo ruolo nella cura delle persone con disabilità intellettiva. I professionisti della salute mentale, infatti, non hanno solo la responsabilità di offrire servizi clinici e terapeutici, ma devono anche funzionare come ponte tra il
settore sanitario e le componenti sociali, politiche, economiche e fisiche dell’ambiente allargato in cui bambini e adolescenti vivono.
Conclusioni
La prevenzione efficace e la gestione delle condizioni croniche richiede un’evoluzione del
sistema sanitario da un modello di assistenza acuta, episodica a un sistema assistenziale
coordinato e comprensivo. Affinché le persone disabili non siano più considerate solo pazienti, ma membri effettivi della società, competenti e con capacità decisionali, gli specialisti devono aprirsi ad una maggiore interazione con la comunità, svolgendo maggiore attività di counselling ai disabili e alle loro famiglie.
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Una esperienza di applicazione del documento OMS
“Innovative Care for Chronic Conditions (ICCC)” alla
condizione della disabilità intellettiva: metodo, risultati, criticità
Ciro Ruggerini, Annamaria Dalla Vecchia, Sumire Manzotti, Francesca Beneventi, Katia
Covati
Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena, AUSL di Reggio Emilia
Un progetto per la applicazione del documento OMS “Innovative Care for Chronic Conditions” alla condizione della disabilità intellettiva è stato presentato nell’ottobre 2003 nel
corso di un Congresso della durata di un giorno. In questo Congresso è stato illustrato il
documento ICCC e l’accordo (Memorandum of Understanding) sottoscritto a Ginevra tra
Disability & Rehabilitation team of World Health Organisation (WHO/DAR), Università
di Modena e Reggio Emilia, Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia e una Associazione dei Genitori (Fa.Ce) per la realizzazione del progetto.
Nel dicembre 2003 è stato elaborato il piano operativo della ricerca.
Nel corso del 2006 il progetto è entrato a far parte del progetto “A Multi-Country ActionLearning Research Iniziative” attivato e supervisionato dal Disability & Rehabilitation
team of World Health Organisation (WHO/DAR) e dalla Associazione Italiana degli Amici
di Raoul Follereau (AIFO/Italy) in collaborazione con Disabled People International (DPI).
Di questo progetto fanno parte iniziative realizzate nei seguenti paesi: Columbia, Repubblica Domenicana, El Salvador, Etiopia, India, Tanzania, Palestina, Italia (Reggio Emilia).
Piano della ricerca
Ha previsto le seguenti fasi successive ad una fase preliminare di individuazione di un
gruppo di famiglie disponibili alla partecipazione al progetto:
1. studio delle storie di vita delle famiglie;
2. individuazione dei parametri per la valutazione degli esiti della ricerca;
3. formazione dei genitori sul tema della disabilità intellettiva;
4. formazione del personale AUSL negli stessi contenuti;
5. formazione dei coordinatori dei focus group (scelti dai genitori stessi) secondo gli standard formativi della AUSL di Reggio Emilia;
6. attuazione dei focus group tenuti dai genitori sul tema dei punti critici e dei punti di forza della assistenza alla luce sia della formazione ricevuta sia della propria esperienza di vita;
7. elaborazione da parte dei genitori di un documento del loro lavoro (prodotto delle discussioni dei focus group);
8. dialogo costruttivo con le agenzie della comunità sui contenuti del documento dei genitori finalizzato alla scelta delle possibili soluzioni delle criticità;
9. descrizione dei risultati complessivi della ricerca.
Al momento in cui scriviamo è iniziata la fase 8.
Filosofia della ricerca
La ricerca è guidata dal documento Innovative Care for Chronic Conditions (WHO, 2002)
che propone la centralità del concetto di cambio di paradigma nella organizzazione dei servizi di salute mentale. Altri documenti che hanno stimolato l’iniziativa includono le Standard Rules on Equilization of Opportunities for Persons with Disabilities delle Nazioni Unite e la comprensione dell’Approccio Basato sui Diritti che contiene sia un modello medico che un modello sociale della disabilità.
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La premessa di base è che le persone disabili, soprattutto le persone con condizioni croniche che richiedono cure mediche o contatti ripetuti con le strutture sanitarie, dovrebbero
giocare un ruolo più attivo nella loro stessa cura (=Empowerment).
Risultati
Fase 1
Le storie dei genitori sono state raccolte secondo le indicazioni della Medicina Basata sulle
Narrazioni; gli specialisti psichiatri che hanno raccolto le storie sono psicoterapeuti cognitivi che utilizzano una epistemologia post – razionalista; questi riferimenti hanno permesso
di valorizzare le esperienze delle famiglie cioè: i suggerimenti che possono fornire a chi
organizza l’assistenza e le soluzioni creative/originali che le famiglie sono in grado di elaborare. Sono state esaminate 24 storie. I dati di tutte le storie sono stati raccolti in modo da
poter essere utilizzati in una ricerca di tipo quantitativo. 12 storie sono state sintetizzate per
esprimere dati qualitativi. Queste storie sono state utilizzate in una giornata di formazione
per gli operatori della AUSL.
Fase 2
È stato scelto come strumento principale della valutazione degli esiti della ricerca un questionario sulla qualità della vita; il questionario è stato compilato da 50 genitori in un incontro collettivo; il questionario sarà somministrato nuovamente alla fine della ricerca.
Fase 3 e 4
- Vi è stata una formazione rivolta alla Comunità Locale - ottobre/dicembre 2005 - organizzata in 4 incontri - ognuno della durata di 8 ore - sui temi seguenti: illustrazione dei documenti internazionali ICCC, CBR, Standard Rules; la storia della filosofia della assistenza
alle persone con Disabilità Cognitiva; il ruolo dei servizi psichiatrici, della scuola e del
servizio sociale nella assistenza e nella promozione dello sviluppo per le persone con Disabilità Cognitiva; la condizione della Disabilità Cognitiva Lieve e il tema della Generazione Dimenticata. Nella formazione sono state utilizzate storie di vita illustrative di molti
dei concetti divulgati secondo la logica della Lay Exposition.
- Questi stessi contenuti sono stati discussi con i genitori, in quattro serate di 3 ore l’una –
febbraio / giugno 2006 -. I genitori si sono divisi in due gruppi per motivi organizzativi. La
divulgazione è avvenuta con Power Point. Tre mesi dopo il termine della formazione ai
genitori è stata consegnata una dispensa in cui le informazioni dei Power Point sono state
arricchite di spiegazioni e di riferimenti bibliografici.
- Questi stessi contenuti sono stati ridotti in 10 articoli che sono stati accettati per la pubblicazione su una rivista (L’Educatore) molto diffusa tra gli insegnanti. Sono già stati pubblicati 3 di questi articoli.
- Formazione dei tecnici della AUSL: è avvenuta nel corso del 2005 e 2006; contenuti: introduzione del documento della AAMR del 2002 e del relativo quaderno di lavoro; introduzione della Scala Vineland nella pratica clinica; discussione di storie cliniche per valutare l’effetto della introduzione di questi strumenti diagnostici.
Fase 5
La formazione dei leader dei focus group è stata attuata da personale specializzato della
Ausl di Reggio Emilia; i genitori leader hanno partecipato a due sedute serali della durata
di circa tre ore.
Fase 6
Sono stati individuati 3 focus group; i genitori coinvolti stabilmente sono stati 26; si è concordato di organizzare un incontro con i genitori dopo quattro focus group tenuti a distanza
di un mese; l’argomento generale in questa prima fase è stato: una riflessione sulle necessità assistenziali e di occasione allo sviluppo nelle diverse fasi della vita; è stato scelto come
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guida della discussione l’elenco dei sostegni secondo la AAMR (2002); il primo incontro è
avvenuto alla fine di gennaio 2007.
Fase 7
I tre gruppi di genitori hanno elaborato tre documenti; questi documenti sono stati sintetizzati successivamente in uno solo in occasione di una presentazione dei risultati della ricerca alla Comunità (1 ottobre 2008).
Fase 8
È in corso una valutazione dei contenuti dei documenti da parte della agenzie della Comunità locale.
Alcune ipotesi di iniziative concrete sono già state proposte dalle associazioni di volontariato - ipotesi di formazione di amministratori di sostegno sulla base di contenuti condivisi
dalle associazioni dei familiari; iniziative culturali per la diffusione nella Comunità della
Convenzione dei Diritti dei Disabili -; dai dirigenti del mondo della scuola - ampliamento
del percorso scuola-lavoro condotti secondo concetti innovativi -.
Fase 9
I genitori hanno descritto l’effetto soggettivo ricevuto dalla partecipazione al progetto in
termini di una percezione positiva di sé come cittadini potenzialmente capaci di contribuire
in modo attivo alla formazione dei progetti assistenziali che li riguardano.
Ricadute del progetto
La realizzazione del progetto ha sollecitato dei cambiamenti nella Comunità locale.
Un primo effetto è poco oggettivabile ma si può percepire nella attività quotidiana: una
migliore collaborazione tra operatori dei vari servizi - psichiatrico, psichiatrico infantile,
sociale, scolastico - nei casi complessi.
Un secondo effetto è stato la formulazione di un progetto di ricerca sulla “Psichiatria della
Disabilità” che ha da poco ricevuto un finanziamento regionale; gli obiettivi sono: verificare la frequenza dei trattamenti farmacologici congrui e incongrui in queste persone; studiare empiricamente quali tipi di interventi realizzati in età infantile sono più efficaci nel favorire la salute mentale in età adulta.
La ricerca prevede lo studio della popolazione che afferisce ai Servizi per la disabilità adulta delle città di Rimini, Reggio Emilia e Modena - popolazione costituita da circa 1500
persone -.
Un terzo effetto è stato la costituzione di una nuova associazione dedicata allo sviluppo
della Medicina Basata sulle Narrazioni nel campo della Disabilità che ha nel suo statuto
l’obiettivo di fare conoscere tutto ciò che i disabili e le loro famiglie e gli operatori dei vari
servizi hanno realizzato in modo creativo nei loro percorsi di assistenza, di cura o di sollecitazione allo sviluppo. Il nome di questa associazione è Personae.
Un quarto effetto è stato la elaborazione di un testo intitolato “Prendersi cura della disabilità intellettiva” ( coordinate OMS, buone prassi, storie di vita ) Erickson. – 2008 - in cui esponenti della Comunità locale (filosofi, genitori, pedagogisti, esponenti del volontariato,
neuropsichiatri infantili , psichiatri, operatori dei servizi per la disabilità in età adulta) hanno esplicitato i loro riferimenti culturali per rendere possibile una collaborazione interdisciplinare più efficace.
Un quinto effetto è stato il finanziamento da parte della Fondazione Manodori di Reggio
Emilia delle giornate di “Consensus Conference sulla Salute Mentale delle Persone con Disabilità Intellettiva”, sollecitate in modo esplicito dal documento prodotto dai Focus
Group.
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Bibliografia
Ruggerini, C., Dalla Vecchia, A., The innovative care for the intellelctual disability: a project for the self-management enforcement program for families in Reggio Emilia, 13th ESCAP International Congress Bridging the Gaps, Firenze, 25-29 agosto 2007. Relazione
Abstract: Sito ESCAP
Ruggerini, C., Dalla Vecchia, A., Manzotti, S., Beneventi, F., Covati, K., The selfmanagement enforcement program for families in Reggio Emilia, all’incontro AIFO/OMSDAR “New paradigm of medical care for persons with disabilities”, Roma, 10-12 dicembre
2007, Atti sul sito www.aifo.it/english/proj/aifo-who/index.htm
Ruggerini, C., Vezzosi, F., Dalla Vecchia, A., Prendersi cura della disabilità intellettiva –
Coordinate OMS, buone prassi, storie di vita -; Trento, Erickson, 2008
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Simposi
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SIMPOSIO 1
L'Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti (IESA)
in Italia: storia e considerazioni sullo stato attuale
Gianfranco Aluffi
Dirigente Responsabile Servizio IESA, DSM Collegno ASL TO3, Università di Torino Presidente fondatore G.R.E.P.Fa Italia
L’Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti (IESA), oggi pratica di riferimento per
un numero crescente di dipartimenti di salute mentale italiani, non si può proprio definire
una novità. Le sue radici infatti riportano al VII secolo dopo Cristo, alla leggenda di Santa
Dymphna ambientata a Geel (Belgio). Anche l’Italia, nel periodo a cavallo tra fine1800 e
inizio 1900, ha visto diffondersi tale servizio in quello che era allora il sistema psichiatrico
dominante, totalmente centrato sulla “regia” dei manicomi.
Ripercorrendo le tappe più significative per la storia dello IESA italiano si arriverà ad una
analisi della situazione attuale, attraverso i dati emersi da una inchiesta nazionale conclusasi nel 2008.
Verranno inoltre prese in considerazione le potenzialità insite nel modello IESA che lo
portano a rivelarsi un utile ed efficace strumento di cura e riabilitazione, anche laddove sia
rivolto a tipologie di utenza estranee alla psichiatria.
Riflessioni sui vissuti familiari nell’esperienza sugli affidi
a Lucca (IEFA)
G. Ambrogini, L Cagnoni, A. Del Soldato, V. Fioretta, E. Marchi, M. Migli, F. Re,
ASL 2 di Lucca-C
Centro Salute Mentale Adulti di Lucca
Vengono brevemente riassunti i dati fondamentale riguardanti l’esperienza pluridecennale
degli affidi a Lucca:
Viene anche riferito dagli autori l’esperienza del gruppo di incontro mensile dei familiari:
questo diviene la sede più idonea per poter affrontare dubbi e preoccupazioni,ma anche
quella dove ci si può vicendevolmente incoraggiare,consigliare,scambiarsi pareri ed in certi
momenti concedersi anche spunti di analisi per i vissuti affettivi che la straordinaria esperienza dello IEFA.
In particolare viene poi affrontato il tema del rapporto a lungo termine da parte dei familiari affidatari con il soggetto in carico e con i servizi della Comunità.
La gestione più valida del rapporto affidatario(ma talora anche più difficoltosa ad attuarsi),
si connota come un progressivo aprirsi alla rete dei servizi del territorio,in un’intersezione
inclusiva che supera il concetto della famiglia come contenitore chiuso ed autoreferenziale.
In ultimo si tratta dei rapporti,spesso complicati per la loro ambivalenza,con la famiglia di
origine e della delicata questione riguardante la perdita dei soggetti inseriti nelle famigli
affidatarie nonché della questione economica talora derivante da ciò per la spartizione ereditaria.
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L’accoglienza familiare è possibile.
La casa famiglia: una esperienza consolidata
Valter Martini
Responsabile Servizio Affidamento dell’Associazione Papa Giovanni XXIII
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Il modello della Casa Famiglia
dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Nelle Case Famiglie dell’Associazione, la funzione chiave dell’intervento consiste nel reinserimento sociale delle persone in difficoltà attraverso una famiglia non coincidente con
quella biologica.
La caratteristica peculiare della Casa-Famiglia è data dal ricreare in modo positivo gli elementi fondanti la famiglia naturale così che ogni persona ritrovi quella situazione ottimale
di accoglienza, sicurezza, calore umano, solidarietà, tanto necessari alla propria crescita
personale armonica.
Le finalità peculiari sono quelle di garantire alle persone in stato di difficoltà, di abbandono, di svantaggio, per qualsivoglia motivo esso sia stato originato e/o causato, un contesto
di vita familiare in grado di sostenere il processo di evoluzione positiva e di maturazione
mediante un'organizzazione caratterizzata da relazioni stabili, affettivamente significative,
uniche e personalizzate, inserite in una rete comunitaria, con modalità di condivisione adeguate alle esigenze dell'età e del livello di maturazione di ciascun soggetto, vivendo con le
persone accolte esperienze di vita di relazione anche nel contesto sociale circostante.
La condivisione diretta, di vita già di per sé è risposta ai bisogni profondi delle persone
perché toglie la separazione, l'emarginazione, il non riconoscimento delle diversità come
risorsa.
Alcune caratteristiche delle Case Famiglie sono:
- Le figure di riferimento paterne e materne che assicurano quel processo di sana identificazione di cui anche il malato mentale necessita..
Ponendosi come figure di riferimento maschile e femminile svolgono il ruolo genitoriale e
instaurano rapporti sul tipo genitori-figli.
Non diventa tanto titolo qualificante l'attestazione giuridica di una professione in campo
educativo, ma la scelta matura e responsabile, vagliata attentamente dall'Associazione in
un iter formativo interno, di svolgere il ruolo genitoriale in modo affettivo, gratuito, continuativo, totalmente disponibile e personalizzato.
Questa è la prima e vera professionalità, a cui si aggiungono tutte le altre competenze professionali specifiche.
- La complementarietà delle presenze permette al soggetto con malattia mentale di vivere oltre che con figure stabili di riferimento anche con bambini, adolescenti, anziani e persone comunque normodotate portatrici ognuno di una propria personalità.
Ne consegue che come in una normale famiglia c'è una compresenza di tipologie diverse di
figli (maschi-femmina, neonati-adolescenti, normodotati o no, ecc.) secondo il principio
della paternità/ maternità responsabile, così si accolgono persone diverse e con problematiche differenti. Il criterio nell’accogliere viene posto, oltre che nella oggettiva capacità abitativa, dal poter mantenere un rapporto personalizzato familiare fra figure genitoriali e persone ospitate.
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- L’apertura al Territorio fa si che le persone inserite nelle case famiglie, trovino, oltre
che le figure genitoriali di riferimento, anche la possibilità di spazi adeguati di socializzazione attraverso attività sportive, culturali ed artistiche all’esterno della Casa Famiglia.
Nelle cooperative sociali, le persone accolte che soffrono nella mente possono trovare uno
spazio lavorativo ed una identità che li rende partecipi, produttivi e creativi.
- La rete comunitaria
La Casa Famiglia fa parte integrante dell’unica Comunità Papa Giovanni XXIII che si esprime attraverso modalità diverse di vita: famiglie, Case Famiglie, cooperative, centri
diurni, e che garantisce supporti diversificati alle famiglie e Case famiglie che hanno accolto in affidamento familiare i malati di mente.
- La pedagogia della condivisione
Chi vive nelle case famiglie fa una scelta di tipo permanente e sviluppa la Pedagogia della
condivisione come modo di essere. Non si adegua al concetto di irrecuperabilità, ma ci si
rifà alla pedagogia della speranza: ognuno ha delle capacità e risorse da mettere a servizio
degli altri. La condivisione con le persone malate di mente è possibile, è realizzabile. Chi
per la società è considerato un ingombro perché con gravi problemi di relazione, di handicap, di solitudine e abbandono, per la Comunità è punto di partenza e base portante per la
riunificazione del genere umano.
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Foster family care programme Geel (Belgium):
Community based care model for mentally ill
and mentally handicapped adults
Wilfried Bogaerts
Clinical psychologist, Public Psychiatric Care Centre, Geel, Belgium
Kris Roels
Foster parent, Member of the Foster Parents Advice Board, Public Psychiatric Care Centre, Geel, Belgium
Part I
Geel is a little town in Belgium, 65 kilometres north-east of Brussels.
Nothing special about it at first glance. But seven hundred years ago the families of Geel
opened their homes to mentally ill people and they have been doing so ever since. Today
more than 400 mentally ill and mentally handicapped people are included in everyday family and community life.
Key elements of the programme are acceptance, tolerance, routines, focus on strengths, direct communication,…
In several European countries, Foster Family Care is being rediscovered and successfully
implemented as it probes to be a humane, modern and economic type of care for the mentally ill.
After a short introduction (historical background) the Foster Family Care Programme is
Described.
(W. Bogaerts)
Part II
Kris Roels, his wife ane their 4 children live in Geel. Since 1986 they share their family
life with mentally ill and mentally handicapped people. Kris talks about his life as a foster
parent and describes that fostercare is all about.
(K. Roels)
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SIMPOSIO 2
Formazione degli specialisti medici e dei tecnici dei servizi
territoriali in tema di ritardo mentale in età prescolare:
aggiornamento o empowerment?
Paola Caggia, Rita Mari, Rita Tassi, Licia Foschi, Stefania Parenti, Sara Valentini, Bianca
Velardi, Milena Natali, Floriana Franzoni, Sumire Manzotti, Valentina Moretti, Ciro Ruggerini
Azienda Unità Sanitaria Locale di Modena – Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile; Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena – Modulo di psicopatologia
dello Sviluppo e dell’Apprendimento
Premessa
Rispetto alla tradizionale consuetudine di una formazione scelta dagli operatori individualmente su proposte aziendali o esterne, negli ultimi anni la nostra azienda ha costruito
progetti di formazione a partire dalle richieste e dalle aree d’interesse degli operatori e dei
gruppi di lavoro.
Questo modello, da una verifica recentemente effettuata, ha portato ad un altissimo livello
di soddisfazione delle diverse figure professionali che ne hanno usufruito.
Il gruppo Ritardo Mentale promosso dall’Azienda Usl di Modena e dalla Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena e coordinato da P.C. e C.R. è nato con l’obiettivo
di individuare le migliori prassi per “ Favorire lo sviluppo dei bambini con Ritardo Mentale in età prescolare”.
Il Metodo
• Libertà di partecipazione
Le Direzioni hanno lasciato libertà di partecipazione; in tal modo coloro che sono entrati a
far parte del gruppo, lo hanno liberamente deciso in base al loro interesse personale e professionale.
• Strumenti
Il gruppo si è interrogato sugli strumenti utilizzabili per costruire una cultura condivisa,
condizione essenziale per la sua costituzione.
Per il raggiungimento dell’obbiettivo affidatoci, abbiamo individuato una rilettura della
nostra esperienza in termini di:
- Riferimenti culturali
- Prassi operative (modalità di cura dei servizi di neuropsichiatria)
- Narrazione di casi clinici
- Ricerca della letteratura scientifica
I riferimenti culturali dei partecipanti al gruppo, che abbiamo confrontato non senza difficoltà, sono risultati diversi, impliciti e datati.
L’utilizzo differenziato di concetti e l’eterogeneità delle esperienze sono apparsi difficilmente componibili in un unico modello di riferimento.
Abbiamo raccolto le diverse modalità operative della presa in carico nella diagnosi e nella
cura dei bambini con disabilità mentale e delle loro famiglie.
Nel descrivere le nostre esperienze, abbiamo trovato un’assonanza nel comprendere che
ognuno di noi ha imparato da una storia clinica in particolare.
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Esporre le ragioni per le quali un determinato caso ha insegnato a ciascuno di noi qualcosa
in positivo o in negativo, in termini sia individuali che di equipe, nel contesto di questo
gruppo, si è rivelato essere una modalità formativa molto diversa dalle supervisioni sperimentate in precedenza.
Abbiamo avvertito che la differenza fondamentale, era rappresentata dal fatto che stavamo
apprendendo reciprocamente dall’esplicitazione della nostra esperienza attraverso la narrazione di quelle particolari storie cliniche.
All’inizio non siamo stati in grado di riferirci ad una letteratura scientifica attuale, non solo
in quanto i nostri riferimenti teorici erano spesso impliciti, ma anche alla luce del fatto che
il Ritardo Mentale, resta spesso ai margini degli interessi professionali e culturali degli operatori dei servizi.
Consapevoli che la mancanza di conoscenza porta l’operatore a reiterare la propria esperienza, ci siamo impegnati ad individuare le ricerche scientifiche,sistematiche, contemporanee a cui poter fare riferimento.
Conclusioni:
1. Il nostro gruppo si è trasformato da un gruppo didattico - prescrittivo ad un gruppo
di auto formazione.
2. Il gruppo ha evidenziato la necessità di una ricerca attiva nella letteratura scientifica
contemporanea su cui basare modelli espliciti di assistenza piuttosto che riferirsi a
modelli culturali datati e impliciti.
3. Il gruppo inoltre ha individuato come metodo fondamentale lo studio
dell’evoluzione dei casi trattati in rigoroso confronto con la letteratura scientifica
attuale in modo da contestualizzare l’esperienza personale che ci è sembrata
particolarmente interessante con i dati scientifici della ricerca.
4. Il gruppo ha individuato cinque storie cliniche che verranno contestualizzate nella
cultura scientifica contemporanea sul Ritardo Mentale.
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Qualche riflessione sulla psicologia dell'area della disabilità
Lucia De Uffici
La psicologia in generale ci viene utile là dove la vita parla di rapporti e ci insegna, per aver valutato al meglio e in specifico le dinamiche interrelazionali, come sia possibile stare
nel modo più conveniente e utile (nel significato biofunzionale dei termini) con l'Altro che
incontriamo nel cammino esistenziale, e col quale possiamo e dobbiamo entrare in una
qualche sintonia. "Sintonia"…nel significato di essere costruttivi per Sé e per l'Altro da Sé,
nel senso di voler fare della nostra occasione-incontro una occasione che ci piace chiamare
"significativa".
La psicologia comportamentale parla degli schemi fissi, delle abitudini, delle coazioni che
caratterizzano l'esplicitarsi di una persona nel suo coniugarsi con gli altri, mentre la psicologia clinica indaga nei vissuti e nei movimenti di quelle particolari espressioni di sé che
possono assumere carattere di anomalia, e, quindi, controproducenti; e che possono derivare da una storia, da una situazione, da un'educazione, da un complesso di difese, da un'interpretazione o, peggio, da una manipolazione. "Controproducente" può voler dire anche
"distruttivo", quando impedisce una fluida e appagante realizzazione di sé e la sua conseguente e altrettanto appagante collocazione nel mondo.
La domanda diventa:…come possiamo capire (migliorare,cambiare) quello che ci succede
nella realtà interna..e comprendere (migliorare,cambiare) quei comportamenti che, scatenati da un lontano substrato istintuale e via via umanizzati dal percorso, rendono più abili alla
vita col suo opulento banchetto di potenzialità…
Che cos'è un Rapporto?
Il rapporto è sempre un processo…e un processo delicato.
Parte dalle paure ancestrali, le cui tracce rimangono filogeneticamente e ontogeneticamente dentro di noi, e si manifesta con un improvviso, incontrollato bisogno di aggredire, di
difendersi…fino ad uno similbiologico bisogno di divorare, di possedere l'altro che incontriamo, magari per conoscerne la pericolosità, magari per impadronirci di ciò che lui ha e
che noi..no…
Paura, difesa, possesso…sono parole che riguardano una elementarità umana, non solo
preistorica, ma anche neonatale, riguardante, cioè, i primissimi stati neonatali dell'individuo, quando i sentimenti sono fatti da bisogni esagerati e l'amore non è che divorare,
possedere, ingurgitare…ed espellere…senza codice morale. Senza rimorso, possiamo dire.
Eppure è nel Rapporto che si diventa UMANI.
Si acquisisce l'umanizzazione degli istinti e la moralizzazione delle pulsioni nell'ambito di
un rapporto con la madre-ambiente, che è colei che aiuta a elaborare le paure impensabili
dei primi tempi di vita e trasforma, lentamente, con le sue specificità di holding, di stabilizzazione, di risposta adeguata, di contenimento, di rêverie, quelli che sono gli irruenti bisogni istintuali…prima in pulsioni umanizzate (adeguate cioè ad essere movimenti di persona fra persone,capaci di volontà e sentimenti..), e, in seguito, in desideri.
È lì che il neonato si trasforma in "cucciolo d'Uomo"; da indistinta tensione alla sopravvivenza al desiderio di vita. Più avanti…al desiderio di "quale vita".!
L'ambiente-madre pone un modello di rapporto, ma insegna anche l'autonomia e quindi
propone strategie per un futuro di maturità e di indipendenza così che il Rapporto diventerà
ben presto "il tappeto verde" che ognuno stende fra sé e l'altro.
Su quel tappeto vengono giocate le biglie di ognuno nei modi più diversi e colorati,nelle
traiettorie più semplici e complesse, per farne coniugazioni di sentimenti e/o di obiettivi.
Vi si giocano categorie di fascino e seduzione, di somiglianze e di differenze, di attrazione
e repulsione,di utile e di molesto. Si susseguono movimenti di avvicinamento….fino alla
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dipendenza e al soffocamento, ad altri di allontanamento e di bisogno di libertà…fino al
senso di abbandono e di espulsione…Il mistero e la conoscenza hanno un'importanza determinante così come il senso del potere e dell'impotenza…
Sul tappeto si gettano le biglie. È un gioco. Un gioco della sopravvivenza e per la sopravvivenza, dove, però, tutto il potenziale umano con la sua mente e le sue funzioni gioca fra
illusione e realtà in una coniugazione all'insegna della fantasia e del pensiero, della ragione
e di quella follia che si chiama "creatività" (a volte il prodotto è un quadro, un'impresa,a
volte è un bambino!).
Si può capire anche come possa essere molto costruttivo, oppure anche molto distruttivo.
Quando le biglie stesse fossero oggetti scissi, quando i colori fossero luttuosi, o le seduzioni incestuose, o ancora gli obbiettivi fossero esageratamente famelici…il gioco diventerebbe cannibalico, alienante, annientante…nella migliore delle ipotesi…inutile.
Per scendere su un campo più concreto pensiamo il rapporto…come uno scambio di oggetti. (mentali,naturalmente!). Sarà la sanità del rapporto che misura le distanze, l'intensità, la
reciprocità e la positività dei risultati. Uscendo dalle sfere degli affetti intimi, nei quali non
sempre gli scambi sono misurabili e a volte la positività è riscontrabile anche nella irrazionalità degli scambi di piccole o grandi parti folli, appena l'individuo si allontana da essi,
incontra il sociale con le sue organizzazioni, le sue richieste, le sue proposte. Diciamo che
l'amicizia è uno spazio intermedio fra scambi affettivi e scambi di valore sociale, dove si
colloca la professione, la politica, la cooperazione, ed è una specie di area transizionale in
cui si modulano distanze e significati che vanno da un'amicizia “del cuore”, cronicizzata,
indelebile…a quel tipo di amicizia più normalmente fruibile nei campi del quotidiano all'insegna del mutuo soccorso, del riconoscimento o della partecipazione ludica.
Come si può intravvedere..la distanza aumenta, si possono modulare e soprattutto controllare i significati delle biglie, così da ottenere una certa stabilità di tempi e di qualità.
Nell'ambito del lavoro si mettono parti stabili, creative, prevedibili di sé, quelle parti che
hanno a che fare con l'Io e con i suoi meccanismi di adattamento e fruizione dell'ambiente,
quelle parti che in un gioco ben organizzato permettono alla persona di sviluppare le proprie potenzialità, di esibirle in modo da permetterne l'uso e infine di permettere anche all'altro suo interlocutore di esprimersi al meglio. Non vogliamo qui né valutare, né trascurare le patologie che possono emergere in ciascuna delle nostre ipotesi.
Ci interessa la creatività, la salute dei processi umani…il rapporto che faccia crescere le
persone ai due lati del tappeto e le faccia sentire soddisfatte di sé, dei propri movimenti e
partecipi di una evoluzione umana che possa anche trascendere l'individuo. (cosa del resto
del tutto ignota ed estranea ai viventi della nostra epoca!)
Il rapporto, dunque, è quel movimento evolutivo, a spirale, che permette il nascere della
poesia, della scienza, della filosofia…della vita.
Ed è "la qualità" del rapporto quello che permette la crescita.
Per questo motivo ci diventa importante qualificare bene i nostri rapporti e, per qualificarli,
capirli, chiarirli, definirli con quel potere della parola che descrivendo crea.
Quale rapporto per il tutor?
Per quel che riguarda il rapporto dello studente con tutta la sua serie di referenti…siano essi genitori, o amici o insegnanti o datori di lavoro…la vaghezza e la confusione è ancora
grande.
Scegliere di fare il tutor diventa un'occasione per definirsi anche psicologicamente,e non
solo o, non tanto assumendo responsabilità, ma anche per scegliersi come persona con un
compito preciso che, dandosi la possibilità di crescere, riesce anche a collocarsi in un ambito socialmente descritto.
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Potremmo dire "a un terzo di strada sulla via dell'amicizia….e a due terzi su quello del lavoro!"
Ma già in questa apparentemente semplicistica dichiarazione scopriamo le difficoltà che
emergono da una situazione relazionale che rischia di mescolare affetti e necessaria distanza in un ruolo che è nato senza troppe attenzioni ed è stato portato avanti con la buona volontà dei partecipanti.
Diventa perciò importante definire gli ambiti di intervento, le modalità comportamentali, la
capacità professionale di svolgere un compito senza impedire agli slanci di simpatia di diventare empatici, ma nello stesso tempo, frenando tutti quei sentimentalismi pseudoterapeutici che portano a mescolanze confuse di istanze e di obiettivi e rischiano di essere al
servizio dell'egoismo più che a quello della collaborazione.
Il tutor, quale persona che aiuta a trasmettere sapere utilizzando schemi comunicativi vari e
differenti è una persona attiva e attenta alle funzioni del pensiero e ai suoi risultati. Mette
sul tappeto verde della relazione la simpatia, il feeling, la sintonia degli obbiettivi, la capacità di stimolare e lasciarsi stimolare sulle sfide del lavoro comune.
Là, dove la persona che si fa aiutare è una persona diversamente abile e integra nel suo
concetto di sé, il compito è facile, costruttivo ed edificante per entrambe le parti.
Può accadere, però, che si ponga la domanda di Quale rapporto? quando uno degli interlocutori esprima nel suo lavoro anche parti mancanti di sé, o parti eccessivamente dipendenti. o parti manipolative, ovvero distorte o perverse, o di qualsiasi altra natura che possa aver a che fare con eccessive necessità affettive, morbosità di schemi relazionali, difficoltà
di interazione.
In questi casi si chiama l'attenzione sulla necessità di ridefinire i confini dei ruoli, di ristabilire le posizioni di partenza e gli obbiettivi, e di mantenere sotto controllo quello che appartiene ad aree di intimità, distinte dalle aree lavorative. Nella relazione in cui uno dei
membri presenti una qualche patologia del sentire o del comportamento si rischia di creare
una "follia"di caduta in quello che è il vortice più debole.
Si chiama collusione e qualifica fortemente sia il rapporto che il lavoro che ne deriva, arrivando anche a creare spirali più ampie di difficoltà che vanno a coinvolgere il mondo circostante, primi di tutti…gli insegnanti e l e famiglie, cioè tutta l'area della cosiddetta"ferita
narcisistica".
L'area della ferita narcisistica
In psicologia dinamica si chiama "fase narcisistica" quella che nella storia evolutiva del
bambino descrive l'età dell'affermazione di sé, del suo scoprirsi se stesso nella identità di
genere, sessualmente connotato, capace di dire sì e di dire no e di riconoscere il proprio
nome e la sua appartenenza alla famiglia come tratti di grande fierezza: cioè l'età dei tre
anni.
Narcisismo primario, secondo Freud importante e necessario per consolidare un primo nucleo stabile e consapevole della personalità.
È l'età in cui il bambino si piace e sa di piacere ai suoi genitori…in cui si riflette completamente…da qui il termine di narcisismo.
È presumibilmente in questa fase che il bambino vive la sua interezza, su di sé e negli occhi della sua famiglia. Ne trae motivo di orgoglio, per il solo fatto di essere e di sentirsi
confermato, tanto da percepire uno stato euforico di onnipotenza che lo porta ad aderire
con entusiasmo e gioia all'imperativo della crescita
A volte, però, nei drammi della vita, i giochi incappano in qualche specchio rotto….cosicché un qualsiasi deficit nell'interezza risulta pesantemente puntualizzato, non
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tanto nel sentimento di sé…ma purtroppo nel feedback ch'egli ne ha dallo sguardo genitoriale…cosicché in un perverso giro vizioso, il sentimento di sé stesso, ne viene intaccato.
Si forma un giro di sguardi e controsguardi pieni di ansia, di attenzioni, di aspettative, carico anche di sentimenti di colpa e di proiezioni all'esterno, che incapsulano questo sorridente mondo di vita, in un'atmosfera di dubbio o, peggio, di mortificazione.
La crescita del bambino e tutti i suoi rapporti intorno a lui, così come i suoi schemi comportamentali e sentimentali ne vengono influenzati…a volte in maniera blanda, a volte in
modo sotterraneo, (ma non per questo meno condizionante!), a volte in modo drammatico
con una malsana assoluta speranza di…"perfezione"! Si va a definire un'area dentro la quale la richiesta primaria non sarà il benessere o la fruizione gioiosa dell'occasione-vita…ma
diventerà "il problema" e la sua soluzione…Un limite che connoterà i partecipanti di una
totale dipendenza e di un senso distorto delle priorità. La chiameremo area "della ferita
narcisistica"…poiché il narcisismo vi è stato ferito e perché vi si rifiuta la cicatrice in cambio di un'assoluta "guarigione".
Lavorare con persone che sono in qualche modo, anche se in minime intensità, implicate
dentro le problematiche dell'area della ferita narcisistica comporta risvolti di grande difficoltà di gestione e, spesso, di un serio faticoso senso di "impotenza".
Conoscere il problema è la prima tappa fondamentale.
Avere dimestichezza con i concetti dipendenza/autonomia…permette di non cadere nei
giochi sterili di quest'area, dove si rincorrono atteggiamenti di false timidezze, onnipotenze, vittimismi, e pigrizie agite sotto forma di seduzioni.
L'affettività porta a stati regressivi e quindi alieni dall'impegno e dagli interessi per il lavoro e lo studio, per cui è importante stabilire su quali piani si stabiliscono le amicizie e su
quali obbiettivi.
Anche la tensione alla corporeità, all'avvicinamento, alla fusionalità è una caratteristica di
alcuni tipi di personalità dipendenti., ma la corporeità trasforma i vissuti e li porta su parametri poco ancorati all'impegno intellettivo….tranne che nei casi in cui proprio la corporeità non possa farsi tramite di un qualche nuovo tipo di comunicazione.
Diffidare dei rapporti simbiotici che portano al soffocamento e in via di massima SEMPRE
CERCARE DI FARE UN PROGETTO insieme e di stare sul progetto e sulle sue finalità,
aiuta enormemente il lavoro.
Si deve porsi in modo riflessivo e progettuale davanti ai tappetini della vita: pensare allo
scambio con convinzione, alle occasioni di esperienza di sé, prima di tutto, nei progetti; di
quanto si impari attraverso l'osservazione, il rigore, l'empatia e la conoscenza dei propri
limiti; senza troppe euforie, senza troppe delusioni…pensando che c'è sempre un supervisore in ogni lavoro e che chiedere aiuto è un segno di grande intelligenza.
La gestione e la fruizione di un'area così complessa ha bisogno del lavoro di ricerca, di impegno, di collaborazione di un intero gruppo, in cui non debba accadere di sentirsi soli.
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Il Servizio per adulti con Ritardo Mentale all'interno
del Dipartimento di Salute Mentale. L'integrazione tra servizi
e la formazione: strumenti per abbattere gli stereotipi
Anna Maria Agostini, Daniele Marchetti
AUSL di Rimini
Si intende descrivere una esperienza di integrazione tra il Modulo Organizzativo denominato Servizio Integrato Disagio Psicosociale e Disabilità Mentale che si occupa di adulti
con R.M. l'Unità Operativa di Neuro psichiatria Infantile e i Centri di Salute Mentale.
Tale integrazione è favorita dall'organizzazione del DSM dell' AUSL di Rimini che vede
dal 2001 il MO che si occupa di persone adulte con R.M. collocato all'interno del Dipartimento stesso. L'appartenenza allo stesso Dipartimento facilita i processi di continuità progettuale sia in senso verticale: dall'età evolutiva (NPI) all'età adulta (MOSIDP/DM) ed in
senso orizzontale con il CSM in relazione alle patologie psichiatriche associate al RM.
Eventi formativi condivisi, scambi e confronti tra servizi, consulenze reciproche hanno reso possibile una modificazione degli stereotipi che spesso accompagnano il RM, un miglioramento delle relazioni tra operatori, la collaborazione e la gestione comune dei casi
più problematici. In tal modo è stato possibile realizzare:
a) Progetti condivisi e coordinati che prevedono interventi socio-sanitari integrati.
b) Passaggio programmato e monitorato dalla U.O. di NPI al servizio per adulti MOSIDP/DM
c) Cogestione di pazienti particolarmente problematici con CSM
d) Collaborazione con Centro Autismo che, pur essendo collocato nell'ambito della NPI,
nella nostra Azienda svolge attività di consulenza e valutazione anche sugli adulti
Gli eventi formativi hanno inoltre visto la partecipazione delle varie componenti che si occupano della disabilità mentale, con gli operatori dei i servizi dell'AUISL hanno partecipato operatori degli enti locali, del privato sociale, degli enti formativi, del mondo della cooperazione e dell'associazionismo. La collaborazione ha permesso di moltiplicare le proposte e le iniziative formative organizzate dalle singole componenti ed estese a tutte le altre
creando una cultura condivisa sul RM
Quale formazione è utile agli insegnanti di sostegno?
Maria Assunta Barbieri; Giacomo Guaraldi
SSIS-Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
La Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento nella Scuola Secondaria dell’Università
di Modena e Reggio Emilia da ormai otto anni forma anche i docenti di sostegno alle classi
nelle quali sono inseriti studenti disabili. Nel tempo gli insegnamenti dei corsi non si sono
mantenuti immutati ma sono stati rivisti e modificati allo scopo di renderli sempre più rispondenti ai bisogni formativi degli specializzandi e ai cambiamenti che la scuola viveva.
Ultimamente è stato approntato un questionario che viene somministrato alla fine di ogni
corso in cui si richiede di valutare l’adeguatezza della proposta formativa.
I risultati dei questionari sono l’oggetto di questo intervento.
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La Formazione degli Operatori nelle Aziende Socio-sanitarie
P. Vescovi, V. Pederiva, P. Piazza
Azienda ULSS 7 - Pieve di Soligo (TV)
In questi ultimi anni il panorama della definizione delle competenze necessarie allo svolgimento di un determinato lavoro è profondamente cambiato, sia nel privato sia nel pubblico.
Nel Servizio Sanitario Pubblico il cui valore è rappresentato dall’assistenza, dalla cura e
dalla prevenzione, l’ambito delle competenze e in particolar modo delle “nuove” competenze ha assunto dimensioni notevoli, il più delle volte di difficile governo (management).
Le modifiche organizzative e le dimensioni delle aziende sociosanitarie ed il territorio su
cui hanno impatto, nonché la considerazione che l’utente va considerato anche stakeholder
o “cittadino”, ci portano a dover tenere in considerazione che il “sapere” richiesto agli addetti ai lavori, non sia solo di ordine professionale, ma anche politico, di ascolto, e di governance.
In questo contributo si vuol mettere in evidenza come il processo di gestione delle risorse
umane all’interno delle Aziende Socio Sanitarie vada quindi ripensato:
- La formazione all’interno dei Servizi che forniscono forme di assistenza socio sanitaria ai
Disabili Intellettivi nelle Aziende ULSS, deve necessariamente tenere conto della necessità
che l’operatore che interviene, sia a conoscenza non solo del proprio ruolo professionale e
delle modalità di azione dello stesso, ma anche del contesto di gestione in cui è chiamato a
rispondere;
- La formazione raggiunge il suo scopo principale all’interno dell’Azienda Socio Sanitaria,
nel dare maggiori competenze, nuovi strumenti di lettura e analisi delle stanchezze, non solo degli utenti e delle loro famiglie, ma anche degli operatori stessi, ridando “ossigeno” agli
operatori, ed evitando il burn out tipico della professione.
- La formazione per gli operatori che lavorano con i soggetti gravissimi non può prescindere
anche dal confronto con altri operatori che lavorano nelle medesime situazioni: confronto
che permette uno scambio di conoscenze ed un patrimonio di esperienze da condividere per
affrontare situazioni relazionali simili, con atteggiamenti e strumenti comunicativi costruttivi e non difensivi.
- La formazione degli operatori necessita di una misura dei risultati e va “ri-tarata” in termini di valutazione della efficacia degli eventi formativi.
In riferimento ai processi di aziendalizzazione delle Aziende Sanitarie, infine, verranno analizzate alcune esperienze in cui la “job description” e lo sviluppo delle competenze sono
state analizzate in funzione del raggiungimento degli obiettivi del Servizio.
La definizione di “Job description” favorisce la piena consapevolezza della propria responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi del Servizio.
La conoscenza della organizzazione di base dell’Azienda e del Servizio in cui si opera, la
chiara coscienza relativa alla “job description”, unita all’analisi dei bisogni formativi in relazione al raggiungimento degli indicatori del processo, dovrebbe permettere il raggiungimento di un buon funzionamento lavorativo, su cui diventerebbe poi fondamentale legare la
contrattazione in termini di incentivi. La formazione, infatti, per essere più incisiva, oltre
che tarata in termini di efficacia degli eventi formativi e misura dei risultati, dovrebbe essere legata alla contrattazione, e possibilmente unita al sistema incentivante.
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SIMPOSIO 3
Il gruppo di auto-mutuo aiuto come strumento per promuovere
le autonomie quotidiane
Genitori dell'Associazione “Crescere Insieme” di Rimini
Il gruppo di auto-mutuo aiuto, composto da genitori dell'Associazione Crescere Insieme
che si incontrano mensilmente in presenza di un facilitatore, è nato nei primi mesi del
2006. All'interno della Associazione, infatti, alcuni genitori hanno avvertito l'esigenza di
trovare uno spazio per incontrarsi, discutere delle piccole e grandi difficoltà della vita quotidiana, scambiarsi esperienze e consigli, talvolta dare sfogo ad amarezze e frustrazioni; si
trattava di costituire un gruppo attento alle necessità dei singoli e alla riflessione sui problemi, al di là all'attività amministrativa e organizzativa che richiedeva, giustamente, tanto
lavoro e tanto tempo all'interno della vita dell'Associazione. Il gruppo AMA (di automutuo aiuto), una volta avviato, ha lavorato in parallelo su due livelli:
• lo scambio, la condivisione, il confronto fra genitori sui tanti problemi, domande,
desideri, strategie, che hanno come oggetto la promozione della massima
autonomia possibile, in casa e fuori casa, e la ricerca dell'integrazione e
dell'inclusione.
• talvolta i genitori hanno avvertito l'esigenza di approfondire alcune tematiche
invitando esperti che potessero aiutarli a conoscere e discutere alcuni argomenti
specifici: ad esempio, le buone prassi della vita quotidiana per favorire le
autonomie di base. Inoltre il gruppo AMA si è fatto promotore di una serie di
incontri sui percorsi di autonomia nell'età adulta, invitando esperti quali Lepri,
Contardi, Sechi che hanno illustrato il loro metodo e che hanno permesso
all'Associazione di elaborare e realizzare progetti che su questi metodi si fondano.
Anche i rapporti attivati tra il gruppo e il reparto di neonatologia di Rimini hanno
stimolato la realizzazione di iniziative e approfondimenti.
Weekend: primi passi verso l'autonomia abitativa
Il gruppo Indipendente-mente nasce a Rimini il 7 febbraio 2007 grazie all’associazione
“Crescere insieme” in collaborazione con l’Azienda U.S.L.
La metodologia e la struttura dei gruppi fanno riferimento al lavoro della dott.ssa Anna
Contardi, assistente sociale che per prima ha lavorato con ragazzi disabili a proposito della
conquista delle autonomie.
Il progetto vede come protagonisti ragazzi con disabilità con l’obiettivo di raggiungere
competenze e autonomie con il supporto degli educatori.
Il percorso verso l’autonomia prevede anche dei week-end, progettati per verificare ciò che
i ragazzi hanno appreso o stanno apprendendo. Il metodo e l’organizzazione di tali weekend fanno riferimento al lavoro svolto dalla dott.ssa Diana Sechi di Bologna.
La concreta realizzazione del progetto dei week-end di autonomia sarà documentato attraverso la proiezione di un video.
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Pensarsi autonomi
Enrico Savelli
Associazione Crescere Insieme
Il tema dello sviluppo delle autonomie nelle persone con sindrome di Down viene esaminato alla luce delle migliorate prospettive di vita ed educative in seguito alla legge sull'integrazione scolastica di alunni con handicap. Oggi molti ragazzi con sindrome di Down
raggiungono buoni livelli di autonomia nelle attività quotidiane e negli ambienti a loro familiari e raggiungono le competenze scolastiche di base inerenti la lettura, la scrittura e il
calcolo.
Viene esplorata la possibilità di fare un ulteriore passo in direzione dell'autonomia cognitiva, il cui principale ingrediente sembra essere quello legato alla capacità decisionale. Vengono indicate alcune strategie per sviluppare questa abilità, già a partire dai primi anni di
vita.
Progetti di vita autonoma nelle due case scuola Viola e Gialla
Patrizia Frilli
Presidente Associazione Cui I Ragazzi del Sole - Scandicci (Firenze)
Il percorso di quasi tutte le famiglie dei disabili è molto simile: la scoperta della disabilità,
i tentativi di possibili terapie, le continue sofferenze per problemi che, apparentemente piccoli, vengono ingigantiti dalla particolare situazione.
Non va mai dimenticato che, per i disabili, gli atti elementari del vivere quotidiano sono
spesso oggetto di una conquista lunga e faticosa e non sempre i traguardi sono raggiungibili.
Quando la situazione apparentemente si stabilizza, subentra l’ansia per il futuro. Il timore
che alla scomparsa del nucleo familiare si perda quanto è stato acquisito, con drastica riduzione della qualità di vita e perciò si ipotizza una futura residenzialità per i disabili non certo con ricoveri in istituto.
Prima di pensare al Dopo di noi è bene preparare Durante noi i diversamente abili ad essere autonomi, per quanto nelle loro possibilità, ed abituarli a un distacco dalla famiglia
che ci auguriamo lontano, ma inevitabile. Contemporaneamente si potrà dare anche risposta o sollievo ad emergenze familiari.
Il distacco deve essere graduale e non traumatico, sia per il disabile che per la famiglia,
prevedendo in alcuni casi anche una preparazione psicologica.
Il disabile, staccandosi dalla famiglia, avrà modo di sviluppare percorsi di autonomia e di
stimolo in attività pratiche rivolte alla cura della persona e dell’ambiente, oltre al confronto
con gli altri compagni ed imparare così la convivenza in un ambiente comune.
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Adolescenza come trampolino di lancio per l’autonomia
Silvia Coltri
Psicologa, socia S.I.R.M.
Durante la fanciullezza (0-12 anni) prevale la spinta sia all’esplorazione del Sè, delle proprie capacità e dei propri limiti sia, collateralmente, alla conoscenza del mondo come entità
e anche come contesto. Il periodo di latenza delle pulsioni sessuali (6-12 anni), contemporaneamente allo sviluppo delle tendenze alla socializzazione, facilita questa esploratività.
In questo periodo chi educa agisce prevalentemente come guida. Durante l’adolescenza
(12-18 anni) l’impulso ad esplorare si coniuga con le nascenti e tempestose esigenze di
sondare le sensazioni fisiche e appropriarsi delle ri-nascenti tendenze sessuali con riattivazione della sessualità. Collateralmente, la socializzazione oscilla tra l’egocentrismo (tipico
dei primi anni di vita) e l’allocentrismo (specifico della seconda parte della fanciullezza e
della prima adolescenza) fino all’iniziale sviluppo (nella tarda adolescenza) delle valenze
sociocentriche. Questo è il periodo in cui chi ha compiti educativi si trova a dover funzionare spesso come contenitore e propositore.
Nello specifico l’adolescenzialità si distingue per: 1- Accentuata esploratività; 2- Aggressività; 3- Voglia di cambiamenti; 4- Voglia di apprendimento; 5- Implicazioni di alto desiderio di gestionalità.
Nel cercare di acquisire un proprio ruolo, quali sono i risvolti problematici per un disabile
durante il passaggio dall’adolescenza all’età adulta?
1) raggiungimento di una adultità quanto più adeguata e ragionevole possibile commisurata ai suoi deficit;
2) stabilizzazione in un ruolo piuttosto labile di adulto, con difficoltà di vario genere da
gestirsi in qualche modo;
3) sviluppo di sintomatologia quale risultanza di sentimenti poco o per nulla espressi (dolore, rabbia e invidia) oppure traumi non superati o difese approssimative contro la sofferenza legata ai life-events.
Affinché avvenga il passaggio dall’infanzia all’età adulta è necessario che dentro
all’adolescente scattino tre timers di carattere diverso: biologico, emozionale ed economico
Nel caso in cui l’adolescente sia portatore di disabilità intellettiva e/o psichica il primo
timer si attiva come per gli altri normoabili. I problemi sorgono lungo il processo che dovrebbe portare all’accendersi del secondo timer e si riferiscono alla capacità orgasmica
che fa fatica ad essere compresa ed acquisita, sia a livello della capacità di sublimazione
che rimane un obiettivo difficilmente raggiungibile, soprattutto se il contesto continua ad
essere infantilizzante. I problemi più importanti si pongono con il terzo timer mano a mano che le famiglie non si sentono più in grado di supportare il ragazzo in tutta una serie di
grandi e piccole necessità connesse ai bisogni della sua crescita nella quotidianità. Ogni disabile mostra, soprattutto in età evolutiva, una “vulnerabilità psichica” che è da mettere
in relazione con aspetti di tipo organico, psicologico, relazionale e sociale. Questa vulnerabilità è particolarmente caratterizzata dalla suscettibilità a risentire in modo eccessivo
dell’esposizione ai life-events che sembrano essere particolarmente patogeni soprattutto
per particolari temi e nei confronti di specifici sviluppi psicopatologici. Ritornando al concetto della fatica che un adolescente compie a livello psicologico per diventare adulto, è
evidente che, in questa specifica fase di transizione della vita, una particolare vulnerabilità,
quale è quella riscontrabile nel disabile lungo tutto l’arco della sua vita, risulta particolarmente presente proprio nel periodo dell’adolescenzialità che, nel disabile, può essere anche
particolarmente protratto.
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SIMPOSIO 4
Partecipazione a una Ricerca nella Comunità:
una esperienza di Self -Empowerment di famiglie di persone
con disabilità intellettiva
Anna Messori e i genitori del Progetto di Ricerca “Rafforzamento del self-management
nelle famiglie di persone con disabilità intellettiva”
Il progetto “Rafforzamento del self-management nelle famiglie di persone con disabilità
intellettiva” è stato presentato alla Comunità di Reggio Emilia nell’ottobre 2003; è stato
organizzato un Congresso Scientifico della durata di un giorno; in questo Congresso è stato
illustrato il documento ICCC (Innovative Care for Cronic Conditions) ed è stata dichiarata
alla Comunità locale l’accordo tra OMS, Università di Modena e Reggio Emilia, Azienda
Unità Sanitaria Locale e Associazione dei Genitori per la realizzazione di una ricerca sugli
effetti della applicazione del documento ICCC alla condizione della disabilità intellettiva.
Nel dicembre 2003 è stato elaborato il piano operativo della ricerca che prevede queste fasi: 1. studio delle storie di vita delle famiglie interessate al progetto; 2. individuazione dei
parametri per la valutazione degli esiti della ricerca; 3. formazione dei genitori; 4. formazione del personale AUSL; 5. formazione dei coordinatori dei focus group; 6. attuazione
dei focus group / monitoraggio della ricerca per due anni; 7. descrizione dei risultati della
ricerca.
Risultati
Per quanto riguarda la fase 6 sono stati organizzati 3 focus group; i genitori coinvolti sono
stati 26; le sedute di ogni gruppo sono state 4 distanziate di un mese; l’argomento generale
è stato una riflessione sulle necessità assistenziali e sulle opportunità necessarie allo sviluppo nelle diverse fasi della vita; è stato scelto come guida della discussione l’elenco dei
sostegni secondo la AAMR (2002); il primo incontro è avvenuto alla fine di gennaio 2007.
I tre gruppi dei genitori hanno elaborato, ognuno in modo indipendente, tre documenti.
In una riunione appositamente dedicata i genitori e i membri dello staff di ricerca hanno
analizzato i tre documenti secondo uno schema che ha classificato i punti critici della assistenza secondo: a. la agenzia a cui è rivolta una richiesta di soluzione – servizi sanitari, sociali, volontariato, scolastici -; b. il livello di elaborazione richiesto dalla soluzione della
criticità – organizzativa, concettuale, innovativa -.
Successivamente i contenuti dei tre documenti sintetizzati secondo lo schema descritto sono stati presentati ai responsabili delle agenzie della comunità locale, ai rappresentanti del
volontariato e del mondo della scuola; a tutti è stato chiesto l’impegno ad una collaborazione costruttiva per la individuazione delle soluzioni possibili.
Conclusioni
La ricerca ha evidenziato che genitori formati e motivati sono in grado di identificare con
puntualità gli aspetti critici della assistenza.
Questa identificazione potrebbe essere un fattore potente di accelerazione di un cambiamento mirato all’aumento della Qualità della Vita e della efficacia delle prassi assistenziali.
L’aspetto problematico è che la costruzione di una collaborazione fattiva è molto lenta nella modifica delle dimensioni più concrete della assistenza.
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La partecipazione alla ricerca ha promosso, comunque, nei genitori una percezione di sé
come membri in grado di partecipare in modo attivo ai tentativi di cambiamento organizzativo della assistenza -aumento dell’empowerment personale-.
Bibliografia
Ruggerini, C., Dalla Vecchia, A., Manzotti, S., Beneventi, F., Covati, K., The selfmanagement enforcement program for families in Reggio Emilia all’incontro AIFO/OMSDAR “New paradigm of medical care for persons with disabilities”, Roma, 10-12 dicembre
2007, Atti sul sito www.aifo.it/english/proj/aifo-who/index.htm
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Empowerment
Rossana Gombia
Empowerment è un costrutto complesso che indica l'insieme di conoscenze, competenze,
modalità relazionali che permette ad individui e a gruppi di porsi obiettivi, di elaborare
strategie per raggiungerli, utilizzando risorse esistenti.
La Piccardo (1995) evidenzia che questo concetto è presente a partire dagli anni '60 in diverse aree: politica, pedagogica, medica, aziendale, psicologica.
In politica si parla di azione informativa e formativa per favorire l'accesso alle risorse da
parte delle fasce deboli della popolazione, di aumento di competenze, di assunzione di responsabilità che permettano di dominare gli eventi, di partecipare alla vita della Comunità.
L'empowerment politico è quindi la capacità di ripensare varie dimensioni della vita sociale stimolando l'impegno attivo delle persone e ampliando le possibilità di influenzamento
sulle decisioni.
Nella pedagogia degli adulti si fa riferimento alla formazione permanente che aumenta la
capacità di costruire continuamente la propria cultura, di saper elaborare, alla luce di esperienze lavorative pregresse nuove conoscenze, valorizzando la propria professionalità.
In ambito medico ci si riferisce allo sviluppo di una nuova relazione medico-paziente fondata sulla promozione di autocontrollo e della responsabilità nella gestione della cronicità e
dei decorsi post- operatori, nell'incentivazione di stili di vita sani, salutogeni.
Nel settore aziendale si individuano parole chiave quali partecipazione, responsabilizzazione, coinvolgimento, autostima, leadership empowering, per cui ciascun collaboratore
viene aiutato a divenire più consapevole e più autonomo.
In psicologia è soprattutto la Psicologia di Comunità che pone l'accento sull'empowerment
avendone fatto un obiettivo dei suoi interventi.
Per Francescato (l996) l'empowerment è un concetto ponte fra privato e pubblico "obiettivo e processo cui si arriva tramite auto-aiuto (che responsabilizza e valorizza il singolo e la
sua libertà) e varie forme di sostegno e di opportunità sociali (che riconoscono l'importanza
delle relazioni interpersonali e delle opportunità ambientali). Supera almeno in parte le divergenze tra coloro che privilegiano la libertà individuale e coloro che sottolineano l'importanza cruciale della giustizia sociale, cioè della presenza di opportunità sociali equamente accessibili".
Empowerment è un termine pressoché intraducibile in italiano per cui diversi autori hanno
preferito conservare la dizione inglese pur effettuando una sorta di spiegazione con frasi o
sinonimi. Potrebbe essere reso con "potenziamento, condizione, delega e trasferimento del
potere, apertura a nuovi mondi possibili, responsabilizzazione, aumento di capacità, sviluppo di potenzialità" (Piccardo 1995) "impoteramento, possibilizzazione, aumento delle
possibilità" (Bruscaglioni 1994) "responsabilizzazione tramite la piena valorizzazione del
contributo di coloro che operano in una organizzazione" (Scott, Jaffe 1991); "acquisizione
di potere" (Francescato 1996).
Più che su una possibile traduzione italiana del tutto inessenziale, può essere utile soffermarci su alcuni elementi: empowerment indica sia un concetto (insieme di conoscenze,
competenze, modi di essere) che un processo (percorso che permette di acquisire responsabilità, scegliere raggiungere gli obiettivi. Contiene il termine power, ma ciò non significa
che si riferisce al "potere" tout court, secondo l'accezione comune, ma ad un potere positivo, improntato ad emancipazione, crescita, solidarietà. Non è un concetto globaleesistenziale (Bruscaglioni 1994) pervasivo per cui si è empowered una volta per tutte, ma è
una costruzione, un cammino che contribuisce ad alimentare la speranza del futuro e a per-
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cepire se stesso come persona che può cimentarsi, riuscire nei suoi obiettivi e arricchire
sempre il proprio empowerment.
Empowerment e teorie di riferimento
L'empowerment è un costrutto comune a diverse teorie: Psicologia di Comunità, Psicologia
Umanistica, Psicologia della Salute, Psicologia delle Organizzazioni.
La Psicologia di Comunità ha ampiamente lavorato su questo costrutto, facendone uno degli obiettivi della propria operatività e attribuendogli una rilevanza sociale emancipatoria
in quanto riferito soprattutto a fasce deboli dei vari contesti sociali e finalizzato ad una valida interazione individuo-ambiente.
Già la Iscoe (1974) identifica tre fattori per aumentare l'empowerment della comunità:
−
il potere di generare alternative e opportunità;
−
la conoscenza di dove e come ottenere risorse;
−
l'autostima in termini di orgoglio, ottimizzazione e motivazione.
Troviamo in questi tre elementi i fattori basilari per accrescere partecipazione, coinvolgimento, solidarietà tra appartenenti ad una Comunità, per migliorare la qualità della vita ed
aumentare la capacità di fronteggiare consapevolmente le situazioni esistenziali (Francescato, Ghirelli 1988).
Levine e Perkins (1987), Rappaport (1981), Kieffer (1982) hanno definito l'empowerment
come un processo tramite il quale gli individui accrescono le possibilità di controllare la
propria vita tramite la padronanza di abilità e capacità che rafforzano il senso di sé, facilitano una comprensione critica della realta sociale in cui si opera, stimolano la elaborazione
di strategie adeguate per raggiungere obiettivi sia personali che sociali.
Zimmerman e Rappaport (1988) hanno studiato la relazione tra partecipazione alla vita della propria comunità ed empowerment personale. Hanno riscontrato nelle persone più impegnate socialmente un forte senso di auto-efficacia, competenza, consapevolezza di riuscire
ad influenzare gli eventi a livello politico, desiderio di agire per migliorare l'ambiente in
cui si vive.
Per gli autori l'empowerment potrebbe essere descritto come un nesso tra la percezione di
competenze personali e il desiderio e la volontà di agire nel territorio di appartenenza. È un
processo in cui si sviluppa padronanza e controllo della propria vita e si acquisisce la capacità di partecipare alla vita democratica della Comunità.
Zani (1996) evidenzia come uno degli obiettivi della Psicologia di Comunità sia lo sviluppo di contesti di vita competenti: "Ciò implica l'offerta e l'utilizzo delle risorse in modo da
accrescere la capacità dei membri di prendere decisioni ragionate sui problemi e di adottare
modalità adeguate per farvi fronte". Approfondisce la definizione data dal "Cornell Empowerment Group" sottolineando la particolarità di elementi quali:
−
l'intenzionalità del processo;
−
la sua contestualizzazione nella comunità territoriale;
−
la necessità del rispetto reciproco, fondamentale in un processo che presenta una
azione interattiva che potrebbe essere asimmetrica in quanto coattori sono operatori
e gruppi;
−
la partecipazione di gruppo che permette la condivisione e l'aiuto reciproco.
Per favorire lo sviluppo di empowerment la Psicologia di Comunità ha ipotizzato strategie
collocabili a diversi livelli. Le strategie elaborate sono Ricerca-azione, Profili di Comunità,
Analisi Organizzativa, Facilitazione dei gruppi di lavoro, Promozione dei gruppi di sostegno sociale e di auto-aiuto, Educazione socioaffettiva (Francescato, Putton 1995).
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La Psicologia della Salute considera l'empowerment un processo per costruire una nuova
cultura della salute che aumenti la consapevolezza che ciascun individuo può adottare quegli stili di vita che consentano di evitare rischi, di essere autonomi nella cronicità, di gestire
lo stress. Si tratta di uscire dalla dipendenza medico-paziente per entrare nell'ottica dell'autonomia e dell'autoregolazione.
I sistemi di autoregolazione possono essere considerati interconnessi a livello sociale, cognitivo e psicologico. Le tre dimensioni sottolineano il ruolo del contesto sociale nel mantenere abitudini e usi sulla salute, prevedono un collegamento fra i processi di autocambiamento e gli ambienti interpersonali e specificano le influenze macrososciali che potenziano il cambiamento personale (Craig K. Ewart 1991).
Si è evidenziato come per promuovere la salute sia necessario agire non solo a livello di
informazione, ma soprattutto di comportamenti, lavorando sui processi motivazionali al
cambiamento autoefficacia, obiettivi, locus of control, capacità creative di risoluzione di
problemi, processi di interazione sociale, comunicazione fra partners, supporto familiare e
amicale, influenza del contesto sociale tramite la promozione di gruppi di sostegno sociale
e di auto-mutuo-aiuto (Craig K. Ewart 1991, Bertini 1988, Francescato, Putton 1995, Zani
1996).
Ritroviamo il concetto di empowerment espresso come autorealizzazione, potenziamento,
“vita” piena nella Psicologia Umanistica. Le teorie di Maslow e Rogers vengono applicate
dal Movimento del Potenziale Umano che finalizza l'azione a sviluppare le più elevate capacità personali, sociali, politiche, etiche in centri di formazione quali ad esempio Esalen
in Californian Institute for personal Effectiveness.
Il potere per la Psicologia Umanistica è il potere dell'essere sull'avere, per cui, come auspica Fromm "si può costruire una società in cui si può essere molto anche se si è poco", in
cui i valori dell'amore, della libertà, della solidarietà superino atteggiamenti e comportamenti negativi (Fromm 1968).
Un altro umanista, Rollo May (1972) considerando il potere, ne propone una tipologia: potere negativo di sfruttamento e manipolazione, potere ambivalente di competizione (positivo se teso a migliorare l'individuo e le sue competenze, negativo se mirato a distruggere gli
altri) e potere interamente positivo di nutrizione che porta a far crescere umanamente e
professionalmente gli altri e di integrazione che è finalizzato al riconoscimento delle potenzialità proprie e altrui e alla interdipendenza.
Per la Teoria delle Organizzazioni il potere è stato ampiamente studiato: l'empowerment
dell'individuo diventa l'empowerment dell'organizzazione.
L'individuo empowered si prefigge scopi e obiettivi e si impegna a realizzarli, ha fiducia
nelle proprie possibilità, si sente in grado di influire sugli eventi della propria vita, non teme i cambiamenti ma li gestisce.
Nei contesti lavorativi riesce a condividere e a collaborare, a interagire e a interdipendere
contribuendo all'empowerment della intera organizzazione (Murrel 1985; Vogt, Murrel
1990). Prende iniziative, è disposto a correre rischi e a riconoscere gli errori, socializza le
conoscenze e le competenze, instaura relazioni interpersonali positive (Block 1987).
La leadership empowering stimola autonomia, responsabilità, decisioni condivise. Il leader
è un consulente dei suoi collaboratori, li fa crescere professionalmente, identifica i loro bisogni formativi, promuove relazioni efficaci, si impegna per il benessere delle persone e
delle organizzazioni (Vogt, Murrel l990; May, Kruger 1988; Scott, Jaff 1991; Peters 1987;
Putton 1996).
Il potere non è soltanto del leader ma anche dei gruppi, gli empowered work group (Piccardo 1995) sono formati sul presupposto che i lavoratori siano capaci di organizzare auto-
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nomamente il loro team prevedendone tempi e modi lavorativi, organizzando turni, riunioni, rapporti con altri gruppi avendo presenti gli obiettivi della strategia aziendale.
Empowerment è un costrutto ad alta valenza positiva, come evidenziano gli approcci che
ne hanno fatto oggetto di speculazione teorica. Purtroppo rischia anche di diventare di moda e di essere banalizzato. È importante quindi elaborare il senso profondo di questo concetto che sollecita individui e gruppi a non delegare ad altri il proprio destino, ad appropriarsi del diritto-dovere di inventare la propria vita, di considerare gli insuccessi come
momento di apprendimento, di leggere la realtà che ci circonda, di non perdere la speranza
in un futuro che anche noi, sia pure in base alle nostre possibilità, continuiamo a creare.
Empowerment è un pensiero, un valore individuale e sociale, un nuovo modo di sentire e
vivere la vita.
"Nonostante la diffidenza che circonda il concetto stesso di potere a causa dell'abuso che se
ne è fatto, il potere in se stesso non è né buono né cattivo. È un inevitabile aspetto di ogni
relazione umana e influisce su tutto, dalle nostre relazioni sessuali al lavoro che svolgiamo". Così Toffler (1991) inizia il suo libro Powershift in cui esamina la trasformazione
dell'essenza stessa del potere. Forza, ricchezza e conoscenza hanno costituito in passato la
natura del potere, oggi, in un'epoca di rapidi mutamenti e di tecnologie avanzate, il potere
sempre più diffuso sarà "umano", costituito da conoscenza, informazione, creatività, consapevolezza e coinvolgerà le qualità migliori di ogni individuo. In ogni ambito la vecchia
struttura del potere "sull'altro" si sta disfacendo e se ne delinea una nuova, di potere "con
l'altro". Ciò accade nella famiglia, nel lavoro e nel sociale. Nella famiglia in cui, pur nelle
diverse tipologie, si delineano nuovi ruoli maschili e femminili, improntati a collaborazione e a ridistribuzione dei compiti, e nuovi rapporti fra genitori e giovani adulti. Infatti i ragazzi, che per una molteplicità di fattori restano a lungo in casa, esigono una relazione caratterizzata da dialogo e negoziazione (Scabini 1995). Nel lavoro, in cui stanno sorgendo
nuove modalità operative e strategiche sia nelle attività autonome sia in quelle dipendenti.
Entrambe infatti richiedono ai lavoratori coinvolgimento, capacità di presa di decisione e
di risoluzione dei problemi, responsabilizzazione.
Nel sociale si va affermando la partecipazione: sorgono infatti iniziative di mutuo-aiuto. di
associazionismo, di volontariato, che dimostrano sia il desiderio di incidere nella società,
sia la diffusione di sensibilità solidale (Francescato, Putton 1995).
Questi non sono che segnali di tendenziale direzione di cambiamento verso il potere dell'essere, della progettualità, della relazione, della reciprocità. Cambiamento che può comunque evolversi o arrestarsi nello scontro con fenomeni di incapacità di leggere, interpretare, elaborare le mutazioni e le accelerazioni di una società estremamente complessa.
C’è una vastissima letteratura sulla leadership, soprattutto in ambito di Teoria delle Organizzazioni. Per Caprara (1996) la leadership è la capacità, di avere un ascendente tale sulle
persone da motivare, responsabilizzare e sviluppare strategie efficaci. Non è comunque determinata da attitudini innate, ma comprende competenze che si apprendono con la formazione e con la capitalizzazione delle esperienze. L’autore riporta le ricerche di Mc Call,
Lombardo e Morrison (1988) che hanno individuato nella leadership di successo quattro
capacità fondamentali: “la gestione tecnica(conoscenze tecniche e professionali, pensiero
strategico, capacità di assumere responsabilità), la gestione dei rapporti interpersonali (capacità di negoziazione, di collaborazione con pari e superiori, di gestione e soluzione dei
conflitti, di comprensione della prospettiva altrui, capacità di motivare e sviluppare i propri
collaboratori), i valori (capacità di prestare attenzione agli aspetti umani della gestione, di
riconoscere i propri limiti, di interpretare e promuovere una dimensione etica negli affari),
le qualità personali (capacità di mantenere la fiducia in se stessi, di confrontarsi efficacemente con le situazioni ambigue e le problematiche stressanti, di perseverare e mantenere
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l'autorità e il controllo delle situazioni nelle avversità), la consapevolezza e l'equilibrio
personale (capacità di armonizzare le esigenze della vita personale con quelle della vita
professionale, di dare il giusto peso alle proprie preferenze, alle proprie mete, alle proprie
debolezze, di riconoscere e cogliere le opportunità).” (Caprara 1995, pag. 242). Ci sembra
molto interessante nello scritto di Caprara un aspetto fondamentale: l’attenzione ai valori.
Infatti non ci sono strategie che siano veramente adeguate se a monte non c’è un sistema
valoriale di riferimento. I valori da perseguire sono quelli di ogni organizzazione tesa alla
qualità: rispetto e dignità dell’individuo, impegno lavorativo, responsabilità delle proprie
scelte e azioni, appartenenza, innovazione, iniziativa, lealtà.
La Piccardo (1995) riporta un contributo in cui si dice che un buon leader fa proprie due
responsabilità fondamentali: gestire i processi e guidare gli uomini, avere cioè le capacità
tecnico-professionali che gli permettano il raggiungimento degli obiettivi organizzativi;
guidare gli uomini sapendo comunicare efficacemente, condurre gruppi di lavoro collaborativi, risolvere problemi.
Dice Jan Carlzon (1985):” Un leader non è nominato perché sa tutto e può prendere ogni
decisione. È nominato per mettere insieme le conoscenze disponibili e per creare i presupposti perché il lavoro venga svolto. Egli crea i sistemi che lo mettono in grado di delegare
responsabilità per le attività quotidiane”.
Alcuni autori (Bass, Avolio 1996; Bennis 1990) propongono il modello di leadership trasformazionale, in grado di intuire i segnali di cambiamento che vengono dall’esterno, di
riconoscere le potenzialità interne all’azienda, di elaborare una “visione” del futuro
dell’organizzazione e soprattutto di entusiasmare e suscitare impegno nei collaboratori per
attuare le trasformazioni. Le caratteristiche distintive di questi leader sono: valorizzazione
dell’individuo, creatività, positività, riferimento. I leader dimostrano attenzione, interesse,
considerazione positiva per i collaboratori; stimolano a vedere situazioni tradizionali da
punti di vista nuovi e incoraggiano la critica costruttiva; creano un clima di fiducia e di responsabilizzazione; si pongono come punti di riferimento e consulenti. Per Tancredi (1993)
il potere del leader è quello di innovare e cercare nuove opportunità nell'ambiente esterno
ed interno. Cercare nuove opportunità all'interno significa valorizzare le risorse umane favorendone coinvolgimento, crescita di competenze di problem solving, presa di decisione,
responsabilizzazione.
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La certezza di poter migliorare:
l’esperienza di un Gruppo Genitori Mediatori
Cristina Cattini
Associazione “Una chiave per la mente. Istituto per lo sviluppo e l’integrazione”, Trieste
Introduzione
L’Autrice espone il lavoro con persone con esigenze speciali, sottolineando l’ importanza
di condividere con le loro famiglie prospettive nuove per leggere la realtà quotidiana, spesso faticosa e a tratti opprimente, in chiave positiva, mettendo in luce le abilità altre.
È necessario allenare lo sguardo al riconoscimento dei miglioramenti, dei progressi, sforzandosi di impegnarsi per dare valore al processo che permette di raggiungere gli obiettivi
prefissati.
La maggior parte delle volte invece i bambini e i ragazzi sono demotivati, senza fiducia
nelle loro possibilità di crescita e di messa a frutto dei propri talenti e portano in dote una
famiglia profondamente ferita dalle difficoltà dei figli, dall’incapacità di affrontare certe
situazioni e dalla pesantezza di contesti in cui tutto asseconda e amplifica le già fin troppo
evidenti difficoltà. A questo si aggiunge la paura e la difficoltà della scuola di credere profondamente nelle capacità di ciascun alunno, soprattutto di quelli con esigenze speciali.
Il Metodo Feuerstein
L’Autrice lavora quotidianamente con bambini e adulti con difficoltà cognitive ed emotive
attingendo dalla teoria della modificabilità cognitiva-strutturale del prof. Reuven Feuerstein, creatore del Programma di Arricchimento Strumentale (P.A.S.), che ha lo scopo di
accrescere la capacità dell’organismo umano di modificarsi attraverso l’esposizione diretta agli stimoli e alle esperienze offerte dagli eventi della vita e dalle opportunità formali e
informali di apprendimento (Feuerstein e coll., 2006)
Elemento nodale è la presenza del mediatore nell’applicazione del Programma stesso, il
quale si assume la responsabilità del cambiamento e della crescita del bambino a lui affidato, rendendosi catalizzatore di sviluppo e trasformazione positiva.
Il mediatore che applica il Metodo Feuerstein deve essere profondamente convinto che ogni essere umano, per primo lui stesso, è modificabile nel suo modo di apprendere; le sedute di applicazione del Metodo Feuerstein diventano quindi momenti di costruzione comune
di nuova conoscenza e generano una modificazione positiva sia nella persona che usufruisce dell’applicazione, sia nel terapeuta che accompagna il processo.
La mediazione è “un fattore universale capace di incidere sulla struttura cognitiva umana
e di creare nuove strutture che prima non esistevano. Essa integra tutti gli altri elementi
quali: l’eredità genetica, la costruzione, la maturazione e l’interazione attiva con
l’ambiente” (Feuerstein, 1990, p.156).
La copertina di Organizzazione Punti, uno strumento P.A.S.
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L’esperienza di apprendimento mediato è alla base della ristrutturazione cognitiva che si
può ottenere lavorando sull’ambiente e sui processi di mediazione degli stimoli che giungono dall’esterno, permettendo alla persona con disabilità intellettiva di organizzare meglio nello spazio e nel tempo gli apprendimenti, abituandola a confrontare ed a percepire
connessioni e relazioni interne ed esterne, allenandola a riconoscere lo stretto legame che
c’è fra teoria e pratica e quindi a generalizzare gli apprendimenti.
Di basilare importanza, accanto alla concreta applicazione della strumentazione del Programma di Arricchimento Strumentale, è la strutturazione di un ambiente modificante efficace, ossia recettivo e favorevole al cambiamento e che possa accogliere, sostenere e sviluppare la modificabilità.
Attraverso il contributo alla creazione di un ambiente modificante si lavora per garantire
alle persone un contesto aperto, in grado di assicurare la possibilità di mettere a frutto
l’intera gamma di possibilità che la vita ci offre, anche se in maniera diversa. Si parla
quindi di garantire un equo accesso alle possibilità; il riconoscimento e il rispetto dei bisogni fondamentali degli uomini, fra cui quello di realizzare il proprio potenziale, che esiste,
anche in presenza di carenze funzionali (Vanini, 2003, p.137).
L’ambiente modificante per eccellenza è la famiglia, contesto in cui le persone devono essere aiutate a riconoscere e permettere l’espansione positiva della personalità del bambino
e del ragazzo con esigenze speciali. Anche la scuola è un ambiente modificante privilegiato, perché può accompagnare il bambino, il ragazzo a percepire bisogni nuovi e a credere
profondamente nella propria capacità di cambiamento, nonostante le difficoltà che inevitabilmente si incontrano.
Il Metodo Feuerstein viene quindi applicato in stretta connessione con il mondo a cui appartiene il bambino, in modo da garantire l’efficacia del lavoro, la possibilità di cambiamento e un radicamento degli apprendimenti e delle esperienze vissute.
Il Gruppo Genitori Mediatori
A proposito dell’importanza degli ambienti modificanti è stato creato a
Modena il Gruppo Genitori Mediatori, che nasce dal bisogno di alcuni genitori di incontrarsi, di condividere esperienze, stati d’animo, gioie e dolori
rispetto all’affascinante percorso di crescere insieme al proprio figlio. Sono
pochi gli spazi in cui i genitori di bimbi con esigenze speciali (e in un certo
senso tutti i figli hanno esigenze speciali, se ci pensiamo…!) possano camminare insieme, confrontarsi e anche far sentire la loro voce, raccontare le
proprie esperienze sapendo che sono perle preziose che si donano agli altri.
Sicuramente il “non sentirsi soli”, il sapere di avere persone accanto disponibili a vivere
empaticamente le nostre vicende come se fossero le loro, può essere fonte di sicurezza, può
restituire fiducia nelle proprie possibilità e tirare fuori il meglio del nostro potenziale.
Questo gruppo nasce inoltre dall’interesse di molti genitori verso il Metodo Feuerstein, interesse condiviso anche da addetti ai lavori quali insegnanti, educatori, psicologi, logopedisti, neuropsichiatri.
Chi ha fondato il Gruppo Genitori Mediatori crede nella fondamentale importanza di un
giusto coinvolgimento attivo e motivante delle mamme e dei papà nei percorsi dei loro
bambini, perché i bimbi possano trarre maggiori benefici dalle loro terapie.
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Questo gruppo si struttura attorno ad un
senso di condivisione: ossia alla capacità di saper condividere esperienze, sentimenti e
pensieri con gli altri, quando ciò può essere utile per affrontare e risolvere insieme i problemi, creando una competenza maggiore e collettiva.
Alla individuazione di un’alternativa ottimista: valutando con obiettività, ma con ottimismo, ciò che si deve fare, consapevoli che ciò richiederà sforzo e fatica, ma, se ben spesi,
l’obiettivo prefissato sarà raggiunto.
Al sentimento di competenza: l’uomo è un essere sociale, ha bisogno di sentirsi parte di
un gruppo, di sentirsi amato e desiderato e di poter dare a sua volta amore agli altri. Ha
bisogno di sapere che può contare sull’aiuto degli altri e che egli stesso è in grado di fornire aiuto a chi ne ha bisogno. Tutto ciò avviene se ci si sente parte di una collettività.
Il Gruppo Genitori Mediatori, inoltre, vuole dare un contributo alla creazione di un ambiente modificante che favorisca la crescita cognitiva ed affettiva del bambino, perché è molto
faticoso crescere in un ambiente che rimane sempre lo stesso, che non accetta sfide, che
non si modifica; un ambiente statico ingessa la mente e lavora solamente per uniformare al
modello che si ritiene valido.
Il Gruppo si riunisce periodicamente per ascoltare l’intervento di un relatore scelto con cura
fra i vari professionisti disponibili; il criterio fondamentale di scelta è che la persona condivida un’ottica positiva e propositiva dei bambini con esigenze speciali. In seguito
all’intervento in cui spesso si propongono esercizi interattivi e coinvolgenti per i presenti,
si lascia più spazio possibile alla condivisione di idee, pensieri, situazioni dei genitori, in un
clima di ascolto reciproco e di disponibilità a mettersi in gioco nel caso si veda che si può
personalmente dare una mano all’altro.
Foto di Luigi Ottani
Agli incontri, che si svolgono di solito alla domenica pomeriggio, è sempre presente un
team di ragazze che svolgono il servizio di baby-sitting, in modo da permettere a tutta la
famiglia di partecipare; in particolare è stato pensato questo servizio per consentire alla
coppia genitoriale di confrontarsi con i temi proposti. Di solito accade che uno dei due genitori debba accudire il bambino e non stia in sala; le baby-sitter organizzano giochi e attività apposite per i bambini, in modo da lasciare liberi i genitori di seguire l’incontro.
Al termine dei lavori c’è la possibilità di fermarsi per una pizza insieme, per consolidare il
clima di ascolto ma anche di allegria creatosi in precedenza.
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Conclusioni
Il Gruppo Genitori Mediatori contribuisce a tessere relazioni, a mettere in contatto mamme,
papà, terapeuti per formare una rete di aiuto, di sostegno, di formazione e informazione, di
condivisione di risorse e difficoltà. Il non sentirsi soli certamente è il presupposto migliore
per costruire cose grandi, per crescere nella propria genitorialità e così permettere ai bimbi
di beneficiare di un ambiente modificante adeguato e ricco di cose positive.
Inoltre gli argomenti portati dai relatori hanno sempre incontrato il gradimento delle persone presenti, che potevano così acquisire strumenti nuovi e spunti interessanti di confronto
rispetto alle proprie esperienze.
Uno dei frutti di Genitori Mediatori… Meteaperte
Da alcune delle persone che partecipano a questo gruppo è nata Meteaperte,
associazione per il pieno sviluppo e potenziamento delle persone con abilità
differenti. Genitori e professionisti nel campo dell’educazione trovano qui un
punto di incontro per condividere e confrontarsi su percorsi di vita e strategie
educative riguardo a bambini con bisogni speciali. Meteaperte offre occasioni
di crescita e di auto-aiuto ai bambini e alle loro famiglie; sostiene e divulga la
pedagogia della mediazione del prof. Feuerstein e offre la possibilità di incontrare specialisti nell’ambito di diverse discipline psicopedagogiche.
Per informazioni su “Genitori Mediatori” e “Meteaperte”:
Cristina Cattini
tel. 347/4935976
e-mail: [email protected]
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Genitori e tempo libero a Modena:
esperienza di ANFASS ONLUS Modena
Massimo Bergonzini, Maurizio Schenetti
ANFASS, Modena
Uno degli scopi dell’ANFASS è di favorire e promuovere attività del tempo libero e momenti di socializzazione fra i vari membri appartenenti all’associazione ed è in quest’ottica
che l’associazione ha iniziato lo sviluppo di un progetto denominato “il viaggio: mosaico
di esperienze, conoscenze ed emozioni…”.
Tale esperienze sono principalmente rivolte a ragazzi disabili, alle loro famiglie, ai volontari e agli operatori impiegati dall’associazione.
L’intervento vuole essere rivolto prioritariamente alle famiglie con figli disabili a carico, al
fine di offrire un sostegno atto a sollevare, parzialmente, dalla gestione quotidiana del disabile; sostegno che, nel tempo, possa essere costruito con la partecipazione attiva e consapevole del nucleo familiare stesso.
Alcuni di questi ragazzi vivono in famiglia e frequentano il Centro Diurno Anfass di Via
Luosi, altri risiedono presso la Residenza per disabili adulti “Mario del Monte”, altri ancora in età scolare, frequentano l’attività di “Laboratori equ4estre” promossa sul territorio
dalla nostra associazione.
Attraverso questo progetto, desideriamo inoltre coinvolgere tutti quei cittadini modenesi
che, pur non vivendo in prima persona “la disabilità”, si dimostrano interessati e sensibili.
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L’Empowerment come risorsa per l’innovazione: i suoi effetti
nei modelli economici per la distribuzione delle spese sanitarie
Sumire Manzotti
Scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria Infantile della Università di Modena e Reggio Emilia
Introduzione
La proposta dell’OMS per affrontare la futura emergenza per le condizioni mediche croniche si intitola Innovative Care for Chronic Conditions (“ICCC”). Il modello sostiene: 1) la
necessità di un cambiamento di paradigma del sistema di assistenza medica e 2) una cruciale importanza del Empowerment dei pazienti e delle loro famiglie. Il documento inizia
con un allarme per il futuro delle spese sanitarie insostenibili mantenendo l’attuale sistema
di assistenza, mirato soprattutto a fronteggiare le condizioni acute. Il cambiamento sostenuto da questo documento comporta, perciò, una necessaria “innovazione”.
La filosofia di questo modello costituisce la base di diverse linee-guide in vari paesi soprattutto sulla pianificazione dei servizi assistenziali per condizioni di disabilità allo scopo di
migliorare la salute e di diminuire l’ineguaglianza cercando, nello stesso tempo, di tenere
sotto controllo le spese sanitarie. Per poter realizzare tale obiettivo abbiamo bisogno di un
punto di riferimento esplicito che ci dica se la scelta di una politica sanitaria e quindi
l’allocazione di risorse sia quella giusta per conseguire risultati ottimali.
Scienza economica, essenzialmente, ha a che fare con l’incremento di ricchezza di un paese tramite la razionalizzazione dell’allocazione di risorse limitate tra usi alternativi. Nonostante un certo, comprensibile, scetticismo sull’applicazione dei metodi economici nel
campo della sanità, un mercato con caratteristiche peculiari, negli ultimi anni il ruolo degli
economisti nella politica sanitaria è riconosciuto ampiamente in diversi paesi.
Le parole come “Empowerment”, “Innovazione”, “Qualità di Vita” sono ormai diventate
parole chiave negli interventi socio-sanitari per la disabilità, a volte senza un consenso
concettuale e, molto spesso, senza una consapevolezza della dimensione culturale profonda
che c’è dietro.
Il nostro tentativo consiste nell’esplicitare la dimensione economico-finanziaria di questi
concetti nella speranza di colmare il “gap” esistente tra i politici, gli utenti e gli operatori
del settore che costituiscono il triangolo equilatero del modello proposto dal documento
ICCC.
Il Concetto di Empowerment
L’empowerment è un “processo tramite cui la gente, le organizzazioni e le Comunità guadagnano la padronanza sopra i loro affari", e come si può ben intuire, l’empowerment è
strettamente collegato al concetto di comunità. A questa definizione dell’Health Evidence
Network (HEN, 2006) dipartimento dell’OMS, se ne deve aggiungere comunque un’altra
di Hyung Hur (2006), studioso della psicologia di comunità, che definisce l’empowerment:
“un processo sociale di azione tramite cui gli individui, le Comunità e le organizzazioni
guadagnano la padronanza sulle loro vite nel tentativo di cambiare il loro ambiente sociale
e politico per migliorare l'equità e la qualità di vita. Anche la Banca Mondiale, ha dato una
propria definizione di empowerment: “è un processo di aumento della capacità degli individui o dei gruppi di compiere delle scelte e di trasformare quelle scelte nelle azioni e nei
risultati voluti, per costruire i diversi beni collettivi e per migliorare l'efficienza e l'imparzialità del contesto organizzativo ed istituzionale che governa gli stessi."
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Il soggetto accresce il proprio potere rispetto ad un oggetto; si ha un maggior sviluppo del
senso di sé, maggiori abilità nella comprensione delle forze che impattano sulla propria vita quotidiana; sviluppa strategie per il raggiungimento di scopi personali.
Un problema legato al concetto di empowerment è la sua misurazione, essendo soggettivo
e diverso nei vari contesti degli individui, è un costrutto dinamico e non stabile della personalità
Il contesto dell'empowerment stabilisce che il benessere dell'individuo è collegato al sistema socio-politico al quale appartiene, quindi ha a che fare con una migliore qualità di vita
inserita nella comunità.
Come evidente nelle definizioni descritte sopra, l’empowerment per sé, è un concetto eticamente “giusto” nel senso dei diritti e dell’eguaglianza di persone socialmente svantaggiate, perciò rischia un arresto di approfondimento ulteriore, rimanendo come un concetto
circoscritto a colmare un’ingiustizia sociale e niente di più.
L’empowerment non vuol dire solo il processo di capacitazione (capability) delle persone
socialmente escluse ma comprende anche i risultati (outcomes). Questo è ovvio dato che
l’empowerment è un concetto operativo che si concentra sulla rimozione di barriere sia
formali che informali e sulla trasformazione di relazioni di potere tra comunità, istituzioni
e organismi di potere sia locale che centrale. Questo percorso richiede coinvolgimento dei
politici che promuovano i cambiamenti normativi strutturali per sostenere la comunità.
La strategia per tale obiettivo, perciò, comprende la sfida contro norme inique e contro
l’ingiustizia sociale tramite innovazioni politiche, sociali e psicologiche che smascherino i
meccanismi di controllo, le barriere istituzionali o strutturali, le norme culturali e le deviazioni sociali. Questo percorso fa sì che le persone possano combattere le proprie oppressioni internalizzate e sviluppare una nuova rappresentazione della realtà.
La Banca Mondiale sintetizza il percorso di Empowerment in due attributi ben articolati:
1) il ruolo di “agency” delle persone emarginate che fanno la scelta e trasformano loro vita,
2) il ruolo della struttura delle opportunità e del contesto istituzionale, politico ed economico che permettono o inibiscono le persone nel creare azioni efficaci.
Un qualsiasi intervento basato sul concetto di empowerment prevede intrinsecamente una
certa innovazione sociale.
L’impatto sociale dell’empowerment verrà discusso dal punto di vista degli effetti economici in base a diversi modelli di analisi economica.
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SIMPOSIO 5
Assistenza e ricerca nella psichiatria della disabilità
nell’esperienza dell’istituto Charitas di Modena
Ciro Ruggerini, Francesca Villanti, Gian Paolo Guaraldi
Dipartimento Integrato Materno Infantile Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico
di Modena, Modulo di Psicopatologia dello Sviluppo e dell’Apprendimento
Istituto Charitas di Modena
Scuola di Specializzazione in Psichiatria Università di Modena e Reggio Emilia
L’esperienza dell’Istituto Charitas è iniziata, per il nostro gruppo di lavoro, nel 1993 quando uno di noi (C.R), neuropsichiatra infantile e psichiatra presso la Clinica Psichiatrica della Azienda Universitaria Ospedaliera Policlinico di Modena, è diventato consulente della
struttura. Questa esperienza ha due particolarità: l’integrazione delle conoscenze di neuropsichiatria infantile e psichiatria dell’adulto e la collaborazione con il Dipartimento di Psichiatria dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
L’ interesse per l’evoluzione dei Disturbi Mentali nell’arco della vita da parte di un gruppo
di lavoro composto da psichiatri e neuropsichiatri infantili (Guaraldi e Ruggerini, 2002;
Ruggerini, Solmi, Neviani e Guaraldi, 2003) ha consentito l’applicazione, nella interpretazione psicopatologica dei DM associati al RM in età adulta, delle concezioni della Psicopatologia dello Sviluppo elaborate, originalmente, nell’ambito della psichiatria infantile
(Guaraldi e Ruggerini, 2002). Questa lettura del Disturbo Mentale nella persona adulta con
Ritardo Mentale si è concretizzata sia da un punto di vista culturale che da un punto di vista assistenziale con la compresenza, nel gruppo di lavoro di specialisti e specializzandi in
neuropsichiatria infantile e psichiatria resa possibile dalla collaborazione con L’Università.
Si è ritenuto fondamentale, infatti, integrare attività assistenziali e di ricerca, seguendo
l’insegnamento di Giorgio Moretti (1999) che ha scritto: “…fare ricerca (nel campo della
assistenza alla disabilità, ndr) è un dovere per tre motivi di fondo:
1.un motivo pratico, poiché procedere senza analizzare scientificamente quanto si fa è altamente antieconomico;
2.un motivo riferibile alla necessità di monitorare obiettivamente i percorsi e i risultati del
lavoro clinico…;
3.un motivo di testimonianza, per poter continuare a svolgere un ruolo di promozione dei
valori…”
Tale integrazione è avvenuta attraverso la partecipazione all’attività di consulenza di studenti di medicina e di psicologia, di tecnici della riabilitazione psichiatrica, specializzandi
in psichiatria e neuropsichiatria infantile e dottorandi di ricerca.
La collaborazione con l’Università ha permesso la elaborazione di tesi di laurea e di specializzazione che trattavano il tema della psichiatria della disabilità consentendo, da un lato
una formazione specialistica che comprendesse anche il tema del Ritardo Mentale che,
come è noto, è spesso trascurato negli insegnamenti di psichiatria generale, dall’altro garantendo agli ospiti dell’Istituto trattamenti - laddove necessari - il più aggiornati possibile.
La ricerca effettuata all’interno dell’Istituto procede parallelamente a quella che, lo stesso
gruppo di lavoro, porta avanti, negli stessi anni, all’interno del Dipartimento di Psichiatria;
in entrambe le esperienze si è scelta la logica organizzativa della Certificazione Evoluta.
L’aumento di interesse per la diagnosi dei Disturbi Mentali nelle persone con Ritardo Mentale ha fatto sorgere il problema dell’applicabilità a queste persone, soprattutto se prive della possibilità di espressione linguistica, dei criteri descrittivi comunemente utilizzati e ha
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reso necessaria l’elaborazione di strumenti diagnostici specifici (Guaraldi, Ruggerini e
Russo, 1999). Nel 2000 viene elaborata una tesi di laurea in medicina e chirurgia
sull’utilizzo della scala DASH-II (Matson, 1995) nella popolazione di residenti nell’Istituto
(Vicini, 2000). La scala è stata somministrata a tutti gli ospiti dell’Istituto, i risultati ottenuti sono stati confrontati con le diagnosi cliniche ed è iniziata una revisione delle terapie psicofarmacologiche. Il lavoro successivo è stato quello di approfondire le diagnosi di Disturbo del Comportamento e di Autismo utilizzando dei pacchetti diagnostici che comprendono
un test di livello, la scala DASH-II per la diagnosi di Disturbo Mentale, la scala VINELAND per la misurazione del Comportamento Adattivo, la scala MESSIER per le competenze sociali e le scale QABF specifica per il Disturbo del Comportamento e AAPEP per
l’Autismo. Anche in questa occasione sono state elaborate due tesi di laurea (Villanti, 2003
e Adenzato, 2004) che hanno potenziato l’ interesse per la diagnosi di Disturbo Mentale
nelle persone con Ritardo Mentale e hanno evidenziato la necessità di introdurre nella pratica assistenziale degli strumenti standardizzati che aiutino la diagnosi clinica; è emersa,
inoltre, l’importanza di introdurre strumenti terapeutici non farmacologici ma abilitativi nei
casi di disturbo del comportamento non associato a disturbo mentale e nei casi di autismo.
Man mano che si consolidava nella pratica assistenziale l’utilizzo degli strumenti diagnostici è stata portata avanti una razionalizzazione delle terapie farmacologiche oppure una
loro sospensione quando non necessarie (Ruggerini e coll, 2004; Matson e coll, 2004).
È stato possibile osservare cambiamenti positivi nella maggior parte degli ospiti sottoposti
a questa revisione ed è emersa la necessità di rilevare l’eventuale miglioramento in termini
di qualità della vita. Sono state così elaborate una tesi di laurea (Moretti, 2007) e una tesi di
specializzazione in psichiatria (Villanti, 2007) nelle quali è stato sperimentato un questionario per il monitoraggio degli esiti degli interventi effettuati utilizzando un’intervista guidata formulata sulla base delle categorie degli esiti individuate e segnalate per il monitoraggio dei cambiamenti non farmacologici dall’American Association on Mental Retardation (2002).
I risultati ottenuti mostrano da un lato il beneficio ottenuto dagli ospiti in termini di qualità
della vita e dovuto all’applicazione di criteri rigorosi e scientificamente condivisi alle pratiche prescrittive, dall’altro lato mostrano le aree ancora deboli sulle quali bisogna continuare a lavorare sia in termini farmacologici che in termini educativi. La valutazione degli esiti
degli interventi costituisce un momento importante del progetto terapeutico, che conferisce
validità alle attività di integrazione e inserimento sociale disposte per ogni individuo
all’interno della struttura; la logica della Certificazione Evoluta conduce alla ricerca e alla
formulazione di strumenti adatti a verificare gli esiti di un intervento e alla loro somministrazione costante nel percorso di cura.
L’integrazione di assistenza e ricerca al fine di migliorare la qualità della assistenza psichiatrica rivolta alle persone residenti con RM e disturbo mentale ha introdotto la novità di
far dipendere la qualità professionale non da una scelta dettata dalle attitudini dei singoli
specialisti ma da un sistema di regole dichiarate e sottoposte a verifica. Per le persone con
RM la adozione di questa filosofia della qualità professionale costituisce, di fatto, un progresso enorme perché realizza, in modo concreto, il loro ingresso nella stessa storia assistenziale dei contemporanei come già auspicato nella “ Dichiarazione dei Diritti delle persone con Ritardo Mentale “ promulgata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel lontano
1971 e dal più recente Documento delle Nazioni Unite “ The Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons With Disabilities” (1994) ”
90
Bibliografia
Adenzato, C., Autismo e Ritardo Mentale Grave: i significati della valutazione psicodiagnostica. Studio di casi clinici, Tesi di laurea in Psicologia (Relatore: S. Lera Correlatore:
C. Ruggerini. Anno Accademico 2003- 2004)
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Guaraldi, G.P., Ruggerini, C., Neviani, V.,Vicini, S., La Scala DASH-II (Diagnostic Assessment for the Severely Handicapped) per la valutazione dei Disturbi Mentali nei Ritardati
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Matson, J.L. (1995), The Diagnostic Assessment for the Severely Handicapped revised
(DASH-II) Baton Rouge, LA: Disability Consultants, LLC.
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Moretti, V., La valutazione degli esiti degli interventi nelle persone con Ritardo Mentale,
Tesi di Laurea in Medicina e Chirurgia (Relatore: G.P Guaraldi, Correlatori: C. Ruggerini,
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Vicini, S., tesi di laurea dal titolo: Ritardo Mentale e Disturbi Psichici: studio clinico sulle
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(DASH-II) (Relatore: G.P. Guaraldi; Correlatore: C. Ruggerini. Anno Accademico 19992000).
Villanti, F., Il Disturbo di Comportamento nelle persone con Ritardo Mentale: valutazione
diagnostica e indicazioni terapeutiche, Tesi di laurea in Medicina e Chirurgia (Relatore:
G.P. Guaraldi, Correlatore: C.Ruggerini. Anno Accademico 2002- 2003.)
Villanti, F., La valutazione degli esiti degli interventi in una popolazione di persone con
Ritardo Mentale residenti, Tesi di specializzazione in Psichiatria. (Relatore: G.P. Guaraldi;
Correlatore: C. Ruggerini Anno Accademico 2006- 2007).
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Abilitar suonando: il progetto Orchestra Invisibile
P. Politi, M. Boso, I. Bonoldi, D. Broglia, L. Mancini, M. Marini, C. Perelli, F. Podavini,
U. Provenzani, S. Ucelli di Nemi
Laboratorio Autismo, DSSAeP - Università di Pavia & Cascina Rossago RSD
Introduzione
L'autismo è un grave disordine del neurosviluppo che compromette la capacità di interagire, comunicare e condividere le emozioni con gli altri. Si tratta di un problema che coinvolge almeno una persona su mille e che tende a rimanere costante lungo tutto il ciclo di
vita, coinvolgendo profondamente le persone affette ed i loro familiari. A fronte dei deficit
ricordati, la letteratura riporta frequentemente come le persone affette da autismo presentino un interesse particolare per la musica.
Metodologia
Il setting del nostro intervento è Cascina Rossago, prima farm community italiana, sorta per
offrire un luogo di cura e abilitazione a giovani adulti affetti da questa problematica. A partire dal 2005 abbiamo offerto ai residenti la possibilità di un'esperienza musicale, pianificando una seduta di musica alla settimana, della durata di un'ora e mezza. Occorre considerare che la quasi totalità dei giovani adulti residenti a Cascina Rossago è affetta da quadri
severi di autismo, low-functioning, in cui la comunicazione verbale è fondamental-mente
preclusa. All'inizio della nostra attività l'apporto strumentale era fornito da violino, contrabbasso e pianoforte. A disposizione dei residenti c'erano invece numerosi strumenti ritmici e a percussione. In seguito si sono aggiunti diversi strumenti a fiato, mentre altri percussionisti con autismo entravano a far parte dell'orchestra. L'organico attuale è costituito
da due trombe, un trombone, tre saxofoni e la sezione ritmica composta da pianoforte, contrabbasso ed una decina di percussionisti.
Risultati
Suonando, ci siamo ben presto accorti di un semplice fatto. La musica trascinava il gruppo,
seguendo la regola del piacere reciproco: se ci divertivamo noi, suonando, la partecipazione delle persone con autismo aumentava di intensità e qualità. Scambi comunicativi erano
possibili – in un contesto assolutamente non verbale – attraverso la musica e soltanto attraverso di essa. Era inutile, ad esempio, chiedere al gruppo di suonare più piano o più forte;
tuttavia, quando un solista diminuiva spontaneamente il volume, era spesso seguito dagli
altri che riducevano anche la loro intensità di suono. Grazie ad analo-ghi segnali che in
questo modo circolavano tra di noi, il gruppo si è orientato, dopo avere esplorato altri contesti (classica, popolare, ragtime, rock, ecc.) verso un repertorio jazz. Come è noto, la caratteristica fondamentale della musica improvvisata è quella di affianca-re ad una struttura
armonica stabile (i cosiddetti standards), la libertà dell'improvvisazione, rigorosamente
confinata – però – nei limiti armonici e ritmici del brano.
Conclusioni
Il cuore della nostra esperienza è proprio questo. Una malattia dominata dalla circolarità
compulsiva della sameness, dal bisogno che tutto rimanga se stesso senza mutare, che si
ripeta senza variazioni, trae beneficio da una pratica musicale in cui, accanto a qualcosa
che resta e si ripete uguale nel corso del brano, prendono vita trasformazioni e improvvisazioni. E questi cambiamenti sono compatibili con l'esperienza autistica e trascinano le persone che ne soffrono. Ogni seduta di musica, da tre anni a questa parte, parte da un inizio
frammentato, in cui ciascuno suona per conto suo, senza tempo nè ritmo, conosce il graduale, progressivo riassemblarsi dell'orchestra fino agli ultimi brani eseguiti, segnati da un respiro unico, da un pulsare regolare e sintono ma, soprattutto, dall'ascolto reciproco.
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Residenzialità per persone con Disabiltà Intellettiva:
aspetti di criticità e proposte di cambiamento
Sergio Monchieri
Nel panorama internazionale con il termine di Residential Care Facilities, Residential Care,
Comunity Care Facilities, Home Care, Bord and Care, Boarding House vengono descritte
le residenze che propongono trattamenti assistenziali integrati con modelli abilitativoeducativi, poiché la popolazione affetta da Disabilità Intellettiva necessità, nella maggior
parte dei casi, di soluzioni assistenziali adeguate alle loro specifiche esigenze, soprattutto
quando le risorse familiari non sono in grado di supportare tali richieste. Condizione che si
riscontra con estrema frequenza a causa della difficoltà di gestione delle manifestazioni
comportamentali, conseguenti al deficit intellettivo, che assumono carattere di maggior rilevanza e problematicità nel raggiungimento dell’età adulta sia per la crescita somatica del
soggetto che per l’incremento delle pulsioni legate al conseguimento dell’evoluzione fisica
ed ormonale, in assenza di un adeguato e proporzionale meccanismo di controllo cognitivo
e volitivo. Parimenti, l’energia, la disponibilità e le risorse familiari vanno scemando sia
per l’assottigliarsi naturale del nucleo familiare allargato sia, soprattutto, per la perdita di
energia e risorse personali legate primariamente alla senescenza e spesso, secondariamente,
a malattie correlabili alla stessa nella coppia genitoriale. Lutti prematuri possono anticipare
questa evoluzione verso un percorso d’istituzionalizzazione a fini assistenziali.
Nell’ambito delle residenze per persone con Disabilità Intellettiva (DI) il panorama italiano
appare estremamente variegato. In prevalenza le strutture attivate rispondono a bisogni di
ordine assistenziale e prevedono inserimenti di lunga durata, più spesso life span, e si fondano su di un modello metodologico e culturale per lo più confusivo e datato.
Nella maggior parte dei casi l’offerta residenziale discende storicamente da pie istituzioni
ed enti religiosi che nel tempo hanno modificato gli aspetti logistico-strutturali adeguandosi al cambiamento normativo, ma mantenendo spesso una concezione dell’intervento di ordine assistenzialistico e custodialistico. Molte Regioni non hanno ancora operato il passaggio dagli Istituti di Riabilitazione per Disabili (ex L. 26) a strutture dimensionate sulla valutazione delle reali necessità dell’utenza, mantenendo ancora una concezione pietistica e
custodialistica che non accenna a tramontare.
Gli elementi di criticità sono molteplici e non s’intravede ancora uno spazio di riflessione,
dialogo e che raggruppi i diversi interlocutori socio-politico-sanitari in una progettazione
congiunta e finalizzata. Le strutture residenziali si fondano su un presupposto generico di
necessità d’intervento, limitandosi, nella maggior parte dei casi, a suddividere grossolanamente settori a maggior o minore livello di sorveglianza e custodia, anteponendo ancora
implicitamente finalità di salvaguardia sociale e garantismo legale derivanti da esigenze
della struttura e del personale, o ancora più genericamente di una non meglio definita “collettività” ai diritti e alle necessità di libera espressione dell’ospite. Nella maggior parte dei
casi la condizione mentale primaria o secondaria, rispetto alla condizione di disabilità, appare scarsamente definita e la struttura costituisce nell’immaginario popolare, e frequentemente nella realtà operativa, un contenitore universale per una diversità mal tollerata e
disturbante. Le esigenze specifiche di cura dovrebbero essere intese come programmi evolutivi con possibilità di passaggio ad un progressivo incremento dell’autonomia, ma anche
del residuo grado di consapevolezza, verso un’auspicabile punto d’arrivo rappresentato
dall’affrancamento, almeno parziale, dalla struttura residenziale. Tali prospettive sono limitate ad un ambito teorico di pensiero e per molteplici ragioni tendono a restare vincolate
ad una propositività solamente ipotetica. Ci si identifica empaticamente con persone portatrici di bisogni facilmente individuabili nella dimensione primaria, ma diventa oneroso ac-
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cettare e condividere aspettative e desideri di vita che per chiunque altro sarebbero normali. La sessualità è forse il più problematico di questi desideri inespressi, negati e temuti
nell’istituzione quando non addirittura disconosciuti su un generico presupposto pseudomoralistico. Nel contempo, il legittimo desiderio di uscire dalle porte dell’istituzione per
esigenze di ordine quotidiano e socialmente condivisibili può facilmente scatenare dubbi e
timori in relazioni alle responsabilità legali conseguenti.
Pur rimanendo ancora alla necessità di un percorso abilitativo, residenza e istituzione sono
vincolate ad un iter di assessment e di intervento preordinato e standardizzato secondo un
modello organizzativo a “top down” da organi istituzionali e Regioni, senza una ricognizione dell’utenza, dei bisogni e della necessità di individuazione e attribuzione di specifiche risorse. Il passaggio da vecchie istituzioni per disabili ha privilegiato la possibilità di
una transizione non onerosa e che salvaguardasse in parte un modus operandi diffuso e arcaico senza optare drasticamente per un’evoluzione improntata a modelli metodologici basati su evidenze scientifiche.
I modelli di valutazione degli interventi sono strutturati dall’Ente erogatore nazionale e regionale, su modelli informatizzati che tengono conto della comorbidità e del livello di disabilità finalizzati ad una redicontazione di ordine economico. Indicatore rilevante è il peso
assistenziale che spesso non comprende il carico derivante dagli oneri educativi, dalle manifestazioni comportamentali e dai disturbi francamente psichiatrici. In tale contesto il
meccanismo di rendicontazione dei servizi prevede una proporzionalità diretta tra il casemix, costituito da gravità e peso assistenziale, e una maggior livello di retribuzione economica, consentendo paradossalmente all’agenzia che eroga il servizio diretto alla persona la
possibilità di perseguire un maggior vantaggio economico con il progressivo aggravarsi
dell’utenza, anziché vincolare il vantaggio economico ad indicatori di percorso e di esito
del processo ri/abilitativo.
Considerato che il panorama delle strutture accreditate e deputate a tali interventi non è solo costituito da organizzazioni no-profit si crea un evidente paradossale scollamento tra
quelli che devono essere i fini socio-medico-riabilitativi, eticamente corretti, e le esigenze
di conseguire un giusto risultato economico-finanziario.
La specifica qualità dei programmi ri/abilitativi si restringe nelle direttive regionali per lo
più ad un generico indirizzo d’intervento, ma senza indicatori premianti con rilevanza economica. In ogni caso non sono previsti indicatori di percorso, prima che di esito laddove
perseguibili, che determinino una spinta riabilitativa attivata da un sistema premiante di
ordine economico. Non esistono indicatori che permettano di valutare quanto il progetto
ri/abilitativo, seppur di mantenimento, sia effettivamente centrato, o almeno tenga conto e
rispetti le esigenze, le motivazioni e le aspettative sociali e di ruolo della persona. Troppo
spesso al Disabile Intellettivo viene negata una partecipazione attiva alle scelte nel percorso educativo che lo investe, negando la possibilità di esprimere una preferenza sulle strategie percorribili per raggiungere l’obiettivo ri/abilitativo, ma prima ancora una condizione
di vita autopercepita come qualitativamente soddisfacente. Aspetti questi che hanno un
preciso riscontro nell’evidenza scientifica sia come miglioramento della qualità di vita autopercepita sia come miglioramento della condizione psicotica e dei comportamenti disfunzionali. In un luogo, come la struttura residenziale, che non può essere solamente di
cura, ma deve essere di vita, partecipazione, condivisione, cambiamento e integrazione sociale sono aspetti indispensabili così come in qualsiasi altro contesto comunitario che non
ricalchi il modello angusto e sorpassato dell’istituzione “chiusa”.
Considerazioni a parte meritano la complessa e mutevole interazione tra operatore e ospite
dando priorità ad alcuni aspetti cardine, quali: il significato dell’inserimento residenziale,
94
l’attribuzione di un significato esistenziale al risiedere comunitario e la consapevolezza
dell’interpretazione e dell’assunzione di ruolo dell’operatore.
I fattori predittivi d’inserimento in struttura residenziale, che si evincono dagli studi inte
nazionali, si discostano talora sensibilmente da quanto si esperisce nella quotidianità operativa del panorama italiano, dove gli inserimenti sono dettati nella maggior parte dei casi da
richieste di ordine sociofamiliare, da fenomeni di emarginazione e rifiuto sociale e da manifestazioni comportamentali problematiche in genere con significato disadattivo. Quando
la richiesta di residenzialità deriva da uno scompenso psicopatologico ci si limita in genere
a privilegiare un intervento contenitivo eludendo una specifica e spesso difficoltosa indagine diagnostica. In effetti, il trattamento in ambito residenziale dovrebbe offrire un campo
di definizione e inquadramento diagnostico allargato con la condivisione concertata da più
competenze professionali. Dalla letteratura internazionale l’esigenza di inserimento residenziale è dovuta alla necessità di affidare la persona diversamente abile ad uno staff preparato e competente per specifiche esigenze di trattamento ri - abilitativo.
Nonostante queste complessità e queste esigenze raramente le residenze per persone con
DI hanno in organico personale specialistico, in particolare la figura del neurologo e dello
psichiatra, che sono generalmente consulenti esterni e che non hanno modo d’integrare le
proprie competenze in forma dialettica e costruttiva con l’èquipe curante e talora vedono
sollecitato il loro intervento solo in momenti di emergenza o più semplicemente di cambiamento adattivo espresso in forma disfunzionale. Molte Regioni, la Lombardia in particolare, tengono scissi i settori sanitari e socio-sanitari in comparti che non sono sovrapponibili nemmeno per persone con necessità d’intervento complesse, quali le persone con disabilità intellettiva e multipla. L’intervento specialistico fornito dal SSN si limita ad estemporanee consulenze mentre il qualificarsi con una continuità di supporti specialistici è
un onere e scelta esclusiva della struttura residenziale ospitante.
Un’attenta riflessione coincisa in aspetti fondanti ed essenziali va rivolta alla relazione tra
l’ospite/cliente e il personale che eroga il servizio. L’insostituibile modello di riferimento
identificativo e normativo fornito dall’operatore può talvolta costituire un elemento fuorviante e di disturbo alla creazione e nel mantenimento di una identità personale stabile.
L’implicita attesa di un funzionamento adattivo, il più possibile vicino al funzionamento
normale, deve sempre essere rivista alla luce di una criticità d’intervento che mantenga un
riconoscimento del limite di una condizione esistenziale biologicamente determinata e conseguentemente solo parzialmente modificabile. Le recenti evidenze scientifiche sugli endofenotipi psicopatologici offrono ampi spazi di riflessione su modelli conoscitivi e
d’intervento che devono essere coniugati con le nuove conoscenze biologiche. All’opposto
si possono incontrare in diverse professionalità, interpretazioni di ruolo diverse nella modalità relazionali e d’intervento derivanti da diversi approcci culturali talora contrastanti e
non sempre facilmente integrabili.
Gli estremi si collocano tra l’atteggiamento compassionevole autoreferenziale e autogratificante e il tecnicismo depersonalizzato. L’operatore di comunità deve avere la consapevolezza di essere prima di tutto persona che condivide il suo patrimonio umano, esperienziale
ed emotivo con un suo pari. Competenza ed esperienza professionale sono mezzi che consentono lo stabilirsi e il mantenersi della relazione con l’altro quando disabilità fisica e cognitiva costituiscono una barriera al confronto e alla condivisione. Il singolo operatore e
l’équipe devono considerare l’attivazione di percorsi individualizzati e di gruppo come esperienze aggregative che favoriscono anche e soprattutto l’autoriconoscimento tra pari e
la soddisfazione di esigenze sia individuale che comuni. I progetti educativi e ri/abilitativi,
sono percorsi che facilitano e migliorano la condizione esistenziale, ma devono sempre essere parte integrante di un più generale progetto di vita. Il principio di fondo della genera-
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lizzazione delle abilità e competenze acquisite deve prevedere la prospettiva che le acquisizioni consentano una maggior autonomia nella dimensione non solo residenziale, ma più
in generale dell’ambiente sociale di riferimento e di appartenenza.
Da questo presupposto, tornando alla centralità dell’ospite e dei suoi bisogni, ci si trova
spesso in un impaccio progettuale tra scelte tecniche e aspettative, talora riduttive o
all’opposto irrealistiche o antitetiche, nella visione degli operatori e dei riferimenti familiari. La percezione concettuale dell’utente si riassume frequentemente nell’affermazione:
“noi pensiamo per lui, solo noi lo conosciamo e solo noi sappiamo di cosa ha bisogno”. Tale affermazione rimbalza spesso in forma di drastico antagonismo dai riferimenti familiari
agli operatori di settore, ignorando stolidamente l’utente come interlocutore privilegiato
anche quando egli manifesta sufficienti competenze per consapevolizzare ed esprimere realisticamente una propria aspettativa e prospettiva di vita. Nella visione etica, ma soprattutto
in quella legale, concretamente vincolante non si deve mai dimenticare che l’interlocutore
è sempre prioritariamente l’utente e non confusivamente l’istituzione o il familiare.
La legge 6/2004 sull’amministrazione di sostegno ha ribadito che il diversamente abile
conserva sempre la capacità giuridica mentre la capacità d’agire viene limitata, con apposito provvedimento e in genere previa valutazione tecnica, in relazione al limite specifico
imposto dal grado di disabilità.
Questi aspetti di criticità limitano la possibilità che le residenze per la DI siano spazi di vita
assimilabili a quella dimensione logistico-esistenziale e consentano un agire quotidiano che
per tutti si concettualizza in un vissuto espresso col semplice ed esaustivo termine di “casa” . Ne deriva che uno sforzo deve essere fatto per trasformare e dare dignità ad una residenza, e tale deve essere, che troppo spesso assume una connotazione socio-medicale,
mentre questo aspetto dovrebbe essere solo un rilevante, ma discreto, valore aggiunto nella
dimensione di vita dell’ospite.
Lo scenario ideale per uno spazio non solo riabilitativo, ma di vita per le persone adulte
con DI dovrebbe prevedere strutture elastiche, collocate nel contesto urbano e sociale
quando possibile di appartenenza, o in ogni caso con facilità di accesso a servizi per la persona sia di utilità sociale che di svago. Le dimensioni dovrebbero comprendere nuclei autonomi con un massimo di 20 utenti. Il numero degli utenti per nucleo funzionale dovrebbe
strutturarsi in diretta proporzione alle competenze e abilità residue, riducendosi di numero
nel caso di utenti con maggiori autonomie e abilità e favorendo una maggiore continuità
con il tessuto sociale e i riferimenti affettivi. Viceversa, è difficile pensare a nuclei numericamente ridotti dove le necessità abilitative e assistenziali richiedono personale specializzato con costi conseguenti che devono essere distribuiti su un adeguato numero di utenti
per consentire un’adeguata possibilità di mantenere un servizio multiprofessionale efficiente e continuativo.
Si ribadisce l’importanza del concetto di nucleo o unità “funzionale” dove all’interno di
una struttura complessa per diversa gravità, comorbidità, età e genere si riconoscano persone con bisogni specifici e aspettative, quando esprimibili e rilevabili, che possano beneficiare di percorsi comuni pur nel rispetto della propria unicità e personalità. Al di sopra di
ogni presupposto teorico, tecnico e metodologico vanno posti due criteri che orientino la
condivisione delle scelte ri/abilitative, ma soprattutto di vita dell’ospite fondati
sull’evidenza scientifica. Il primo sta nell’attenta e meticolosa rilevazione di bisogni generali e specifici espressi da quella persona nel suo essere diversamente abile. Secondariamente, come diretta conseguenza il soddisfacimento dei bisogni secondo un imprescindibile ordine gerarchico di priorità e percorribilità dell’iter di soddisfacimento. Indicatore cardine del percorso, dell’esito e del grado di soddisfazione soggettiva è la valutazione della
qualità di vita nella percezione dell’ospite o del proxy. Gli strumenti tarati sulla disabilità
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intellettiva per la valutazione della qualità di vita attualmente sono validi ed efficaci anche
per persone con DI di media gravità.
Conclusivamente, in una scelta qualitativa d’implementazione, alcuni aspetti assumono rilevanza prioritaria ed essenziale nella modalità d’intersecarsi tra di loro, quali: la non sufficientemente enfatizzata soggettività dell’ospite e il suo grado di consapevolezza ed espressione del bisogno come persona diversamente abile e del limite che questo comporta; la
presenza e la continuità dei riferimenti familiari, come mediatori e continuità rispetto al
mondo, reale e non virtuale, fatto di affetti, ricordi e consuetudini; la necessità di ristrutturare una rete sociale con valenza affettiva favorendo un’integrazione con le risorse territoriali, ma educando ad un diverso approccio culturale le associazioni e il volontariato sociale; infine, il ruolo centrale dei professionisti, di diversa estrazione, preposti ad accompagnare il diversamente abile nel percorso terapeutico, ri - abilitativo, ma soprattutto di vita,
nel creare e mantenere un modello culturale che leghi ed integri, le componenti sociali, familiari e istituzionali in un approccio in forma olistica determinato da un auspicato passaggio dallo “stare” all’“abitare” la struttura residenziale.
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L’esperienza alberghiera come modello residenziale alternativo
Marco Buzzi
Cooperativa “Azalea” - Verona
Gli investimenti di risorse economiche ed umane per passare da una gestione di tipo prevalentemente ospedaliero ad un’assistenza territorializzata, hanno coinvolto il privato sociale
stimolandolo ad attuare strutture residenziali alternative, capaci di fornire un servizio non
solo assistenziale ma anche abilitativo-riabilitativo.
Dal 1995 è attivo, in Verona, un servizio di residenzialità alberghiera mirato ad ospitare
sia pazienti con disturbi psicopatologici più o meno consolidati, sia disabili intellettivi di
vario livello affetti da patologia psichiatrica.
La valenza terapeutica di un’assistenza di tipo alberghiero si caratterizza nella ricerca di
migliori condizioni di vita e di un buon grado di convivenza sia con il deficit di base, sia
con le comorbidità: i soggetti ospitati hanno, infatti, la possibilità di intraprendere un autonomo cammino di crescita ed integrazione attraverso il fare, il fronteggiare, le interazioni
con l’ambiente e lo stabilirsi di relazioni sociali significative affinché possa rinascere come
soggetto sociale.
La tesi evolutiva, su cui poggia l’intervento, stabilisce che qualsiasi tipo di cambiamento
preveda una modifica nelle relazioni dinamiche tra variabili appartenenti a diversi livelli di
organizzazione (biologica-psicologica-sociale-storica).
Il divenire del sistema-uomo è determinato da un complesso sistema di azioni e interazioni
che ne determinano la differenziazione lungo la linea di sviluppo: ecco che, in presenza di
una alterazione dell’equilibrio psichico, è possibile ri-definire nuovi percorsi mirati allo
stabilire una nuova condizione di stabilità (omeoresi).
In questo divenire, l’ambiente si impone come variabile epigenetica a cui il paziente risponde liberando risorse e attuando capacità di controllo, al fine di evitare la deriva (capacità adattativa): è proprio agendo su questa variabile che è possibile ri-definire il percorso
di sviluppo, stimolando le proprietà auto-regolative e creando condizioni per lo sviluppo di
nuove abilità (abilitazione) e/o il recupero di altre (ri-abilitazione).
Questo contributo è mirato a focalizzare i processi di sviluppo e, quindi, di cambiamento,
che le variabili bio-psico-socio-culturali determinano in un nuovo contesto, con effetti diversi e talvolta imprevedibili, sia su pazienti affetti da patologia psichiatrica, sia su soggetti
caratterizzati da disabilità intellettiva di vario grado.
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SIMPOSIO 6
Progetto di accoglienza rivolto ad adulti disabili ospiti delle
strutture residenziali del distretto di Modena
G. Ganzerla, A. Colantoni, A. Luciani
Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza, Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico di
Modena.
Introduzione
Nel territorio del Distretto n°3 di Modena esistono 3 strutture residenziali per disabili adulti:
1. il Centro Residenziale Socio-Riabilitativo Mons. E. Gerosa, che accoglie utenti
gravi-gravissimi con quadri clinici complessi.
2. il Centro Residenziale Socio-Riabilitativo M. del Monte che ospita adulti con grado
di disabilità grave, ma con quadri clinici di minore complessità con prevalenza del
bisogno educativo-assistenziale.
3. un Nucleo Residenziale rivolto ad adulti con disabilità acquisita (di origine traumatica, cardiovascolare, neuro-degenerativa) con quadro clinico stabilizzato ed un bisogno prevalente di tipo riabilitativo, assistenziale e di socializzazione.
Tutte le strutture residenziali dispongono dell’assistenza sanitaria di base, di consulenze
specialistiche ambulatoriali e accertamenti diagnostico strumentali non complessi.
Presso il Pronto Soccorso (P.S.) è in funzione la Struttura di Osservazione Breve Intensiva
(OBI) che si occupa dell’assistenza a pazienti, affetti da patologie acute che richiedono un
tempo breve di valutazione, con la finalità di un rapido inquadramento diagnostico o terapeutico al fine di decidere per un eventuale ricovero o per la dimissione.
La tipologia degli ospiti delle strutture, sia dal punto di vista della complessità clinica, che
della difficoltà relazionale e comunicativa, può richiedere talvolta un’organizzazione particolare per l’esecuzione di approfondimenti diagnostici non routinari che prevedono
l’utilizzo di più strumentazioni, anche ad alto contenuto tecnologico e l’esecuzione di trattamenti sanitari complessi.
È inoltre evidente che dal punto di vista della qualità della vita del disabile è importante
limitare la sua permanenza in ambiente ospedaliero al tempo strettamente necessario e con
i supporti adeguati alla sua condizione psico-fisica e favorire il rientro negli ambienti di vita quotidiana.
Metodologia
Per ridurre il disagio dei pazienti disabili, per raggiungere la diagnosi nel tempo più rapido
e soprattutto per ottimizzare le risorse si è proposto un modello organizzativo presso il Policlinico di Modena.
Il modello permette l’accesso facilitato ai disabili adulti ospiti delle strutture residenziali
alla struttura di Osservazione (OBI) per l’esecuzione di trattamenti sanitari complessi e/o
approfondimenti diagnostici non routinari.
L’accesso in OBI è concordato dal Medico di Medicina Generale della residenza previo
contatto telefonico.
Attivato il percorso, il personale del reparto prende in carico il paziente dal momento
dell’ingresso a quello della dimissione. Il disabile è accompagnato in ospedale da un operatore della residenza che si integra al personale dell’OBI e segue il paziente in ogni fase del
trattamento. L’obiettivo di utilizzare l’accesso all’OBI per effettuare in maniera più inten-
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siva accertamenti diagnostici e trattamenti specifici, in relazione alla particolarità del paziente disabile, comporta un aumento del bisogno di nursing tutelare. In questo senso
l’operatore della struttura residenziale può svolgere un ruolo di supporto sia al disabile rispetto al contesto insolito in cui si trova, sia al personale sanitario del reparto per un aiuto
nell’assistenza, nella relazione con il paziente e con i familiari.
Risultati
Dal 1 gennaio 2007 al 30 luglio 2008 al sono transitati presso l’OBI 18 pazienti (provenienti da strutture diverse, prevalentemente dall’Istituto Mons. Gerosa) con disabilità grave, nessuno di questi è stato ricoverato.
Conclusioni
Considerata la complessità del paziente affetto da disabilità e lo stravolgimento che può
comportare l’ospedalizzazione, riteniamo che la dimissione ed il ritorno alle strutture di
competenza rappresenti un buon risultato.
Tale organizzazione, che non può prescindere dall’abilità professionale del Medico Curante
e del personale delle strutture di provenienza, ha inoltre permesso nel corso dell’ultimo anno e mezzo, di ridurre in maniera significativa il numero di ricoveri ospedalieri, il numero
di giornate di degenza, il numero di accessi al P.S. da parte dei pazienti affetti da disabilità.
100
L'approccio del MMG alle problematiche sanitarie in
persone con disabilità intellettiva grave e gravissima:
l'esperienza di sette anni di attività in un centro residenziale
Loredana Perticarari, Massimo Marcon
Ausl Modena – distretto 3
Introduzione
Prendersi cura del paziente con disabilità intellettiva è, per il medico di Mmg come per gli
altri,un notevole banco di prova. La mancanza di anamnesi diretta, la quasi impossibilità ad
un esame obiettivo canonico, la difficoltà all'esecuzione di manovre diagnostiche strumentali, porta a dover fare esercizio di diagnostica differenziale basata su ben pochi elementi.
Al di là della specifica disabilità, come gli altri può contrarre qualsiasi tipo di malattia, invecchia, muore. Semmai ci sono dei rischi specifici legati alla assoluta mancanza di percezione del pericolo, alle spesso concomitanti crisi epilettiche, alle terapie instaurate per stati
di agitazione psicomotoria, alle difficoltà di alimentazione dovute spesso alla noxa iniziale.
L'obiettivo del medico deve essere volto alla miglior qualità di vita possibile di questi soggetti senza eccedere nella eccessiva “medicalizzazione”, perché essi non vanno considerati
ammalati a priori, ma portatori di uno stato di salute diverso rispetto ai coetanei non disabili.
Nel 2001, quando ci siamo trovati a prenderci cura di disabili intellettivi ospiti permanenti
di una struttura residenziale ci siamo chiesti come poter ottenere le condizioni suddette e
abbiamo optato soprattutto per un taglio di natura preventiva.
L'organizzazione sanitaria prevede attualmente la presenza di un MMG 15 ore/settimana e
di 7 I. P. di cui 1 di coordinamento (il cui lavoro consiste tra l'altro nel fare da tramite con
il servizio assistenzial/educativo).Vi sono poi alcuni specialisti che operano stabilmente in
struttura con accessi programmati: 1 neuropsichiatra, 1 fisiatra, 1 ginecologo.
La prevenzione odontoiatrica è effettuata, a mezzo di accessi programmati, presso l'ambulatorio odontoiatrico per disabili del Policlinico di Modena.
Quanto alle altre visite specialistiche e alla diagnostica strumentale si è reso necessario costruire percorsi dedicati; infatti spesso le consulenze esterne esitavano in “non è stato possibile eseguire la prestazione per mancanza assoluta di collaborazione”. Questo, in aggiunta alle liste di attesa, rendeva molto difficile la diagnostica anche più banale, per cui un disturbo, anche lieve poteva portare a ricovero ospedaliero con tutti gli oneri assistenziali e i
disagi del caso per l’ospite.
Si è quindi, non senza qualche difficoltà organizzativa, proceduto alla creazione di percorsi
dedicati coinvolgendo il servizio di medicina specialistica e diagnostica strumentale
dell’Ausl di Modena. Questi percorsi (attivi, per ora, oculistica, dermatologia, radiologia)
prevedono l’individuazione di personale medico e paramedico disposto a confrontarsi con
la disabilità (a volte alcuni soggetti possono essere imprevedibilmente aggressivi e opposizionisti), la consulenza domiciliare in struttura quando possibile, la precedenza nelle liste
di attesa, la precedenza nelle sedi ambulatoriali, l’accompagnamento da parte di personale
assistenziale che assiste e collabora durante la visita o l’esame, la possibilità di briefing e
debriefing telefonico da parte dell’MMG con lo specialista consultato.
Dovendo poi gli ospiti della struttura eseguire almeno annualmente un ECG (a causa dei
neurolettici assunti) si è provveduto a formare le IP per l’esecuzione di un ECG di base (lo
strumento nuovo giaceva inutilizzato nei magazzini dell’istituto). Il percorso prevede
l’esecuzione dell’ecg da parte delle IP, l’invio agli specialisti per la lettura, l’eventuale
successiva visita a domicilio per coloro che avessero mostrato particolari alterazioni.
101
Quanto agli esami di laboratorio (anch’essi effettuati normalmente annualmente insieme ai
dosaggi ematici degli antiepilettici), il, prelievo viene effettuato in istituto dalle IP e poi
portato al laboratorio di competenza, i risultati vengono ritirati dopo qualche giorno dal
personale dell’istituto. Il percorso degli EEG (necessari per il follow up dell’epilessia) è a
cura dello specialista neuropsichiatria. In questo modo ogni ospite della struttura ha annualmente una routine ematochimica,un ECG, due visite ginecologiche per le donne, una
consulenza fisiatrica, una visita odontoiatrica.
Quanto alle situazioni di emergenza sanitaria, con la collaborazione delle IP, si sono costruiti protocolli d’urgenza che permettono di prestare i primi soccorsi e di distinguere le
condizioni in cui l’invio in PS è inevitabile, da quelle che possono essere risolte in struttura. Ma anche per l’invio in PS si è reso necessario attuare un percorso che tuteli il più possibile il disabile.
Questo prevede il contatto preventivo da parte del MMG e/o dell’IP dell’OBI di competenza (policlinico o Nocsae) con la descrizione del caso e l’orientamento diagnostico, l’accompagnamento da parte di personale assistenziale (che rimane per tutta la durata della degenza) e il rinvio (in caso di dimissione veloce) in istituto previo contatto telefonico
dall’OBI al MMG e/o IP.
Con le OBI si è pure costruito il percorso per le manovre diagnostiche più indaginose che
necessitino di sedazione e/o narcosi (es. gastroscopie,tac, rm ecc).
Risultati
La attuazione dei vari percorsi suddetti ha permesso di limitare gradualmente gli accessi
indiscriminati al PS e i ricoveri per urgenze mediche come si vede dalla tabella successiva:
totale
ricoveri
invii in PS 01
26
11
invii in PS 04
5
3
invii in PS 05
5
0
invii in PS 07
6
1
si può notare che nel 2005 non ci sono stati ricoveri per urgenze, gli invii in Ps sono stati
per traumi cranici od osteoarticolari.
Conclusioni
Se si concorda che un ricovero ospedaliero per i portatori di disabilità intellettiva costituisce un trauma ulteriore (ambiente estraneo, alterazione della scansione della giornata, persone sconosciute, ecc), si può convenire che il cercare di evitare ricoveri ospedalieri, quando possibile, porti a miglioramento della qualità di vita.
La specificità non è nel tipo di problematica sanitaria, ma nell'organizzazione per cui non
si fa una medicina dell'handicap ma una medicina per l'handicap.
102
SIMPOSIO 7
Programma Regionale Integrato per l’assistenza ai disturbi
dello spettro Autistico in Emilia-Romagna
Elisabetta Fréjaville, Francesca Ciceri
Servizio salute mentale, dipendenze patologiche, salute nelle carceri
Assessorato Politiche per la salute - Regione Emilia-Romagna
L’Autismo e i disturbi dello spettro autistico rappresentano una sfida importante per
l’adeguamento del sistema sociale e sanitario sia per gli aspetti di miglioramento clinico ed
organizzativo di collaborazione integrata che per il necessario e competente supporto alla
famiglia.
In Emilia-Romagna sono circa 1.200 le persone con disturbi dello spettro autistico di età
inferiore a 18 anni annualmente in carico alle NPIA territoriali. A partire dagli anni 2000
l’Assessorato politiche per la salute della Regione Emilia-Romagna ha approfondito il tema del miglioramento dei servizi per l’autismo attraverso il contributo di Tavoli tecnici che
ha portato, nel 2004, alla emanazione di indirizzi alle Aziende sanitarie (delibera di Giunta
regionale 1066/2004 “Linee guida per la promozione della salute per le persone con autismo ed altri disturbi pervasivi dello sviluppo”) e, nel marzo 2008, alla approvazione del
“Programma regionale Integrato per l’assistenza alle persone con disturbo dello spettro autistico PRI-A” (delibera di Giunta regionale 318/2008).
Obiettivo generale del Programma è di garantire equità, tempestività ed appropriatezza della diagnosi, presa in carico e cura delle persone con disturbi autistici nelle diverse fasce di
età, attraverso la qualificazione dei percorsi, clinici ed organizzativi, il tutte le realtà territoriali della Regione.
Il modello organizzativo è quello della strutturazione complessa della rete “Hub& Spoke”:
in tutte le realtà aziendali/provinciali saranno istituiti centri Spoke (1° livello) a cui potranno fare riferimento i numerosi attori coinvolti nella strutturazione di percorsi integrati di
diagnosi e presa in carico; gli Hub (2° livello) sono individuati in ognuna delle tre Aree vaste dell’Emilia-Romagna (presso le Aziende Usl di Reggio Emilia, Bologna e Rimini) ed
hanno funzione di riferimento specialistico e di governo clinico (supporto alla formazione,
monitoraggio, qualificazione dei percorsi, etc.).
La realizzazione del Programma è da prevedersi nell’arco del triennio 2008-2010 con la
completa attuazione della condivisa articolazione di obiettivi di medio e lungo termine, la
messa a regime di protocolli uniformi clinici ed organizzativi, la definizione e
l’adeguamento di specifici requisiti per l’accreditamento, in particolare per la diagnosi e la
presa in carico nei primi anni di vita.
Le 11 Aziende USL sono impegnate a costituire /consolidare un team-spoke aziendale per i
disturbi dello spettro autistico costituito da professionisti di diverse discipline, esperti nella
corretta diagnosi e nell’approccio psicoeducativo, cognitivo comportamentale, per la abilitazione delle persone con disturbi autistici.
Il Programma Regionale si avvale di un Comitato Operativo per il coordinamento delle
funzioni clinico organizzative nei singoli team aziendali e di un Comitato Scientifico,
composto anche da esperti nazionali, il cui mandato è quello, in coerenza con la letteratura
scientifica corrente, di indirizzare l’appropriatezza dei percorsi assistenziali, fornire la valutazione clinica ed epidemiologica dei risultati del monitoraggio, supportare il processo di
accreditamento delle attività previste dal Programma.
103
Il Comitato Scientifico propone inoltre iniziative di ricerca e innovazione, con particolare
attenzione alla proposta di eventuali nuovi approcci clinico-terapeutici (es. grastroenterologici, neurometatabolici, genetici).
Uno specifico finanziamento regionale per il triennio garantirà il supporto alla costruzione
della rete Hub & Spoke ed il perseguimento degli obiettivi, generali e specifici, per i diversi livelli di attuazione, a cominciare dalla tempestività della diagnosi sino alla necessità di
una revisione dei percorsi assistenziali per adolescenti e adulti con disturbi dello spettro
autistico.
104
Sviluppo di ricerche empiriche finalizzate al miglioramento
della efficacia della assistenza psichiatrica alle persone
con ritardo mentale e disturbo mentale: i primi risultati
Ciro Ruggerini, Giovanni Neri, Francesca Fontana, Francesca Villanti, Valentina Moretti,
Anna Maria Agostini, Daniele Marchetti, Laura Mauri, Giambattista Giuliani, Massimo
Marcon, Sumire Manzotti, Gian Paolo Guaraldi
Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena, Ausl di Modena, Ausl di Reggio
Emilia, AUSL di Rimini
Introduzione
La letteratura internazionale e, ormai, anche italiana, concorda sul persistere di due dati costanti nella prassi della assistenza psichiatrica alle persone con Ritardo Mentale e Disturbo
Mentale in età adulta:una sovramedicazione con farmaci psicotropi e una eccessiva approssimazione negli inquadramenti diagnostici. Un dato che esprime, in estrema sintesi, queste
due osservazioni è il seguente: mentre si riconosce che i Disturbi Schizofrenici interessano
l’1.5 – 2% della popolazione delle persone con Ritardo Mentale - contro l’1% della popolazione generale -, la frequenza delle prescrizioni di farmaci antipsicotici varia- nelle diverse popolazioni studiate, dal 20 al 40 %. La causa di questa sovramedicazione risiede anche in una valutazione inadeguata dei “ comportamenti di sfida “(challenging behaviour) spesso auto o eteroaggressivi - il cui significato funzionale può essere misconosciuto. Vi
sono solo dati sporadici relativi alla realtà italiana – come riconosciuto dai documenti, anche recenti, della Società Italiana per lo Studio del Ritardo Mentale (SIRM) -. Nel 1995 si
è tenuta nell’Ohio la prima Consensus Conference su questo argomento che ha portato alla
elaborazione di Linee Guida sulla diagnosi e la prescrizione di psicofarmaci alle persone
con Ritardo Mentale. In questa occasione si è riconosciuto che la sovramedicazione con
farmaci psicotropi ha i seguenti effetti: abbassa drasticamente la Qualità della Vita delle
persone con Ritardo Mentale, le espone a grossolani effetti collaterali, impone al sistema
assistenziale un costo esorbitante per terapie non necessarie e per la cura dei frequenti effetti collaterali. Tali Linee Guida sono state pubblicate nel 1998 e divulgate, nel nostro paese, in una pubblicazione del 2004.
Le persone con Ritardo Mentale hanno bisogni multipli appartenenti alle aree “esistenziali”, a quelle dello sviluppo e a quelli delle disabilità, delle malattie neurologiche e internistiche e dei Disturbi Mentali giustapposti alla condizione di base. Emerge la necessità di
riferimenti culturali che consentano una collaborazione tra gli operatori delle diverse aree
che cooperano nell'assistenza delle persone con Ritardo Mentale.
Al momento attuale solo una attività di ricerca può fornire questi riferimenti perché i dati
scientifici disponibili sono frammentari e, in più, spesso importati da altre culture.
Una collaborazione interdisciplinare non ottimale può indurre una distorsione dei problemi
assistenziali: sanitarizzazione dei problemi sociali oppure socializzazione dei problemi sanitari o, come definizione di sintesi, una banalizzazione dei bisogni che si può tradurre in
risposte inefficaci anche se costose.
L’assistenza alle persone con Ritardo Mentale costituisce una occasione privilegiata di riflessione sulla collaborazione interdisciplinare perché questa condizione comporta spesso,
come si è detto, una molteplicità dei bisogni.
Lo studio del modo in cui questa assistenza si struttura e si potrebbe strutturare è, quindi,
un contributo al tema più generale - attualmente di stringente attualità - della necessità per i
sistemi di assistenza di gestire situazioni multiproblematiche.
105
Materiali e metodi
La ricerca è rivolta a tre popolazioni di persone con RM in età adulta, in carico ai Servizi
di Modena, Reggio Emilia, Rimini. Ognuno di questi Servizi risulta avere in carico più di
500 soggetti. Saranno esaminati circa 450 soggetti selezionati in maniera casuale dalla popolazione in esame in quanto statisticamente significativi della popolazione in esame. In
questo lavoro pilota si presentano i dati relativi a un campione di 37 soggetti selezionati a
mezzo di sorteggio di cui 18 (48,60%) sono di sesso maschile e 19 (51,40%) di sesso femminile. 2 soggetti hanno età compresa tra i 18 e i 25 anni, 11 tra i 26 e i 35, 10 tra i 36 e i
45 anni, 11 tra i 46 e i 60 anni e 3 hanno più di 60 anni.
Il metodo è un questionario che è stato compilato sulla base delle cartelle presenti nei Servizi – Sociale o Psichiatrico -.
La compilazione è stata curata da medici specialisti in psichiatria e dagli operatori – psicologi ed educatori- che lavorano quotidianamente con i soggetti selezionati.
Il Questionario raccoglie tre categorie di informazioni:
• dati socio – anagrafici
• frequenza delle diagnosi psichiatriche
2.a frequenza dei trattamenti psicofarmacologici
2.b frequenza della epilessia e delle malattie internistiche
2.c frequenza dei trattamenti per epilessia e malattie internistiche
• numero e tipo di Servizio che partecipa alla assistenza per ogni caso
3.a criteri di formulazione della diagnosi di RM
Risultati
Per quanto riguarda l’area clinica è emerso che in 1 caso su 2 il livello di disabilità cognitiva non è stato valutato con strumenti standardizzati; nel 20 % dei soggetti esaminati non è
stata effettuata una diagnosi di Disturbo Mentale, sono risultate 3 diagnosi di disturbo del
controllo degli impulsi, 4 diagnosi di depressione, 2 di mania, 5 di autismo e 5 di schizofrenia. Il 35,56 % delle diagnosi appartengono alla categoria “altri disturbi”. Un Disturbo
del comportamento è presente in 34 casi su 37 e soltanto nel 15 % dei soggetti è stato ipotizzato un disturbo mentale come causa delle manifestazioni comportamentali disadattive.
L’80 % dei soggetti assume una terapia psicofarmacologica delle quali: più di un terzo è
rappresentato da Neurolettici tipici che risultano i farmaci prescritti più frequentemente, le
benzodiazepine sono prescritte in 11 casi, in 9 casi sono somministrati neurolettici atipici
e, con minore frequenza, risultano prescritti Antidepressivi e Stabilizzatori dell’Umore. Più
della metà degli individui intervistati assume o ha assunto psicofarmaci quando era minorenne. Anche la prima prescrizione di terapie antiepilettiche è avvenuta ad una età inferiore
ai 18 anni. La parte 3 del questionario indaga le necessità assistenziali e i rapporti con i
servizi, il risultato più interessante riguarda la certificazione di Ritardo Mentale: il 95 %
dei soggetti ha, infatti, una certificazione di Ritardo Mentale ma solo all’11% dei soggetti è
stata effettuata una misurazione del QI mediante una scala psicometria. Nell’81,6 % degli
individui esaminati la modalità di certificazione utilizzata è stata la valutazione clinica.
Conclusioni
Lo studio pilota ha rilevato che la tendenza alla sovramedicalizzazione e il problema di inquadramenti diagnostici approssimativi sono presenti nella popolazione esaminata, in linea
con i dati presenti in letteratura. Se questi dati saranno confermati al termine della ricerca
sarà elaborato un progetto per sollecitare nella pratica clinica una modifica delle attuali
prassi diagnostiche e prescrittive.
106
Bibliografia
Bonati, A., Comi, G., Pierri, M., 1996, La prescrizione neurolettica in una popolazione istituzionalizzata affetta da Ritardo mentale, in M. Sala, M. Pierri e A. Campari (a cura di),
La persone adulta con ritardo mentale nelle istituzioni: cura e riabilitazione, Milano,
Ghedini
Deb, S., Matthews, T., Holt, G., & Bouras, N., 2001, Practice guidelines for the assessment and diagnosis of mental health problems in adults with intellectual disability. European Association for Mental Health in Mental Retardation, Brighton, Pavilion
Guaraldi, G.P., Ruggerini, C., Villanti, F, Neviani, V., La terapia neurolettica nel Ritardo
Mentale: review della letteratura, in Sala M, Bonati Al (Eds.), Ritardo Mentale e psicofarmaci. Verso la costruzione di un approccio razionale, Vannini, Brescia, 2004
Hill, B. K., 1985, A national study of prescribed drugs in institutions and community residential facilities for mentally retarded people, Psychopharmacology Bullettin, 21, 279-284
La Malfa, G.P., Bertelli, M., 2003, Consensus Conference della Società Italiana per lo
Studio del Ritardo Mentale (SIRM): utilizzo di farmaci antipsicotici e stabilizzatori
dell’umore nel Ritardo Mentale, Giornale Italiano di Psicopatologia, 9, 3-16
Reiss, S., Aman, M.G., (Eds.), 1998, Psychotropic Medication and Developmental Disabilities: the International Consensus Handbook, The Ohio State University, Nisonger Center
107
Il problema della polifarmacoterapia nei pazienti con gravi disturbi dello sviluppo: ottimizzare la sicurezza delle prescrizioni
Marco Venuta, Mattia Venuta, Andrea Venuta
Dipartimento di Salute Mentale AUSL Modena
Facoltà di Farmacia - Università di Modena e Reggio Emilia
Professore Associato di Pediatria - Università di Modena e Reggio Emilia
I disturbi gravi dello sviluppo sono frequentemente oggetto di interventi medici, sia per la
patologia di base che spesso si esprime in fenotipi con problematiche fisiche a carico di diversi apparati ed organi, sia per la maggiore prevalenza di alcune condizioni mediche che si
instaurano su una base di vulnerabilità, sia per la normale esposizione al rischio di ammalare della popolazione generale (cfr. tavola 1).
Tavola 1: Comorbidità nei Disturbi gravi dello Sviluppo
Patologie correlate al fenotipo
Patologie correlate alla maggiore vulnerabilità
Patologie intercorrenti
Patologie iatrogene
La paralisi cerebrale p.e. spesso si accompagna a spasticità o ipotonia, disturbi del movimento, contratture, deformità degli arti o toraciche, cifoscoliosi, crisi convulsive. La sindrome di Down anch’essa può facilmente esprimersi con ipotonia e crisi convulsive, malformazioni cardiache, problemi tiroidei ed immunitari, deficit sensoriali. La sindrome del
Cri du chat è associata a malformazioni cardiache e scoliosi, la sindrome di Prader Willi a
problemi ormonali vari, ecc. (Greydanus & Pratt, 2005; Pater & Zylstra, 2006).
Le condizioni mediche legate alla particolare vulnerabilità organica dei pazienti sono miriadi, in particolare possiamo citare problemi endocrinologici, variazioni di peso, il reflusso
gastroesofageo, la stipsi, l’osteoporosi, le infezioni respiratorie, i problemi dermatologici e
ortopedici, problemi comportamentali, ecc. (Henderson et al., 2007).
Ovviamente tali pazienti non sono risparmiati dalle comuni patologie della popolazione generale, e l’allungamento della vita media li espone naturalmente ancora di più ai comuni
fattori di rischio.
Gli interventi medici sono particolarmente complessi. È nota innanzitutto una certa difficoltà per questi pazienti e i loro caregiver di utilizzare le risorse sanitarie della comunità,
mancando spesso percorsi specifici che in grado di attenuare le difficoltà ad una competente, comprensiva e continuativa presa in carico (Lewis et al., 2002; Baxter et al., 2004). Un
ulteriore elemento di difficoltà è il gap comunicativo: il medico che non abbia esperienza
specifica con questa tipologia di pazienti è drammaticamente spiazzato e spesso totalmente
incapace di stabilire una comunicazione. Talvolta, pur possedendo buone competenze, si
trova a dover fare i conti con la tempistica della sua attività, che non permette di porsi in un
sufficiente ascolto del paziente e del suo entourage. Ben si comprende che in tale contesto
l’errore medico sia costantemente in agguato.
Una delle situazioni più frequenti è senz’altro quella che possiamo definire l’“emergenza
comportamentale”: il paziente si presenta irrequieto, agitato o aggressivo. Talvolta gli stessi
familiari o caregivers mettono l’accento sul comportamento e sulle problematiche che questo può creare. Tuttavia non è infrequente che il problema apparentemente psicologico sottenda disturbi fisici più o meno seri: dolori, in prima battuta, di origine le più svariate, ma
anche sensazioni di malessere generale, stati di ottundimento, malfunzionamento di organi
108
e apparati. Si finisce così per trattare la punta dell’iceberg, magari con qualche prescrizione
di farmaci psicotropi, rimanendo insoluto il problema di base. Talvolta il motivo delle turbe
comportamentali sono gli stessi effetti collaterali dei farmaci, il cui mancato riconoscimento può portare a nuove e ulteriori prescrizioni, con il possibile innesco di un circolo vizioso
difficile da risolvere. Sta di fatto che tutte queste comorbidità di cui abbiamo trattato comportano frequentemente polifarmacoterapie con i principi attivi più svariati, cui si aggiungono possibili ulteriori complicazioni da abitudini alimentari, uso di medicine non tradizionali o prodotti di erboristeria. Witemeyer (2008) riporta i dati di 150 accessi
all’ambulatorio per i Disturbi dello sviluppo (Figura 1): solo 8 pazienti non assumevano
farmaci, gli altri ne assumevano da 1 a 13 con una media di 4,45 farmaci a paziente.
Figura 1: Politerapie in pazienti afferenti all’ambulatorio per i Disturbi dello sviluppo
La curva di distribuzione non è molto dissimile da quella della popolazione anziana o da
quella dei pazienti ospedalizzati, altre note categorie di pazienti su cui incombe il rischio
“politerapie” e danni da interazione tra farmaci.
Il rischio clinico di eventi avversi aumenta infatti proporzionalmente al numero di farmaci
assunti, ed è ovvio che nelle popolazioni più esposte la frequenza di problemi legati ai farmaci è tale che qualcuno parla di “epidemia silenziosa”.
I dati dei costi per la salute dei pazienti e delle strutture sanitarie sono impressionanti. Peraltro a fronte di questi numeri e della giusta preoccupazione dei pazienti, l’atteggiamento
dei medici è solitamente molto poco attento, tanto da far pensare ad una sorta di negazione
di un problema vissuto come troppo angosciante per le conseguenze e la mancanza di mezzi a disposizione per affrontarlo. Purtroppo la conseguenza drammatica di questo atteggiamento si traduce in un disconoscimento di situazioni gravissime, allo stesso livello di quello di situazioni di minore gravità
La complessità del problema riguarda soprattutto la farmacocinetica.
Se infatti è abbastanza semplice per il Clinico avere presente il problema delle interazioni
farmacodinamiche (ad esempio che l’uso di aspirina non deve essere contemporaneo a
quello del warfarin), molto più complessa si presenta la problematica delle interazioni farmacocinetiche, cioè quelle relative ai percorsi di metabolizzazione dei farmaci che si incrociano nell’organismo.
Già l’interazione di due soli farmaci dal punto di vista farmacocinetico richiede un confronto incrociato dei dati sul metabolismo non sempre agevole. I foglietti illustrativi infatti non
sempre sono esaustivi in proposito, e la loro consultazione non è sempre disponibile e im-
109
mediata. Esistono tabelle, banche dati in rete e strumenti informatici che ovviano queste
difficoltà, ma l’accesso non è sempre semplice.
Il problema si complica enormemente quando i farmaci di cui vogliamo verificare
l’interazione farmacocinetica diventano più di due. L’utilizzo contemporaneo di cinque
farmaci in terapia porta a numeri esorbitanti di possibilità diverse, dell’ordine di trilioni
(Preskorn, 2004, Kostoff, 2006). È evidente che solo l’aiuto del computer può intervenire a
risolvere tale complessità.
Per tale motivo abbiamo sviluppato un software (Venuta M., 2008) che permette di visualizzare direttamente e con semplicità una serie di informazioni tratte dalla letteratura scientifica per supportare la decisione clinica e facilitare una miglior sicurezza prescrittiva.
Il software è un database, scritto in linguaggio JavaTM, con tre strumenti di informazione
sulle conseguenze farmacocinetiche di una associazione tra vari principi attivi:
1. La visualizzazione dell’impatto di associazioni multiple di principi attivi sugli enzimi di fase 1, 2 e 3, attraverso un grafico interattivo.
2. Dati (e grafico relativo) dagli studi in “vivo” sulle associazioni di coppie di principi
attivi (le “AUC ratio”, gold standard per comprendere le interazioni e le conseguenze sui livelli ematici)
3. Dati (e grafico relativo) sulla potenza di inibizione enzimatica di singoli principi attivi
La base scientifica, in costante aggiornamento, è costruita su oltre 2000 trials clinici o studi
in vitro sul metabolismo delle sostanze. Altre migliaia di informazioni sono tratte dai foglietti illustrativi di tutti i farmaci prescritti approvati dalla F.D.A. Al momento sono rappresentati oltre 1800 principi attivi. Il software propone dati anche su principi attivi non
farmacologici, come cibi, erbe, prodotti di medicina alternativa, sostanze di abuso, solventi
e chimici, permettendo così di valutare le prescrizioni in un contesto allargato, talvolta responsabile di “inesplicabili” effetti tossici e risposte inefficaci.
Bibliografia
Baxter, H., Lowe, K., Houston, H., Jones, G., Felce, D., Kerr, M. (2006) Previously unidentified morbidity in patients with intellectual disability, Br J Gen Pract. Feb; 56(523): 9398
Greydanus, DE., Pratt, HD. (2005) Syndromes and disorders associated with mental retardation, Indian J Pediatr Oct; 72 (10): 859-864
Henderson, A., Lynch, SA., Wilkinson, S., Hunter, M. (2007), Adults with Down's syndrome: the prevalence of complications and health care in the community, Br J Gen Pract.
Jan; 57 (534): 50-55
Lewis, MA., Lewis, CE., Leake, B., King, BH., Lindemann, R. (2002), The quality of
health care for adults with developmental disabilities, Public Health Rep. Mar-Apr;117 (2):
174-184
Kostoff, R.N., Delafuente, J.C., (2006) The Unknown Impacts of Combinations of Large
Numbers of Drugs, Drug Safety 29 (3): 183-185
Prater, CD., Zylstra, RG. (2006), Medical care of adults with mental retardation, Am Fam
Physician. Jun 15; 73 (12): 2175-2178
Preskorn, S.H. (2004), How drug-drug interactions can impact managed care, Am J
Manag Care 10(6 Suppl): S186-198
Witemeyer, S. (2008), Medical Concerns in Adults with Developmental Disabilities
http://www.unmcoc.org/powerpoint/medical_concerns.ppt
Venuta, M. (2008) VisualCyp http://www.drug-interactions.eu
110
Disabilità: un concetto in evoluzione: nulla su di noi senza di noi
Giampiero Griffo
Federazione italiana per il superamento dell'handicap - FISH
Il concetto di disabilità ha subito nell'ultimo trentennio una profonda trasformazione fino
ad approdare alla definizione basata sul rispetto dei diritti umani della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite, recentemente entrata in vigore.
Questo ha prodotto un cambiamento sostanziale della lettura della condizione delle persone
con disabilità. Agli approcci tradizionali legati ad una visione individuale/medica si è ormai consolidato a livello internazionale un modello di disabilità come quello dell'ICF dell'OMS a cui la Convenzione ha dato un sostanziale impulso.
Concetti come non-discriminazione, eguaglianza di opportunità, partecipazione, inclusione
sono alla base del nuovo approccio.
Le pratiche mediche scientifiche devono tener conto di questa nuova impostazione, ponendo alla base degli interventi di cura un quadro culturale basato sulla relazione tra le caratteristiche delle persone e la capacità della società di tenerne conto. In questa nuova prospettiva centralità in tutti gli interventi gioca la famiglia e le stesse persone con disabilità. Lo
slogan del movimento internazionale delle persone con disabilità e delle loro famiglie,
“niente su di noi senza di noi”, rappresenta un metodo, un diritto, ed una pratica utile al
prendersi cura delle persone con disabilità.
Le pratiche dell'empowerment, che cercano di superare i processi di impoverimento individuale e sociale che le persone con disabilità vivono, nascono proprio dalle associazioni di
promozione e tutela, intervenendo per offrire nuovi strumenti di consapevolezza e di capacitazione.
La Convenzione ONU sottolinea che gli interventi devono svilupparsi non solo nell'ambito
della riabilitazione medica, ma in quello dell'abilitazione per l'accesso e la fruizione di tutti
i diritti umani. Le società dovranno basarsi sulla valorizzazione delle diversità umane, valore fondante del genere umano, a cui dovranno collegarsi tutti i processi di progettazione e
sviluppo della società.
111
SIMPOSIO 9
Il punto di vista delle famiglie su un percorso integrato
di riabilitazione equestre
Anna Marotta - psicologa
Eugenio Bosna - psicologo
Luca Schiavone - Direttore del Centro per le Attività e Terapie Assistite con gli Animali di
Rutigliano - BA
Centro per le attività e terapie assistite con gli Animali “D. Divella” - Rutigliano
Il Centro è certificato con il sistema di gestione qualità “ISO 9000”, ed applica tutte le
norme per la gestione della sicurezza del DLGS 626/94. Per il benessere degli animali
coinvolti, si è acquisita insieme ai PET PARTNERS la “Certificazione Carta Modena”.
Il Centro è affiliato FISE, LAPO e ad organizzazioni internazionali di riabilitazione equestre come NARHA e la FRDI.
Da molti anni gli operatori della Cooperativa Sociale “RUAH” si occupano del trattamento
con la riabilitazione equestre di patologie psichiatriche anche complesse ed hanno acquisito nel tempo una competenza e conoscenza di prim’ordine delle problematiche.
Presso il Centro, inoltre, operano due psicologi psicoterapeuti che si occupano sia della valutazione neuropsicologica completa di ogni singolo paziente sia del sostegno alle famiglie
e, all’occorrenza, del singolo componente.
Il Centro è dotato di testistica neuropsicologica all’avanguardia. Presso il Centro, inoltre, è
possibile effettuare la valutazione testologica completa di tutte le difficoltà e patologie psichiatriche che coinvolgono l’età evolutiva. È inoltre possibile la diagnosi ed il trattamento
dei disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia, ecc.),
dell’ADHD, ecc. per ogni singolo paziente, inoltre, sono previsti oltre alla valutazione iniziale delle condizioni psicopatologiche e generali, anche controlli testo logici a frequenza
quadrimestrale al fine di monitorare l’evoluzione della condizione psicologica ed adottare
le opportune condizioni terapeutiche. Il tutto in completa sintonia con il referente della
struttura pubblica inviante.
Da gennaio 2008 sono stati somministrati dei questionari alle famiglie dei piccoli pazienti
ospiti del Centro (un campione di 100 famiglie), al fine di raccogliere informazioni circa i
cambiamenti che le stesse hanno raggiunto per mezzo della Riabilitazione Equestre.
Dall’indagine effettuata è emerso che l’86% delle famiglie ha raggiunto un cambiamento
all’interno dell’organizzazione familiare, inteso sia come miglioramento del tono
dell’umore dei genitori che controllo e autonomia dei propri figli.
Inoltre le famiglie riferiscono che il cambiamento osservato nei piccoli non è circoscritto
alla sola durata dell’attività equestre ma bensì perdura nel tempo.
Altro elemento emerso dai questionari è la possibilità di arricchimento delle famiglie durante lo svolgimento delle attività dei figli, inteso come possibilità di confronto e scambio
di informazioni tra loro, che permetta di trovare assieme strategie di intervento educativo,
oltre che supporto psico-emotivo.
Infine la maggior parte delle famiglie suggerisce una migliore collaborazione tra gli operatori del centro e le altre figure presenti sul territorio, affinché si possa ottenere un intervento psico-educativo individualizzato di rete, di modo che il bambino possa assicurarsi una
continuità di interventi.
112
Flessibilità dell’intervento: aspetti clinici ed operativi
Cesare Porcelli
UO di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza – ASL Provinciale di Bari
Il ritardo mentale è una disabilità che comporta difficoltà varie e un modo “sui generis” di
porsi e di interagire con l’ambiente. Le difficoltà sono funzione del grado di disabilità intellettiva e delle “cause” che l’hanno determinata. Sono anche funzione del contesto socioambientale di vita e degli interventi riabilitativi attuati.
Non ci sono interventi riabilitativi “standard” e validi per tutti ma, gli interventi, sono funzione del grado di disabilità, dell’età e della capacità di accettazione ed integrazione del
soggetto: un Autistico ha chiaramente esigenze e bisogni diversi da una persona Down che
a sua volta è diverso da una persona con una Prader-Willi o con esiti di una sindrome ipossica pre-perinatale, ecc.
L’attività riabilitativa va quindi, nei limiti del possibile, “cucita addosso” alla persona con
disabilità.
Spesso l’intervento riabilitativo trascura alcuni aspetti importanti della vita dei soggetti che
ci sono affidati. Il nostro intervento è fortemente condizionato dai nostri tempi di lavoro e
non dalle esigenze del disabile che si modificano in funzione delle età ma anche in funzione di quelli che sono gli accadimenti della sua vita.
Gli si impongono orari ed attività spesso funzione solo della organizzazione del “servizio”
ma che non tengono conto delle esigenze del soggetto.
La struttura ri-abilitativa deve quindi considerare e modificare il suo intervento e la sua
proposta adeguandola alle esigenze dell’utenza.
Verrà descritta l’esperienza presso il centro per le Attivià e Terapie Assistite dagli Animali
di Rutigliano (Bari). Tale attività è resa in sinergia con la U.O. di Neuropsichiatria
dell’Infanzia e dell’Adolescenza della ASL di Bari.
113
Integrazione tra approccio farmacologico, psicoterapia
e riabilitazione nella disabilità intellettiva:
l’esperienza di un Centro di riabilitazione
Claudio Ciavatta
Dottore in Scienze della Riabilitazione e Scienze dell’Educazione, Responsabile processi
riabilitativi e formativi Centro di Riabilitazione Padri Trinitari Venosa
Michele Germano
Neuropsichiatra infantile, Direttore medico Centro di Riabilitazione Padri Trinitari Venosa
Francesco Mango
Psicologo clinico, Psicoterapeuta, Responsabile Equipe Centro di Riabilitazione Padri Trinitari Venosa
Il contributo intende illustrare un’esperienza concreta di integrazione tra approccio farmacologico, psicoterapia e ri-abilitazione e intende porre l’accento sulla necessità di procedere
in maniera integrata.
A questo proposito descrive l’esperienza dei Padri Trinitari di Venosa. Ente accreditato
presso la Regione Basilicata ad erogare attività di riabilitazione, il Centro offre i suoi servizi ad adolescenti e giovani adulti con disabilità ed opera in stretta sinergia con il Centro di
Formazione Professionale dei Padri Trinitari, anch’esso accreditato presso la Regione, attuando il percorso riabilitativo nella logica di una “sistematica sinergia e integrazione tra
formazione e riabilitazione, con caratteristiche di continuità”, in accordo a quanto espressamente indicato dalle finalità della Legge Regionale n° 20 del 17 novembre 2004 in materia di formazione professionale rivolta a cittadini diversamente abili.
La presa in carico della persona con disabilità intellettiva richiede un processo coerente con
i bisogni del paziente, per permettere alle persone con disabilità di ottenere e conservare la
massima autonomia, la piena abilità fisica, mentale, sociale e professionale, e di giungere
alla piena inclusione e partecipazione in tutti gli ambiti della vita.
Per queste ragioni è necessario concretizzare una condivisione (progettuale ed operativa)
costante tra tutti gli operatori coinvolti e mantenere sotto controllo la globalità degli interventi.
Inoltre, una adeguata procedura di gestione degli interventi soddisfa:
1. i processi di ottimizzazione organizzativa, rispetto ai criteri di efficacia ed efficienza;
2. i requisiti per l’accreditamento che gli Enti e le Istituzioni (ad es. Regione, Asl) richiedono alle organizzazioni;
3. il controllo interno operato dalla stessa organizzazione;
4. il confronto scientifico.
Per fare questo è innanzitutto necessario comprendere e valutare in maniera oggettiva, la
persona che abbiamo di fronte. I suoi bisogni accanto alle sue potenzialità.
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Comunicazioni
Libere
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Le sfide del prendersi cura del disabile intellettivo
nelle fasi terminali della vita
M. Arneodo
Opera Don Guanella Centro di Riabilitazione “Casa S. Giuseppe” Roma
S. Magari
Università Cattolica S. Cuore Roma
Introduzione
Ciascuna persona ha il diritto di morire da uomo e da donna, nel modo più sereno e dignitoso possibile, senza essere schiacciato dalla sofferenza, ma lenito e confortato oltre che
dalle terapie farmacologiche sintomatiche, anche dal clima psicologico ed affettivo dei
propri cari e dell’equipe di cura.
Le cure palliative rappresentano l’esplicazione di un’assistenza globale, che comprende
tutte le dimensioni, fisiche, psicologiche, sociali e spirituali.
I due pericoli per gli operatori sanitari, nell’assistenza al paziente terminale, sono
l’abbandono terapeutico o viceversa l’accanimento e sono ancora più evidenti quando si ha
a che fare con una persona con disabilità intellettiva (DI), che spesso ha difficoltà a comunicare i suoi sintomi e stati d’animo e a condividere con il medico via via le decisioni da
adottare.
Metodologia
Lo stile “educativo”, richiesto a tutti coloro che a vario titolo operano nelle strutture guanelliane, è caratterizzato da accoglienza, coinvolgimento affettivo, riconoscimento della
propria individualità, vicinanza emotiva e mira a creare un clima “di famiglia”, ovvero
quel clima di relazioni di interdipendenza, che consente una crescita reciproca, di assistiti e
operatori, famiglie, volontari.
L’intervento è finalizzato fin dall’infanzia a favorire e sostenere un progetto esistenziale
concretamente raggiungibile, nel contempo però, permanentemente e non lasciando nulla
di intentato, a garantire il più possibile ad ogni soggetto, in ogni tappa della vita, compresi
gli ultimi momenti, il suo spazio vitale e la sua realizzazione come persona.
Risultati
Dall’analisi di alcuni casi di accompagnamento nelle fasi terminali della malattia, emerge
come:
a) in queste condizioni la comunicazione è fatta di uno scambio profondo non solo di parole, che non possono essere che sostanziali, ma soprattutto di gesti e di emozioni. In questo
gli operatori che lavorano con i disabili intellettivi sono già “esperti”: la disabilità intellettiva, infatti, di per sé esige sempre di comunicare non soltanto verbalmente, ma anche e
soprattutto con gesti, posture corporee, stato d’animo, atteggiamento interiore, disponibilità;
b) la reale situazione va detta alla persona con DI senza traumatizzarla psicologicamente,
ma senza bugie, dicendole quella parte di verità che vuole e può conoscere e in maniera idonea a quanto in quel momento può capire, aiutandola a non subire quanto le accade, ma
ad affrontarlo il più possibile in maniera attiva;
c) la fede aiuta a vivere il mistero della vita, apre alla solidarietà e molti trovano conforto
dalla partecipazione a momenti religiosi, in maniera coerente al loro livello funzionale;
d) in certe situazioni, quando non è più possibile guarire, essere autentici verso se stessi e
coerenti con i pazienti, per gli operatori sanitari significa ammettere la propria impotenza,
ma nello stesso tempo continuare a sperimentare l’importanza per il malato del loro essere
118
comunque “presenti”. In questa relazione, il momento della sofferenza può diventare, sia
per l’operatore sanitario che per il paziente, un’opportunità per una crescita personale (e
professionale);
e) la disponibilità e la capacità di vivere l’accompagnamento a chi soffre in maniera equilibrata dipende dal significato personale, sociale e professionale che l’operatore attribuisce
alla vita, alla sofferenza, alla morte. Nel gruppo di lavoro si possono creare tensioni psicologiche, ma il vantaggio è poter condividere, parlarne insieme: quell’aiutarsi ad aiutare in
cui è fondamentale l’apporto di ciascuno (anche personale delle pulizie, segretarie, ecc.).
Conclusioni
Le persone con disabilità intellettiva, proprio per la loro fragilità e dipendenza, aiutano gli
operatori sanitari ad esprimere in pieno la loro vocazione professionale di prendersi cura
del malato e del morente.
119
La sfida dell’empowerment
Monica Balestrini
Psicologa - Associazione “La Nostra Famiglia” Bosisio Parini (LC)
Le attività di empowerment trovano particolare applicazione nel campo delle persone disabili e rispondono alla necessità di contrastare la condizione di svantaggio che queste spesso
vivono. La pratica di intervento orientata all’empowerment si fonda sull’aiutare le persone
a riconoscere le proprie risorse e quelle dell’ambiente, a sviluppare forze, competenze e abilità personali e ad utilizzarle attivamente nella soluzione dei problemi, nella consapevolezza che sia possibile aumentare la loro autostima e il senso di autoefficacia.
L’ottica dell’empowerment è alla base della metodologia utilizzata per attività di gruppo
che hanno coinvolto distintamente adolescenti e giovani adulti disabili, le loro famiglie e
gli operatori che lavorano nell’ambito della formazione professionale, con una tecnica
messa a punto in collaborazione con formatori di diversi centri europei nell’ambito del
Programma Leonardo.
Si intende presentare il lavoro svolto con 2 gruppi di disabili mentali, adolescenti gli uni e
giovani adulti gli altri, illustrando finalità e obiettivi del percorso e descrivendo la metodologia utilizzata, con particolare attenzione ad alcuni concetti chiave, quali la valenza del
gruppo, il ruolo specifico del conduttore, le tematiche affrontate e gli strumenti impiegati.
Verranno infine presentate considerazioni sull’esperienza e riflessioni circa gli obiettivi
conseguiti e parzialmente raggiunti, in particolare relativi alle aree di conoscenza di sé e di
relazione con l’altro, e al grado di attivazione di nuove modalità di problem solving e di
contrattazione.
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Rosa Bianca: l’inserimento etero familiare attraverso
un’associazione di volontariato di Modena
T. Barbieri, G. Frigieri, G.P. Guaraldi, C. Ruggerini, E. Moretti, S. Zini
Associazione Rosa Bianca, Modena
Grazie alle doti di ricercatore di un nostro socio fondatore, siamo venuti a contatto con ciò
che di eccezionale accade ogni giorno a Geel, paese delle fiandre belga: 440 famiglie accolgono nelle loro case circa 500 persone con disagio psichico e, cosa altrettanto straordinaria, questa nobile tradizione va lì perpetuandosi fin dal 1200. Molte famiglie, ancora oggi,conservano gelosamente fuori dal portone la targa che ne contraddistingue l’essere una
“Foster family” del paese. Spontaneamente nel nostro gruppo di lavoro ci si è domandati se
questo modello potesse essere un giorno interpretato anche nel nostro territorio modenese.
Certo Geel, per la forza della sua tradizione anticamente intrecciata con il culto della vergine martire Dymphna, rimarrà probabilmente un unicum in tutta la storia.
Nasce poi, durante un simposio sulla storia di Geel e del Family Care, l’idea di fondare
un’associazione con lo scopo di promuovere l’inserimento etero familiare nella nostra provincia e con esso l’intento di diffondere la cultura dell’accoglienza.
Il 12 Novembre 2007 viene firmato dai soci fondatori lo statuto di Rosa Bianca e inizia subito l’opera di divulgazione di questa idea, anche grazie al supporto delle valide realtà di
Lucca e Torino e dell’università di Modena e Reggio Emilia.
A oggi l’associazione conta 25 iscritti; tali soci in questi mesi hanno approfondito insieme
le modalità di inserimento etero familiare, le esperienze simili già esistenti nel territorio e
la figura dell’amministratore di sostegno. Recentemente, inoltre, l’associazione ha avuto
l’opportunità di concorrere con la S.I.R.M. e altre società scientifiche alla stesura delle linee guida per la salute mentale nelle condizioni di disabilità intellettiva.
L’associazione ha fin da subito voluto condividere con le istituzioni locali gli scopi associativi tanto che il 1 ottobre 2008 ufficialmente ha preso vita una commissione mista composta da membri del Dipartimento di Salute Mentale di Modena, dei Servizi Sociali e
dell’associazione Rosa Bianca. Insieme si sta elaborando un progetto comune.
Auspichiamo nasca così, tramite questo iter innovativo, un altro degno modello di questo
metodo innovativo.
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Dove e come vivono gli ex ospiti
dell'ospedale-ricovero San Giovanni
Gabriella Boilini
Ospedale-Ricovero congiuntamente al Comune di San Giovanni
Dal materiale raccolto nel lungo periodo (1973-1990),necessario per il superamento dell'Ospedale-Ricovero di San Giovanni in Persiceto, e' possibile realizzare un video contenente:
−
flash della vita in istituto degli anni 70
−
flash dei tentativi di umanizzazione interna degli anni 80
−
flash di storie del reinserimento in prov di MO negli anni 80
−
interviste a dimessi tuttora viventi, a parenti ed operatori dei servizi o delle strutture
che attualmente li ospitano
Da esperienze già' effettuate si ritiene opportuno che la proiezione del video non superi i
20/25 minuti
Si potrebbero inoltre realizzare poster contenenti la suddivisione per luoghi di provenienza,
sesso, età e periodo di istituzionalizzazione dei 163 ospiti provenienti dalla provincia di
Modena e l'andamento della loro deistituzionalizzazione dal 1970 al 1990.
122
Formazione interna: un’esperienza per favorire la cultura
del cambiamento
S. Bultrini, E. Dili, B. Salsone
Centro Riabilitativo “Tangram” - Roma
Introduzione
Negli ultimi decenni il concetto di QOL ha assunto sempre più il ruolo di elemento focale
per la ricerca e la prassi nei campi dell’educazione, sanitario, sociale e familiare.
La domanda che ci siamo posti è la seguente: di cosa ha bisogno una organizzazione sociosanitaria per orientare i servizi ed i sostegni, e di conseguenza accrescere gli esiti, riferendosi al costrutto di QOL? La risposta iniziale è stata favorire una cultura del cambiamento.
Metodologia:
Presentazione della metodologia a tutti gli operatori dei servizi coinvolti nel progetto.
Acquisizione della conoscenza del concetto teorico e dello strumento di lavoro relativo alla
QOL attraverso un’esperienza formativa attiva.
Individuazione delle attività socio-sanitarie per le quali utilizzare lo strumento di lavoro elaborato dall’equipe multidisciplinare.
Discussione con il gruppo di lavoro per la verifica di congruità e correttezza della lettura
nell’utilizzo dello strumento.
Risultati:
Maggiore disponibilità al cambiamento culturale nell’area socio-sanitaria ed una mirata attenzione dei bisogni dell’utenza legata al costrutto della QOL.
Conclusioni
Questa esperienza ci ha aiutato a riflettere su quanto sia importante, a fianco ad una formazione continua individuale, una formazione condivisa per i gruppi di lavoro.
Nell’ottica della QOL abbiamo riscontrato quanto tale costrutto sia importante nel progettare gli interventi nel lavoro con l’utente.
123
Medicina basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 2: L’obiettivo sovraordinato del progetto educativo/
abilitativo: il miglioramento della Qualità della Vita
del soggetto e della sua famiglia
Paola Caggia e Sumire Manzotti
Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena / Azienda
AUSL di Modena sugli aiuti allo sviluppo dei bambini con disabilità intellettiva in età prescolare
AUSL di Modena; Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena
La storia
N. a 15 anni inizia a frequentare un centro Diurno; ha un'età mentale di circa 12 mesi; il
suo cammino è incerto; il suo linguaggio è composto da alcune bisillabe (es. mamma, papà, bebe = bicchiere / bere, etc); non ha controllo sfinterico. Non sta seduta autonomamente, non per incapacità, ma perché, se lasciata a sé stessa, si sdraia a terra oppure si mette
carponi sotto la sedia per "ascoltare" le proprie dita che tamburellano la sedia. Per rimanere
seduta deve stare in braccio ad uno dei genitori (è grande quanto loro). Vocalizza continuamente oppure, in alternativa, urla.
A causa di questi comportamenti i genitori non frequentano nessun locale "pubblico" con
N.: si alternano per fare la spesa, per frequentare la chiesa, per visitare i parenti, etc. N.
frequenta esclusivamente il suo Centro Diurno oltre alla propria casa; negli anni precedenti
l'ingresso al centro Diurno ha frequentato la scuola e gli ambulatori della NPI.
Il lavoro educativo/abilitativi si è posto come obiettivi l'acquisizione dello "star seduta" e
la possibilità di "chiedere" a N. di non vocalizzare ad alta voce in situazioni sociali inopportune.
N. ha acquisito la capacità di star seduta in tempi relativamente brevi (4-6 mesi) perché le è
stata proposta nei momenti del pasto e della merenda (al Centro Diurno): il cibo non veniva più dato quando N. si alzava dalla sedia; N. è così arrivata, in circa 6 mesi, a consumare
l'intero pasto seduta.
Più complesso è stato insegnare a non vocalizzare in luoghi inopportuni, perché si è dovuto
individuare altre gratificazioni sostitutive. La prima è stata il mazzo di chiavi che N ama
far tintinnare tenendolo davanti agli occhi. Poi si è scoperto "il bicchiere": un comune bicchiere di plastica usa e getta, che N rompe con le dita in striscioline sottili.
Altra proposta è il registratore, che N ascolta con le cuffie: poiché preferisce ascoltare la
fiaba dei tre porcellini, non canta/vocalizza mentre ascolta.
Ciò che più l'ha conquistata è stata però la scoperta delle palline antistress: in gomma, in
stoffa con sabbia, polistirolo o altro all'interno, in lattice con acqua dentro, etc. N le manipola, guarda come si modificano schiacciandole, pizzicandole, infilando un dito, etc. Tutte
queste attività venivano sospese quando N iniziava ad urlare: N ha così imparato a farle
senza alzare la voce.
Altro obiettivo è stato l'acquisizione del controllo sfinterico: N ha imparato a battere una
mano sulla pancia quando vuole andare in bagno e, a casa e al Centro Diurno, non usa più
il pannolone, mentre all'esterno i genitori preferiscono continuare a farglielo utilizzare per
"sicurezza".
Ora che N è in grado di stare seduta e non urlare, la famiglia frequenta regolarmente i parenti, i ristoranti, la chiesa, i supermercati, gli uffici pubblici, i negozi. I genitori affermano
di "non sentirsi più prigionieri della condizione di estrema dipendenza di N”.
124
Il significato
La promozione di competenze adattive adeguate all'età mentale non solo è possibile ad ogni età, ma migliora anche, in maniera significativa, la Qualità della Vita della famiglia. La
pianificazione assistenziale deve tenere conto, per questo, dei bisogni sociali ed emotivi
delle famiglie. Le famiglie, sollevate da costrizioni opprimenti ed eccessive, possono contribuire in modo decisivo allo sviluppo dei figli offrendo loro opportunità nella vita quotidiana.
Contestualizzazione
Rahi et.al. (2004) hanno studiato un programma assistenziale multi-professionale ed evidenziato l’importanza di fornire assistenza alle famiglia con bambini disabili nel momento
della diagnosi; l’importanza di fornire informazioni socio-educazionali; l’importanza di
fornire un sostegno psicologico da parte di diversi professionisti.
Baily and Bruder (2005) sottolineano che, nella pianificazione della assistenza, i risultati
familiari (=family outcomes)’ sono un obiettivo prioritario poiché la famiglia è una risorsa
fondamentale per lo sviluppo dei bambini con e senza disabilità intellettiva.
Bibliografia
Rahi, J.S., I. Manaras, H., Tuomainen and G.L. Hundt (2004) Meeting the Needs of Parents Around the Time of Diagnosis of Disability Among Their Children: Evaluation of a
Novel Program for Information, Support, and Liaison by Key Workers, Pediatrics vol.114
no.4.
Baily and Bruder (2005) Family outcomes of early intervention and early childhood special education: issues and considerations (3rd Ed.), Early Childhood Outcomes Center, SRI
International; California.
125
Il comportamento problema è un messaggio
S. Checchia, P. Martinelli
Associazione Internazionale RING14
La presentazione si basa sui sei diritti dell’individuo a ricevere un trattamento efficace,
prescindere dalla gravità della disabilità e dall’età del soggetto:
1. L’individuo ha il diritto ad un ambiente terapeutico
2. L’individuo ha il diritto a servizi il cui scopo principale è il benessere (welfare)
dell’individuo
3. L’individuo ha il diritto di ricevere il trattamento da uno specialista competente
4. L’individuo ha il diritto di accesso a programmi che insegnino abilità funzionali
5. L’individuo ha il diritto di ricevere una valutazione comportamentale e monitoraggio continuo
6. L’individuo ha il diritto di ricevere il trattamento che utilizza le procedure disponibili più efficaci,
avendo come obiettivo dell’intervento la qualità della vita.
L’accento sarà posto sui comportamenti problema (Emerson 1005), partendo da una loro
definizione:un comportamento distruttivo e/o pericoloso per
– L’individuo
– Gli altri
– L’ambiente
– O che ostacoli l’apprendimento e l’interazione sociale
Verranno analizzati nel dettaglio poi i fattori di rischio che li sviluppano (Sigafoos et al,
1995; Schroeder et al, 1978; Sturmey and Vernon, 2001), le diverse forme che possono assumere in soggetti disabili, le possibili cause e concause.
Infine verranno presentate alcune linee guida che permettono di sviluppare programmi di
gestione del comportamento.
126
Disturbi mentali ed epilessia:
studio di prevalenza in adulti con IDD, in setting residenziali
Giuseppe Chiodelli, Laura Galli, Serafino Corti, Francesco Fioriti, Mauro Leoni, Luigi
Croce
Istituto Ospedaliero di Sospiro (Cr), Anffas Brescia Onlus
Premessa
L’epilessia è il più comune disturbo cerebrale presente nella popolazione generale. Circa
l’1% della popolazione generale negli Stati Uniti presenta diagnosi di epilessia e circa il
10% presenta una crisi convulsiva in qualche momento della vita (Roberts, C. et al., 2005).
Le stime di prevalenza di epilessia in soggetti adulti con D.I. variano dal 12 al 30 %, le
stime maggiori si associano alla presenza di ulteriori disabilità (paralisi cerebrale) o ad un
disturbo genetico (sindrome X fragile) (Jansen, Kroll, Groothoff, & Post, 2004; Niedermeyer, 1999).
La D.I. deriva da innumerevoli fattori causali, così accade per l’epilessia: alcune forme di
epilessia esitano in una disabilità intellettiva (Trevathan et al., 1999). Alcuni fenotipi comportamentali, (Bowley & Kerr, 2000), derivanti da specifiche alterazioni genetiche si presentano in forte associazione con l’epilessia.
Sono in corso studi finalizzati ad indagare l’esistenza di una relazione tra tipo di epilessia
ed eziologia della D.I. (O’Brien & Yule, 1995).
L’epilessia si associa alla presenza di una maggior tasso di disturbi del comportamento e di
disturbi psichiatrici rispetto alla popolazione senza epilessia (Lund, 1985).
La disabilità intellettiva determina la presenza di un maggior tasso di disturbi del comportamento e psichiatrici al confronto con persone senza D.I. (Deb, 1997a): ci si chiede se entrambe le condizioni: IDD ed Epilessia, interagendo tra loro, si potenziano causando
un’ulteriore incremento della presenza di disturbi mentali (disturbi del comportamento e
disturbi psichiatrici).
Materiali e metodi
Lo studio recluta tutti i soggetti residenti presso “Fondazione-Istituto Ospedaliero di Sospiro” con diagnosi di Ritardo Mentale Grave-Profondo (secondo i criteri del DSM-IV TR o
valutato con la scala di Wechsler-Bellevue).
Nei soggetti reclutati sono state valutate le dimensioni psicopatologiche e comportamentali
impiegando la scala DAS-H II (Diagnsositc Assessment for Severely Handicapped, version
II, Matson, 1998). e la scala NOSIE (Nurses’ observation Scale for Inpatient Evaluation;
Honifeld, 1965); il livello di funzionamento neuromotorio (equilibrio e deambulazione sono stati misurati con la scala di Tinetti (Tinetti, 1986), le patologie in comorbilità, compresa l’epilessia, sono state valutate con l’indice di comorbilità CIRS (Cornwell et al., 1993).
Lo studio ha la durata di sei mesi. Le valutazioni sono avvenute al baseline, T-0 (T = n° di
settimane dall’inizio dello studio), T-12 e T-24.
Risultati
La diagnosi di Epilessia è presente nel 33.2 % (98) dei soggetti del campione di 295 residenti. Dall’analisi non emergono correlazioni statisticamente significative tra presenza di
epilessia e maggior prevalenza di psicopatologia e/o disturbi del comportamento.
Non si sono evidenziate, inoltre, differenze statisticamente significative rispetto alle variabili psicopatologiche e/o ai disturbi del comportamento, considerate singolarmente o insieme, tra il campione di soggetti con e senza epilessia.
127
L’unica variabile che si mostra correlata in modo statisticamente significativo alla presenza
di epilessia è quella relativa alla presenza di disturbi del sonno.
Emerge l’elevato carico di malattia mentale presente anche nei soggetti con diagnosi di epilessia: si sottolinea quindi, l’elevata esposizione di queste persone all’azione degli psicofarmaci (antiepilettici e antipsicotici) i cui effetti collaterali sul funzionamento mentale
(per gli antipsicotici anche il rischio di riduzione della soglia epilettica) sono considerevoli.
Consapevoli che questo lavoro non può essere considerato conclusivo nel chiarire la complessa natura della relazione tra epilessia e malattia mentale (disturbi psichiatrici e/o disturbi del comportamento) in soggetti con disabilità intellettiva, lo scopo è che esso possa
contribuire ad accrescere il corpo di dati disponibili in letteratura sull’argomento.
128
Clinica ed Educazione della Disabilità Intellettiva:
che cosa abbiamo imparato dal Modello dei Sostegni
Luigi Croce, Giuseppe Chiodelli, Serafino Corti, Francesco Fioriti, Mauro Leoni
Anffas Brescia Onlus, Istituto Ospedaliero di Sospiro (Cr)
In una fase di profonda trasformazione della cultura e della prassi della disabilità intellettiva, lo scenario dei servizi nel nostro paese è caratterizzato da alcuni aspetti specifici:
1. il forte coinvolgimento dei familiari e della società civile nel sostenere la presa in
carico istituzionale e i diritti delle persone con disabilità intellettiva;
2. l’introduzione e l’applicazione operativa di nuovi modelli di classificazione, valutazione, pianificazione ed erogazione dell’assistenza alle persone con disabilità,
nella fattispecie l’International Classification of Functioning dell‘OMS e il X Sistema di Classificazione, Definizione e Pianificazione dei Sostegni dell’American
Association on Intellectual and Developmental Disabilities;
3. l’applicazione di nuovi strumenti concettuali e pratici di rilevazione dei bisogni delle persone con disabilità intellettiva nella prospettiva del miglioramento della loro
qualità di vita e di quella dei loro familiari, come la SIS, scala dell’intensità dei sostegni dell’AAIDD;
4. l’orientamento deciso delle attività di cura e riabilitazione verso il funzionamento
individuale e la qualità di vita;
5. i contributi operativi delle neuroscienze e della ricerca clinica e psicopedagogia al
miglioramento dell’assistenza alle persone con disabilità intellettiva;
6. l’ottimizzazione delle risorse attraverso procedure più razionali di allocazione delle
stesse.
In questa lavoro intendiamo quindi descrivere lo stato attuale e le direttrici di sviluppo ulteriore delle pratiche sanitarie ed educative al servizio delle persone con disabilità e delle loro famiglie, proponendo un itinerario procedurale di applicazione dei modelli adottati, sulla
base delle esperienze e della ricerca azione svolta nel corso dell’ultimo anno.
129
Il lavoro con le famiglie.
Lo spazio della genitorialità: l’esperienza con i gruppi multicoppie
M. Cundari, C. D’Anzica, M. Olivieri, M. Santacroce
Centro riabilitativo Tangram - Roma
Introduzione
Questo lavoro riferisce alcune riflessioni su una serie di percorsi di gruppo per genitori di
adolescenti disabili dell’ambulatorio evolutivo.
L’esigenza terapeutica iniziale è stata quella di creare un setting in grado di ascoltare
quell’area esperenziale che le coppie sentono come “esperienza non-capita” in risposta alla
solitudine dei ruoli genitoriali ed individuali.
È un lavoro in progress che permette il confronto tra modalità diverse di affrontare l’evento
stressante della nascita e crescita di un figlio con disabilità.
Metodologia
Il lavoro si svolge in un setting terapeutico di multicoppia dove partecipano sette coppie di
genitori di utenti in carico all’ambulatorio dell’età evolutiva.
Non è obbligatoria la presenza di entrambi i genitori.
Gli incontri si svolgono con frequenza mensili di 1,5 ore ciascuno e sono condotti da due
coterapeuti.
Risultati
Le multicoppie hanno dato la possibilità nel confronto, di mettere assieme il maschile ed il
femminile, la funzione paterna e materna, consentendo di recuperare le diversità tra i ruoli
e di condividere le difficoltà genitoriali.
La condivisione delle esperienze nel gruppo, ha facilitato la promozione di relazioni, reti e
risorse anche tra i vari genitori.
La ricaduta istituzionale ha facilitato la possibilità del riconoscimento dell’identità del proprio figlio in carico al centro riabilitativo.
L’efficacia temporale della condivisione e dell’elaborazione delle emozioni ha permesso di
affrontare temi complessi e profondi.
La tipicità dell’intervento gruppale, ha permesso inoltre di ottimizzare le risorse degli interventi riabilitativi al centro.
Conclusioni
L’esperienza ci ha permesso di creare un setting esclusivo dove la solitudine genitoriale ha
trovato spazio e conforto dalla presenza e dalla partecipazione attiva degli altri genitori
presenti, creando un clima di maggiore fiducia ed affidamento propedeutico al cambiamento terapeutico.
Ci ha consentito inoltre di confermare l’efficacia di una riabilitazione che possa prevedere
un approccio integrato finalizzato al benessere non solo dell’utente ma anche di tutta la sua
famiglia.
130
La nuova longevità della disabilità intellettiva
(Altre informazioni sul progetto DAD di ANFFAS TRENTINO ONLUS sono disponibili sul
sito istituzionale www.anffas.tn.it o www.validazione.eu/dad e scrivendo a [email protected].)
Elisa De Bastiani, Tiziano Gomiero, Ulrico Mantesso
ANFFAS Trentino Onlus
Luc Pieter De Vreese
U.O. Salute Anziani, Distretto di Modena e Castelfranco Emilia, ASL Modena
Introduzione
Negli ultimi anni l’aspettativa di vita delle persone con sindrome di Down (DS) è aumentata notevolmente accompagnando, in una progressione molto più rapida, l’analogo allungamento che si è prodotto nella popolazione generale.
In tutte le persone il naturale percorso di invecchiamento porta con sé l’accentuarsi o la
comparsa di alcune patologie, ma per quanto riguarda i soggetti con DS, questo processo
avviene con anticipo. Nella DS i tassi di incidenza e prevalenza di demenza aumentano con
l’età anche se risultano essere di gran lunga superiori (Coppus et al., 2006; Margallo-Lana
et al., 2007) rispetto alla popolazione generale (Ravaglia et al, 2005). La patologia legata
all’invecchiamento con maggior prevalenza nella DS è la demenza nella Malattia Alzheimer (Dementia in Alzheimer’s disease, DAD), verosimilmente per una iperproduzione della
APP (Schupf, 2002) e della SOD-1 (De Haan et al., 1997), entrambi codificate dal cromosoma 21.
Queste persone con l’avanzare dell’età, necessitano quindi di supporti maggiori dovuti a
modificazioni fisiologiche e psicologiche.
Contenuto
Anticipazione di un volume di prossima edizione che raccoglie una di una serie di contributi legati allo stato dell’arte più attuale della letteratura internazionale nell’ambito
dell’invecchiamento nella disabilità intellettiva, dall’epidemiologia, alla vulnerabilità, ai
trattamenti delle patologie concomitanti.
Tale testo si pone come obiettivo di portare a conoscenza di quanti si occupano a vario titolo di persone anziane con disabilità intellettiva, di alcune prassi sperimentate all’interno del
progetto DAD di ANFFAS Trentino che ha favorito un miglioramento della qualità di vita
delle persone con Disabilità Intellettiva (e non solo) vagliate con le evidenze basate sulla
medicina e sulle scienze sociali.
Risultati
Vengono proposti strumenti puntuali di assessments diagnostici e clinici e procedure per la
valutazione dell’efficacia degli interventi anche sperimentando metodi qualitativi legate a
tecniche di osservazione strutturata quali l’OSBWIN, in un’ottica legata all’attenzione per
il ruolo sociale e agli indicatori riconosciuti in ambito internazionale per i parametri di qualità di vita.
Vengono riportate, alcune esemplificazioni degli interventi psico-sociali e ambientali sperimentati. Dall’esperienza maturata fin’ora nell’ambito di questo progetto, emerge in modo
evidente come una gestione mirata al benessere della persona nella sua interezza, coadiuvata da interventi orientati alle funzioni cognitive, alle abilità quotidiane, alle emozioni, al
mantenimento dell’attività fisica, possa influenzare positivamente il destino cognitivo/sociale a medio-lungo termine di anziani con DS.
131
Conclusioni
Affrontare in termini metodologici rigorosi la nuova longevità del disabile e la demenza
nell’anziano disabile, significa affrontare il problema dell’anziano in generale avvalendosi,
anche per l’invecchiamento, di quanto avvenuto per l’età evolutiva dove il miglioramento
della cultura educativa nei confronti dei bambini con DI ha portato ad un miglioramento
della qualità dell’educazione in generale (cfr. tra gli altri Perini, 1990).
In quest’ottica diventa fondamentale la formazione del personale, l’adeguatezza degli ambienti e gli aspetti organizzativi, per non esporre questi ‘nuovi’ pazienti ad un elevato rischio di una istituzionalizzazione anticipata con un inevitabile aumento della sofferenza
psicologica del malato e della famiglia e dei costi sociali per la collettività.
132
Assessment for Adults with Developmental Disabilities
questionnaire (AADS): uno studio di attendibilità
della versione italiana della scala
Luc Pieter De Vreese
U.O. Salute Anziani, Distretto di Modena e Castelfranco-Emilia, ASL Modena
Tiziano Gomiero, Ulrico Mantesso, Elisa De Bastiani
ANFFAS Trentino Onlus.
Obiettivo
Verificare la consistenza interna (alfa di Cronbach), l’attendibilità (concordanza tra due intervistati indipendenti e tra due interviste in due momenti diversi con uno stesso intervistato) e la validità (correlazioni con le caratteristiche demografiche e cliniche, differenze tra
persone con e senza demenza) di una versione italiana dell’AADS (AADS-I), ottenuta con
la procedura di traduzione in Italiano e retrotraduzione dall’Italiano in Inglese seguite da
un confronto della versione originale con quella retrotradotta.
Metodi
La scala AADS è un questionario indiretto da applicare ad adulti con DI nel processo
d’invecchiamento. Descrive i comportamenti frequentemente osservati in corso di demenza. Richiede agli informant (personale o familiare) di riferire la frequenza (6 livelli), la difficoltà di gestione (6 livelli) e l’impatto sulla qualità di vita della persona valutata (6 livelli) di questi comportamenti verificatisi nelle ultime due settimane. Per ciascun livello di
difficoltà di gestione e dell’impatto del comportamento sulla persona, sono riportati alcuni
esempi come guida generale.
Il questionario distingue eccessi (11 item) e deficit comportamentali (17 item), esitando per
ciascun dominio in tre punteggi separati per la frequenza, difficoltà di gestione ed impatto
sulla persona. I punteggi sono direttamente proporzionali alla gravità dei comportamenti
osservati in termini di frequenza, difficoltà gestionale e impatto sulla persona. L’AADS-I è
stata somministrata da psicologi, pedagogisti o educatori professionali, previa un corso di
formazione, agli abituali operatori di 68 soggetti adulti con ID di varia eziologia che frequentano i diversi servizi (semi)residenziali gestiti principalmente dall’ANFFAS Trentino
Onlus.
I criteri di eleggibilità allo studio di validazione delle persone con DI erano, oltre al consenso informato diretto oppure mediante un loro familiare o rappresentante legale,
l’assenza di cecità o sordità, di afasia congenita o acquisita, di comorbilità organica o psichiatrica clinicamente rilevante e di recenti eventi stressanti socio-psicologici (es., lutto,
cambio di servizio). Le riposte sono stati immesse direttamente in un foglio elettronico di
un portale protetto del sito www.validazione.eu/dad/ creato nell’ambito del progetto Down
Alzheimer Disease dell’ANFFAS Trentino Onlus.
Risultati
Il campione costituito da 63 soggetti valutato con l’AADS-I ha un’età media di 48,86 (range 21-65) anni, omogeneo in termini sia di distribuzione fra femmine e maschi, di tipologia
e gravità di DI che di condizioni di vita (centri diurni, comunità alloggio, residenze per anziani). Le donne, le persone istituzionalizzate e quelle con una diagnosi clinica di demenza
(n=15), sono risultate mediamente più anziane rispetto ai maschi, ai soggetti che frequentano i centri diurni o le comunità alloggio e coloro senza demenza.
133
I punteggi delle 6 sottoscale sono risultati molto simili sia come medie che deviazione
standard allo studio di validazione originale condotto su 49 soggetti con SD con età media
di 46,51 (range 31-65) anni. Il deficit comportamentale ‘Si comporta come vivesse nel passato’ non è mai stato rilevato e solo il 4.8% e il 7,9% del campione non aveva manifestato
nelle ultime due settimane, rispettivamente alcun eccesso o deficit comportamentale.
L’AADS-I ha mostrato una buona consistenza interna con coefficienti alfa di Cronbach per
le sei sottoscale tutti superiori a 0,70 (range 0,76 – 0,83), corroborata da correlazioni itemtotale risultate tutte maggiori al criterio di 0,40, a parte la sottoscala della difficoltà gestionale da deficit comportamentali con un coefficiente pari a 0,39. Gli indici di concordanza
(coefficienti di correlazioni ICC) tra le due interviste condotte con due operatori indipendenti variavano tra 0,67 e 0,79. Invece, le ICC tra le due interviste a distanza di due settimane condotte con lo stesso operatore, sono tutte risultate ampiamente superiori al criterio
di 0,70 (range 0,75 – 0,81), indicative di una buona stabilità nel tempo delle sei sottoscale
dell’AADS-I.
I sei punteggi dell’AADS-I non correlano né con l’età né con il sesso né con la gravità della DI (salvo per la frequenza dei deficit comportamentali con un r di Pearson di 0.40). Non
si sono osservate differenze nella frequenza degli eccessi o deficit comportamentali tra i
soggetti con SD e con DI di altra eziologia.
Per contro, i soggetti con demenza hanno evidenziato una loro frequenza significativamente più elevata rispetto a coloro senza demenza, anche dopo covarianza per età, sesso e gravità di DI.
Solo la frequenza dei deficit comportamentali correla significativamente con la Somma
degli Scores Cognitivi e degli Scores Sociali del Dementia Questionnaire for Persons with
Intellectual Disabilities (DMR) con valori di r di Pearson rispettivamente di 0,65 e 0,55.
Conclusioni
L’AADS è la prima e per ora unica scala che valuti specificatamente i BPSD nelle persone
con DI. Il presente studio conferma che l’AADS-I è uno strumento con buona omogeneità
e attendibilità, ben comprensibile al personale di cura a patto che conoscano le persone che
assistono.
Risulta sensibile nel rilevare la presenza di disturbi comportamentali sia in eccesso che in
difetto indipendentemente dall’età, sesso e tipologia di DI. In accordo con la letteratura,
sono soprattutto i sintomi comportamentali negativi a correlare fortemente con il declino
dementigeno indicizzato dal DMR.
134
Dementia questionnaire for person with intellectual disabilities:
presentazione dell’edizione italiana del manuale
e della validazione italiana
Luc Pieter De Vreese
U.O. Salute Anziani, Distretto di Modena e Castelfranco-Emilia, ASL Modena
Tiziano Gomiero, Ulrico Mantesso
ANFFAS Trentino Onlus.
Contesto
Pur in presenza di un significativo incremento dell’aspettativa di vita in persone con DI anche nel nostro paese (Cottini, 2003) e di un maggiore rischio di demenza rispetto alle persone normodotate soprattutto negli adulti con DS (Cooper, 1997; Prasher, 2005; MargalloLana et al., 2007), non esisteva fino ad ora in Italia alcun strumento di diagnosi di demenza
validato per questa popolazione (Isella et al., 2007).
Il questionario per la Demenza nelle persone con Ritardo Mentale (DMR) è il primo strumento predisposto per lo screening della demenza nelle persone con DI, ed è stato originariamente sviluppato in Olanda negli anni Ottanta. Con la crescita dell’aspettativa di vita
della popolazione, la diagnosi di demenza e il suo trattamento sta diventando uno dei temi
centrali anche nella cura di persone con DI (si veda a tale proposito anche in Italia l’intero
numero speciale dell’ottobre 2007 della versione italiana dell’American Journal of Mental
Retardation [AJMR] dedicato a tale tema e intitolato Disabilità intellettive e Invecchiamento). Il DMR è attualmente utilizzato da clinici e ricercatori di tutto il mondo; la sua capacità di fornire informazioni valide e attendibili è stata confermata in diversi stati, e per questo
ha assunto un posto prominente nelle batterie di test diagnostici per la demenza, si è inoltre
dimostrato come uno strumento utile e sufficientemente sensibile per follow-up longitudinali degli effetti dei trattamenti farmacologici e non farmacologici.
L’edizione presentata contiene un aggiornamento del manuale che si è reso necessario dopo la ridefinizione dei criteri diagnostici della demenza (Evenhuis, 1996c) che sintetizza i
risultati degli studi esplorativi svolti tra il 1980 e il 1996 e il frutto delle revisioni dei criteri
diagnostici, mentre in bibliografia sono riportati alcuni dei numerosi studi che sono stati
sviluppati da altri autori anche in merito alla specificità e sensibilità dello strumento. Il
manuale tiene conto degli effetti della validità del DMR in riferimento alle revisioni successive dei criteri clinico-diagnostici internazionali come sono stati definiti dall’American
Psychiatric Association (APA, 1987, 1994) e dalla World Health Origanisation (WHO,
1992).
Metodi
Il DMR è un questionario indiretto da applicare ad adulti con DI nel processo
d’invecchiamento e descrive i comportamenti frequentemente osservati.
È composto da 50 item (domande), da compilarsi per mano della famiglia o dello staff di
cura. Le domande del DMR sono paragonabili a quelle che un clinico esperto potrebbe rivolgere a chi si prende cura del soggetto.
Si basano in primo luogo sulle linee-guida internazionali per la diagnosi di demenza (American Psychiatric Association, 1982; McKhann et al., 1984) e su una vasta esperienza nel
campo delle abilità comunicative di soggetti con disabilità intellettiva da lieve a severa. Il
questionario è accompagnato da brevi istruzioni per il completamento e richiede mediamente non più di 15-20 minuti per la somministrazione. Il DMR è stato somministrato da
psicologi, pedagogisti o educatori professionali, previa formazione, agli abituali operatori
135
di 60 soggetti adulti con ID di varia eziologia che frequentano i diversi servizi (semi)residenziali gestiti diversi soggetti pubblici e privati della provincia di Trento. I criteri
di eleggibilità allo studio di validazione delle persone con DI erano, oltre al consenso informato diretto oppure mediante un loro familiare o rappresentante legale, l’assenza di cecità o sordità, di afasia congenita o acquisita, di comorbilità organica o psichiatrica clinicamente rilevante e di recenti eventi stressanti socio-psicologici (es., lutto, cambio di servizio).
Le riposte sono stati immesse direttamente in un foglio elettronico di un portale protetto
del sito www.validazione.eu/dad/ creato nell’ambito del progetto Down Alzheimer Disease
dell’ANFFAS Trentino Onlus.
Risultati
Il campione indagato era costituito da 60 (29 femmine e 31 maschi) soggetti con DI con età
compresa tra 38 e 63 anni e senza grossolani deficit sensoriali o problemi di mobilità. La
diagnosi eziologica di DI è stata reperita dalle cartelle cliniche o direttamente dai medici
responsabili del caso.
Il QI è stato rilevato da parte di professionisti non implicati direttamente nello studio di
validazione del DMR, nel periodo immediatamente precedente o susseguente (non oltre tre
mesi) alla somministrazione del questionario, mediante le versioni italiane delle scale
Stanford-Binet e la Wisc-R,. I valori riportati del QI sono stati standardizzati (z-score)
sulla Stanford-Binet.
I coefficienti alfa di Cronbach erano pari a 0,92 per la SCS e 0,76 per la SOS. Le
correlazioni item-totale raggiungono tutte il criterio > 0,40.
Le correlazioni r di Pearson tra le variabili demografiche, QI e il DMR non hanno
raggiunto il livello di significatività statistica. Per contro e come atteso, tutte le correlazioni
tra QI, SCS, SOS e le sottoscale del DMR sono risultate significative (p <0,001), ad
eccezione delle sottodimensioni ‘Umore’ e ‘Problemi comportamentali’
Conclusioni
L’uso del DMR è raccomandato da tutte le batterie diagnostiche (Aylward et al., 1995,
1997; Strydom e Hassiotis, 2003). Oltre agli item cognitivi, lo strumento calcola anche
degli item non cognitivi.
È l’unica scala osservazionale indiretta che indaga l’orientamento nel tempo e lo spazio
(Burt e Aylward, 2000). Corroborati dai risultati riportati da Silverman et al. (2004), si
sottolinea ancora una volta che una diagnosi sensibile basata sulle variazioni dei
punteggi del DMR richiederebbe una misurazione basale prima dell’esordio della
demenza. Il DMR è uno strumento utilizzato anche per monitorare cambiamenti indotti da
trattamento con inibitori delle colinesterasi (Brown et al., 2004; Prasher et al., 2002,
2003,2005) ed è stato scelto il DMR per i seguenti motivi.
Primo, si tratta di uno strumento ideato appositamente per soggetti con DI e
sospetta demenza, compresa la DS, a differenza di altre scale per il caregiver, come
la Dementia Scale for Down Syndrome (Gedey, 1995) che è destinata ai soli
soggetti con DS.
Secondo, il DMR ha ricevuto apprezzamenti dalle maggiori società scientifiche
(Aylward et al., 1997; Burt e Aylward, 2000) ed esperti di DI (Prasher, 2005;
Strydom e Hassiotis, 2003), grazie agli ottimi indici di attendibilità e di accuratezza
diagnostica.
136
Terzo, il DMR è applicabile a soggetti con DI di grado grave (QI <35) quando
prove oggettive possono non essere praticabili o il declino ad una valutazione
diretta può non essere percepibile per ‘l’effetto pavimento’ (Aylward et al., 1997).
L’assenza di connessioni significative tra le caratteristiche demografiche e il DMR rispetta
uno dei criteri di una ‘buona’ prova di screening per la demenza (Gifford e Cummings,
1999).
Non sorprendono le forte correlazioni tra i punteggi del DMR e i valori del QI in quanto
essi sono stati rilevati in modo indipendente, ma quasi contemporaneamente allo studio di
validazione della versione italiana del DMR.
Confronto delle SCS e SOS tra soggetti con ID profonda e ID lieve-moderata-grave.
50
QI inferiore a 20
QI uguale o superiore a
20
sum of social scores
40
30
20
10
0
0
10
20
30
40
50
sum of cognitive scores
Da notare, tuttavia, che il profilo delle correlazioni è molto simile a quello riportato dagli
autori originali, sebbene i valori QI fossero stati rilevati molti anni prima.
Un altro dato degno di essere riportato è che vi è una variabilità nelle SCS e SOS della
stessa entità nei soggetti con DI gravissima (QI<20) rispetto a coloro con DI meno gravi
(QI ≥ 20), gli autori originali sconsigliano l’uso del DMR nei soggetti con ID profonda per
“l’effetto pavimento” che, almeno nel nostro campione, non si è verificato.
137
Inserimento socio-lavorativo di soggetti con ritardo mentale:
il progetto Icaro
Mariella Dell’Oro
Psicologa - Associazione “La Nostra Famiglia” Bosisio Parini (LC)
Al termine di un percorso di formazione professionale/scuola superiore può essere necessaria una iniziativa “ponte” per una transizione verso il lavoro.
Si tratta di potenziare nel giovane disabile la capacità di decisione, di progettualità, di coerenza verso livelli sempre più alti di maturità; ciò significa promuovere la capacità di reagire, utilizzando le risorse interiori per emergere da situazioni svantaggiose o stressanti, e di
conseguire una propria realizzazione.
Il Progetto Icaro rappresenta la risposta che il Centro di Formazione Professionale de La
Nostra Famiglia ha dato al problema, con l’apporto degli specialisti dell’IRCCS “E. Medea” e in collaborazione con il Centro per l’impiego.
Si intendono presentare il peculiare percorso di orientamento lavorativo, realizzato attraverso la valutazione delle capacità di problem solving con una particolare attenzione alla
modalità di affrontare l’errore da parte del soggetto; la successiva fase di formazione personalizzata, strutturata anche con spazi dove sperimentare simulazioni di diversi contesti di
lavoro e altri in cui condividere e discutere, con i giovani e le loro famiglie, successi e insuccessi, al fine di favorire una consapevolezza di sé e di attivare un processo di resilienza.
Infine verranno presentati i risultati conseguiti e le considerazioni in merito alla metodologia utilizzata.
138
Il servizio di educativa territoriale del Comune di Modena:
un nuovo approccio al bisogno di socializzazione
L’attività del servizio viene svolta da 6 educatori professionali e da un coordinatore.
La collocazione fisica presso i Poli sociali (del comune di Modena) degli educatori, è il
primo importante indicatore della natura del servizio, per l’appunto territoriale, in stretta
relazione quindi con i referenti sociali che operano nei servizi del territorio di Modena (assistenti sociali, psichiatri, psicologo d’area, ….).
Ciascun educatore è referente, rispetto le attività del servizio, per un numero variabile di
utenti (mediamente tra le 10 e le 13 unità) con i quali può intervenire sia attraverso una relazione individuale che attraverso attività di piccolo gruppo o gruppo allargato.
• Attività individuale: si utilizza soprattutto nella fase di conoscenza del caso quando
è importante stabilire una relazione finalizzata alla possibilità, da parte dell’utente,
di esprimersi ed esprimere le proprie aspettative, bisogni, interessi, ecc.. In seguito,
terminata questa fase osservativa, sarà possibile condividere un progetto tra
assistente sociale, utente, famiglia, educatore, ed eventuali altri referenti della rete
dei servizi coinvolti.
• Attività di gruppo: molto spesso gli utenti accolti nell’educativa territoriale
manifestano un forte bisogno di socializzazione. Nel corso degli anni il servizio ha
ripetutamente modificato il proprio assetto organizzativo e la gamma di attività
proposte proprio per andare incontro a questo crescente bisogno. Attualmente la
maggior parte dell’attività degli educatori è finalizzata alle proposte di
socializzazione che sono diverse e diversificate a seconda delle caratteristiche degli
utenti a cui sono rivolte. È in particolare su queste pratiche di socializzazione, sulle
metodologie seguite, sui risultati, sul bisogno manifestato dagli Utenti che si
concentra la comunicazione congressuale.
139
Intervento psicoeducativo su comportamento
di rigurgito alimentare in soggetto istituzionalizzato
con disabilità intellettiva grave
Francesco Fioriti, Giuseppe Chiodelli, Serafino Corti, Mauro Leoni, Laura Galli, Paolo
Merli, Luigi Croce, Equipe RSD-1
Istituto Ospedaliero di Sospiro (Cr), Anffas Brescia Onlus
Studio su un soggetto di 40 anni con disabilità intellettiva grave (F.72), disturbi dello spettro autistico (F.84.0) e problematiche epilettiche associate (G.40.3), da 12 anni in struttura
residenziale presso Fondazione Sospiro (Cr).
È stato definito il comportamento problema “Alfredo rigurgita saliva e alimenti facendo un
getto tipo <fontana> imbrattando indumenti e ambienti di vita” studiato attraverso un disegno A-B-B.
La fase A si è contraddistinta per un lavoro di equipe che ha portato a definire: decisione di
problematicità, definizione operazionale del comportamento problema, base line della durata di due settimane utilizzando come strumenti il “plotter” e una descrizione secondo il
modello ABC degli eventi problematici.
Successivamente (Fase B) è iniziato un intervento psicoeducativo (cognitivo comportamentale) con monitoraggio settimanale centrato, grazie agli esiti dell’assessment funzionale, su 3 fasce orarie con maggior frequenza di episodi ed una quarta definita “altro” in cui
erano raccolti tutti gli eventi che accadevano fuori da quelle indicate come principali.
Quindi l’intervento prevedeva sulle condizioni antecedenti al comportamento problema:
1) strutturazione dell’ambiente (spazio, tempo e attività) secondo i principi dell’educazione
strutturata;
2) rinforzamento edibile di comportamenti adeguati in precisi momenti della giornata/settimana;
3) rinforzamento sensoriale di comportamenti adeguati (ascolto cd musicali con walkman).
Mentre sulle condizioni conseguenti al comportamento problema l’intervento prevedeva:
1) estinzione;
2) blando costo della risposta.
Infine la fase B è stata mantenuta nel tempo.
Nel periodo di monitoraggio (ancora in atto) gli episodi di problematicità sono passati da
27 in base line ad una media di circa 8,5 in due settimane.
Un secondo esito importante è stato il transfer di apprendimento rispetto ad altre competenze ecologicamente rilevanti all’interno dell’Unità Abitativa in cui attualmente la persona è inserita
140
Supports Intensity Scale (SIS©):
applicazione e standardizzazione italiana
Mauro Leoni, Serafino Corti, Francesco Fioriti, Giuseppe Chiodelli, Laura Galli, Luigi
Croce, Lucio Cottini, Daniele Fedeli
Istituto Ospedaliero di Sospiro (Cr)
Introduzione
La Supports Intensity Scale (SIS) (Thompson et al., 2005) è, allo stato dell’arte della ricerca sulle disabilità intellettive, lo strumento standardizzato in grado di effettuare un assessment del funzionamento della persona, in base al costrutto dei Sostegni e offrendo misure
correlate ai Domini e agli indicatori di Qualità di Vita.
Dopo una storia di applicazione nel conteso americano, nonché in diversi stati europei e in
nel mondo, l’interesse verso questa rivoluzionaria visione dei bisogni si è orientato verso
l’uso dei dati SIS che consentono 3 livelli di applicazione: la programmazione individuale,
l’analisi di gruppo delle strutture residenziali e diurne, la gestione delle risorse di personale
applicate ai bisogni.
Metodologia
Nel 2007, con un finanziamento ministeriale, è stata svolta la standardizzazione italiana
della SIS è stata effettuata attraverso la sua somministrazione a un campione di 1052 persone con disabilità intellettiva, stratificato in base a numerose variabili, distribuite sul territorio nazionale.
Risultati
I dati evidenziano la solidità dello strumento in termini statistici sulle 6 subscale che compongono la sezione principale e nelle 3 scale delle due sezioni secondarie.
Attendibilità e validità sono in linea con quella della versione americana, ma risulterà interessante esplorare ulteriormente questi aspetti con ulteriori studi.
141
Riabilitazione e inclusione sociale
nel nuovo “Villaggio San Sebastiano”
Leandro Lombardi
Direttore Generale AMG della Misericordia di Firenze
Il fondamento antropologico e l’obbiettivo dell’iter riabilitativo (ABItare e RiABIlitare
hanno la stessa radice: HABERE) è “AVERE un posto”.
Ogni persona HA bisogno di un “posto” per vivere:
- un posto fisico per sapere dove può stare insieme alle sue cose;
- un posto negli affetti degli altri per sapere che è importante per qualcuno;
- un ruolo sociale per sapere che serve a qualcosa.
La riabilitazione/abilitazione intesa come recupero/acquisizione della funzionalità di un
apparato corporeo menomato o di una abilità operativa compromessa o di una competenza
perduta non è un fine, ma è il mezzo per raggiungere l’obbiettivo finale della Riabilitazione intesa nel suo significato più autentico: tornare ad occupare (AVERE) un “posto” nella
vita. In questo senso i significati di “riabilitazione” e di “inclusione sociale” e di “qualità di
vita” diventano quasi sovrapponibili.
Nell’attuale dibattito scientifico e politico, per motivi diversi, non ultimo quello economico, alcuni ipotizzano una inclusione “radicale” senza protezioni e adattamenti significativi,
che presuppone una irrealistica “normalizzazione” del disabile, che spesso lo espone alla
frustrazione dell’isolamento e alla emarginazione all’interno di una società massificante e
competitiva e quindi all’incremento della vulnerabilità.
Altri, per la preoccupazione eccessiva di tutelarli e di evitare scomode problematiche, finiscono per rinchiuderli di nuovo all’interno di strutture che non si chiamano più manicomi,
ma che sono tali nei fatti.
Per inclusione intendo la necessità di offrire ai disabili delle reali possibilità ed occasioni
di inserimento nella vita dei normodotati, a cominciare dall’abitazione e dall’impiego lavorativo, per giungere al diritto ad una vita affettiva e sessuale piena e soddisfacente, nella misura delle loro capacità ed esigenze, tenendo conto delle legittime necessità di protezione e tutela, e soprattutto senza costringerli a pagare il pesante prezzo della nostra presunta normalità, ma indirizzandoli unicamente all’incremento della qualità della vita.
La vita in alcune famiglia o in alcuni appartamenti può essere così emarginante e istituzionalizzante quanto e più della vita nei vecchi istituti; alcuni esperienze scolastiche e alcuni
posti di lavoro possono diventare uno svilente parcheggio, dove i disabili esperiscono in
modo ancora più evidente la sensazione di “inutilità e marginalità”.
È necessario prendere “in carico” ogni persona pensando che ognuno ha bisogno di sistemazioni e di risposte esistenziali differenziate in base ai propri bisogni e alla proprie esigenze e questo impegna i servizi a fornire non una soluzione univoca che sia la panacea per
tutti, ma programmi e soluzioni diverse tarate sulle esigenze di ciascuno.
Questo è quanto cercheremo di realizzare nel nuovo “Villaggio san Sebastiano”.
142
La motivazione nel care giver
Strategie motivazionali e supportive nel percorso ri/abilitativo individualizzato
L. Lorenzoni
Lo scopo del nostro contributo è di evidenziare l’importanza della motivazione nel care giver per il mantenimento di un’adeguata qualità di vita del disabile.
C. Maslach nel 1975 evidenzia una specifica malattia professionale degli operatori
dell’aiuto: la sindrome del burn out.
Questa sindrome è caratterizzata da una vera e propria patologia comportamentale che colpisce tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale: non è una nevrosi ma un disturbo del ruolo lavorativo.
I sintomi che la caratterizzano sono:
1. comportamenti di forte disinvestimento sul lavoro;
2. disturbi di carattere psicosomatico come la diminuzione delle difese immunitarie e
la facilità agli incidenti;
3. comportamenti etero-distruttivi verso l’utente intesi come indifferenza, violenza,
crudeltà, spersonalizzazione ecc.
Le cause di questa sindrome sono riconducibili a conflitti nell’idealizzazione della professione d’aiuto, frustrazioni delle aspettative e disfunzionalità patologica delle organizzazioni lavorative che si occupano del settore.
Medici, psicologi, assistenti sociali, infermieri, educatori, insegnanti “sono ancora immersi
nella mistica del missionario”….l’utente non è un cliente ma un postulante cui viene fatta
l’elemosina di una prestazione d’aiuto.
Chi lavora in un sistema di aiuto “lavora al buio” immerso in risultati invisibili e in responsabilità distribuite…la carenza di confronto individuale con i risultati delle proprie azioni
produce da una parte uno stato di incertezza continuo e dall’altra facilita la produzione di
illusioni.
Un utente richiede la cooperazione di competenze diverse, che apportino differenti informazioni, molteplici punti di vista interpretativi del bisogno al fine di individuare strategie
di intervento combinate: un lavoro d’equipe può fornire all’operatore un confronto, un
supporto emotivo e di controllo in grado di prevenire dinamiche patologiche.
“I sistemi di aiuto producono benessere per i clienti anche attraverso il benessere degli operatori d’aiuto”…. “il clima di un’organizzazione d’aiuto è insieme causa ed effetto degli
stati d’animo degli individui che ne fanno parte e delle loro relazioni”. Il controllo e
l’azione di miglioramento del clima organizzativo è dunque una delle possibili leve di prevenzione del burn out.
In sostanza, come afferma M. Jahoda, “l’organizzazione si garantisce la salute solo attraverso una permanente ricerca su se stessa”.
A questo proposito presentiamo il risultato che presso la R.S.A. Istituti Polesani si è raggiunto attraverso il coinvolgimento degli operatori d’aiuto in alcuni momenti anche esterni
all’attività istituzionale.
Il lavoro con disabili gravi può portare facilmente a fenomeni collettivi di disinvestimento
emotivo, ma nel nostro contributo si evidenzia, al contrario, che in determinati tipi di “clima” è possibile un ripristino dell’entusiasmo in grado di contrastare efficacemente il “corto-circuito”…e permettere nuovi investimenti ri/abilitativi.
143
Bibliografia
Ruggerini, C., Dalla Vecchia, A. e Vezzosi, F. (a cura di); Prendersi cura della disabilità
intellettiva, Coordinate OMS, buone pratiche e storie di vita, Erickson.
AA. VV. (1987), L’operatore cortocircuitato, Clup, Milano.
Cherniss, C. (1983), La sindrome del burn-out, Centro Scientifico Torinese, Torino
Contessa, G (1982), L’operatore sociale in cortocircuito; la burning-out syndrome in Italia, Animazione Sociale, n. 4243.
Contessa, G., Prigioni, monasteri, fabbriche, Clup, Milano
Edelwich, J.E., Brodsky, A. (1980), Burn-out. Stages of disillusionment in the helping professions, Human Science Press, New York
Jahoda, M. (1958), Current concepts of positive mental health, Basic Books, New York.
Malslach, C. (1992), La syndrome del burn-out, Cittadella, Assisi
Paine, W. S. (a cura di) (1982), Job stress and burn-out, research, theory, intervention perspective, Sage Publ., Beverly Hills
Rossati, A. (1985), Burn-out: l’esaurimento da stress degli operatori dei servizi sanitari,
Psicologia Italiana Notizie, n. 2,3
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Lopez, M., Leone, A. (a cura di) Le tossicodipendenze, Pacini Editore, Pisa
Santinello, M. (1990), La sindrome del burn-out, Erip, Pordenone
Spaltro, E. (1994), Qualità, Patron, Bologna (in corso di stampa)
144
Percorsi di cura, prassi terapeutiche e differenze individuali
in anziani con sindrome di Down
Ulrico Mantesso, Tiziano Gomiero - ANFFAS Trentino Onlus
Luc Pieter De Vreese - U.O. Salute Anziani, Distretto di Modena e Castelfranco-Emilia,
ASL Modena
Introduzione
I progressi scientifici della medicina e le conquiste in ambito politico e sociale che hanno
contribuito al significativo aumento delle attese di vita della popolazione generale, sono
molto simili a quelli che hanno determinato un incremento della longevità nelle persone
con DS (Janick e Walsh, 2002), la cui entità tuttavia è in funzione del livello di compromissione cognitiva oltre che adattiva (Formica, 2000) e pare legato alla variabilità del corredo fenotipico negli individui con DS (Krinsky-McHale, 2008).
Questo allungamento della aspettativa di vita nei soggetti con DS, che si stima in Italia arrivi intorno ai 62 anni di età (Mastroiacovo et al. 2002), si associa ad un rischio etàcorrelato di demenza, che è maggiore rispetto alla popolazione generale.
L’elevato rischio di sviluppare demenza con l’avanzare dell’età deriva verosimilmente
dall’iperproduzione di beta-amiloide codificato proprio sul braccio lungo del cromosoma
21 (Schupf, 2002). Infatti, l’incidenza delle tipiche alterazioni neuropatologiche alzheimeriane aumenta in modo esponenziale nei cervelli di soggetti con DS a partire dalla terza decade di età fino ad arrivare a 100% in quelli ultrasessantenni (Mann, 1988). Anche i tassi di
prevalenza di demenza primaria - la cui forma prevalente nei soggetti DS è la demenza nella Malattia di Alzheimer - è di gran lunga superiore rispetto a quelli nella popolazione generale, anticipando di circa 30 anni l’esordio della malattia: 9,3%, 36,1% e 54,5% rispettivamente nella quarta, quinta e sesta decade di età (Prasher, 2005).
Gli attuali servizi dedicati alla DI, pur essendo esperti nel prendersi cura e curare adulti e
anziani con DS, in grado anche di gestire i disturbi del comportamento adattivo e le varie
complicanze di natura psichiatrica, vanno incontro a serie difficoltà quando queste persone
si ammalano anche di demenza (Huxley et al., 2005).
Il personale di cura è poco o per niente preparato a gestire i deficit cognitivi e i disturbi non
cognitivi (BPSD, sintomi comportamentali e psichici della demenza) di nuova comparsa
associati ad una progressiva perdita delle abilità funzionali residue premorbose e i centri
spesso sono sprovvisti di ambienti necessari per assicurare i bisogni specifici di questi
‘nuovi’ pazienti.
Metodologia
Nel mese di novembre 2005 ha preso il via il ‘Progetto DAD’ dell’ANFFAS Trentino Onlus con l’apertura di una nuova comunità alloggio ‘La Meridiana’ per una decina di adulti e
anziani con IDD, prevalentemente con DS che durante il giorno frequentano un centro diurno annesso aperto ad altre persone con IDD.
Uno degli obiettivi principali del progetto è verificare se alcune modalità d’intervento, adottate dalla buona prassi clinica nella popolazione generale affetta da demenza, siano in
grado di ritardare il trasferimento dei suoi ospiti in una struttura per anziani rispetto a coloro che frequentano i servizi dedicati alla DI con una gestione ‘tradizionale’.
Questi interventi sono sia di tipo globale, sia legati a procedure specifiche e hanno scopi
sia preventivi (ritardare la comparsa di una DAD clinicamente conclamata) che di trattamento sintomatico (rallentare la progressione dei deficit cognitivi e funzionali e controllare
i disturbi non cognitivi di una DAD).
145
Gli approcci globali sperimentati sono quelli della GentleCare di Moyra Jones (edizione
italiana a cura di Bartorelli, 2005) e della Person-centered Care di Tom Kitwood (1997).
Tutti gli operatori del centro sperimentale sono stati quindi formati con un corso teoricopratico di base volto ad insegnare i principî di entrambi suddetti approcci con periodiche
verifiche ed aggiornamenti.
Per contro, gli interventi specifici sono orientati alla sfera cognitiva (stimolazione cognitiva mediante terapia ricreazionale ed attività di socializzazione), alla stimolazione sensoriale (musicoterapia con o senza ballo, attività formali ed informali con cane addestrato ‘residente’) e all’attività fisica (ginnastica in acqua, piscina). L’elasticità organizzativa, la massima flessibilità nei tempi e nei modi di attuazione (Lawton et al., 1998) di suddetti interventi, i più personalizzati possibile (Symard, 1999) e proposti in modo ludico (CohenMansfield, 2000), fungono da rinforzi ‘terapeutici’ essenziali nel ‘prendersi cura’ degli ospiti. Sono stati descritti i percorsi di cura di due coppie di anziani con DS, due maschi e
due femmine, paragonabili, all’interno della coppia, in termini di età, di gravità del ritardo
mentale e di background socio-culturale.
Un soggetto di ogni coppia è stato inserito nel centro sperimentale ‘La Meridiana’, mentre
il rispettivo ‘caso-controllo’ è stato preso in carico da una comunità alloggio dedicata alla
IDD tradizionale. Entrambe le coppie sono state valutate con diverse scale (DMR, AADS,
CIRS, AFAST, FAST e SIS) per esaminare lo stato di salute, una possibile presenza di
demenza, il livello di disabilità nelle attività quotidiane semplici, eventuali disturbi comportamentali ed il supporto necessario per assicurare una buona Qualità di Vita.
Risultati
Le due persone, inserite nel centro ‘La Meridiana’ sono ancora presenti a distanza di due
anni dal loro ingresso, mentre gli altri due anziani, comparabili ai soggetti ‘sperimentali’
per sesso, età, grado di ritardo mentale, storia di vita e background socio-culturale, ma inseriti in una comunità alloggio tradizionale, sono già stati trasferiti in una struttura per anziani. Allo stato attuale delle nostre conoscenze non è possibile provare con certezza quanto una condizione di vita psico-sociale favorevole possa influire nei confronti di una malattia neurodegenerativa come la DAD sia in termini di prevenzione che di contenimento sintomatico. Tuttavia, le storie raccontate prima sottolineano quanto una gestione mirata al
benessere della persona nella sua interezza, aiutata da interventi orientati sia alle funzioni
cognitive, le abilità quotidiane, le emozioni, che all’attività fisica, possa interferire positivamente sul destino cognitivo e quindi anche sociale a medio-lungo termine di anziani con
DS.
Conclusioni
La dimensione assistenziale dell’anziano con DI è certamente la più intricata e ricca di
contraddizioni: ad esempio si sostiene molto intensamente la necessità di un’assistenza
fuori dalle RSA (mediante la creazione di “Case Famiglia” o di “Comunità”) – orientamento sicuramente positivo – mentre per coloro che sviluppano una demenza, una soluzione
del genere è difficilmente sostenibile soprattutto quando mancano gli ambienti adeguati e
personale di cura formato a soddisfare i nuovi bisogni di questi ospiti. Progetti come la
Meridiana, seppure impegnativi sul piano economico, almeno all’inizio come lo sono di
consuetudine gli avvii di un SCU (Special Care Units) per malati di demenza in generale
(Grant e Ory, 2000), sono comunque sicuramente meno onerosi rispetto a quello che costano le persone con DI e demenza inseriti in casa di cura senza menzionare che per questi
soggetti la qualità di vita rischia di essere estremamente povera e ciò è intollerabile per una
società civile ed economicamente avanzata.
146
Percorso verso la conquista dell’autonomia delle persone disabili
Sara Marchesini, Roberta Truzzi, Grazia Minelli, Barbara Severi, Monica Mercatelli, Karin
Tangerini
Associazione GRD - Bologna / Associazione AISM - Bologna
La nostra indagine-ricerca ha lo scopo di realizzare una ricognizione dei bisogni e del grado
di adattamento all’ambiente di vita, sia delle famiglie,sia dei soggetti con disabilità per
identificarne la “qualità di vita e di relazione” che si è attuata nell’approccio con la
situazione di handicap.
L’intento principale è mettere in luce le risorse e i bisogni in rapporto alla gestione del
quotidiano e in relazione alla comunità e alle istituzioni, con particolare riferimento al
tempo libero.
Pertanto, si propone di far emergere, attraverso le strategie e gli strumenti d’indagine, i dati
utili a formulare proposte di intervento, che coniughino le esigenze di cura all’integrazione
sociale. lavorativa e, soprattutto, alle opportunità di una possibile vita indipendente.
Si è messa particolare attenzione ai processi evolutivi delle famiglie, funzionali alla
conquista delle necessarie abilità delle persone con deficit cognitivo e/o motorio, affinché
sia loro concesso di diventare protagonisti di un proprio progetto di vita.
La ricerca si è sviluppata su di un campione di 20 famiglie con almeno un figlio disabile
adolescente o adulto. Il reperimento del campione è avvenuto attraverso le 2 associazioni
che partecipano alla ricerca (GRD, AISM) di Bologna e Provincia.
Alle famiglie è stato richiesto un incontro con un ricercatore per la durata di circa 2 ore,
dopo aver preparato attraverso incontri di formazione gli educatori e i volontari che si sono
occupati della somministrazione degli strumenti d’indagine.
I dati raccolti saranno sottoposti ad analisi di tipo qualitativo e quantitativo per verificare,
tra l’ altro, la presenza di strategie di coping da parte delle famiglie, il grado di adattamento
affettivo-emotivo e sociale degli adolescenti e adulti con disabilità, il livello di Qualità della
Vita percepita dagli adolescenti ed adulti con disabilità e le relazioni vissute all’interno dei
contesti per il tempo libero.
I risultati previsti dall’analisi dei dati sono indirizzati all’individuazione della probabilità /
previsione (likelihood) del presentarsi di determinati eventi o associazioni tra essi e, quindi,
sviluppare le proposte di intervento in maniera adeguata e funzionale rispetto, sia alle esigenze di integrazione delle famiglie, sia al livello di sviluppo psichico, emotivo e sociale
manifestato dalla persona con disabilità.
147
Medicina basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 5: “Mamma mi vuoi bene?”
Rita Mari, Sumire Manzotti e Gruppo di lavoro Azienda Ospedaliero Universitaria di Modena/Azienda AUSL di Modena sugli aiuti allo sviluppo dei bambini con disabilità intellettiva in età prescolare.
AUSL di Modena, Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena.
G. è stato inviato dal pediatra all'età di due anni e mezzo presso il Servizio di Neuropsichiatria Infantile, per problematiche di ritardo psicomotorio e di sviluppo del linguaggio
associate a condotte stereotipate e a difficoltà nel relazionarsi con l'adulto.
Dopo le prime osservazioni effettuate dalla logopedista insieme al neuropsichiatria è stata
decisa una presa in carico con follow-up ogni tre mesi fino al compimento dei 3 anni e
mezzo circa. Lo scopo era quello di valutare l’andamento dello sviluppo e sostenere la
mamma nell’interazione con il bambino.
Si è optato per un'osservazione semi-strutturata basata sull'utilizzo del gioco simbolico e
materiale figurato, con la presenza della mamma. La logopedista proponeva diverse attività
al bambino e una psicologa trascriveva simultaneamente ciò che accadeva in seduta, utilizzando modalità di “osservazione partecipe”.
La mamma appariva rigida, ansiosa, remota alla relazione con il bambino.
G. durante gli incontri difficilmente condivideva emozioni e intenzioni, non sempre rispettava i turni comunicativi, agiva gli oggetti in modo stereotipato, e ne faceva un uso funzionale se sollecitato.
In uno dei primi incontri, è stato proposto alla mamma un questionario sulla crescita del
bambino, per avere un'occasione di dialogo a partire da riflessioni e osservazioni effettuate
direttamente da lei.
Gradualmente ha cominciato ad interagire con G., a sollecitarlo e contemporaneamente ha
manifestato una maggior preoccupazione per i problemi del figlio e un desiderio di poterlo
aiutare.
La madre osservava quello che veniva proposto dalla logopedista, chiedeva spiegazioni
sullo scopo ed esplicitava la richiesta di poter riprodurre alcune situazioni a casa.
Nell’arco temporale di un anno G. ha acquisito la capacità di interagire con l’adulto in modo più adeguato, e di esprimersi verbalmente attraverso un linguaggio sufficientemente
comprensibile a favore di una riduzione degli atteggiamenti stereotipati.
Il tempo e l’attenzione che la mamma gli dedicava aumentavano in modo significativo, e
sempre più spesso era possibile osservare comportamenti come quello manifestati in sala
d'aspetto: G. non vagava più in modo solitario,ma stava seduto accanto alla mamma e insieme guardavano un libro su cui esprimevano commenti ed emozioni.
Al compimento dei 4 anni è stato possibile proporre a G. delle prove standardizzate che ci
hanno consentito di rilevare il suo livello cognitivo (QIT=RMM). Il linguaggio espressivo
risultava più adeguato di quello recettivo. La rappresentazione grafica e l'organizzazione
visuo-percettiva apparivano immature per l'età cronologica. Si è optato per un trattamento
logopedico bisettimanale, con la previsione di dedicare l'ultimo quarto d'ora di ogni seduta
alla mamma, per rispondere alla sua esigenza di dare continuità al lavoro terapeutico a casa. Si era intuito che dietro a questa richiesta si nascondeva in realtà il desiderio di individuare un modo per occuparsi del figlio.
Attualmente G. frequenta la II elementare, ha imparato a leggere e a scrivere, fa molta fatica con i numeri e il calcolo, facilitato comprende i testi scritti, ma soprattutto è riuscito a
stabilire relazioni sufficientemente buone con le insegnanti e i compagni, ha un amico del
cuore e nel tempo libero frequenta il gruppo scout.
148
Il profilo cognitivo recentemente rilevato appare disomogeneo. Per ciò che riguarda l'intelligenza verbale G. si colloca nella fascia più bassa dei valori normativi nei seguenti item:
somiglianze, vocabolario, comprensione generale. Nell'intelligenza non verbale risultano
nella norma più bassa il completamento di figure e le storie figurate. Il QIT ha valori riferibili ad un lieve ritardo mentale. Anche gli aspetti recettivi del linguaggio si sono avvicinati agli indici normativi.
La mamma è molto contenta del suo bambino, dei progressi che ha fatto. G. la guarda
spesso per ricercare la sua approvazione e talvolta ne chiede conferma domandandole se
“gli vuole bene”.
In uno degli ultimi colloqui è stato restituito alla mamma l'importanza di quanto ha fatto
per contribuire allo sviluppo di G.
Questa esplicitazione ha liberato le sue emozioni espresse con un sorriso misto a lacrime.
Il significato
Lo sviluppo emozionale condiziona fortemente lo sviluppo cognitivo e linguistico. Le potenzialità di recupero sono spesso iscritte nel sistema madre-bambino.
Contestualizzazione
Le teorie a cui abbiamo fatto riferimento per la presa in carico sono quelle attribuibili al
metodo INTERACT ( Bonifacio e Stefani, 1997). Per le modalità di osservazione si sono
seguite le indicazioni rintracciabili nel manuale sull'osservazione del comportamento infantile di Camaioni, Perrucchini (2005).
Rutgers et al. (2004) in una meta-analysis qualitativa di 10 studi hanno concluso che un tipo di attaccamento sicuro può realizzarsi anche nella condizione del ritardo mentale associato ad autismo.
Per questi bambini l’attaccamento sicuro costituirebbe un fattore di protezione che risulta
in una prognosi migliore per quanto riguardo l’adattamento sociale.
Bibliografia
Bonifacio, S. e Hvastia Stefani, L. (1997), L'interazione comunicativa e linguistica nel
bambino con ritardo di linguaggio, Livorno: Del Cerro.
Camaioni, L., Aureli, Perrucchini, (2005), Osservare e valutare il comportamento infantile, Bologna: Il Mulino.
Rutgers, A.H. et al. (2004), Autism and attachment: a meta-analytic reviews, Journal of
Child Psychology and Psychiatry 45:6; 1123-1134.
149
Applicazione e utilità del sistema di gestione della qualità ISO
9001:2000 ad un servizio semi-residenziale per adulti con Disabilità Intellettiva Grave e Disturbo dello Spettro Autistico
Daniele Mugnaini
Psicologo coordinatore delle attività riabilitative PAMAPI
Stefano Lassi
Psichiatra, SIRM, EAMHID, ODA Firenze
A partire dalle modifiche organizzative e procedurali elicitate dal sistema di qualità ISO
9001:2000 in un servizio semi-residenziale per adulti con Disabilità Intellettiva Grave e
Disturbo dello Spettro Autistico, si descrivono l´utilità e le conseguenze di tale approccio
di gestione del sistema in termini di efficacia, efficienza, soddisfazione nelle varie aree di
intervento riabilitativo, nel modello organizzativo e di controllo e nel rilevamento dei risultati raggiunti e dei livelli di soddisfazione espressi dall’utenza e dai familiari.
Specifica vulnerabilità negli adulti con Disabilità Intellettiva
Grave e Disturbo dello Spettro Autistico
Daniele Mugnaini
Psicologo coordinatore delle attività riabilitative PAMAPI
Stefano Lassi
Psichiatra, SIRM, EAMHID, ODA Firenze
A partire dai dati provenienti dalla letteratura scientifica internazionale relativamente al
profilo medio dei bisogni e degli stressors specifici in adulti con DI Grave e DSA, si illustra la Stress Survey Schedule e l’Environment Rating Scale, come possibili strumenti da
implementare in un servizio diurno rivolto a tale tipologia di utenza, in un’ottica di attenzione alla vulnerabilità.
150
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 4: Evoluzione del ruolo della famiglia dei bambini con
disabilità intellettiva, disabilità associate e alta dipendenza: da
“recettore” a “regista”
Milena Natali, Sumire Manzotti e Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero Universitaria
Policlinico di Modena /Azienda AUSl di Modena sugli aiuti allo sviluppo dei bambini con
disabilità intellettiva in età prescolare
AUSL di Carpi, Servizio di Neuropsichiatria Infantile; Azienda Ospedaliero Universitaria
Policlinico di Modena
La storia
Invio precoce (in epoca neonatale) a diagnosi non ancora definita
● lavoro in parallelo al Servizio Ospedaliero inviante per:
a) favorire l’accesso al Servizio Npia
difficoltà della madre a riconoscere gli aspetti di patologia (dimorfismi, ipotonia)
segnalati dagli specialisti pediatri e genetisti
b) sostenere e significare l’iter diagnostico
centri specialistici distanti, difficoltà di comunicazione, senso di estraneità e disinteresse della famiglia
♦ Accoglienza
● referenza del dirigente
a) per gli aspetti formali e clinici
b) per eventuali colloqui
gli incontri individuali del/dei genitori con il referente sono stati accolti e/o richiesti
in concomitanza con la separazione dei genitori e, successivamente, per questioni legali conflittuali fra i genitori.
prima della separazione la coppia ha fatto di propria iniziativa una psicoterapia
privata ad indirizzo sistemico.
● presa in carico dell’operatore
osservazione e monitoraggio a lungo termine dello sviluppo
psicomotorio e delle sue caratteristiche
a) patologiche
- eventuale intervento specifico di riabilitazione funzionale (es. cammino, manipolazione, sguardo)
- utilizzo di ausili (scarpe corrette, tutori, cintura di appesantimento, deambulatore,
occhiali ecc)
- attivazione di consulenze o interventi da parte di operatori del servizio di diversa
professionalità (ortottista, logopedista, educatore o altro)
analisi dell’uso dello sguardo, comunicazione augmentativa
- consulenza presso centri dedicati di II o III livello
richiesta prognosi sull’acquisizione del cammino presso il Presidio per le Disabilità Infantili di Reggio Emilia
b) atipiche
- bilancio di funzionalità adattiva:
sia attraverso l’osservazione – intervento di natura clinica
sia attraverso l’uso di Scale specifiche (Vineland)
- intervento abilitativo attraverso il rinforzo/inibizione/estinzione di condotte e
comportamenti motori, alimentari e visivi e delle routines
151
sia in modo diretto (operatori→ambulatorio)
sia in modo indiretto (genitori, scuola)
Nello specifico del caso seguito:
costruzione progressiva di una “’alleanza”fra operatore e caregivers (madre in primis)
attraverso:
- parole che illustrano le azioni nel corso delle sedute
- esplicitazione degli obiettivi a breve termine
- co-costruzione dei significati degli interventi piuttosto che indicazioni
- promozione di un’ottica volta al benessere piuttosto che alla prestazione
- traduzione delle richieste in termini di problemi quotidiani do affrontare in
modo creativo e personalizzato piuttosto che in virtù di un know-how tecnico
(peraltro non in mio possesso in questo specifico caso)
- problematizzazione dei passaggi evolutivi alla ricerca di un modo condiviso e
comune del modo di affrontarli.
♦ Rete
collaborazione con l’istituzione e il personale scolastico nell’ambito degli accordi
di programma locali con incontri specifici “ al bisogno”
incontri sistematici (indicazioni – supervisione) con educatori privati attivi a domicilio
coinvolgimento di altri operatori del Servizio (logopedista o altri) e/o del Distretto
per progetti e interventi di comunicazione augmentativa
promozione della partecipazione a gruppi di auto-mutuo aiuto per genitori
Considerazioni:
tanto più specifici sono gli elementi patologici a carico delle funzioni tanto più significativo è l’intervento riabilitativo;
tanto più globale, profondo e pervasivo è il ritardo mentale tanto più significativo è un
intervento di lettura, attribuzione di significato e traduzione delle condotte e dei comportamenti del bambino condiviso con caregivers ed educatori.
Sin dall’inizio l’utente è rappresentato dall’insieme mamma – bambino e nel corso degli incontri, susseguitisi negli anni, esso si trasforma da “recettore” di diagnosi, prognosi, indicazioni, stimolazioni e interventi a “regista” dei percorsi da intraprendere
per facilitare l’adattamento ad un ambiente sempre più allargato
Se la dimissione o la diluizione dell’intervento è proponibile nel caso di interventi squisitamente riabilitativi non lo è stata nel nostro caso, vuoi per la pervasività
dell’handicap, vuoi per la “particolarità” dell’intervento.
Individuo l’essenza della “particolarità” di tale intervento nel fatto che i miei interventi
si sono progressivamente trasformati da sedute di riabilitazione a “ colloqui agiti ” con
la madre in presenza del bambino attraverso la riflessione condivisa sulla patologia del
bambino e le sue manifestazioni, le caratteristiche del suo sviluppo e dell’adattamento
nel corso della crescita.
Contestualizzazione
Mouraville et al. (2005) in un campione di 750 famiglie dell’Alabama hanno evidenziato
una correlazione elevata tra severità della disabilità e funzionamento famigliare e hanno
sostenuto la necessità di supportare le risorse presenti nelle famiglie coordinandole con
quelle del sistema assistenziale.
152
Llewelyn et al. (1998) hanno evidenziato la possibilità che esista una divergenza tra i bisogni percepiti dai genitori e quelli percepiti dagli operatori e dalle altre persone significative; per questo hanno sostenuto la necessità di incorporare il punto di vista dei genitori sia
nella pianificazione dei servizi assistenziali che nella verifica della loro efficacia.
Bibliografia
Mouraville, B.A. et al. (2005), The association of child condition severity with family functioning and relationship with health care providers among children and youth with special
health care needs, in Alabama. Maternal and Child Health Journal, Vol.98, No. 2.
Llewellyn, G. et al. (1998), Perception of service needs by parents with intellectual disability, their significant others and their service workers, Research in Developmental Disabilities, Vol.19, No.3.
153
La Valutazione Psicodiagnostica Standardizzata nelle persone
con Ritardo Mentale (VPS-RM): esperienze in contesti
Residenziali e Clinici
V. Neviani, S. Vicini
Università di Modena e Reggio Emilia, Dottorato di Ricerca in Psicobiologia dell’Uomo
Residenza Il Nespolo, Casa di Cura Villa Igea, Modena
Introduzione
Secondo i principali manuali diagnostico - statistici, la diagnosi descrittiva di Ritardo Mentale è data dalla combinazione di diversi piani di osservazione:
1. Esame Psicometrico
2. Osservazione delle competenze adattive generali e specifiche
3. Comorbidità (Disturbi Fisici, Disturbi Mentali e Disturbi del Comportamento)
Il Ritardo Mentale, rappresenta una “condizione” che non può essere riassunta da una diagnosi descrittiva: ciò è dimostrato dalla nosografia che fin dal DSM-III-R (APA, 1987) pone il Ritardo Mentale in Asse II, quello relativo alle caratteristiche di funzionamento della
personalità e non ai Disturbi Mentali.
Risente profondamente di tutta una serie di fattori esterni, protettivi o di rischio, in grado di
modificarne notevolmente il decorso e la prognosi. Tali fattori, incidono nel decorso e nella prognosi del Ritardo Mentale per oltre il 70% (Ruggerini C., Solmi A., Neviani V., Guaraldi G.P., 2004). Le persone con Ritardo Mentale costituiscono una popolazione assai eterogenea i cui bisogni assistenziali, terapeutici o riabilitativi possono essere del tutto modesti oppure assolutamente rilevanti. A questa varietà di situazioni corrisponde una pluralità
di bisogni che possono essere identificati dalla cultura medica nelle sue varie specialità, ma
anche dalla cultura psicologica, dalla cultura pedagogica e dalla cultura antropologica che,
attiva nella mente di chi assiste, plasma la qualità e il tipo di relazioni interpersonali. Solo
una molteplicità di culture di riferimento permette una lettura coerente della molteplicità di
bisogni.
Metodologia
La Valutazione Psicodiagnostica Standardizzata nel Ritardo Mentale (VPS-RM) rappresenta principalmente un “modello” al quale riferirsi nella costruzione di un progetto di sviluppo specifico e personalizzato delle persone con RM. Lo scopo è proporre un metodo di valutazione delle necessità delle persone con RM attraverso metodi standardizzati da integrare all’osservazione clinica.
È utilizzabile su soggetti con RM anche di grado Grave e Gravissimo e con soggetti di tutte
le età. Rappresenta un sistema:
1. Valido: si basa su strumenti standardizzati
2. Pratico: di facile utilizzo anche se la somministrazione e l’analisi dei risultati richiedono formazione specifica nel campo del RM
3. Utile nella pratica clinica e per la ricerca
Rende possibile: ridurre la prescrizione di neurolettici nelle popolazioni di persone con RM
residenti dal 57 al 40% in un arco di tempo di 5 anni (Ruggerini C., Guaraldi G.P., Neviani
V., Castagnini A.C., 2003) o dal 34 al 16% in un arco di tempo di 8 anni (Matson J. L.,
Lott J.D., Mayville E., Logan J.R., Swender S.L., Ruggerini C., Neviani V., Matson M.L.,
2004); realizzare inquadramenti diagnostici più accurati e terapia psicofarmacologiche ridotte nelle persone con RM che afferiscono a un Dipartimento di Psichiatria (Ruggerini C.,
Neviani, V., Greco V., Ricchetti E., Vezzosi F., Guaraldi G.P., in preparazione); dare un
154
significato di tipo comunicativo ai comportamenti problematici (Matson J.L., 2001); mettere in evidenza l’eterogeneità delle esigenze all’interno della popolazione con Ritardo Mentale (Ruggerini C., Neviani V., Manzini G., Benfatti G., 2004)
Il lavoro di collaborazione del nostro Dipartimento con il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’Università di Baton Rouge, L.A., Direttore Prof. J.L. Matson è iniziato nel 2001,
nel 2002 è avvenuta la pubblicazione della prima scala, DASH-II Versione Italiana [Guaraldi G.P., Ruggerini C., Neviani V., Vicini S.: La Scala DASH-II (Diagnostic Assessment
for the Severely Handicapped) per la valutazione dei Disturbi Mentali nei Ritardati Mentali Gravi. Quaderni Italiani di Psichiatria , 21 : 39-45 , 2002]. Nel 2003 si è aperto un Dottorato di Ricerca in Psicobiologia dell’Uomo, area di Ricerca il Ritardo Mentale. In questo
periodo è iniziato lo studio per la traduzione italiana e l’utilizzo clinico delle scale ADD,
QABF, MESSIER, SPSS.
RISULTATI : Attraverso l’ultilizzo sistematico di queste scale il nostro gruppo di lavoro
ha messo a punto un metodo di valutazione che comprende:
1. misura del QI (con varie scale, secondo le necessità del caso)
2. Valutazione delle abilità adattive (VABS)
3. Valutazione dei Disturbi Mentali (DASH, ADD)
4. Valutazione delle Abilità Sociali (MESSIER, SPSS)
5. Valutazione dei comportamenti problema attraverso l’Analisi Funzionale (QABF)
6. Valutazione dei bisogni specifici emersi (es. AAPEP in caso di diagnosi di autismo;
valutazione delle condizioni cliniche ecc.)
7. Costruzione di un progetto specifico definito “DAY PROGRAM”
L’applicazione del metodo in ambito Residenziale ha mostrato enorme utilità nella cura dei
Disturbi Psichiatrici associati permettendo la razionalizzazione delle terapie. Ha inoltre
mostrato utilità nella comprensione dei Disturbi Comportamentali permettendo una gestione più efficace ed uniforme degli interventi da parte degli operatori con rottura di stereotipi
che limitavano l’offerta di possibilità di sviluppo.
La VPS- RM è stata usata anche nella progettazione di programmi di Riabilitazione: forniva infatti una percezione oggettiva delle necessità e monitoraggio dell’intervento e forniva
l’occasione di osservazioni periodiche dei risultati con conseguente riduzione del burn-out
caratteristico del lavoro con la cronicità.
Anche l’utilizzo ciclico delle risorse economiche ha risentito di questa valutazione, esse
sono state infatti utilizzate maggiormente sulla base di progetti individuali finalizzati.
L’applicazione della VPS-RM alla clinica ha invece permesso di ridefinire la diagnosi di
Disturbo Mentale e di Disturbo del Comportamento, riducendo la necessità di terapie psicofarmacologiche e mirando gli interventi degli operatori ai problemi e di osservare le effettive capacità adattive dei soggetti e costruire progetti mirati ad implementale (=costruzione dei Day Program specifici).
Conclusione
La VPS-RM è un modello di diagnosi ed intervento che può rappresentare un valido aiuto
per il clinico. Aiuta nella formulazione di ipotesi diagnostiche ed eziologiche sulle quali
fondare un progetto di trattamento. Permette un monitoraggio dei trattamenti . Apre una discussione tra il medico e gli operatori appartenenti ad altre aree culturali. I risultati possono
essere usati dalle Residenze, dai Servizi, ma anche dalle scuole per un uso amministrativo
(= finanziamenti mirati).
155
Disabilità intelletive.it
Lucia Onfiani
Memo - Multicentro Educativo “Sergio Neri” - Comune di Modena
Il sito internet www.disabilitaintellettive.it www.ritardomentale.it nasce nell’ambito del
progetto regionale “Adozione deficit” finanziato e coordinato dalla Regione Emilia Romagna. Attraverso questo progetto i Centri di Documentazione per l’Integrazione, che fanno
parte della Rete Regionale CDI, si stanno costruendo un'area di specializzazione sulla tipologia di disabilità scelta. Per interesse e tradizione di lavoro Memo – Multicentro Educativo “S. Neri” del Comune di Modena – e il CSC – Centro Servizi e Consulenze per
l’Integrazione del Comune di Ferrara, hanno individuato nel Ritardo Mentale e nelle Disabilità Intellettive le tipologie su cui lavorare. Le attività coordinate fra i due Centri hanno
richiesto la collaborazione con d versi Enti e Istituzioni dei rispettivi territori, come le Università, le Aziende Sanitarie, gli Uffici Scolastici Provinciali, i Comuni, le Province, le
Scuole e gli Istituti Autonomi. La responsabilità scientifica del sito è affidata a Renzo Vianello dell'Università di Padova. Scopo primario del sito è raccogliere e organizzare le informazioni scientifiche sull’argo-mento e trasmetterle in modo che siano accessibili da parte di utenti diversi: genitori, insegnanti, studenti, educatori, operatori socio-sanitari, tecnici.
Come si può ricavare dallo schema, il sito è strutturato per sezioni dalle quali si possono
acquisire informazioni di base sulle problematiche del ritardo mentale e delle disabilità intellettive, di approfondire temi o aspetti scientifici, di ricevere orientamenti circa i diversi
approcci al tema e di individuare possibili percorsi abilitativi e/o educativi.
Il menu del sito
Home
Il progetto
Natura
Cause
Prevenzione
Integrazione e Trattamento
Materiali
Risorse
Glossario
News
Domande e risposte
Informazioni
Obiettivi, destinatari, collaborazioni istituzionali, responsabilità.
Sulla natura del ritardo mentale (aspetti genetici, fisici, motori, cognitivi, linguistici, sociali, psicopatologici);
Sulle varie disabilità intellettive e in particolare sulle sindromi genetiche causa di ritardo mentale (oltre a quelle più
conosciute come la sindrome di Down, di X fragile o di
Williams ne sono descritte molte altre);
Sugli aspetti preventivi, diagnostici e abilitativi;
Sull’integrazione scolastica e sociale.
In ognuna di queste aree è prevista una voce approfondimenti.
Bibliografie, segnalazioni bibliografiche, abstract di articoli
di riviste, link alle Banche Dati documenti dei Centri di
Modena e Ferrara.
Associazioni, Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), Centri per la diagnosi e la consulenza genetica,
Risorse locali (in fase di allestimento)
Definizioni di termini tecnici psicologici, pedagogici, biologici, medici (attualmente oltre 540)
Eventi e novità in regione e nel territorio nazionale
Risposte ai quesiti più ricorrenti
Indirizzo e-mail e recapiti telefonici della redazione
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Tra i tanti dati informativi e strutturali che compongono il sito, sono di particolare rilievo:
1. la presentazione delle sindromi e delle patologie causa di ritardo mentale
2. la sezione “Domande & risposte”
3. la modalità di ricerca.
1. La classificazione delle sindromi e delle patologie che sono causa di ritardo mentale
comprende oltre 40 segnalazioni. In particolare la ricerca sul genoma ha permesso di stabilire, per un numero consistente, quali siano le anomalie genetiche coinvolte (ad esempio
trisomia o delezione) e quali siano i cromosomi interessati.
Ciò favorisce la descrizione delle sindromi attraverso un documento informativo visibile
sotto forma di scheda che, di norma, riporta dati relativi a: denominazioni, incidenza e prevalenza, aspetti genetici, accrescimento fisico e sviluppo motorio, sviluppo cognitivo, sviluppo comunicativo e linguistico, autonomia e sviluppo sociale.
Alcune sindromi sono descritte anche attraverso una scheda analitica dove gli stessi temi
sono presentati in modo più ampio ed esaustivo.
Un buon numero di schede presenta anche fotografie.
2. I contatti attraverso la posta elettronica sono numerosi; ognuno comporta una risposta
individuale.
Anche le richieste, le sollecitazioni e le riflessioni generate da questa sezione sono state organizzate in modo sistematico attorno a temi specifici/quesiti ricorrenti. Questo mostra
come ci sia grande attenzione agli aspetti dinamici del sito che non riguardano soltanto le
informazioni in uscita, ma che sfrutta l'interattività che si stabilisce con gli utenti accogliendo e rielaborando suggerimenti e bisogni, in un'ottica che va oltre l'informazione immediata in quanto si preoccupa di ricostruire, attraverso adeguate modalità di ricerca, percorsi di approfondimento e di formazione.
3. La fruibilità del sito, come modalità di ricerca, si presta a diversi utilizzi. L’utilizzo
dell’archivio favorisce la ricerca libera: in questo caso, basta comporre una parola o una
espressione di interesse e vengono trovati, attivando il motore di ricerca, tutti i documenti
che non solo nel titolo, ma anche nel testo contengono la parola o l’espressione in oggetto.
La ricerca ipertestuale permette una navigazione guidata da link cliccabili.
Accanto alle notizie, alle nuove informazioni, si è creata -senza costringere ma come possibili suggerimenti- la possibilità di accedere con altri link a pagine direttamente collegate
che permettono livelli maggiori di approfondimento e di informazioni (ad esempio link esterni ad altri siti -associazioni, centri di ricerca...-), o argomenti che sono tra loro correlati
(come ad esempio nella pagina che tratta di collaborazione tra i servizi c'è un rimando con
il ruolo della famiglia nel rapporto con gli operatori socio sanitari e scolastici).
In questo senso, dunque, il sito è uno strumento a supporto della formazione, in quanto aiuta, orienta e favorisce i processi formativi.
157
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 3: Oltre il linguaggio: l’importanza di un approccio
“olistico” ai bambini con disabilità intellettiva e disturbo
di sviluppo del linguaggio verbale
Stefania Parenti, Sumire Manzotti e Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero Universitaria
Policlinico di Modena /Azienda AUSl di Modena sugli aiuti allo sviluppo dei bambini con
disabilità intellettiva in età prescolare
AUSL di Modena; Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Modena
La storia
La minore è giunta all’età di 4 anni al servizio NPIA di Vignola nel 1999 per difficoltà linguistiche. Dalla valutazione effettuata dall’equipe sono emerse nella bambina difficoltà
cognitive (R.M. medio), difficoltà di ragionamento visuo-spaziale, difficoltà linguistiche
sia in ambito recettivo che espressivo anche se era motivata nella comunicazione. La bambina ha intrapreso una terapia logopedica e ha svolto accertamenti clinici – strumentali
presso l’ospedale Maggiore e il Centro Regionale per le disabilità linguistiche di Bologna.
Dalla valutazione logopedica svolta nel 2000 si è verificato un incremento della produzione verbale con presenza di combinatorie a più elementi ed iniziale inserimento di elementi
morfologici; rimangono deficitari il lessico passivo, la comprensione strutturata di forme
morfosintattiche complesse, le prassie costruttive, l’organizzazione fonologica e il linguaggio non sempre era comprensibile.
È stata proseguita la riabilitazione logopedica integrata con un training cognitivo- comportamentale (categorizzazione, associazione e ordinamento seriale).
Nel 2002 la bambina era in grado di leggere le parole bisillabiche piane, di seguire le addizioni per quantità molto piccole con l’uso di oggetti. Sopra la decina erano notevoli le difficoltà di lettura e di scrittura numerica. Era migliorata nella comprensione di storie semplici con supporto di figure e il recupero della storia dopo la narrazione.
Risultava, tuttavia, problematica la gestione educativa a casa in quanto la bambina aveva
difficoltà ad introiettare le regole sociali e a gestire le relazioni soprattutto con la mamma.
Nella valutazione eseguita verso la fine del 2007 la bambina sapeva decifrare e scrivere parole bisillabiche piane con relativa comprensione lessicale mentre vi erano difficoltà nelle
parole trisillabiche e soprattutto con quelle contenenti gruppi consonantici. Si sono manifestate difficoltà nella dettatura di parole complesse(in queste occorre lo spelling) e nell’uso
di strategie metalinguistiche. Il linguaggio risultava ancora poco comprensibile e poco coerente.
Si sono verificati, inoltre, in questo periodo comportamenti aggressivi e difficoltà emozionali che apparivano legati alla fase evolutiva del ciclo di vita in cui si trovava la ragazza.
Per dare una risposta alle esigenze adolescenziali della ragazza è stato iniziato un intervento educativo di gruppo volto a coniugare gli aspetti cognitivo-linguistici con quelli emozionali.
Il significato
La presa in carico di bambini con disabilità intellettiva e deficit linguistico impone attenzione anche per gli aspetti dello sviluppo emozionale personale e per le caratteristiche del
contesto familiare e, dunque, un approccio clinico “olistico”.
158
Contestualizzazione
Una linee-guida (Pote & Goodban (2007) sul percorso di pianificazione della assistenza
per favorire la salute mentale nei bambini/adolescenti con disabilità intellettiva sostiene la
necessità di “ prevedere interventi su aspetti emotivi e comportamentali” secondo una varietà di modelli psicologici e di prassi centrate sui bisogni specifici dei bambini e delle loro
famiglie.
Lo studio di Koskentausta et al. (2007) sui fattori di rischio psicopatologico nei bambini
con disabilità intellettiva ha identificato due principali fattori di rischio per lo sviluppo di
psicopatologia nei bambini con disabilità intellettiva e disturbo linguistico: fattori familiari
e fattori correlati al livello di sviluppo dei bambini; entrambi questi fattori richiamano il
rilievo di interventi preventivi mirati e individualizzati su questi fattori.
Bibliografia
Pote, H. & Goodban, D. (2007), Care Pathway for children and young people with learning disabilities: a resource pack for service planners and practioners, CAHMS Pubblications, London.
Koskentausta, T., Livanainen, M. & Almqvist, F. (2006) Risk factors for psychiatric disturbance in children with intellectual disability, Journal of Intellectual Disability Reserch
no.51 part I: pp.43-53
159
Casa Claudia: un progetto di casa-famiglia propedeutico
Carla Patrizi, Elisabetta Lulli
Cooperativa Sociale “Idea Prisma ‘82” - Roma
Introduzione
La casa famiglia propedeutica nasce dall’esperienza diretta del lavoro di questi ultimi 20
anni degli operatori della cooperativa.
Lo svincolo della persona con disabilità rispetto all’ambiente casalingo viene vissuto da
tutti i membri del sistema familiare come decisione estrema e, inconsciamente, come evento abbandonico. Da qui la necessità di lavorare con tutto il sistema familiare per trasformare l’esperienza in un processo evolutivo.
Metodologia
Il progetto originale era articolato in una settimana al mese per 24 mesi.
L’attività ha coinvolto complessivamente 20 ragazzi disabili di entrambi i sessi e con diverse tipologie di disabilità, con la presenza di 6-8 ospiti per turno. La vita quotidiana è
stata organizzata insieme agli ospiti della casa.
È stato coinvolto personale clinico, educativo e socio-sanitaro.
L’inserimento di ogni utente è stato valutato seguendo un progetto personalizzato.
Risultati
Il rapporto di convivenza con gli altri ha presentato difficoltà ma nello stesso tempo ha
permesso lo sviluppo di nuove relazioni. Le attività quotidiane sono diventati strumenti
semplici e concreti utili per contribuire al raggiungimento di alcuni obiettivi riabilitativi.
L’impegno che ognuno di loro ha potuto sperimentare, ha contribuito ad rinforzare la propria autostima.
Conclusioni
È stato fondamentale creare uno spazio intermedio nel quale poter condividere tutti gli aspetti fantasmatici e le angosce legate al futuro, loro e del proprio figlio disabile. I temi
trattati su cui appare necessario soffermarsi in futuro, sono legati alla difficoltà di fidarsi e
affidarsi, alla sperimentazione della loro inessenzialità, alla solitudine, alleggerimento della
“fatica” quotidiana, al recupero dei rapporti con gli altri membri della famiglia ed infine
alla possibilità di allargare le esperienze sociali
160
L’opera lirica per una lettura degli affetti e delle emozioni:
il caso del sig. M. e della sig.ra T.
F. Pirone
Opera Don Guanella Centro di Riabilitazione “Casa S. Giuseppe” Roma
S. Magari
Università Cattolica S. Cuore, Roma
Introduzione
La struttura musicale complessa delle opere liriche, con i suoi codici, costituisce una rappresentazione teatrale specifica, nella quale espressione verbale ed espressione musicale,
sia vocale che strumentale, vengono tra loro intimamente unite, allo scopo di generare in
chi ascolta particolari effetti emotivi (Franco Fornari – psicanalisi della musica). L’apporto
musicale inteso come forma ricettiva agisce indipendentemente dalla disabilità, dalla fragilità psicofisica. Il presente progetto ha come obiettivo di conoscere e far vivere positivamente le esperienze emotive, ridurre gli stati d’ansia e l’aggressività, migliorare la comunicazione, il comportamento e le relazioni.
Metodologia
Il progetto di musicoterapia prevede l’ascolto e la visione di filmati di 12 opere liriche: Tosca, La Boheme, Madame Butterfly, La Traviata, Aida, Otello, Rigoletto, Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola, Lucia di Lammermoor, Don Pasquale, Norma, facenti parte di una
proposta editoriale a distribuzione settimanale in edicola. Sono stati coinvolti 6 soggetti
con disabilità intellettiva associata a disturbi della condotta e/o dell’umore.
Risultati
L’opera lirica è vissuta dai pazienti come schema di rappresentazione fisiognomica:
un’area dell’espressività sonora che riguarda le qualità morali, i contenuti psicologici, gli
atti mentali superiori, la struttura psichica dell’individuo.
L’architettura, l’impianto, di un’opera lirica si basa - per la presenza delle diverse voci naturali (soprano, mezzo soprano, contralto, tenore, baritono, basso) - sulle varie gradazioni
dell’opposizione maschile/femminile, strettamente legata alla naturalità degli affetti. Questo ci ha permesso ad es. nel caso di M. con Tosca di offrirgli un mezzo per raccontarsi e
trasferire emozioni sia negative che positive, trasformandosi da semplice “fruitore”
dell’opera lirica in attore “fantastico” principale, facendocelo conoscere negli aspetti più
intimi.
M. ha individuato l’opera lirica come uno strumento di comunicazione privilegiato, una
sorta di elemento transazionale.
Conclusioni
L’opera lirica, può essere assimilata a schemi di vita affettiva e senso-motoria e per questo,
in taluni soggetti con disturbi psicopatologici, può essere utilizzata come uno strumento
per normalizzare la sfera emotiva.
161
Osservazione lavorativa e utilizzo di schede personalizzate
per raggiungimento di obiettivi prefissati
Il Quinterno – Comune di Modena
“Il Quinterno” è un Centro Socio-occupazionale” del Comune di Modena, al suo interno
vengono ospitati ragazzi con disabilità medio-lievi, generalmente si tratta di adulti con disabilità psichica e ritardi nell’apprendimento. Il Centro è organizzato su tre laboratori, ove
si fanno attività finalizzate alla vendita di oggetti o al soddisfacimento di ordini di clienti.
Abbiamo un laboratorio di legatoria, uno di pelletteria, uno di oggettistica varia ed uno di
lavorazioni conto terzi, su ordinazione di ditte.
Il nostro compito all’interno del Centro è quello di creare un’attività lavorativa protetta,
ove i ragazzi compiono lavorazioni adatte alle loro capacità specifiche, in modo da mantenere le autonomie acquisite e, ove possibile, apprendere nuove mansioni, potenziando le
proprie capacità.
Per questo da tempo effettuiamo su ciascun ragazzo un’osservazione lavorativa, allo scopo
di capire quali sono le capacità della persona, quali attività può essere in grado di svolgere,
se necessita dell’utilizzo di ausili e se ha margini di apprendimento. A tale scopo da alcuni
anni ci avvaliamo dell’utilizzo di schede personalizzate che hanno la finalità di stimolare
le persone a raggiungere specifici obiettivi che ci paiono possibili. Tali obiettivi possono
essere di tipo comportamentale: come il ragazzo si comporta all’interno del Centro con gli
altri e rispetto le regole del luogo (puntualità, ascoltare gli operatori, comportarsi adeguatamente con i compagni, ecc…); oppure di tipo tecnico occupazionale: cosa il ragazzo sa
fare dal punto di vista delle abilità manuali o organizzative (sa organizzare il tavolo di lavoro, sa utilizzare adeguatamente gli strumenti, sa compiere determinate lavorazioni,
ecc…).
Le schede vengono definite in sede di equipe di lavoro, si definiscono gli obiettivi specifici
per la persona, in genere sono relative a punti critici, su cui tentare di lavorare. È necessario sforzarsi di trovare obiettivi concreti e raggiungibili, perché se si punta troppo in alto si
rischia di demoralizzare il ragazzo.
I punti su cui concentrasi devono essere semplici e comprensibili anche all’utente, in modo
da coinvolgerlo a fine giornata nella compilazione della scheda, in modo da renderlo partecipe del grado di autonomia acquisito. Ciascun operatore che a rotazione lavora con il ragazzo compilerà la scheda utilizzando i medesimi criteri concordati. Prima di cominciare la
compilazione viene spiegato all’utente il senso della scheda e ci si accerta che abbia chiaro
quale sia il terreno di lavoro e che lo accetti. La scheda definita ha come stimolo un premio
per la persona, che riceverà in caso di obiettivo raggiunto. Il premio varia a seconda degli
interressi del ragazzo e viene riscosso con cadenza settimanale o quindicinale, variabile in
base alle capacità cognitive e di elaborazione del soggetto.
La scheda ha una valenza temporale limitata, perché col tempo perde di stimolo e rischia di
diventare un fattore meccanico. Serve per periodi di qualche mese, su obiettivi precisi, che
una volta acquisiti devono essere sostituiti da altre criticità. Così come nel caso ci si accorga che la persona non è in grado di raggiungere gli obiettivi, significa che è stato commesso un errore di valutazione da parte degli operatori, per cui è importante non insistere sul
tasto e ritarare lo strumento su livelli raggiungibili dalla persona.
Si tratta di uno strumento che in questi anni abbiamo applicato ottenendo buoni risultati,
utile per fare acquisire capacità, consapevolezza e per permettere all’equipe di lavoro di
comprendere meglio le reali capacità delle persone.
162
Medicina Basata sulle Narrazioni e formazione degli specialisti
Storia N. 1: “Abbracci non voluti”: il problema della definizione
diagnostica e della condivisione del progetto “riabilitativo”
Ciro Ruggerini, Sumire Manzotti e Gruppo di Lavoro Azienda Ospedaliero Universitaria
Policlinico di Modena /Azienda AUSl di Modena sugli aiuti allo sviluppo dei bambini con
disabilità intellettiva in età prescolare
Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico di Modena - Modulo di Psicopatologia dello Sviluppo e dell’Apprendimento -; Scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria Infantile della Università di Modena e Reggio Emilia
Le storie di vita – narrazioni diverse da quella che trasmettono esclusivamente informazioni mediche – possono esemplificare concetti che la letteratura scientifica può esprimere in
modo più astratto. Per questo possono avere un rilievo nella formazione degli operatori.
La storia
La storia di E è ricostruita sulla base della cartella clinica dello specialista territoriale curante (4-8anni); della cartella dello specialista ospedaliero (8-25 anni); della cartella del
servizio territoriale di psichiatria (25–27 anni).
All’età di 4 anni E. viene inviata al servizio territoriale: le insegnanti sospettano un ritardo;
il pediatra non concorda: non ha riconosciuto nel suo sviluppo dati allarmanti; la madre si
attribuisce la responsabilità “ di averla trascurata a causa del suo lavoro”. La valutazione
diagnostica conclude per “ immaturità generale”. Il programma di aiuti prevede indicazioni
educative – es.: interagire facendole domande -. Gli insegnanti chiedono una certificazione
per poter ricevere l’aiuto di un insegnante di sostegno. La madre considera questa richiesta
contradditoria, visti i progressi nell’ultimo anno.
Nel primo anno di scuola elementare E continua a fare progressi – questo è il messaggio
inviato alla madre – ma viene richiesto ugualmente l’insegnante di sostegno. La famiglia
interrompe il rapporto con il servizio territoriale. E frequenta con qualche difficoltà la
scuola elementare.
Riceve una certificazione di Ritardo Mentale Lieve in prima media. La madre accetta la
certificazione “ solo per necessità” di ricevere l’ aiuto scolastico. La madre vive la diagnosi
come uno stigma e va, anche per questo, incontro ad un quadro depressivo.
All’età di 22 anni una valutazione neuropsicologica approfondita (WAIS, Memoria anterograda, Memoria a breve termine, Abilità attentive ed esecutive) conclude per “ efficienza
intellettiva ridotta, che tuttavia non impedisce nuovi apprendimenti”.
All’età di 25 anni lavora come bidella in una scuola materna – “ gestisce il suo lavoro in
modo autonomo “-; collabora con la madre in modo affidabile “ nella gestione della sorella”; è fortemente isolata su un piano sociale – “ ciao handi”, la apostrofano i conoscenti -;
“frequenta solo ragazzi extracomunitari”, “ isolati come lei …”
Il significato
Le istituzioni della Comunità pensano di aiutare lo sviluppo di E abbracciandola nelle loro
procedure. La madre, gli operatori e gli insegnanti non sono, tuttavia, in grado di condividere né una definizione diagnostica – come interpretare le caratteristiche di E: come espressione della variabilità interindividuale oppure come manifestazione di una condizione
nosografica di Ritardo Mentale ? -, né un progetto – come definire il programma di aiuti:
Abilitazione o Trattamento ? -. Il risultato di questa incapacità sono il dolore – che nella
163
madre prende la forma di un quadro Depressivo – e lo stigma – che facilità l’isolamento
sociale di E -.
Contestualizzazione
McDowell e Klepper (2000) hanno evidenziato che le famiglie di bambini con disabilità
lievi afferenti ad un Servizio pubblico appositamente dedicato hanno livelli di soddisfazione correlati sia a un processo di assessment integrato ed individualizzato sia a una trasmissione efficace delle informazione tramite relazione scritta e colloquio verbale.
Rahi e coll. (2004) e Denboba e coll (2006) hanno sintetizzato nei seguenti punti un tipo di
prendersi cura “centrata sulla Famiglia”:
1) famiglie e specialisti lavorano insieme;
2) le famiglie hanno rispetto per la capacità dei professionisti;
3) vi è fiducia reciproca tra famiglie e professionisti;
4) la comunicazione e la condivisione delle informazioni scientifiche avviene in modo esplicito e accurato;
5) famiglia e specialisti concordano ogni decisione;
6) famiglie e specialisti hanno volontà di negoziare i punti di vista diversi.
Bibliografia
McDowell, M. & Klepper, K. (2000) A ‘chronic disorder` health-care model for children
with complex developmental disorders, J. Paediatr. Child Health 36, 563-568.
Denboba, D., McPherson, M.G., Kennedy, M.K., Strickland, B. and Newacheck, W.
(2006) Achieving Family and Provider Partnerships for Children With Special Health
Care Needs, Pediatrics vol.118 no.4
Rahi, J.S., Manaras, I., Tuomainen, H. and Hundt, G.L. (2004) Meeting the Needs of Parents Around the Time of Diagnosis of Disability Among Their Children: Evaluation of a
Novel Program for Information, Support, and Liaison by Key Workers, Pediatrics vol.114
no.4.
164
Un percorso di certificazione evoluta per persone con ritardo
mentale che afferiscono ad un dipartimento di psichiatria
C. Ruggerini, F. Villanti, F. Mazzi
Dipartimento Integrato Materno Infantile Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico
di Modena, Modulo di Psicopatologia dello Sviluppo e dell’Apprendimento; Istituto Charitas di Modena; Azienda USL di Modena
Premesse
La condizione di Ritardo Mentale e la psichiatria sono due realtà che spesso si intrecciano.
Dai dati di uno studio che ha considerato 483 utenti dell'opera Don Guanella (Ruggerini,
Solmi, Neviani, Guaraldi, 2004) è emerso, ad esempio, che, nel periodo di 3 anni, il 39%
dei Disabili Adulti afferenti a Centri Diurni oppure a Residenze, ha avuto bisogno di una
consulenza psichiatrica.
Per svolgere questo compito psichiatrico in modo efficace sono state elaborate e messe a
disposizione del clinico Linee Guida specifiche per le persone con Ritardo Mentale, utilizzabili sia in fase diagnostica che prescrittiva (Reiss e Aman, 1998).
Nonostante i numerosi progressi della attività clinica psichiatrica la letteratura segnala,
tutt’ora, carenze in questo campo particolare della assistenza.
In uno studio descrittivo condotto recentemente presso un Centro di Salute Mentale della
provincia di Modena (Fontana, 2005), si è valutato il grado di applicazione dei criteri proposti da Croce (2004) e basati sulle linee guida di Kalachnik e dei suoi collaboratori (1998)
nella diagnosi e nella terapia dei Disturbi Mentali in persone con Ritardo Mentale.
La percentuale di applicazione delle diverse indicazioni è apparsa assai disomogenea. Aree
“critiche” della assistenza sono rappresentate da:
1. inquadramento diagnostico: evidenziato dalla presenza di definizioni nosografiche difformi dalla nosografia ufficiale (esempio: quella di “ Psicosi di innesto”) e dalla assenza di
prassi ritenute, in genere, efficaci nella psichiatria generale (esempio: quella della utilizzazione di strumenti psicometrici a supporto della valutazione clinica)
2. scarsa attenzione agli effetti collaterali degli psicofarmaci: evidenziato dalla mancata
utilizzazione di scale standard di valutazione per un monitoraggio sistematico.
In sintesi, le persone con Ritardo Mentale possono presentare Disturbi Mentali che possono essere diagnosticati e curati con efficacia se si tiene conto della specificità del campo.
La adozione “tout court” dei metodi diagnostici e terapeutici utilizzati nelle persone senza
deficit cognitivi può essere poco pertinente e, a volte, dannosa.
Storia del dipartimento
L’attuale Dipartimento Misto di Psichiatria e Salute Mentale svolge una attività assistenziale, di ricerca e di didattica nel campo del RM che si situa nel solco di una tradizione relativamente lunga e del tutto particolare. La scelta della Certificazione dei processi diagnostico–terapeutici, promossa dalla Direzione del Dipartimento, ha determinato la formazione di un contesto in cui le esperienze già in atto nel campo del RM potevano essere considerate alla luce di una nuova cultura organizzativa.
Anche se la necessità di integrare assistenza, ricerca e didattica al fine di migliorare la qualità professionale rivolta al RM era già presente nel Dipartimento - perché ispirato da maestri/precursori che sono stati tra i formatori del personale del Dipartimento -, questa nuova
cultura la ha resa esplicita e la ha indicata come obiettivo ufficialmente condiviso. La novità è consistita, quindi, nel far dipendere la qualità professionale non da una scelta dettata
dalle attitudini dei singoli specialisti ma da un sistema di regole dichiarate e sottoposte a
verifica.
165
In questo lavoro si descrive l’evoluzione della assistenza alle persone con disabilità cognitiva e Disturbo Mentale avvenuta, presso il nostro Dipartimento, sulla base delle evidenze
proposte e ricercate nella attività clinica.
Nella prima fase la particolarità è la utilizzazione della stessa metodologia diagnostica e di
condotta terapeutica utilizzata per tutti i pazienti del Dipartimento; una seconda dalla scelta
delle Linee Guida da introdurre; una terza da una prima verifica degli effetti di questa introduzione (Ruggerini e coll., 2004); una quarta, infine, da una ulteriore verifica dei risultati con un interesse particolare per il metodo con cui condurre e valutare gli esiti a distanza.
Per quanto riguarda il monitoraggio dei cambiamenti non farmacologici abbiamo individuato un possibile strumento di rilevazione nella 10a Edizione del Manuale “Ritardo mentaleDefinizione, Classificazione e Sistemi di sostegno” dell’American Association on Mental
Retardation (2002). Le categorie degli esiti che, secondo questo manuale, andrebbero
monitorate in modo sistematico nei soggetti con Ritardo Mentale ogni qualvolta si imposti
un progetto terapeutico, di qualsiasi natura questo sia sono raggruppate in cinque gruppi:
Indipendenza, Relazione, Contributi personali, Partecipazione nella scuola e nella comunità e Benessere personale. Per ciascuna categoria sono poi indicati possibili indicatori.
Il percorso svolto all’interno del dipartimento si intreccia con un percorso analogo svolto
all’interno dell’attività di consulenza che uno degli specialisti del dipartimento (C.R.) svolge all’interno dell’Istituto Charitas dal 1993.
Progetti a breve e a lungo termine
1. ricerca sugli effetti positivi – terapeutici – e negativi – collaterali – delle terapie
farmacologiche. (dose minima efficace, monitoraggio sistematico degli effetti collaterali e di Qualità della Vita)
2. legare la somministrazione delle terapie farmacologiche ad un forte intento etico –
che potrebbe concretizzarsi, per esempio, nella promozione di un Comitato Provinciale di controllo -.
3. aggiornamento continuo sulla definizione della condizione del Ritardo Mentale e
sulla diagnostica dei Disturbi Mentali associati
4. rilievo di diagnosi di Ritardo Mentale Lieve che non reggono alla verifica (opportunità di abolire questa categoria diagnostica limitando la nozione di Ritardo Mentale a condizioni di eziologia neurobiologica immediatamente evidente e di grossolana compromissione della efficienza intellettuale)
5. possibilità di sostituire la diagnosi di “Psicosi” con la definizione descrittiva di “
Disturbo dell’Umore” – nelle sue varie Tipologie - con effetti molto positivi sulla
efficacia delle terapie psico-farmacologiche. Lo studio delle modalità di esordio dei
Disturbi dell’Umore nelle persone con RM sarà, perciò, uno dei temi che andranno
approfonditi ulteriormente.
166
Bibliografia
American Association on Mental Retardation, 2002, Trad. Italiana a cura di Vannini, Brescia, 2005.
Baraghini, G., Trevisani, B., Roli, L., Le ISO 9000 in sanità, Franco Angeli, Milano, 2002
Croce, L., Trattamento dei problemi psichiatrici e comportamentali nel Ritardo Mentale,
in Sala M, Bonati Al (Eds.), Ritardo Mentale e psicofarmaci. Verso la costruzione di un
approccio razionale, Vannini, Brescia, 2004
Deb, S., Matthews, T., Holt, G., Bouras, N., Practical guidelines for the assessment and
diagnosis of mental health problems in adults with intellectual disability, Brighton, Pavillon, 2001
Kalachnik, J.E., Leventhal, B.L., James, D.H., Sovner, R., Kastner, T.A., Walsh, K., Weisblatt, S.A., Klitzke, M.G., 1998, Guidelines for the use of psycotropic medications, in
Reiss, S., Aman, M.G. (Eds.), Psychotropics Medication and Developmental Disabilities:
the International Consensus Handbook (pp. 31-44), Columbus, OH, The Ohio State University Nisonger Centre Publisher
Fontana, F., Riflessioni sulla necessità dell’applicazione delle linee guida dell’AAMR
nell’ambito della psichiatria dell’adulto con ritardo mentale in una casistica di 45 pazienti
in carico presso un CSM di Modena, Tesi di Specializzazione in Psichiatria, Università di
Modena e Reggio Emilia, Relatori: G.P. Guaraldi, C. Ruggerini, Anno Accademico 20042005.
Reiss, S., Aman, M.G. – Eds (1998), Psychotropic Medication and Developmental Disabilities: The International Consensus Handbook, The Ohio State University, Nisonger
Center
Ricchetti, E., Ritardo Mentale e Disturbo Mentale: analisi dei ricoveri presso la Clinica
Psichiatrica. Parte I: Frequenza e durata dei ricoveri; eventi inducenti il ricovero e diagnosi di dimissione, Tesi di Laurea, Università di Modena e Reggio Emilia, Relatori: G.P.
Guaraldi, C. Ruggerini, Anno Accademico 1998-1999.
Ruggerini, C., Neviani, V., Greco, V., Matson, J., Ricchetti, E., Vezzosi, F., Guaraldi,
G.P., Effetti della introduzione di Linee Guida nella assistenza psichiatrica alle persone
con Ritardo Mentale, AJMR (Edizione Italiana), 2, 493-505, 2004
Ruggerini, C., Solmi, A., Neviani, V., Guaraldi, G.P., La sfida tra Sviluppo e Ritardo Mentale, Milano, Franco Angeli, 2004
Vezzosi, F., Ritardo Mentale e Disturbo Mentale: analisi dei ricoveri presso la Clinica
Psichiatrica. Parte II- Confronto di casi: Disturbo Mentale in soggetti ritardati e non., Tesi di Laurea, Università di Modena e Reggio Emilia, Relatori: G.P. Guaraldi, C. Ruggerini,
Anno Accademico 1998-1999
167
Valutazione della Qualità attraverso la misurazione Epidemiologica dei risultati ottenuti nel corso del tempo
Roberto Salvini
SIRM – AOUC Università di Firenze
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche
Introduzione
La studio della Qualità di un Servizio Socio-Sanitario è una problematica molto discussa
con valutazioni difformi da un luogo a un altro.
La valutazione Epidemiologica è, dal punto di vista scientifico, la più sicura e accettata.
Il dato ricavato è sicuramente il più stabile e meno soggetto alle impressioni soggettive e
agli interessi di parte.
I pazienti con DI sono un gruppo particolarmente a rischio e una stima accurata assume
una notevole importanza nella considerazione dei benefici dell’inserimento in una particolare struttura.
Si propone quindi l’esempio di una analisi di un ente privato con un congruo numero di utenti in un periodo temporale di due anni.
Metodologia
Rilevamento con quattro test: Vineland, QoL, Dash II e il test sperimentale di Dosen SAID
sulla popolazione ospitata nelle strutture diurne e residenziali nel centro CTE in provincia
di Firenze. Valutazione e calcolo dei risultati.
Analisi di Coorte per i due anni dal 2007 al 2008.
Calcolo dell’efficienza e dell’efficacia delle metodologie di intervento applicate.
Probabilità di rapporto.
Risultati
Negli anni si evidenzia un miglioramento in una componente significativa degli ospiti.
Calcolando si ottiene che almeno il 40% dei pazienti ha un giovamento.
Conclusioni
Una struttura di intervento sulla DI dimostra una particolare utilità se e seguita e valutata
mediante un supposto scientifico e metodologici di buon livello.
Particolarmente importante è evitare l’autoreferenzialità che fornisce dati poco attendibili
anche se usata frequentemente anche da enti del Servizio Pubblico.
Altro risultato è anche la buona affidabilità dei test diagnostici usati nella DI.
168
Validazione di un test per la valutazione dell’autismo.
Rapporto preliminare
Roberto Salvini, Giampaolo La Malfa
SIRM – AOUC Università di Firenze
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche
Introduzione
Il prof. Mazzon ha proposto un test di valutazione per l’autismo. Può essere utile analizzare
alcune possibili strategie matematiche utilizzate per la valutazione.
La procedura per l’introduzione di un test fondato su questionari può essere complessa e
richiede molti passaggi successivi.
In particolare sorgono facilmente problemi dovuti alla difficoltà che hanno i partecipanti a
rispondere alle domande di carattere personale e privato, anche spesso di comprendere le
domande. Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante quando il test all’oggetto viene
proposto contemporaneamente in vari paesi e in molteplici linguaggi.
Il senso ed il significato possono variare ed i risultati essere difformi non in risposta alle
variabili del questionario ma per effetti casuali.
Metodologia
Il questionario è stato proposto a famiglie in una provincia meridionale mediante domande
tradotte in italiano su supporto cartaceo. Successivamente le risposte sono state trasferite
su un data base elettronico ed analizzate. Sono state calcolate l’affidabilità e la coerenza
interna delle risposte. Si è quindi proceduto alla comparazione fra le varie scale con il coefficiente di correlazione.
Dato l’alto numero di variabili si è proceduto ad un riduzione dei dati mediante Factor e
Cluster Analisi per ridurre ed evidenziare le differenze.
Risultati
L’affidabilità e la coerenza interna risultano buone con un valore superiore in generale ad
una probabilità dello 0,9.
Sono stati individuati cinque fattori di variabilità e la struttura dei dati appare come non
contraddittoria dando alcune indicazioni sulle possibili valutazioni qualitative.
Conclusioni
Questa analisi preliminare dimostra che il progetto di Mazzon sia fondato dal punto di vista
metodologico e matematico. È quindi utile postarlo a termine con la collaborazione di altre
strutture sul territorio nazionale. Un nuovo strumento per operare sull’autismo aggiornato e
presente in più paesi è certamente utile.
169
Il controtransfert istituzionale e le emozioni dell’equipe curante
nell’incontro con la disabilità: il caso di una cooperativa sociale
bresciana
Giuliana Tonoli30
La letteratura pscicoanalitica (Hinshelwood 1990, Kernberg 1998), socioanalitica (Jaques
1955, Menzies, Tavistock group) psicosocioanalitica (Pagliarani 1972 1991, Ronchi 1993,
Burlini Ronchi 2002, Varchetta 2001, Natili 2005) organizzativa (Piccardo, Quaglino) ha
declinato in varie forme il concetto che l’organizzazione corre il rischio di ammalarsi della
stessa malattia che si propone di curare.
Nel paradigma psicosocioanalitico le organizzazioni possono progressivamente allontanarsi da loro compito primario, dalla loro mission, per perseguire un nuovo compito autoconservativo.
Di quale malattia potrebbero “ammalarsi” le equipe curanti che lavorano a contatto con la
disabilità intellettiva? E le organizzazioni che gestiscono servizi per persone disabili?
Il lavoro con persone con disabilità intellettiva espone l’operatore al contatto con la lentezza, la stereotipia, la fissità cognitiva.
Queste dimensioni potrebbero tradursi in dinamiche di paralisi, stagnazione, assenza di
progettualità, perdtita di vista della centralità dell’utente e del suo progetto riabilitativo, eccessiva aderenza alla regola all’interno delle equipe curanti. Queste dinamiche possono essere lette come sintomi di un disagio a livello del gruppo di lavoro.
Nella visione del corpo umano simile ad una macchina il sintomo poteva essere spiegato
come una malformazione della mente individuale o una struttura patologica della personalità determinata da un oblio di eventi antichi (De Polo 2007).
Secondo il paradigma dei teorici della complessità (Von Foerster 1987) gli individui sono
macchine non banali in grado di auto-organizzarsi: un sistema che si autoorganizza non si
limita a importare ordine dal proprio ambiente, ma assorbe materia ricca di energia, la integra nella propria struttura e in questo modo accresce il proprio ordine interno.
Il soggetto, compreso quello gruppale e istituzionale, apprende dai contesti, anche dal contesto malattia. Malattia non più e non solo come metafora bellica da debellare rapidamente,
ma come un emergente da ascoltare.(Esposito 2002, Ronchi 2007) Un organizzazione in
grado di ascoltare le emozioni dell’equipe curante (nel nostro esempio: la paralisi, la stagnazione, l’assenza di progettualità…) consente agli operatori di aumentare il proprio livello di consapevolezza, accedendo ad uno stadio evolutivo nuovo, che non coincide con
quello pre-sintomatico, ma che si è arricchito dall’aver preso contatto con le dimensioni di
sofferenza trasmesse dall’utenza.
A livello istituzionale delle organizzazioni che lavorano con la disabilità, il disagio può
manifestarsi attraverso la difficoltà di adempiere il proprio progetto imprenditoriale, in
quanto progetto di crescita e sviluppo.
Nell’esempio della cooperativa sociale bresciana presa in analisi questo si traduce nella
difficoltà di svincolarsi da un rapporto mono-commessa con la propria committenza con la
quale mantiene un rapporto di totale dipendenza. Questa situazione relazionale rispecchia il
rapporto di dipendenza della persona con disabilità intellettiva con le proprie figure genitoriali.
La committenza rappresenta infatti il “genitore istituzionale” della cooperativa sociale presa in esame, avendone sostenuto la nascita.
30
Psicologa psicoterapeuta psicosocioanalista, socio di Ariele Psicoterapia, presidente cooperativa sociale
COGESS (Bescia)
170
Dall’analisi a livello delle cooperative sociali31 emerge che le cooperative del settore solidarietà siano quelle che hanno incrementato il proprio fatturato e il numero di progetti in
modo inferiore rispetto a tutti gli altri ambiti di intervento.
L’ipotesi è che la spinta progettuale e innovativa sia ostacolata dalle dimensioni di lentezza, pesantezza e stagnazione che si depositano nel controtransfert istituzionale (Pagliarani
1983, Pagliarani et al.1993, Ronchi 1993 2003 2005) di queste organizzazioni.
31
fonte: settore Federsolidarietà di Confcooperative 2008
171
La forza dei genitori: una esperienza di Scandiano
Roberto Vassallo
È cominciato tutto quando mio figlio frequentava le scuole medie in primavera del 2006,
sono stato convocato a scuola dalla preside per alcuni problemi con gli insegnanti. Mi
sembrava di essere in una aula di tribunale sotto accusa per quello che aveva fatto mio figlio! Da quel giorno in poi mi sono reso conto che questi ragazzi affetti da autismo non sono accettati nella collettività e che dovevo fare qualcosa di più per mio figlio e non solo
poiché purtroppo per gli adolescenti si chiudono tante porte e non esiste altro che la scuola.
Ho capito che dovevo a tutti i costi far conoscere l'autismo poiché c'era molta ignoranza in
materia e ho deciso di creare una struttura adeguata alle loro esigenze.
Sono partito da solo a bussare a qualche porta e le assicuro che è stata molto dura e qualche
volta ho trovato le porte chiuse da parte delle istituzioni.
Poi quando hanno capito che i miei progetti erano validi e che sarebbero stati utili anche
per molti ragazzi del nostro distretto, essendo l'autismo una patologia sempre più crescente, mi sono venuti incontro ed hanno cominciato a collaborare con me.
Ho cominciato ad organizzare spettacoli di beneficenza con vari comici, partite del cuore
con artisti televisivi e mercatini vari per raccogliere i fondi necessari per affrontare le prime spese.
Sono riuscito finalmente ad aprire nel novembre 2006, in collaborazione con Ausl e Comuni, una prima struttura nella quale 16 ragazzi tra grandi e piccini hanno potuto cominciare le terapie riabilitative del CTR e per gli adolescenti anche attività di atelier. Ho fatto
periodicamente rassegne stampe sui giornali e su emittenti televisive per far conoscere alla
collettività non solo la patologia ma anche i nostri progetti presenti e futuri.
Siamo partiti io e mia moglie ma durante il nostro camminino si sono affiancati a noi vari
genitori e adesso siamo un gruppo molto affiatato e sopratutto determinato a costruire il futuro per i nostri figli.
Nella primavera di quest'anno abbiamo identificato una struttura che faceva al caso nostro
e soprattutto a pennello con il nostro progetto dotata di 130 mq al coperto e 15mila mq di
parco, rendendo possibile la costruzione di box per i cavalli per eseguire l'ippoterapia riabilitativa, nonché la realizzazione di orti e attività all'aria aperta.
Così abbiamo subito cominciato i lavori di ristrutturazione e finalmente dopo tanto lavoro
e sacrificio siamo riusciti ad inaugurare la nostra Isola Felice lo scorso 27/09/08 e a breve
partiranno con le terapie riabilitative 25 bambini e adolescenti, ma non è finita qui poiché
ho in mente un sacco di altri progetti per i nostri ragazzi come la costruzione di abitazioni
per gli adulti per risolvere in parte il problema del "dopo di noi", così come il progetto di
un inserimento lavorativo per i ragazzi più grandi in collaborazione con API, il gruppo giovani imprenditori che si è messo completamente a nostra diposizione per aiutare questi ragazzi.
Consiglio a tutti i genitori di bambini e ragazzi autistici di non chiudersi in se stessi, di attivarsi e di non piangersi addosso ed aspettare e pretendere solo gli aiuti di Ausl e Comuni,
ma di costruire anche con le proprie fatiche un futuro per i propri figli, di condividere i
problemi con gli altri genitori e con le associazioni perché l'unione fa la forza.
Io sono stato fortunato perché in questi anni sono stato sostenuto da tanti amici che mi
hanno seguito ed hanno diffuso e fatto conoscere ad altri i miei progetti.
Questa è stata la mia esperienza da genitore e penso che tutti siano in grado di fare quello
che ho fatto io. basta solo un po' di buona volontà e tanto amore, che solo un genitore può
dare al proprio figlio.
172
Palestre Agricole
Daniele Vecchi
Coordinatore Istituto Charitas “Centro Ermanno Gerosa” di Modena
Roberta Setti
Educatrice Professionale Istituto Charitas “Centro Ermanno Gerosa” di Modena
Questa esperienza,è nata da un dibattito interno promosso dalla direzione dell' istituto sul
tema: quali sono i luoghi dove può arricchirsi l'esperienza di vita degli ospiti
Modello di riferimento
Documento della Associazione Americana del Ritardo Mentale (2002) Far
Community, Centro Al Dragonato (Canton Ticino, Svizzera) prof. Rezzonico
(Università Cattolica di Milano)
Studi di osservazioni dirette del coinvolgimento nelle attività come indicatore di
qualità (Risley e Cataldo; Jones; Felce). L’idea del progetto è di costruire una
condizione operativa che rappresenti una mediazione possibile tra le caratteristiche
dell’individuo e quelle dell’ambiente consueto.
Nasce la necessità di utilizzare spazi di vita il più possibile simili a quelli che costituiscono
la realtà sociale.
Modalità in cui avviene l’esperienza
Esplicitazione dei riferimenti culturali, analisi, ricerca delle opportunità che il territorio
offre, sensibilizzazione, contatti a vari livelli.
Specificazioni operative
A. Ricerca di aziende agricole
1) Incontro con l’Associazione Allevatori per proporre il progetto
2) Necessità di individuare nell’organizzazione un referente che sposi la filosofia
generale del progetto
3) Raccolta dei nominativi delle aziende disponibili ad ospitare il progetto
4) Conoscenza delle possibilità di inserirci negli ambienti specifici, che essendo
aziende hanno regole precise
5) Raccogliere suggerimenti su ciò che è possibile fare, quando, dove
B. Individuazione degli ospiti candidati a partecipare all’esperienza e
Formulazione di un progetto di intervento pratico fattibilità, organizzazione, condizioni.
1) Individuazione di un gruppo di lavoro dell’istituto: coordinatore, educatori,
assistenti, neuropsichiatra infantile. Formulazione di un progetto educativo
dell'esperienza, e di ogni singolo ospite.
2) Supervisione del neuropsichiatra rispetto alla qualità del lavoro.
3) Verifica in itinere del modo in cui gli ospiti vivono l’esperienza e degli obiettivi
specifici (progetto educativo).
4) Restituzione alla Associazione Allevatori dei risultati ottenuti a distanza di 6 mesi
con relazione e immagini.
Storia
Dal settembre 2005, grazie all'interessamento dell' Associazione Allevatori della Provincia
di Modena, e alla disponibilità di due imprenditori, 10 ospiti della residenza Charitas hanno vissuto l'esperienza in fattoria, altri,a causa delle loro problematiche, solo saltuariamente hanno frequentato le aziende.
173
La scelta degli ospiti
In parte si tratta di ospiti che presentano caratteristiche cognitive – relazionali e di prestazioni motorie simili. Per questo la proposta può consentire un percorso con obiettivi educativi comuni, oltre a quelli personali.
Sono poi presenti altri ospiti che per le loro caratteristiche hanno percorsi trasversali al
gruppo, con comuni obiettivi, ma che per essere raggiunti richiedono strategie particolari.
Chi frequenta saltuariamente, da una parte è accolto per valutare se ci sono possibilità di
creare un progetto di inserimento, e nel contempo per offrire un momento di svago in una
ambiente pieno di stimoli
Dove
Due grandi aziende zootecniche che allevano bovini con lo scopo principale di produrre
latte e quindi formaggio Parmigiano Reggiano.
Cosa fare
Costruzione di un percorso di azioni ripetitive che sono il contenitore conosciuto e prevedibile nel quale si inseriscono le variabili di una attività vissuta all'aperto, a contatto con
animali e in un ambiente non specializzato ad accogliere disabili.
In stalla si tratta di riavvicinare l'alimento composto di foraggio e farine agli animali, che
mangiando lo allontanano, le mucche sono socievoli e curiose quindi mostrano di riconoscere l'impegno, i vitellini si meritano attenzioni affettive, si tratta poi di guardarsi attorno
e scoprire nuovi percorsi, i gatti, galline, anitre, da osservare nei loro comportamenti e da
alimentare.
Finalità generali
Questa attività dà la possibilità di interrompere la cronicità della routine e permette di entrare a contatto con un ambiente capace di offrire stimoli non solo di carattere ludico – riabilitativo, ma che richiede anche adattamento alle regole, uno stile di comportamento specifico e adeguato al ruolo svolto, la percezione dell’impegno lavorativo, la ripetizione viene il più possibile sostituita dalla rielaborazione.
Vengono attivate tutte le capacità del soggetto per raggiungere nuove conoscenze: sensoriali, corporee, operative, logiche, comunicative, cooperative.
Obiettivi
Gli obiettivi specifici sono legati a tre aree principali.
Psico – motoria (fare):
compiere azioni diverse da quelle solitamente svolte, con l’utilizzo di strumenti nuovi
migliorare la coordinazione dei movimenti.
Orientarsi nello spazio e nel tempo acquisendo la sequenza delle azioni per prepararsi e ottenere un risultato
Cognitiva – comunicativa (compito):
responsabilizzarsi compiendo un’azione riconoscibile come utile,
crescere nella consapevolezza di avere un ruolo nella situazione vissuta.
Sensibilizzazione ai bisogni degli animali, avere cura di loro, raccontando, al rientro, agli
operatori l’esperienza vissuta (diario), arricchimento del linguaggio, recupero della memoria, comunicazione legata al contesto
Sociale - relazionale (gruppo):
Uscire dal gruppo di appartenenza e avere nuove relazioni con compagni con cui si condivide un ruolo e un impegno (gruppo trasversale).
Rapporto diretto e collaborativo con gli operatori compiendo le stesse azioni, curiosità e
rispetto verso gli animali.
174
Il servizio di temporaneità ed emergenza come risposta,
all’interno della rete dei servizi del Comune di Modena,
ai bisogni delle famiglie con un disabile.
L’esperienza dell’Istituto Charitas
Daniele Vecchi
Coordinatore Istituto Charitas “Centro Ermanno Gerosa” di Modena
Chiara Arletti
Educatrice Professionale Istituto Charitas “Centro Ermanno Gerosa” di Modena
Il servizio di temporaneità ed emergenza, nasce da una collaborazione tra il Comune di
Modena, l’ASL e l’Istituto Charitas nel gennaio del 2002, per rispondere ad un’esigenza
delle famiglie con un disabile, del territorio modenese, di poter avere dei periodi di “sollievo”, durante i quali il famigliare disabile potesse essere accolto all’interno della struttura,
per un periodo di tempo definito, in modo da permettere alla famiglia momenti di riposo o
da dedicare a visite mediche, interventi in ospedale o a qualsiasi altra necessità. La temporaneità, è programmata per tempo e consente di avere a disposizione un posto in struttura
per al massimo tre mesi nell’anno, anche scaglionati nel tempo. Il servizio di emergenza si
attiva nel corso di un giorno ed ha una durata massima di un mese. Per il servizio di emergenza, dati i tempi stretti di attivazione, sarà cura della struttura, in stretto rapporto con i
servizi sociali, predisporre appena possibile il progetto educativo-assistenziale e sanitario,
e la raccolta di tutte le informazioni utili.
L’accesso ai servizi di temporaneità ed emergenza avviene attraverso delle segnalazioni
formali da parte del servizio sociale di base (Area Handicap). In seguito della presentazione del caso, l’Assistente Sociale di riferimento, il Coordinatore della struttura e l’Educatore
Professionale preparano un progetto educativo-assistenziale, finalizzato all’inserimento
della persona all’interno del gruppo deputato all’accoglienza. A questa fase partecipa, per
tutta la parte di competenza sanitaria, anche l’infermiera di coordinamento in stretto rapporto con la dottoressa interna ed il dottore di famiglia dell’ospite in arrivo. In particolare,
in seguito alla nostra esperienza abbiamo elaborato un percorso, che riteniamo fondamentale per la buona riuscita dell’inserimento all’interno del nostro Istituto:
• Colloqui con i genitori e l’Assistente Sociale, con l’eventuale centro diurno, o
l’ospedale (a seconda della provenienza del ragazzo/a da inserire). Questi colloqui
ci permettono di conoscere la persona, per poter predisporre la migliore accoglienza possibile.
• Anamnesi della persona che entra in temporaneità o emergenza: dati anagrafici, diagnosi, storia sociale e sanitaria e progetti socio-riabilitativi precedenti. Compilazione di alcune schede preparate dall’Istituto.
• Incontro con la persona e la famiglia nel suo ambiente di vita (a casa, nel centro
diurno…)
• Visita dell’ospite in Istituto con la famiglia e l’Assistente sociale.
In seguito l’equipe educativa dell’Istituto predispone alcuni elementi fondamentali:
• La preparazione e la scelta degli operatori (OSS) che dovranno seguire la persona
inserita. Questo passaggio è di estrema importanza, perché solo tramite il lavoro in
equipe è possibile raggiungere dei buoni risultati.
• L’accoglienza: la predisposizione dell’ambiente e del materiale. La preparazione
degli altri ospiti del gruppo che effettuerà l’accoglienza. Il coinvolgimento degli altri servizi interni al centro (cucina, guardaroba, infermeria…)
175
•
•
L’arrivo dell’ospite in Istituto e la prima settimana di osservazioni.
Il progetto educativo-assistenziale, che deve integrarsi con i progetti in atto presso i
centri territoriali già frequentati dalla persona in temporaneità, al fine di mantenere
un rapporto di continuità con le persone e le attività consuete.
• Le osservazioni su come si sono svolti i giorni successivi.
• Le verifiche con gli assistenti sociali, i genitori, gli altri centri…
• Il saluto al termine del periodo di inserimento.
• Eventuali osservazioni sul suo rientro a casa. È importante mantenere anche una
volta terminato il periodo di inserimento il legame della famiglia perché li fa sentire
parte di un gruppo e soprattutto ci permette di rimanere aggiornati sulle evoluzioni
della persona disabile in funzione di una nuova temporaneità.
Questo percorso ci ha permesso di conoscere gradualmente la persona da inserire, rispettando i suoi tempi di conoscenza della la struttura e di accettazione dell’esperienza, e soprattutto di rispettare i tempi della famiglia, cercando di fugare ogni dubbio e di farci accettare come professionisti che lavorano in rete e che cercano di rispondere in modo attento
e puntuale ai bisogni della persona che deve essere inserita.
Dal punto di vista psicologico è da prevedere un lungo percorso di avvicinamento della
famiglia alla struttura residenziale sempre vissuta con molta ambivalenza: Da un lato viene
vissuta come l’ente che, prima o poi sarà necessaria per il congiunto disabile, certamente
una risorsa, ma da utilizzare il più tardi possibile. Dall’altro lato viene vissuta come una
realtà minacciosa, da tenere a distanza perché, se ci si avvicina, cattura il congiunto spodesta la famiglia e ne sancisce il fallimento finale.
Per superare questa ambivalenza ed aiutare la famiglia a vivere l’istituto come una risorsa
che lavora in alleanza con la famiglia, l’assistente sociale e il lavoro di rete, abbiamo evidenziato alcuni steps da seguire.
• Visita remota dei famigliari all’istituto che spesso definiamo turistica, senza nessun
impegno da parte di nessuno. Se poi viene sottolineato che non ci sono attualmente
posti liberi, la cosa è, per la famiglia ulteriormente tranquillizzante.
• Opportunità di parlare con un famigliare di nostri ospiti che abbia già completato il
lento percorso di avvicinamento al centro, in modo da accogliere, riconoscere e
comprendere come legittime e normali, tutte le riserve e i conflitti interni che affollano la mente ed il cuore dei famigliari che si accingono, pur temporaneamente ad
affidare il loro figliolo ad altri.
• Lavoro da parte di educatori, coordinatore e assistente sociale volto ad argomentare l’utilità di momenti temporanei, anche molto corti (5-7 giorni), sperimentali, da
attivare, non perché è drammaticamente indispensabile (come nelle emergenze),
ma perché è un saggio presidio preventivo per quando ci potrà essere effettivamente una emergenza.
• Riconoscimento e rispetto nei confronti dei vissuti e tempi di metabolizzazione
della famiglia che spesso ha bisogno di aiuto per pensare alla separazione dal famigliare disabile senza viverlo come distacco irreversibile o vigilia del “Dopo di
noi”.
Conclusioni
L’esperienza della temporaneità attraverso un percorso cauto, lento e progressivo, comunque molto forte per la famiglia, ci ha consentito di fare un buon lavoro preventivo.
L’impegno volto ad infondere nella famiglia fiducia nei confronti dei servizi e della struttura, la possibilità di non sentirsi soli, di potersi fidare di terzi nell’accudimento del proprio
congiunto, consente di pensare con maggiore serenità al futuro, senza tentare di rimuoverlo
o di pensarlo solo in termini drammatici.
176
Caregiver Difficulty Scale ID:
uno studio di attendibilità della versione italiana della scala
Elisabeth Weger, Carlo Dalmonego, Elisa De Bastiani, Ulrico Mantesso, Tiziano Gomiero
ANFFAS Trentino Onlus
Luc Pieter De Vreese
U.O. Salute Anziani, Distretto di Modena e Castelfranco-Emilia, ASL Modena;
Introduzione
I risultati della ricerca più recente nell’ambito della disabilità intellettiva (Plant e Sanders,
2007) enfatizzano l’importanza dei caregiver, figura che diventa particolarmente rilevante
per alcune categorie di soggetti bisognosi di cura ed assistenza continuativa; in particolare,
disabili intellettivi, anziani con demenza e soggetti che presentano disturbi psichiatrici. In
questi casi molte volte la valutazione funzionale o la diagnosi tipologica non avviene o non
può avvenire completamente con la collaborazione diretta del soggetto e cresce il peso e
l’influenza diretta del caregiver sulla stessa formulazione diagnostica (McCallion et al.
2005). È evidente un effetto che si genera nel contatto con familiari (o operatori) che lavorano con soggetti che presentano problematiche comportamentali o psichiatriche come evidenziato anche da un recente studio di Sink et al. (2006) analizza un campione rappresentativo di 5.788 malati di demenza e relativi caregiver informali che assistono il loro famigliare a domicilio. Ci ha colpito constatare con quale significatività statistica tutti i tratti indipendenti presi in considerazione dei caregiver siano in relazione con i sintomi neuropsichiatrici della demenza.
Questi sintomi non cognitivi, definiti anche Sintomi Psicologici e Comportamentali della
demenza (BPSD, Finkel e Burns, 2000) sono molto frequenti nel corso della malattia
(Lyketsos et al., 2002); costituiscono un grave problema per i pazienti e per chi presta loro
assistenza, anticipando assieme alla gravità di demenza, la richiesta di istituzionalizzazione
(Yaffe et al., 2002), e quindi rappresentano uno degli obiettivi terapeutici principali nella
gestione della demenza (Cummings e Zhong, 2006).
All’interno del progetto DAD abbiamo cominciato ad utilizzare dei metodi diversificati per
rilevare, il burn-out, lo stress e la difficoltà percepita da parte dei caregiver diretti e in
quest’ottica abbiamo cominciato a validare dal punto di vista psicometrico la scala sopraccitata per la valutazione della difficoltà percepita.
Metodi
La scala CAS-ID è un questionario diretto che è stato autocompilato in modo volontario da
operatori di centri residenziali e diurni di soggetti adulti con DI in due diversi tempi a 3 o 4
settimane l’una dall’altra secondo la procedura test-retest.
Questo strumento di misura descrive alcuni dei comportamenti frequentemente osservati in
corso d’assistenza e sostegno a soggetti con disabilità intellettiva.
Richiede ai soggetti di riferire la propria difficoltà di gestione nell’operare con queste persone in determinati compiti (es. igiene intima ecc.,), dell’eventuale disagio vissuto di fronte
a comportamenti disturbanti del soggetto (aggressività, urla ecc.) e l’impatto dei familiari
sulla qualità di vita della persona valutata.
Il questionario su una scala likert unipolare a 4 punti da 1 a 4, distingue le difficoltà nelle
routine assistenziali (27 item), i comportamenti di sfida da parte degli ospiti (8 item) e difficoltà nella relazione con i familiari (2 item) restituendo un profilo differenziato per ciascun dominio in tre punteggi separati.
177
I punteggi sono direttamente proporzionali alla gravità dei comportamenti osservati in termini di auto-percezione. Lo strumento è stato compilato da assistenti educatori e operatori
socio sanitari di diversi servizi residenziali e diurni gestiti da ANFFAS Trentino Onlus.
Risultati
Il campione è costituito da 58 soggetti con un’età media di 38,41 anni (range 24-62, dev.
Standard pari a 9,457), omogeneo in termini sia di distribuzione fra femmine e maschi con
le percentuali generali dei servizi alla persona (che vede una netta predominanza del
genere femminile) pari a circa l’82% del campione.
Lo strumento ha mostrato una buona consistenza interna con coefficienti alfa di Cronbach
per le tre sottoscale tutti superiori a 0,70 (range 0,845 – 0,965), corroborata da correlazioni
item-totale risultate tutte maggiori al criterio di 0,40.
Invece, le ICC tra i due questionari compilati a distanza di tempo dallo stesso operatore,
sono tutte risultate ampiamente superiori al criterio di 0,70, indicative di una buona
stabilità nel tempo di tutte le sottoscale dell’CAS-ID.IT.
Conclusioni
Quello attuale è solo uno studio pilota per la verifica di alcune caratteristiche psicometriche dello strumento proposto. La CAS-ID.IT è la prima e per ora unica scala italiana
che valuti specificatamente le difficoltà di gestione dei caregiver diretti di persone con DI
adulte e anziane, serviranno ulteriori ricerche per stabilire la sua validità di costrutto
soprattutto in termini predittivi di stress e burn-out e la sua correlazione con altre
caratteristiche degli operatori e dei contesti lavorativi quali la presenza di ospiti con
problemi comportamentali o le caratteristiche socio-cognitive e di personalità dei lavoratori
stessi.
Il presente studio conferma che la scala è uno strumento con buona omogeneità e attendibilità, ben comprensibile al personale di cura e può essere validamente utilizzato per la comprensione delle difficoltà percepite da parte di un equipe di lavoro in ambiti con soggetti
che necessitano un alta intensità assistenziale.
178
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