fenomenologia individuale e sociale della paura

RICERCA SPIRITUALE 2011/2012 15/03/2012 SALVATORE NATOLI «FENOMENOLOGIA INDIVIDUALE E SOCIALE DELLA PAURA» Entro così nello specifico della nostra società; ho già detto la parola che per larga parte la caratterizza. La società contemporanea è definita in vario modo: società fluida, società del rischio, società dell’incertezza. Un formulario che tutto sommato ha un tratto comune, una differenza di vocabolario che indica una dimensione fondamentale tipica e propria del nostro mondo: l’imponderabilità. Oggi noi ci troviamo in un ambiente dove l’elemento dell’innovazione, della contingenza, della non-­‐programmabilità, prevale, soprattutto nelle società avanzate, evolute. La dimensione della paura è conservativa: dinanzi al nuovo si ha paura. Ma la nostra società è costantemente esposta al nuovo e quindi fluidità e incertezza sono formule variabili, schemi descrittivi per individuare una cosa sola: noi siamo costantemente esposti all’imponderabile. La società moderna è caratterizzata dall’imponderabile; di qui una forma della paura completamente diversa dalle paure che si sono avute nella storia, o per lo meno nella storia di quello che chiamiamo Occidente. Le paure del mondo antico e di quello medievale erano molto diverse dalle nostre, erano le grandi paure. Il Medioevo era preso dalla paura e, anche senza malafede, in un simile contesto il potere governava la paura. C’è un bellissimo libro di uno storico francese, Georges Lefebvre, a proposito delle credenze e di alcune forme della vita religiosa ricondotte alla dimensione della protezione. Erano certamente grandi paure, ma meno improbabili e nel complesso prevedibili: la carestia, la fame, la guerra. Guerre che, soprattutto nel Medioevo, non erano neanche strategiche, ma fondamentalmente zuffe intorno ai castelli e poi la dimensione predatoria, il furto, l’assassinio. L’improbabile si collocava dunque in un orizzonte di tipologia della paura costante. Contro queste paure ci si poteva grossomodo attrezzare, ci si preparava. Le paure erano intense, ma catalogabili, perché il tempo era lento e uniforme. Nelle culture del ciclo, la stessa improbabilità della paura si disegnava ciclicamente. La litania dei Santi conteneva ad esempio una preghiera bellissima: «Da che cosa ci devi salvare Signore? A peste, fame et bello» Un vero e proprio catalogo delle paure. Nella nostra società, invece, non possiamo programmare le paure, infatti non ne abbiamo un catalogo. Nell’analisi delle tipologie della paura nelle città abbiamo rilevato l’elemento dell’improbabilità, perché ogni evento non è dominato, non è dominabile e soprattutto non lo è cognitivamente. Così, per fare una battuta: della vicenda dell’Alitalia che cosa ha capito la gente in termini cognitivi? Si sono scatenati emozioni, sentimenti e paure. Ma quanto tutto ciò si è potuto tradurre in termini di decisione? Un problema drammatico per le democrazie è quello della competenza democratica. Oggi assistiamo di fatto ad un rafforzamento terribile degli arcana imperii, perché il mondo è diventato più complesso; ma i soggetti non sono all’altezza della complessità e quindi lo spazio dell’immaginario diviene vastissimo e con esso il suo uso politico: si sono fatte guerre sull’immaginario, si vincono le elezioni sull’immaginario, e tuttavia non si governa sull’immaginario. Dunque, le caratteristiche della nostra società ci pongono sempre dinanzi all’imponderabile. Di qui la paura, anzi le paure. Ne citerei due tipi. La prima è l’angoscia, angst, l’ansia. E’ una paura di tipo esistenziale, direi «ontologico», che corrisponde al sentimento inconscio, avvertito da tutti gli uomini, della loro precarietà, del loro essere esposti. La vanitas avverte che nulla è stabile. Questo sentimento non si attiva solo di fronte al pericolo, ma anche di fronte alla gioia, perché la gioia che sto godendo può svanire e dunque ho paura di perderla. Nella nostra società molte paure sono date dall’accrescimento della sicurezza, cioè l’abitudine alla sicurezza ha aumentato la paura, perché ha aumentato e generalizzato la percezione della perdita. Oggi viviamo in un mondo dove mediamente i soggetti possono perdere di più, rispetto a un mondo dove i soggetti potenzialmente potevano acquistare di più, perché avevano fin troppo poco. E’ un caso esemplare di rovesciamento della tipologia della paura. Un tempo dunque la paura forse era più intensa, più magica, oggi però è più diffusa. Così nasce il sentimento dell’angoscia, il sentimento della precarietà, dell’esposizione al deperimento. Aggiungiamo un ulteriore elemento di analisi: la nostra è una società che ha esternalizzato la morte, non la fa più apparire; di conseguenza, quando irrompe, la morte non sopraggiunge come un evento normale, ma irrompe a destabilizzare una antropologia caratterizzata da una sindrome di immortalità che la scienza, non come pratica scientifica, ma appunto come antropologia, ha fatto immaginare. Non critico la scienza, critico la mitologia dell’immortalità, per cui la morte oggi è tenuta fuori dalla propria prospettiva vitale. La conseguenza è che per difendere la propria immaginaria immortalità, si uccide, si beve il sangue degli altri, nella forma del denaro, nella forma della violenza e della sopraffazione, della gestione delle risorse e della finanza internazionale. Quest’ultima, com’è stato detto, ha di fatto prodotto grandi possibilità di sviluppo, ma in realtà solo per quelli che erano attrezzati e che avevano a disposizione un’antropologia dello sviluppo. Per chi è rimasto fuori, la situazione forse va anche peggio. Ecco allora la dimensione dell’angoscia. Le paure sono sempre paure in qualche modo determinate o, quanto meno, meglio determinabili, appunto elencabili. Si ha sempre paura di qualche cosa. Eppure, queste paure, seppur determinabili, non lo sono mai perfettamente. E allora, tra l’angoscia che segnala il senso della propria precarietà e la paura a catalogo stabile, rispetto alla quale si possono impostare strategie, oggi siamo investiti da una paura incombente, prossima, a metà tra il sentimento esistenziale della precarietà e le cose che concretamente ad una ad una ci mettono a rischio. (pagg. 93/94/95)