Dos s i e r Guerra dell’oppio” è il nome dato agli scontri armati tra truppe cinesi e forze di sbarco britanniche, che appoggiavano militarmente l’importazione dell’oppio in Cina, contro la volontà del governo cinese. Porta la data del 1840-’42. Da molto tempo i cinesi usavano l’oppio come medicinale. Era prodotto in Cina in quantità limitate e dal sec. XVIII veniva importato attraverso Canton dalla Compagnia (inglese) delle Indie orientali. Questa Compagnia aveva il monopolio del commercio tra l’Inghilterra e la Cina e da questa importava soprattutto seta e tè. Pensava dapprima di pagare le importazioni con le esportazioni di tessuti di lana dello Yorkshire; ma resasi conto delle difficoltà di esportarne in grande quantità, decise di ricorrere piuttosto al commercio dell’oppio, che la Compagnia coltivava nel Bengala. Il vizio del fumo dell’oppio si era diffuso in Cina durante il XVIII sec., fino a diventare una piaga sociale, sintomo della decadenza dei tempi. L’incoscienza dei mercanti, non solo inglesi, nell’approfittare dell’occasione appartiene alle deformazioni del “libero commercio”. D’altra parte il governo cinese era incapace di frenare l’importazione della droga e il vizio del fumo d’oppio. Nel 1729 un editto imperiale proibiva il commercio e il fumo d’oppio; nel 1796 un altro decreto vietava l’importazione e la produzione in Cina. Dopo il 1800 editti e decreti proibitivi si moltiplicarono. Senza effetto, perché il commercio-importazione e le fumerie trovavano troppe connivenze in Cina, da parte di mercanti, funzionari e società segrete organizzate per la malavita. Il contrabbando era diventato un vero “interesse cantonese” e i mercanti stranieri erano pronti a farsi strada corrompendo chi doveva vigilare sul contrabbando. Dal 1800 al 1821 le importazioni di oppio erano in media di 4.500 balle (di 133 libbre l’una) all’anno. Nel 1838 erano diventate 40.000 balle. Ciò comportava per la Cina un’emorragia di argento per pagare le importazioni: dal 1821 al 1839 un deficit per la Cina di 100 milioni di once d’argento. Il danno si riversava specialmente sulla popolazione rurale, che era tenuta a pagare le tasse in un controvalore riferito all’argento; e questo era cresciuto di valore, data la crescente scarsità. Il commercio con la Cina, e non solo quello dell’oppio, era lucrativo. Il monopolio affidato da parte inglese alla Compagnia delle Indie orientali contrastava con le richieste di altre ditte commerciali inglesi. Ciò portò il governo inglese a sciogliere (1834) la Compagnia; ma in questo modo, di fronte alle autorità cinesi di Canton i mercanti inglesi non avevano più un “capo” (daiban o taipan) responsabile per loro, per cui Londra nominò allora un “sovrintendente”; ma non era un mercante, come si aspettavano i cinesi: l’incarico invece venne dato a Lord Napier, nobile ed ex-ammiraglio. Da questa nomina gli inglesi si ripromettevano di poter trattare con la Cina, alla pari, un accordo su problemi di interesse comune. by Roberto Romano’ II. TENTATIVI DIPLOMATICI Primo e principale desiderio dell’Inghilterra era quello di aprire con la Cina un normale e riconosciuto canale di comunicazione che non fosse quello di vassallaggio e tributi, non ristretto, nell’ipotesi migliore, a quello di mercanti, ospiti temporanei, controllati dai mercanti cinesi autorizzati agli scambi. Ma queste erano le uniche formule giuridiche accette alla corte di Pechino. I tentativi inglesi, ripetuti fin dal sec. XVIII, di cambiare la situazione erano andati falliti. C’erano inoltre da chiarire altri problemi che concernevano alcune pratiche penali cinesi, quali arresto arbitrario, tortura e pene corporali, inammissibili per il diritto anglosassone; solo per un modus vivendi non concordato, le autorità cinesi lasciavano spesso che i “capi” stranieri trattassero le cause penali dei loro connazionali. Non era poi previsto nessun modo per i mercanti stranieri di riscuotere i debiti contratti dai colleghi cinesi per prestiti o altro. Nel luglio 1834 Lord Napier arriva a Macao e poi a Canton. Ignora molti requisiti del protocollo cinese e soprattutto si comporta da “ambasciatore”, non richiesto né approvato dai cinesi, e non da “capo” dei mercanti inglesi. Nasce qualche incidente, ma il momento serve solo da sintomo dell’incomprensione reciproca tra due mentalità di rapporti internazionali; per i cinesi questi non possono ancora aver altra forma che quelli di un vassallo verso l’imperatore di Cina. 1 A ll’inizio del XIV secolo la dinastia Ming pose fine al dominio mongolo. Beijing (Pechino) divenne la capitale della Cina. Sotto i Ming l’impero raggiunse l’apice della prosperità. Fu un’epoca di grandi riforme, di aperture culturali e commerciali con i Paesi d’oltremare. Venne restaurata la Grande Muraglia, costruita la Città imperiale e il Tempio del Cielo. Venne redatta un’enciclopedia di tutta la letteratura cinese. Nel XVII secolo iniziò la decadenza. I Mancesi penetrarono in Cina dal nord e proclamano la dinastia dei Qing. Il confucianesimo divenne dottrina di Stato. Come segno di sudditanza, i Qing imposero a tutti i sudditi cinesi di portare il codino, alla moda mancese, pena la decapitazione. Sul finire del XVIII secolo e poi nel XIX secolo, la Gran Bretagna cominciò ad interessarsi alla Cina. La base dell’Impero britannico in Asia era allora l’India. La Corona inglese aveva affidato la gestione di tutti gli scambi commerciali tra la Corona e le colonie alla Compagnia delle Indie Orientali. Della Cina si sapeva ben poco. Gli unici reportage da quel paese erano stati, prima di allora, quelli redatti secoli prima da Marco Polo. L’Inghilterra si interessò quindi alla Cina cercando di consolidare con essa delle relazioni commerciali. Cina in cinese si dice Chung Kuo, che significa letteralmente “Paese Centrale”. In effetti la Cina di allora si credeva al centro del mondo. Attorno ad essa non concepiva che terre incolte, abitate da popolazioni incivili e turbolente. Gli inglesi pretendevano di pagare i loro scambi commerciali con altre merci; modalità che non interessava ai cinesi, che pretendevano invece pagamenti in argento. E’ passata alla storia, in tal senso, la lettera inviata dall’Imperatore Ch’ien Lung a Re Giorgio III d’Inghilterra: «Come il tuo ambasciatore ha potuto personalmente constatare, noi possediamo ogni cosa. Noi non attribuiamo alcun valore ai tuoi oggetti strani e ingegnosi e non sappiamo che uso fare dei prodotti del tuo Paese ». Vista l’impermeabilità cinese ad accettare il modo di concepire gli scambi commerciali degli inglesi, quest’ultimi optarono per soluzioni meno nobili, ma più efficaci: il commercio dell’oppio. Ciò diede origine a due guerre: la prima tra il 1839 e il 1842 e tra il 1856 e il 1860 della Gran Bretagna ; la seconda della Gran Bretagna e la Francia successivamente, contro l’impero cinese, allo scopo di imporre la liberalizzazione del commercio dell’oppio. In particolare la prima guerra dell’oppio segnò l’inizio dell’imperialismo europeo in Cina. La Guerra dell’oppio D a molto tempo i cinesi usavano l’oppio come medicinale. Era prodotto in Cina in quantità limitate e dal sec. XVIII veniva importato attraverso Canton dalla Compagnia delle Indie orientali. Questa Compagnia aveva il monopolio del commercio tra l’Inghilterra e la Cina e da questa importava soprattutto seta e tè. Pensava dapprima di pagare le importazioni con le esportazioni di tessuti di lana dello Yorkshire; ma resasi conto delle difficoltà di esportarne in grande quantità, decise di ricorrere piuttosto al commercio dell’oppio, che la Compagnia coltivava nel Bengala. Il vizio del fumo dell’oppio si era diffuso in Cina durante il XVIII sec., fino a diventare una piaga sociale, sintomo della decadenza dei tempi. Nel 1729 un editto imperiale proibiva il commercio e il fumo d’oppio; nel 1796 un altro decreto vietava l’importazione e la produzione in Cina. Editti e decreti si moltiplicarono, ma senza effetto, perché il commercio-importazione e le fumerie trovavano troppe connivenze in Cina, da parte di mercanti, funzionari, società segrete, malavita organizzata. Il contrabbando era diventato un vero “business” e la corruzione era dilagante. Dal 1800 al 1821 le importazioni di oppio erano decuplicate. Ciò comportò per la Cina un’emorragia di argento per pagare le importazioni e un deficit di bilancio di 100 milioni di once d’argento. Il danno si riversava specialmente sulla popolazione rurale, costretta a sopportare un consistente aumento di tasse. antica fumeria d’oppio Lo strapotere commerciale (e strategico) consolidato dalla Compagnia delle Indie Orientali, grazie a questo traffico, convinse il governo inglese a sciogliere nel1834 la Compagnia; con conseguente sconvolgimento nelle relazioni commerciali e gerarchiche che fino ad allora si erano instaurate. I mercanti inglesi non avevano più un referente (daiban o taipan) e si ritrovarono invece un “sovrintendente” plenipotenziario nominato da Londra. Da questa nomina gli inglesi si ripromettevano di poter trattare con la Cina, alla pari, un accordo su problemi di interesse comune. Ma i tentativi inglesi, ripetuti fin dal sec. XVIII, di stabilire con i 2 cinesi diverse relazioni commerciali fallì. Nacque qualche incidente, sintomo delle reciproche incomprensioni dovute alle diverse mentalità Un fiero nemico dell’uso dell’oppio era Lin Zexu, governatore delle due province dello Hubei e dello Hunan, nella Cina centrale, che confiscava intere partite di oppio e materiale da fumo e distribuiva medicinali a chi voleva liberarsi dal vizio. Nel 1839 Lin fu nominato commissario a Canton, perché si adoperasse per impedire il contrabbando della droga. Ordinò agli inglesi di consegnare subito tutto l’oppio giacente nei loro magazzini e nelle loro navi. Per tacitare le loro resistenze, strinse un assedio agli inglesi residenti nei quartieri riservati agli stranieri a Canton; e ordinò ai loro domestici cinesi di abbandonarli. Furono così consegnate a Lin Zexu oltre 1.270 t di oppio. Il fatto non potè non avere conseguenze; l’oppio fu una miccia eccellente per lo scoppio di una guerra, commerciale, politica e militare contro la Cina. Lin Zexu pretese che la ripresa di scambi commerciali tra Cina ed Inghilterra venisse condizionata dalla firma di un documento col quale gli inglesi si impegnavano a non importare più oppio e, al tempo stesso accettarono la giurisdizione e le norme cinesi per punire le eventuali trasgressioni. Tali norme potevano anche prevedere l’esecuzione sommaria del trasgressore. Le condizioni, così poste, erano irricevibili per gli inglesi, che rifiutarono di firmare. Nel luglio 1839 un incidente funse da detonatore ad una situazione già incandescente. Gli inglesi si rifiutarono di consegnare alle autorità cinesi un marinaio inglese che, ubriaco, aveva ucciso un cinese. Consegnarlo voleva dire farlo condannare a morte; gli inglesi invece lo volevano giudicare secondo la legge inglese. Lin Zexu cercò di far pressione sugli inglesi irrigidendo le misure commerciali ai danni dei mercanti inglesi. Per tutta risposta, il 3 novembre 1839 la flotta inglese attaccò il forte di Chuanbi, la prima difesa marittima di Canton; tre cannoniere cinesi andarono a picco. L’imperatore intervenne per vietare ogni sorta di rappresaglia nei confronti degli inglesi. Ma gli inglesi non si fermarono. Forte di 15.000 uomini, nel giugno 1840 la flotta inglese puntò verso nord, giungendo di fronte ad Amoy (attuale Xiamen, prov. del Fujian). Una fregata issò la bandiera bianca e alcuni uomini si diressero a terra per parlamentare. I cinesi, ignorando il significato della bandiera bianca, spararono e gli inglesi risposero al fuoco. A seguuito di questo incidente intensificarono la controffensiva militare. Occuparono il porto di Dinghai (isola di Zhousan), bloccarono i porti nei pressi della foce del fiume Yangzi, avanzarono fino al fiume Beihe, vicino a Tianjin; effettuarono sbarchi dimostrativi nelle province orientali. La corte imperiale cominciò allora a sospettare che Lin Zexu avesse esagerato e che gli inglesi dopotutto avessero una parte di ragione. L’imperatore lo destituì e inviò a Canton un nuovo funzionario, Qisan, per trattare con gli inglesi. Ma gli inglesi non si accontentarono di ripristinare i normali rapporti commerciali preesistenti, alzarono la posta: pretesero una base commerciale a Hong Kong e l’abolizione del sistema tributario in essere. Qisan non aveva potere per sottosscrivere quanto richiesto e rifiutò l’accordo. La flotta inglese allora occupò il forte di Chuanbi. A quel punto Qisan si vide costretto, suo malgrado a firmare la Convenzione di Chuanbi che prevedeva: 1) cessione di Hong Kong, 2) indennizzo agli inglesi, 3) rapporti cino-inglesi su basi paritarie, 4) riapertura del porto di Canton. Gli inglesi da parte loro si impegnarono a restituire i forti occupati. L’imperatore cinese però non approvò tale Convenzione; ordinò la deposizione di Qisan, nominò un nuovo plenipotenziario e inviò nuove truppe a Canton. Ma nel frattempo gli inglesi avevano rioccupato il forte, diedero battaglia e alla fine le truppe cinesi chiesero la resa. Gli inglesi imposero la firma di un documento, che impegnava i cinesi a pagare entro una settimana 6 milioni di dollari in cambio dell’incolumità di Canton, e a ritirare le truppe a cento chilometri da Canton. L’imperatore non accettò neppure questo accordo; mosso dalla volontà di rigettare a mare gli inglesi. Questi sbarcarono sulla costa orientale della provincia del Zhejiang, conquistarono Shanghai e risalirono lo Yangzi. Il 21 luglio 1842 occuparono Zhenjiang all’incrocio tra il canale impe- 3 riale e il fiume. Sottoposero al plenipotenziario dell’Imperatore un ultimatum, pena il bombardamento di Nanchino e, sotto questa minaccia, il commissario imperiale accettò di trattare e di sottoscrivere il Trattato di Nanchino, che aprì la serie di successivi trattati, tutti a svantaggio della Cina, che saranno poi chiamati i “Trattati ineguali”. firma del Trattato di Nanchino Il trattato prevedeva: 1) indennizzo alla Corona inglese; 2) cessione perpetua di Hong Kong alla corona inglese, 3) apertura di cinque porti (Canton, Fuzhou, Amoy, Ningbo, Shanghai), 4) tariffe doganali unitarie. Nei cinque porti potevano risiedere inglesi con le famiglie, godendo del beneficio della extraterritorialità. Dell’oppio, che era stata la scintilla del conflitto, il trattato ne faceva appena un accenno indiretto. Nel 1844, analoghi trattati vennero stipulati dai cinesi con Stati Uniti e Francia, accordando anche a loro la clausola della “”nazione più favorita”. Senza combattere la “guerra dell’oppio”, francesi e americani entrarono così nello scenario cinese. I Taiping; la grande insurrezione A bbiamo appena visto come, sul finire del XIX secolo le ultime guerre dell’Oppio si conclusero con l’intervento armato degli inglesi e dei francesi. Nel corso di quegli anni le potenze occidentali e il Giapponesi intensificarono la loro presenza in Cina saccheggiando letteralmente gran parte dell’economia del paese. Verso la metà del secolo, la Cina stava attraversando una grave crisi: uno sviluppo demografico galoppante, calamità naturali, una miseria straziante, la corruzione dei mandarini, e l’influenza destabilizzante dei missionari cristiani; tutto ciò favorì il nascere di numerose società segrete. Una di queste, la setta degli “Adoratori di Dio”, nata verso la metà degli anni ‘40 del XIX secolo, fu fondata da Hong Xiuquan, che si autoproclamò fratello minore di Gesù Cristo e Tianwang (“re celeste”). Hong Xiuquan elaborò una sua dottrina religiosa cristiana con forti elementi sincretistici (fondeva elementi della tradizione cinese con contenuti tipici della morale cristiana), che predicava l’egualitarismo, il monoteismo e la volontà di riportare il prestigio e la sovranità della Cina sconvolta dopo le guerre dell’oppio. Tutto questo avrebbe dato il via al movimento Taiping, che si costituì in organizzazioni di tipo paramilitare. Nel 1851, con ormai migliaia di seguaci al loro seguito, gli adoratori di Dio proclamarono un proprio stato indipendente, il “Regno Celeste della Grande Pace” (Taiping tianguo), con capitale l’antica città imperiale di Nanchino (rinominata Capitale Celeste, Tianjing). Nel 1853 i Taiping attuarono una riforma agraria, prevedeva una ripartizione delle terre per nucleo familiare e teneva conto del numero dei membri componenti, incluse anche le donne. I Taiping instaurarono una sorta di socialismo ante litteram, un “cristianesimo sociale”; un sistema di vita comune e di comunione di tutti beni, la popolazione venne organizzata in gruppi di venticinque famiglie (ku), una struttura di base che aveva nello stesso tempo competenze amministrative, militari, religiose e di produzione. Il commercio privato venne abolito. tando con sé milioni di cadaveri. Contemporaneamente il potere centrale languiva e perdeva la propria dignità di fronte alle potenze europee che accorsero a spartirsi ingenti ricchezze, favoriti dai “trattati ineguali”. Il paese scricchiolava e non seppe controllare numerose sommosse su vari fronti: a ovest i mussulmani e nel nord della Cina i ribelli Nian, fomentati dalla società segreta del Loto Bianco. Quando morì, nel 1861, l’imperatore lasciò un figlio di appena quattro o cinque anni, nato dalla concubina Yehonala, figlia di un membro della piccola nobiltà manciù. Questa si proclamerà imperatrice (col nome di Tze Shi) e si accaparrerà il potere. Lo conserverà per circa cinquant’anni, fino alla sua morte, nel 1908. Ma, dopo il successo degli anni Cinquanta, per i Taiping, che avevano colto il loro successo sulle macerie sociali di quell’impero ormai senza controllo; le cose cominciarono a cambiare. A partire dal 1860 le truppe governative partirono alla riconquista dei territori insorti, che del resto erano le province più ricche dell’Impero. Questo sussulto del potere era partito della classe dei mandarini, dei letterati, i sostenitori dell’amministrazione delle province, spaventati dai saccheggi, dalle distruzioni, dagli attentati all’ordine stabilito, dalle migliaia di morti prodotti dalla guerra civile; e soprattutto dall’audacia delle riforme. I mandarini videro crollare, attoniti, la totalità del loro universo. La svolta decisiva avvenne nel 1862, quando i Taiping minacciarono Shanghai, diventata la principale città-emporio delle potenze internazionali, un porto che i ribelli fino a quel momento avevano volutamente “ignorato”. Anche gli occidentali finora avevano finto d’ignorare la guerra civile. Sostenuto dalla piccola nobiltà provinciale e dai mandarini, il generale l­ etterato Zeng Guofan (1811-1872), alla testa di un esercito confuciano dello Hunan, partì per primo alla riconquista del paese. Le potenze occidentali optarono per i propri interessi particolari e diedero man forte alle truppe governative; truppe francesi e inglesi, dal 1860, furono messe a disposizione del potere manciù. Nanchino fu cinta d’assedio cadde il 19 luglio 1864; i suoi 100.000 difensori furono massacrati senza pietà. Davanti allo sfacelo, Hong, l’agitatore che pretendeva di instaurare un certo “cristianesimo sociale” nel paese, si suicidò, il suo cadavere venne poi riesumato, tagliato a pezzi e bruciato. E che dire dei suoi più stretti collaboratosi: discordia, lotte intestine e litigi li avevano di fatto neutralizzati. Pagarono innanzitutto la contraddizione di vivere nel lusso mentre imponevano sobrietà e indigenza ai propri “sudditi”. Per di più, le loro truppe erano svantaggiate militarmente, perchè prive della cavalleria. Tuttavia, per due anni, nel Fujian continuarono ancora i combattimenti, e alcuni Taiping, sfuggiti ai massacri, avrebbero poi costituito i così detti “Padiglioni Neri” che si batterono contro i francesi nella guerra di conquista del Tonkino. Il bilancio dell’esperienza dei Taiping fu devastante: decine di milioni di morti. La provincia del Jiangsu, quella di cui Nanchino è capoluogo, dovette venir ripopolata con emigranti dall’Hubei, tanto era stato dissanguata. Incalcolabili le distruzioni. Un paese esangue e rovinato, sollevazioni che si diffondevano come un contagio in tutto il paese. Tuttavia, questo scossone dei Taiping sarà il punto di partenza dei movimenti rivoluzionari cinesi del nostro secolo, e Mao stesso ammetterà di esservisi ispirato. rivolta dei Taiping I Taiping potevano così contare su un vero e proprio stato indipendente, in grado di rivaleggiare con l’impero Manchu e dotato di un proprio esercito indipendente. Fallito, nel 1855, il tentativo di conquistare Pechino, la guerra civile si protrasse per un altro decennio. I tentativi di radicale riforma sociale ed il sostanziale esproprio dei proprietari terrieri crearono all’interno dello stato taiping numerosi dissidenti. Fu proprio l’erosione del consenso sociale che facilitò la repressione. Lo sfondo di una rivolta Indubbiamente la stupefacente rapidità dell’avanzata dei Taiping, l’espansione repentina e trionfante di questa ribellione, si spiegano con la grande miseria del popolo, le umiliazioni subite, le grandi inondazioni del fiume Giallo che aveva appena cambiato il corso del suo letto, creando al suo passaggio terribili devastazioni e por- 4 5 La ribellione dei Boxer I n seguito alla guerra dell’oppio e alla rivolta dei Taiping, la Cina era stata ulteriormente indebolita dall’aggressione nipponica del 1894-1895, cosicché le grandi potenze l’avevano suddivisa in zone d’influenza. Alla fine del XIX secolo, il risentimento nei confronti degli occidentali giunse al suo apice a causa della continua ingerenza straniera negli affari interni della Cina, con la connivenza passiva dell’Imperatrice vedova Tze Shi. Erano gli anni del grande assalto all’impero di mezzo, in piena decadenza con la dinastia dei Manciù, per strappare concessioni territoriali, zone di influenza, miniere e appalti per la costruzione delle ferrovie. Erano in corsa, per la spartizione, inglesi, russi, giapponesi, tedeschi. Sembrava che la Cina stesse per fare la stessa fine dell’Africa: a fine Ottocento erano già 62 i settlements stranieri presenti in Cina. La rabbia derivava non tanto dall’invasione di una nazione sovrana, quanto dalla sistematica violazione delle tradizioni e regole di comportamento cinesi, che non venivano perseguite perché di fatto gli Occidentali erano immuni da qualsiasi procedimento. Questo risentimento crebbe fino al punto di portare alla distruzione e alla violenza contro aziende straniere, loro dipendenti, e persino oggetti quali violini, automobili, linee telefoniche, ecc. Anche se il governo Qing condannò formalmente le azioni violente, non ne perseguì i responsabili. I disordini antioccidentali iniziarono nel 1899, la guerra vera e propria contro le truppe occidentali cominciò nel giugno 1900 e durò fino al 7 settembre 1901, durante gli anni finali dell’impero Manciù in Cina, sotto la guida della dinastia Qing. A scatenare una nuova e furiosa corsa alla spartizione fu, nel giugno 1900, l’assedio posto dai Boxer al quartiere delle legazioni a Pechino, assedio sostenuto anche da reparti dell’esercito regolare con il tacito consenso dell’imperatrice Tze Shi. I membri dei Gruppi di Giustizia e Concordia erano chiamati semplicemente “Boxer” dagli occidentali, per via della loro pratica di arti marziali. Il nome stesso dei Boxer significa “Pugni della giustizia e dell’armonia”. ribelli Boxer I Boxer raggruppavano contadini senza terre, carrettieri, artigiani, portatori di sedie, piccoli funzionari, ex soldati. Essi vedevano con autentico terrore l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione delle linee telegrafiche, la comparsa sulle vie fluviali di navi a vapore, l’apparizione di tessuti e filati fabbricati a macchina. Tutte novità che, nell’immediato, toglievano loro posti di lavoro. Portatori di queste novità erano gli stranieri, in modo particolare gli ingegneri delle ferrovie e delle miniere. Essi erano ferocemente odiati assieme a un’altra categoria, quella dei missionari, cattolici e protestanti. Un testo cinese redatto all’epoca da Mao Zedong spiegava che: « questi missionari stranieri, i cattolici soprattutto, mentre facevano costruire chiese si impadro- nivano di terre, minacciavano i funzionari locali, s’ingerivano nell’amministrazione, intervenivano nello svolgimento dei processi, raccoglievano vagabondi e ne facevano dei “convertiti”, di cui si servivano per opprimere le masse. Un tal modo di agire non poteva che provocare l’indignazione del popolo cinese.[ C. Po-tsan, S. Hsun-cheng e H. Hua, Storia della Cina antica e moderna, Editori Riuniti, Roma 1960, pagina 117] » Una fonte meno sospetta, quella dello storico britannico Peter Fleming, giungeva però alle stesse conclusioni e precisava che le pretese secolari dei missionari cattolici erano senza limiti. In una istanza al trono, presentata il 15 marzo 1899, essi chiedevano che si riconoscessero loro, incondizionatamente e interamente, i diritti politici e i privilegi concessi ai cinesi di altissimo rango: per esempio l’equiparazione dei vescovi ai governatori generali. I Boxer si batterono da principio, oltre che per la salvaguardia delle tradizioni nazionali contro “l’inquinamento” straniero, anche in difesa dei contadini contro le soperchierie dell’amministrazione imperiali e dei grandi signori cinesi, ma i governanti di Pechino riuscirono poi a incanalare tutto l’odio dei Boxer unicamente contro gli stranieri. 6 La rivolta iniziò nel Nord della Cina come movimento contadino, anti-imperialista e antistraniero. Gli attacchi erano rivolti verso gli stranieri che stavano costruendo le ferrovie e verso i cristiani, considerati responsabili della dominazione straniera in Cina. Nel complesso chi pagò il prezzo più alto furono i cinesi cristiani, molte migliaia dei quali furono uccisi, 18.000, erano cattolici. Iniziata nello Shandong, diffusasi poi nello Shanxi e nell’Hunan, la Rivolta dei Boxers raggiunse anche lo Tcheli Orientale Meridionale, allora Vicariato Apostolico di Xianxian, affidato ai gesuiti. Secondo alcuni storici, in tale Vicariato circa 5.000 Cattolici furono uccisi. Nel maggio del 1898 una parte dei Boxers – i quali, sostituendo il secondo carattere nella scrittura del proprio nome, ora si facevano chiamare “I Ho Tuan”, cioè Bande della Giusta Armonia - era diventata un’organizzazione volontaria e il governatore dello Shantung, intendeva incorporarli nella milizia locale. Ma i primi accenni di parte occidentale all’attività dei Boxer paiono risalire solo al maggio 1899, in seguito ai primi moti anticristiani. Erano anche stati trovati affissi, per le vie, dei manifesti in cui i Boxer annunciavano l’inizio del massacro degli stranieri il primo giorno della quinta luna. Da allora gli attacchi vibrati contro le missioni, i convertiti cinesi e i bianchi andarono aumentando e, quando il 31 dicembre 1899 venne ucciso un missionario protestante inglese, il corpo diplomatico cominciò a preoccuparsi. Lo stesso giorno un gruppo di ingegneri ferroviari francesi e belgi venne aggredito a cinquanta chilometri da Tien tsin: quattro furono uccisi alcuni altri feriti. Vennero fatti passi congiunti presso il ministero degli Esteri cinese chiedendo la messa fuori legge dei Boxers. Man mano che le violenze e gli eccidi di convertiti aumentavano, i dispacci inviati in Europa si infittivano e i ministri plenipotenziari occidentali avevano suggerito ai rispettivi governi una dimostrazione navale congiunta per premere sul Governo cinese. Washington, Berlino e Roma accettarono e stabilirono l’invio di navi a Ta ku, il porto più vicino alla capitale; Parigi mise le proprie in preallarme e, davanti a questi movimenti, anche Londra stabilì di mandare un paio di unità. Il 1º giugno le navi europee, giapponesi e americane a largo di Ta Ku fecero arrivare un contingente di 436 marinai a Pechino per proteggere le rispettive delegazioni. A Pechino arrivarono 2.000 marinai del secondo contingente occidentale – tra cui un altro contingente di marinai italiani. Come forze erano più dimostrative che altro; ma il loro movimento verso Pechino aveva preoccupato il popolo, esacerbato i Boxer e intimorito il Governo, il quale, già xenofobo di per sé, non gradiva certo la presenza di militari stranieri armati nella propria capitale. Il governo dell’Imperatrice vedova Tse Shi si rivelò di fatto impotente. Anche se il governo Qing condannò formalmente le azioni violente, non ne perseguì i responsabili e dopo l’inizio dell’assedio alle Legazioni, il 20 giugno 1900 dichiarò guerra alle otto Potenze. La situazione, fattasi sempre più tesa, giunse infine al punto di rottura proprio in quella giornata, quando la stessa imperatrice cinese Tze Shi spinse i Boxer ad attaccare e assediare il quartiere di Pechino dov’erano insediate le delegazioni straniere. Chi salvò la situazione dal disastro totale furono i viceré cinesi, che riuscirono a impedire l’estensione delle ostilità al di fuori delle regioni settentrionali. Venne così data consistenza alla tesi, successivamente sostenuta dal Governo cinese, che l’assedio delle Legazioni era stata un’iniziativa dei Boxer in rivolta contro la dinastia, alla quale oltretutto erano sfuggite di mano pure gran parte delle forze regolari stanziate fra Ta ku e Pechino. Le legazioni di Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Austria-Ungheria, Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Stati Uniti, Russia e Giappone si trovavano nel quartiere delle legazioni di Pechino a sud della Città Proibita. Ricevuta la notizia dell’attacco ai Forti di Ta ku il 19 giugno, l’imperatrice ordinò immediatamente alle legazioni che i diplomatici e tutti gli altri stranieri avrebbero dovuto abbandonare Pechino sotto la scorta dell’esercito cinese entro 24 ore. La mattina successiva fu trucidato il plenipotenziario tedesco barone Klemens Freiherr von Ketteler, ucciso per le strade di Pechino da un capitano Manciù. Gli altri diplomatici temevano che sarebbero stati uccisi anch’essi se avessero lasciato il quartiere delle legazioni, e così non rispettarono l’ordine cinese di abbandonare Pechino. Il 21 giugno l’imperatrice Tze Shi dichiarò guerra a tutte e otto le potenze straniere. L’esercito regolare cinese e i Boxer assediarono il quartiere delle legazioni per 55 giorni, dal giu- 7 gno al 14 agosto 1900; in esso trovarono rifugio circa mille persone tra civili e soldati, di otto Paesi diversi e oltre 3.000 cinesi convertiti al cristianesimo con i loro servitori. (il l film “55 giorni a Pechino” di Nicholas Ray, del 1963, si sarebbe poi ispirato a quei fatti). L’entrata a Pechino del corpo di spedizione internazionale indusse il 14 agosto 1900 l’imperatrice vedova Tze Shi, l’Imperatore, e i più alti ufficiali a fuggire dal Palazzo Imperiale per Xi’an, da dove iniziarono le trattative per la pace. Il governo cinese fu costretto a dare un indennizzo alle vittime e a fare altre concessioni. Altre riforme successive alla crisi del 1900 causarono, almeno in parte, la fine della Dinastia Qing e la nascita della Repubblica Cinese che durò poi fino al 1949. Anche il Regno d’Italia inviò un Corpo di spedizione italiano in Cina e alla fine delle ostilità ottenne la concessione di Tientsin. A questa dichiarazione di guerra Germania, Austria, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti e Giappone risposero inviando un corpo di spedizione di circa 20.000 uomini, che occupò Tientsin e, raggiunta Pechino, riuscì senza incontrare particolari difficoltà a liberare gli assediati. Il Kaiser Guglielmo II pronunciò un esplicito invito a radere al suolo Pechino per vendicare il barone von Ketteler. Pechino non fu rasa al suolo, ma le efferatezze auspicate dal Kaiser non mancarono, Un numero elevatissimo tra Boxer, soldati imperiali e civili cinesi furono uccisi dalle truppe occidentali durante la guerra, nella quale, con soddisfazione del Kaiser, i soldati tedeschi si distinsero per brutalità, assieme ai russi e alle truppe indiane dell’Impero britannico. Mentre parte del corpo di spedizione cercava di ripulire le sacche di resistenza intorno a Tientsin, massacrando i civili quando i Boxer riuscivano a eclissarsi, il “corpo di liberazione”, lasciava Tientsin e marciava su Pechino incontrando una debole resistenza. Il 13 agosto le truppe delle otto nazioni si trovavano sotto le mura della capitale e l’indomani giapponesi, americani, francesi, russi e inglesi, suddivisi in quattro colonne, lanciarono l’attacco finale, preceduto dal fuoco di tutte le artiglierie. Vinta l’ultima resistenza, entrarono in città lo stesso 14 agosto 1900, liberando le legazioni e la cattedrale di Beitang. L’imperatrice vedova Tse Shi, travestita da contadina, fuggì con l’Imperatore e i più alti ufficiali dal Palazzo Imperiale per Xi’an, e inviarono un emissario per le trattative di pace. Nell’assedio persero la vita qualche centinaio di persone tra gli assediati; le perdite furono ben più gravi per gli assedianti. Subito dopo la liberazione degli assediati, le forze internazionali procedettero alla spartizione della capitale. Iniziò allora una carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran lunga tutti gli eccessi compiuti dai boxer Il saccheggio di Pechino, durò molti mesi, mentre ciascun contingente accusava gli altri di rapacità e sosteneva, per proprio conto, di avere le mani pulite. Nel settembre 1901 l’imperatrice Tze Shi fu costretta a firmare il Protocollo dei Boxer, che impose alla Cina una pesante indennità di guerra, garanzia per il ripristino delle dogane, che del resto erano già in mano agli occidentali dal 1859. Le riparazioni di guerra sarebbero state pagate in oro. La Cina pagò indennizzi per l’equivalente di circa 61 miliardi di dollari americani. Sun Yatsen (1866 ≈1925) L eader della rivoluzione cinese e teorico politico, considerato il padre della Repubblica, nacque vicino a Macao, nel sud della Cina, il 12 novembre da genitori agricoltori. La conversione del padre al cristianesimo influì indubbiamente sulla formazione iniziale di Sun, che continuò a considerarsi cristiano durante tutta la vita. Ben presto fu inviato ad Honolulu presso il fratello maggiore ivi emigrato, e là frequentò la scuola dei missionari protestanti; quindi si iscrisse a medicina ad Hong Kong dove si laureò nel 1892. Dopo un breve periodo di pratica clinica, egli si identificò col movimento rivoluzionario contro la dinastia mancese, diede vita alla Xingzhonghui (“Società per la rinascita della Cina”) e, nonostante le forti resistenze incontrate, proseguì nell’azione di propaganda politica fra gli studenti cinesi ed i commercianti stranieri. La sua partecipazione ad un complotto rivoluzionario dopo la disfatta della Cina ad opera del Giappone nel 1895, aggiunta alla precedente attività, fece di lui un perseguitato del governo imperiale tanto da essere costretto a fuggire negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Nel 1896, mentre si trovava a Londra, fu rapito e sequestrato nella legazione cinese per diversi giorni finché intervenne a favore del suo rilancio, quale rappresentante del governo inglese, Sir James Cantlie, da lui conosciuto e stimato fin dall’epoca dell’università. In questo periodo di esilio studiò le condizioni politiche ed economiche dei Paesi occidentali, cercando sempre di combinare in una sintesi ideale pensiero ed esperienza cinesi con le teorie e le politiche dell’Occidente più idonee ed adeguate a tale conciliazione. Nel 1898, infatti, Sun mise a punto i primi lineamenti della sua dottrina politico-sociale che sarà pienamente esposta nei suoi scritti pubblicati diversi anni più tardi. I suoi famosi “tre principi”, nazionalismo, democrazia e benessere per il popolo ebbero forte risonanza provocando consensi in gran parte del popolo, tanto che, successivamente, furono posti quali principi del Guomindang, il partito nazionalista che Sun fondò nel 1912. Fedele all’ideale rivoluzionario e sempre attento nel rinvenire i mezzi appropriati a tale scopo, Sun tentò di utilizzare la reazione sviluppatasi dopo l’insurrezione dei Boxer (1900) - che respingevano l’Occidente in nome di un angusto e fanatico nazionalismo - per stabilire un governo democratico, decretando così la fine del regime mancese. Ma anche questo tentativo fallì ed egli, costretto nuovamente a lasciare la Cina per raggiungere Tokyo, iniziò qui la pubblicazione del “Giornale del popolo” (Min Bao), che gli consentì di diffondere il suo pensiero fra i connazionali all’estero. La dottrina del “benessere per il popolo”, basata sull’uguaglianza e la cooperazione delle varie parti sociali, fu una forma moderata di socialismo che ripudiava il livellamento sociale estremo affidando ad ogni uomo il proprio posto nella società civile secondo le capacità ed i meriti personali. Le navi straniere presidiarono le coste settentrionali della Cina a partire dall’aprile del 1900. La ribellione fu definitivamente sedata dall’Alleanza delle otto nazioni di Austria-Ungheria, Francia, Germania, Italia, Giappone, Russia, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Nell’ottobre del 1911, quando iniziò la rivolta militare di Wuchang, primo episodio della rivoluzione, Sun si trovava in Gran Bretagna, dopo aver peregrinato per la Cocincina, Giava, Stati Uniti ed Europa, dovunque sostenendo la causa del popolo cinese e sollecitando interventi politici affinché cessassero gli aiuti economici stranieri al governo imperiale. Ritornato in Cina a fine dicembre, già il 5 gennaio dell’anno successivo giurò nelle vesti di presidente provvisorio del nuovo governo repubblicano dopo che, appena giunto in patria, un’assemblea dei “delegati provvisori” di quattordici province riunitasi a Nanchino lo aveva acclamato primo presidente della Repubblica. Frattanto, nel febbraio 1912, un proclama imperiale in cui si annunciava l’abdicazione dell’imperatore ed il trasferimento dei poteri del reggente ai rappresentanti del popolo, autorizzava Yuan Shikai a formare un governo repubblicano. Considerata attentamente la situazione e vista 8 9 Le somme venivano prelevate alle dogane, direttaBoxer decapitati mente dagli occidentali; la dipendenza della Cina nei riguardi degli occidentali era completa. Il quartiere delle legazioni, al centro della capitale, venne ingrandito, posto sotto il controllo permanente delle truppe straniere e vietato ai residenti cinesi. Vari responsabili del massacro di Pechino furono autorizzati dall’imperatrice a suicidarsi. l’impossibilità di unificare il paese sotto la sua presidenza, anche per la ripresa del conflitto fra le province settentrionali e meridionali, Sun si ritirò in favore di Yuan Shikai, accettando la funzione di direttore generale dei trasporti e del commercio. In questo incarico ebbe modo di verificare la sua concezione dell’equilibrio fra sovranità popolare e “governo di esperti”, adoperandosi nel contempo sia per lo sviluppo adeguato dei mezzi di comunicazione accompagnato dal necessario progetto tecnologico e produttivo, sia per la promozione di una qualificazione maggiore delle maestranze, sia per la partecipazione popolare alle decisioni dell’esecutivo. Mentre Sun operava secondo le linee della nascente repubblica, divennero presto chiare le intenzioni di Yuan, il quale combatteva apertamente il Guomindang e rifiutava al parlamento qualsiasi diritto di intervento nella gestione dei fondi pubblici. Nel dicembre dello stesso anno, ad aggravare una situazione già precaria, scoppiò una rivolta interna “antimonarchica”, coagulatasi intorno all’opposizione fra il nord ed il sud, a causa delle ambizioni del presidente Yuan che voleva restaurare nella propria persona l’istituto imperiale. Dopo la morte di Yuan (6 giugno 1916), Sun fu l’animatore del governo autonomo di Canton, che era una promettente base rivoluzionaria, e dove poteva contare anche sui sentimenti dei meridionali contro il prevalere dei “signori della guerra” nordisti. Tuttavia le idee rivoluzionarie di Sun si scontrarono con le mire dei leader militari di Canton, che lo costrinsero a trovare rifugio a Shanghai. Nel periodo di forzato ritiro (1918-’20) scrisse l’opera “Programma di costruzione nazionale”, nella quale espose tre tipi di ricostruzione: psicologica, sociale e materiale. Quella psicologica implica il ribaltamento della precedente filosofia cinese secondo la quale “la conoscenza è facile ma l’azione è difficile”, per sostenere la difficoltà ed insieme la necessità della conoscenza scientifica in funzione di una effettiva azione per il progresso. La ricostruzione materiale indica a grandi linee il processo di modernizzazione della Cina attraverso nuovi sistemi di comunicazione e un diverso utilizzo delle risorse. Infine quella sociale, connessa strettamente ai tipi precedenti, riprende la dottrina dei “tre principi”, accennando alla possibilità di un futuro comunismo e rimproverando nel contempo a quello sovietico la sua poca adattabilità ai bisogni della Cina. Sun precorre così mezzo secolo di storia situandosi in un punto centrale fra la vicenda epica dei Taiping e la Repubblica Popolare Cinese. Mausoleo di Sun Yatsen a Nanchino Nel febbraio 1923 Sun poté tornare a Canton grazie all’appoggio dei generali del Guangxi e dello Yunnan, ma perse buona parte del sostegno che era stato dato a lui e al Guomindang dai cinesi residenti all’estero, avendo permesso l’uso di metodi violenti nell’azione militare per la riconquista di Canton nel marzo 1924. Però le sue idee politiche e la sua opera instancabile, interpreti di una volontà collettiva e ormai diffusa, gli garantirono il consenso di gran parte dei lavoratori e degli studenti, grazie anche alla collaborazione di Michail Borodin, agente del Comintern sovietico, che si adoperò nel dare una efficiente organizzazione al Guomindang. Nello stesso anno fu pubblicata l’opera Jianguo dagang, nella quale egli descrisse i tre stadi attraverso i quali la rivoluzione dovrà sfociare infine nella democrazia: uno stadio militare per l’unificazione del Paese, quindi un periodo di dittatura politica - in modo solo formalmente analogo al modello sovietico perché basata su fondamenti ideologici diversi - ed infine l’età costituzionale. Ma come fu assente durante la rivolta di Wuchang nel 1911, così, confermando comunque la sua influenza umana e politica indipendentemente dalle distanze, Sun non poté essere presente nel periodo unitario della Repubblica cinese, fu stroncato da un tumore a soli 59 anni, il 12 marzo 1925, a Pechino, dove si era recato per trattare un’intesa con i “signori della guerra” del nord, con la speranza di unità e di pace per il popolo cinese. Mao Tse Dong C lasse 1893, nato nello Hunan, a Shaoshan. Figlio di contadini relativamente benestanti, fu allevato secondo i metodi tradizionali della piccola borghesia rurale cinese, alternando lo studio al lavoro della terra del padre e sposandosi appena adolescente. Per sfuggire all’opprimente ambiente familiare, poco più che quattordicenne si arruolò volontario nell’esercito repubblicano di Sun Yat-sen, che lasciò dopo un anno per dedicarsi agli studi di istitutore. Dopo essersi diplomato alla scuola normale di Changsha Mao Tse Dong e Chu En Lai nel 1945 (Hunan) [1918], trascorse un breve soggiorno a Pechino per seguire alcuni corsi universitari e qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista cinese e in particolare con l’economista Li Ta-chao e il futuro segretario del partito comunista Ch’en Tu-hsiu. Ritornato nel 1919 a Changsha partecipò attivamente all’organizzazione del movimento rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese (conferenza di Shanghai, 1921). Dopo le repressioni anticomuniste condotte da Chiang Kai-shek (1927), che eliminò numerosi quadri del partito comunista, Mao si ritirò nella zona montagnosa di Chingkang shan, al confine tra lo Hunan e il Jianxi; divenendo un punto di riferimento ed organizzatore di truppe partigiane. Condusse i suoi uomini nella ‘lunga marcia’ fino alla vittoria finale ed alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. La sua leadership fu molto autorevole, basata su principi molto fermi; ma anche molto ideologica. Promosse una campagna di denuncia dei gruppi di ‘opportunisti di destra’ dentro e fuori del partito che ‘sabotavano’ la costruzione del socialismo in Cina. Avvenuta la rottura con Mosca che ritirò gli esperti sovietici dalla Cina (luglio 1960), Mao, (settembre 1962), propose di intensificare la lotta contro il revisionismo di Krusciov a livello mondiale e la lotta contro ‘i dirigenti degenerati’ in Cina attraverso un ‘movimento d’educazione socialista’, che durò sino al 1966. Nel corso di quell’anno, Mao approvò la pubblicazione del primo giornale murale (datzebao), redatto all’università, che attaccava violentemente il sindaco di Pechino Peng Cheng e, indirettamente, lo stesso presidente della repubblica Liu Shao-chi. Gli eventi successivi, come la misteriosa scomparsa di Lin Piao, in seguito accusato di tradimento, e il nuovo indirizzo della politica estera cinese, ridimensionarono il successo di Mao, che cedette sempre più la direzione politica del paese al ‘numero due’, il primo ministro Chou En Lai, uomo di grande spessore politico, leader dei moderati e capo della diplomazia cinese. Il “Grande Timoniere”, come era stato definito, morì nel 1976. Gli fu riservato un posto d’onore in Tien an’ men, a Pechino, dove la sua salma riposa in un grande mausoleo. Il culto della sua personalità, dopo la sua morte, ebbe ripercussioni politiche rilevanti che originarono lotte intestine nel Partito comunista cinese. Alcuni suoi componenti vennero bollati come gruppo antimaoista, dopo essere stati definiti la “banda dei quattro”. Nel 90° anniversario della nascita di Sun, Mao Zedong disse: «Noi abbiamo reso fertile la rivoluzione democratica lasciata incompiuta dal dott. Sun; l’abbiamo sviluppata e trasformata in quella rivoluzione socialista, che siamo ora in procinto di completare» 10 (1893 ≈1976) 11 La Rivoluzione Cinese Chiang Kai-Shek A lla morte di Sun Yatsen seguì l’ascesa del generale Chiang Kai-shek, che eliminò in un primo tempo la componente comunista dall’esercito (1926), ed in un secondo tempo costrinse le forze comuniste alla clandestinità (1927) dando inizio ad una guerra civile che sarebbe terminata solo nel 1950. Da questo momento iniziò il cosiddetto decennio di Nanchino (1927-1937). La crescente aggressività giapponese portò all’invasione della Manciuria (1931) e di Shanghai (1932). Il governo di Chiang Kai-shek preferì però continuare la guerra civile, lasciando campo libero ai giapponesi. I comunisti di Mao Zedong, che nel frattempo avevano istituito la “repubblica sovietica cinese” nel sud del paese, furono costretti ad intraprendere una lunga marcia (19341935) per sfuggire all’accerchiamento delle truppe di Chiang. la Lunga Marcia La Marcia costo il sacrificio di 100.000 uomini. Nel 1936 fu arrestato a Xi’an e costretto a coinvolgere i comunisti per formare un fronte unico antigiapponese. Da parte comunista l’epoca di Yan’An (1935-1945) ossia la seconda fase della “sperimentazione”, coincise con la fine della Lunga Marcia e fu caratterizzata dall’uso indiscriminato della legislazione comunista e nazionalista, con l’esclusione dei provvedimenti nazionalisti ritenuti assolutamente incompatibili con l’ideologia e l’etica rivoluzionaria. Con la sconfitta dei paesi dell’Asse nella seconda guerra mondiale, la Cina si ritrovò fra le potenze vincitrici, ottenendo un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’ONU; malgrado lìopposizione degli Stati Uniti. La terza ed ultima fase, l’epoca post-bellica (1946-1949), iniziò dopo la capitolazione del Giappone. In questo periodo il partito provvide al perfezionamento delle istituzioni che avrebbero amministrato il paese. Nel 1946 riprese la guerra civile, e forze comuniste si assestarono nel nord del paese, mentre quelle nazionaliste arretrarono verso sud. La debolezza dell’esercito nazionalista si dimostrò nell’avanzata quasi incontrastata degli avversari che costrinse infine Chiang Kai-shek a rifugiarsi con le sue ultime truppe sull’isola di Taiwan (luglio 1949) sotto la protezione della flotta americana. Il 1º ottobre del 1949 fu proclamata, sulla piazza Tien An Men la Repubblica Popolare Cinese ad opera del Partito comunista. Si iniziò così l’opera di edificazione del socialismo, che ha mutato profondamente l’aspetto del paese sia nei rapporti sociali, sia nelle strutture economiche, sia nelle idee e negli orientamenti umani. La nuova società si caratterizzò come “dittatura democratica popolare”, secondo la definizione data da Mao in un articolo scritto il 30 giugno 1949 per commemorare il 28° anniversario della fondazione del Partito Mao Tse Dong proclama la Comunista Cinese (luglio 1921) Repubblica Popolare Cinese Il governo popolare centrale si dedicò alla creazione delle strutture amministrative (governi popolari locali) e alla ripresa delle attività economiche in tutto il paese, nell’ambito della politica di fronte unito e di nuova democrazia. Il primo problema da risolvere fu quello della lotta contro l’arretratezza e contro la minaccia di aggressione imperialista. Si decise di creare un’industria simile a quella della Russia, che avrebbe assicurato un forte accrescimento 12 industriale e garantito la sicurezza nazionale. Ma lo sviluppo dell’insieme dell’economia non poteva tenere lo stesso passo. L’agricoltura avrebbe dovuto produrre un surplus che permettesse sia di rifornire di sufficienti materie prime l’industria e di viveri le città, sia investire nella meccanizzazione dell’agricoltura. Ma per far ciò occorreva produrre quel surplus che potesse permettere quella spinta. Insomma sembrava un circolo vizioso dal quale era impossibile uscire. Ricorrere all’aiuto esterno significava compromettere l’indipendenza nazionale poiché nessuno fra i paesi che potevano procurare tali mezzi era disposto ad aiutare la Cina in modo disinteressato, senza contropartite. Oltre a ciò c’era la situazione finanziaria non certo solida. La borghesia dei “rentiers”, al seguito del Guomintang era fuggita a Taiwan portandosi con sé tutti i capitali e la maggior parte della flotta mercantile. Nel 1952 avvenne la nazionalizzazione del commercio e delle banche. I sovietici restituirono alla Cina la ferrovia trans-manciurica. Nel 1953 venne varato il primo piano quinquennale, che accordava la priorità all’industria pesante. L’Unione Sovietica stanziò per i cinesi aiuti finanziari, tecnici e industriali. Studenti e giovani cinesi si recano in Russia per addestrarsi tecnicamente. I Cento Fiori (maggio 1956 - giugno 1957) Con l’immagine dei Cento Fiori si indica un’ardua battaglia, un grande fraintendimento tra il potere e il popolo - e più in particolare gli intellettuali - un episodio d’apertura liberale che fallì. Nella primavera del 1956, il potere stesso avviò una campagna di libera critica, che però in poche settimane si trasformò in un’ondata contestataria e di denuncia politica del Partito di dimensioni e virulenza notevoli. Questo tentativo di liberalizzazione si risolse quindi in un fallimento per il P.C.C., presto seguito da una delle purghe più spietate attraversate dal paese. Dopo tutto, i sostenitori dell’ortodossia maoista ne uscirono rafforzati, perché il Grande Timoniere non aveva nascosto la propria ostilità nei riguardi di questa liberalizzazione riformista, che aveva scatenato, ma che gli era sfuggito di mano. Il 26 maggio 1956, il responsabile del Dipartimento della Propaganda, Lu Dingyi pronunciò, davanti a un’assemblea di scrittori, dei discorsi dalle risonanze liberali, nuove, sul tema che veniva chiamato dei Cento Fiori e che riprendeva l’antico slogan: “Che cento fiori sboccino, che cento scuole rivaleggino”, una formula rispolverata da Mao e che era stata propagandata secoli prima dal grande filosofo taoista Zhuangzi (IV - III secolo a.C.), a proposito delle varie scuole filosofiche che fiorivano alla sua epoca, durante il periodo dei Regni Combattenti (480-220 a.C.). Da-Tze Bao a Shanghai Durante quest’autentica epoca dorata delle attività intellettuali, in Cina si svilupparono in modo particolare il taoismo, il confucianesimo e la Scuola dei Legisti. Questo discorso liberale e liberatore del 1956 avrebbe avuto una notevole risonanza. Sostenuti da artisti, scrittori e studenti, i piccoli partiti non comunisti che erano stati tenuti a freno, in una sorta di libertà vigilata, per salvare una parvenza di dialogo democratico, “uscirono allo scoperto” e intrapresero una campagna denigratoria che guadagnava consensi e si diffondeva nell’intero paese. Si era venuta a creare una situazione nuova e inedita, dunque. Agitate riunioni di giornalisti, intellettuali e studenti denunciavano gli abusi e gli errori del Partito, abbandonandosi a una critica radicale della gestione economica. Si denunciò l’assenza di libertà di opinione e di una vera legislazione civile e penale, nonché gli abusi e gli eccessi della “nuova classe dirigente”. Mao stesso non venne risparmiato: “le sue collere, il suo orgoglio e la sua impulsività” iniziavano a stancare. Stranamente innescata dal Partito, questa campagna voleva sottolineare tre dei suoi errori: il settarismo, il burocratismo e il soggettivismo. Mao aveva detto, forse un po’ affrettatamente, che «il marxismo è una verità scientifica; non teme la critica e la critica non potrebbe trionfare su di esso». Parole imprudenti; ci si aspettavano delle critiche, certamente, ma sotto forma di “una dolce pioggerella e una brezza leggera” (!). Di fatto si trattò di una marea di biasimo e di ostilità, un diluvio di rimproveri e di forti rimostranze. Un vero e proprio scossone politico che inizialmente 13 lasciò i dirigenti sbalorditi e sorpresi. Nella primavera del 1957 le recriminazioni si fecero sentire in ogni ambiente. All’interno delle amministrazioni, nei giornali, sui dazibao murali, si avvicendarono appelli e manifesti; l’università di Pechino, vera e propria sede dei contestatori, era in fermento, e influenzò ben presto le facoltà di provincia, tra cui quella di Wuhan (nello Hubei), che si distinse in modo particolare per una campagna di dazibao estremamente critica. I dirigenti del partito furono messi in discussione ; fu messa in discussione l’autorità stessa del partito e le sue capacità di governo. Davanti a questa rumorosa ondata di ostilità, le autorità inizialmente tollerarono, immerse in un evidente smarrimento. Ma la controffensiva e la reazione non tardarono ad arrivare. Mao stesso, il 25 maggio denunciò qualsiasi presa di distanza dal socialismo come uno sbaglio e un grave errore. L’archeologo e storico Guo Moruo se la prese con i “fiori velenosi” di cui bisognva liberarsi, e li contrappose ai “fiori profumati” del socialismo. I dirigenti del partito dicevano: “Letteratura e ne di arretratezza, e alle sue strutture mentali sorpassate, per entrare ormai in un’era di rapida crescita e di prosperità continua. Lo spirito di tale crociata fu definito a Wuhan (nello Hubei), in occasione dell’VIII congresso, nell’inverno 1958. II contrattacco, la reazione “contro la destra”, fu quindi messa in atto; ai contestatori venne intimato di ritrattare, e perfino di umiliarsi e di chiedere di venir puniti. A centinaia di migliaia, i comunisti e i non comunisti che si erano comportati da “nemici di classe, borghesi di destra”, vennero mandati nelle campagne per essere rieducati e per sentire il polso della vita contadina. Centomila persone furono arrestate e venne lanciata un’ampia campagna di rettifica; l’epurazione comportò revoche, sventure e rieducazioni. Tre dei responsabili del delirio all’università di Wuhan furono fucilati. L’esodo degli abitanti delle città verso i campi aveva come obiettivo riconosciuto la correzione di una certa “distorsione socioeconomica”: lo sviluppo della classe dei tecnici staccata dai contadini, e tuttavia sempre massicciamente maggioritaria, in Cina, indispettiva i puri del Partito. Ritenevano che un’immersione nella vita di campagna non potesse che fare loro del bene. arte, ingranaggi e dadi del meccanismo generale, devono sottomettersi e dare il proprio apporto per concorrere alla realizzazione del compito della rivoluzione”. II criterio politico, socialista e collettivista, deve sempre prevalere sul criterio artistico. E ancora: ‘In questo tipo di civiltà non è possibile tollerare l’individualismo, fonte di tutti i mali... l fiori che devono sbocciare sono i fiori del socialismo”. Cento fiori, sì, ma “cento fiori socialisti”! Così, paradossalmente, questo movimento che andava alla ricerca di una liberalizzazione, di fatto ottenne come risultato un rafforzamento dell’autorità e della dittatura del Partito, all’interno del quale i “puri e duri”, gli intransigenti, riprendevano in mano le redini più di prima e meglio di prima. E sarà su basi “risanate” (!) che l’arte e la letteratura dei vent’anni seguenti dovranno svilupparsi. Qualsiasi opera sarà intesa come elemento che concorre all’edificazione del socialismo, e quindi a esaltare e diffondere il materialismo dialettico marxista. “L’arte per l’arte è un errore di destra” , si diceva. Un quadro esaltante! Ma come si può spiegare questa campagna dei Cento Fiori? Era innanzitutto una operazione che si inseriva nel contesto ideologico e politico della destalinizzazione che aveva colto totalmente di sorpresa le autorità cinesi, ma era anche spiegata dal fatto che all’interno esisteva un’effettiva corrente di malcontento generale, del proletariato delle città, dei contadini e anche dell’intellighenzia, dato che da vari anni tutti erano stati intensamente sollecitati e mobilitati dalla collettivazione. Deng Xiaoping, che soprintendette a questa operazione, ne trasse la morale: “Nel grande problema dei Cento Fiori abbiamo acceso un focolaio per incenerire al tempo stesso i nostri nemici e le nostre debolezze”. Significava riconoscere la strana contraddizione e l’equivoco di questo episodio; forse questa risoluzione drastica è stata montata di tutto punto per smascherare meglio gli scontenti o gli oppositori o forse i dirigenti hanno sottovalutato la portata delle critiche di cui erano oggetto, e per alcune settimane sono stati scavalcati dalla violenza di queste critiche. Il Grande Balzo in avanti (1958-59) Per due anni (1958-1959), l’intera attività politica fu imposta al ritmo di slogan e di frasi del tipo: “Qualche anno di sforzi a di lavoro per diecimila anni di felicità”, oppure “Avanzare con entrambe le gambe”, per preconizzare attività abbinate e simultanee. La gerarchia delle priorità economiche venne quindi sconvolta; la prima parola d’ordine fu: “producete acciaio”.Così si assistette all’edificazione, ovunque e fin nel più piccolo villaggio, di migliaia di “altiforni rustici”. Questa campagna fu l’elemento più assurdo di quello che poi si rivelerà un errore gigantesco, un’aberrazione collettiva che in molti casi allontanò i contadini dalle campagne, dato che quasi tutti erano impegnati a produrre un acciaio che ormai non si sapeva più come utilizzare. E, viceversa, gli abitanti delle città e gli studenti venivano mandati nei campi sotto la parvenza di una pretesa “esaltazione spontanea”. Di fatto nella maggior parte dei casi vi venivano condotti militarmente. Nelle comuni si partiva al lavoro con tamburi e ottoni in testa, con vessilli al vento, slogan continuamente recitati da altoparlanti disseminati fin nelle più piccole risaie. È nell’agosto del 1958 che furono create le famose Comuni popolari: 26.000 di queste unità (nel 1980 se ne contavano esattamente il doppio) furono incaricate di sostituire, previo raggruppamento, 730.000 cooperative giudicate troppo deboli e inefficaci; diventarono delle “Squadre di produzione”. La Comune popolare doveva essere la struttura, la leva e l’agente principale di questa auspicata trasformazione dei mezzi di produzione, ma anche degli animi e del modo di vita. Fu necessario un ridimensionamento. Dopo i prime notiziari che cantavano vittoria, nel 1958, si palesò rapidamente la delusione e si dovette ammettere che l’intero apparato produttivo era disorganizzato e traballante. Tanto più che questo periodo rivoluzionario coinciderà, tra il 1959 e il 1961, con calamità naturali (invasioni di cavallette, inondazioni, siccità), e con il ritiro dell’aiuto economico e tecnico dei sovietici. Fu una catastrofe. Le vie ferrate erano bloccate da convogli di carbone e di minerali in attesa di essere smistati da qualche parte. Neppure la produzione d’acciaio trovava un mercato o un equilibrio armonico. La popolazione, spossata e colta dal dubbio, si interrogava sulla sensatezza di questa frenesia produttiva da cui risultava ormai chiaro come si stesse girando a vuoto. La produzione cerealicola precipitò pericolosamente: 205 milioni di tonnellate nel 1958; 150 nel 1960, mentre nel 1980 è stata di 320 milioni di tonnellate e nel 1985 di 380 milioni di tonnellate. Ben presto venne dato ordine di frenare i ritmi di lavoro, insopportabili o inopportuni, o ancora di concedere ai contadini alcuni “stimoli materiali”, come la concessione di piccoli terreni individuali, e l’autorizzazione ad allevare qualche capo di bestiame a livello domestico, per esempio. Alla fine del primo piano quinquennale (1953-1957), Mao Zedong avviò la Cina verso un gigantesco sforzo di produzione collettivo, detto il “Grande Balzo in Avanti”, volto a trasformare l’intera economia del paese e allo stesso tempo a rivoluzionare gli animi, che a suo avviso erano troppo legati al passato. Quest’esperienza doveva mobilitare tutte le risorse e l’intera manodopera del paese, nonché smuovere ogni settore d’attività. Come i grandi stati moderni, la Cina sperava, tramite un terribile sforzo, e spinta da un grande slancio ideologico, di sottrarsi alla sua situazio- Ciò significava però l’ammissione di un fallimento perché, come si è appena detto, il Grande Balzo in avanti oltre ad ambizioni di decollo economico, aveva l’obiettivo di strappare i cinesi alla loro mentalità millenaria, ai costumi, alle tradizioni e alle abitudini ancestrali. Si era creduto di cambiare i presupposti stessi della società: il regime era convinto che le strutture familiari e paesane, troppo radicate nel passato, frenassero il progresso e quindi il decollo economico. Indubbiamente quest’esperienza fu preparata male e intrapresa con eccessiva precipitazione, ma l’autorità carismatica di Mao Zedong si mantenne e non venne intaccata. Il fatto è che questa impreparazione 14 15 avrebbe poi avuto come conseguenza la durevole disorganizzazione del paese e che l’intera vita nazionale ne sarebbe risultata perturbata per anni. del Partito Comunista Cinese, degli attivisti delle “Guardie rosse” e dell’Esercito di liberazione popolare, che così si trovava nella posizione di garante della stabilità. A partire dal 1962, dopo l’inizio dei riordinamentodel 1960-1961, si accettò di riconoscere il fallimento di quest’esperienza comunarda; ma non tutti furono autorizzati a dirlo e alcuni, per questo motivo, persero il posto o il grado, come il prestigioso e scomodo maresciallo Peng Dehuai, che a Lushan, nell’agosto del 1959, aveva espresso dei dubbi sull’efficacia dell’esperienza, . “Il capofila degli esponenti di destra perse il suo mandarinato”, scrive Jacques Guillermaz e Mao Zedong stesso, di fronte al fallimento, nel dicembre 1958 ha dovuto cedere la Presidenza della Repubblica a Liu Shaoqi. Spinto dalla sua quarta moglie Jiang Qing, Mao tenterà una nuova esperienza motivata da un’ispirazione simile, nel 1966, con la Rivoluzione culturale; sarà una seconda scossa altrettanto nociva, come riconobbe il partito stesso. “In entrambi i casi, nota Jacques Guillermaz Nel 1976 la morte di Mao permise di chiudere la Grande rivoluzione culturale addossando tutte le responsabilità alla così detta Banda dei Quattro. ci si trovava in presenza di un’applicazione dei due principi cardinali che continuavano a guidare l’istruzione nella Cina comunista: totale subordinazione al politico, stretta subordinazione alle necessità dello Stato, che esclude le preferenze individuali”. (Le Parti comuniste chinois au pouvoir, Grand Bond en avant et Révolution culturelle) La Rivoluzione Culturale Lanciata nella Repubblica Popolare Cinese nel 1966 da Mao Zedong, già de facto estromesso dagli incarichi dirigenziali dalla dirigenza del Partito Comunista Cinese, era volta a frenare l’ondata controriformista promossa in seno al partito principalmente da Deng Xiaoping e Liu Shaoqi, per ripristinare l’applicazione ortodossa del pensiero marxista-leninista. L’epurazione dei controriformisti coinvolse anche l’ex Ministro delle Finanze Bo Yibo, che fu condannato a dieci anni di carcere. In appoggio a Mao intervenne Lin Biao, ideatore e curatore della prima edizione del “Libretto rosso”, una antologia di citazioni di Mao inizialmente utilizzato per fare propaganda all’interno dell’Esercito di liberazione popolare. La Rivoluzione culturale era fondata sulla mobilitazione dei giovani, universitari e non, che non fossero iscritti al partito, contro le strutture dello stesso PCC. Basi teoriche erano il pensiero di Mao sulle “contraddizioni in seno al popolo e al Partito” in cui il processo hegeliano di tesi-antitesi-sintesi non veniva a cessare con la presa del potere da parte dei comunisti, ma continuava incessantemente per evitare fenomeni di imborghesimento del partito stesso. In ogni città, provincia, qualsiasi “Unità di lavoro” fu investita dalla critica radicale contro gli esponenti di spicco del PCC. Questi erano costretti all’autocritica e alle dimissioni, sovente seguite da un periodo di rieducazione presso i villaggi contadini più sperduti. g ua r d i e r o sse In caso di resistenza da parte delle strutture del PCC contro i giovani rivoluzionari - generalmente chiamati “Guardie Rosse” anche se in effetti erano tantissimi gruppi autonomi con molti diversi nomi in lotta spesso anche fra loro, dato che il PCC aveva fondato sue proprie organizzazioni similari ma antagoniste - si ricorreva allo scontro fisico, talora anche armato. Il periodo di caos che ne seguì si interruppe solo nel 1969, tanto che spesso per Rivoluzione culturale si intende solo il periodo 1966-1969. Nel 1969 infatti le Unità di Lavoro e ogni centro dirigenziale burocratico fu affidato a una triplice rappresentanza: 16 La Banda dei quattro era costituita da quattro politici della Repubblica Popolare Cinese: Jiang Qing, vedova di Mao e sua quarta e ultima moglie, e tre suoi associati: Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan e Wang Hongwen. I quattro avevano raggiunto un enorme potere pur senza avere cariche di primissimo piano. Jiang Qing solo dopo il 1966 ebbe degli incarichi politici, in ambito della formulazione delle scelte di politica culturale. Mao e Lin Biao Yao Wenyuan e Wang Hongwen avevano avuto un ruolo nell’instaurazione della comune di Shanghai, quando erano stati allontanati i membri del partito comunista cinese dagli incarichi pubblici e trasformata l’intera città in una sola “unità di lavoro” a carattere autogestionale. Ma certamente una figura molto più determinante della loro per l’affermazione della rivoluzione culturale era stata quella di Lin Biao. Il fatto che negli anni settanta la rivoluzione culturale avesse fatto suo il motto “critichiamo Lin Biao critichiamo Confucio” impedì di associare Lin Biao alla Banda dei Quattro. La Banda prese di mira anche Zhou Enlai, autorevole ministro degli esteri il quale, secondo la Banda avrebbe compiuto l’errore di portare in auge Deng Xiaoping, dandogli un ruolo di rilevanza politica nella dirigenza del Partito. Negli ultimi mesi di vita Zhou riuscì a rafforzare il gruppo legato a Deng e, in seguito, a far nominare Hua Guofeng come suo successore alla presidenza del consiglio di stato e successore di Mao nel partito. La scialba figura di Hua, pressoché sconosciuto prima e presto dimenticato poi, servì a creare quella tregua durante la quale fu preparata l’azione contro la Banda dei Quattro. Hua Guo Feng La Banda dei Quattro fu accusata di preparare un colpo di stato, che sarebbe dovuto scattare dopo la morte di Mao. Il 6 ottobre 1976 Hua Guo Feng, annunciando il tentativo di colpo di stato, fece arrestare i quattro e un certo numero di figure minori vicine alle loro posizioni. la “Banda dei quattro” durante il processo a loro carico Nel 1981 i quattro furono processati, accusati di tutti gli eccessi della rivoluzione culturale e di attività anti-partito. Jiang Qing e Zhang Chunqiao furono condannati a morte (pena in seguito modificata in ergastolo), mentre a Yao Wenyuan e a Wang Hongwen furono dati venti anni di carcere. Nello stesso anno Hua Guofeng passava formalmente i poteri a Deng Xiaoping. Fattori determinanti per la Rivoluzione Culturale furono: il ruolo dominante di Mao Zedong alla direzione del Partito, considerato massima autorità ideologica e morale; la già esistente definizione di un’unica linea interpretativa corretta (quella di Mao) contrapposta a linee erronee di destra (posizioni revisioniste o volte all’indebolimento della rivoluzione) e di sinistra (posizioni volte a visioni astratte tendenti a politiche premature rispetto ai tempi del processo rivoluzionario); l’accostamento di etichettatura politica e demonizzazione del nemico a soggetti politici ritenuti 17 responsabili del proseguimento secondo le sopracitate linee erronee; l’intolleranza verso la critica e il dissenso degli intellettuali che influenzò la denuncia di massa nei loro confronti e la loro classificazione come “nona categoria puzzolente”, in fondo alla scala sociale, al tempo della Rivoluzione Culturale. La loro negatività, sottolineata in meeting e denunce, era addebitata al mancato adeguamento dei comportamenti degli intellettuali alla nuova realtà. Nel 1962, alla decima sessione plenaria del Comitato centrale, Mao mise in guardia contro eventuali scivolamenti nel revisionismo e mise in risalto il fatto che lo sviluppo della lotta di classe non avrebbe dovuto interferire con la normale conduzione del lavoro in campo economico: su queste basi, ai miglioramenti dati dal processo di riaggiustamento economico, venne accostata, per quanto riguarda la lotta di classe, la creazione del “Mes” (Movimento di Educazione Socialista) con l’obiettivo di rinvigorire lo spirito e la lotta di classe, e di migliorare la qualità dei quadri e dei responsabili del partito. in umiliazione e violenza. Il Mes diede avvio ad iniziative volte a correggere gli errori (di natura economica, politica, ideologica o gestionale) dei quadri e a contrastare corruzione, spreco e speculazione. Sempre più spesso, soprattutto a partire dal 1963, squadre del Mes si stabilivano nelle campagne, sostenendo le rivendicazioni dei contadini poveri, reclutavano nuovi iscritti fra questi mobilitandoli in sessioni di lotta e di denuncia contro i responsabili scoperti colpevoli. Se da una parte il Mes denunciò comportamenti negativi come cattiva gestione, corruzione, atteggiamenti oppressivi e repressivi contro le masse, dall’altra i comportamenti sbagliati (di natura diversa) vennero confusi e si passò spesso a metodi di risoluzione inadeguati, tali da sfociare Ancora oggi non è chiaro quanti siano stati i morti dovuti alla Rivoluzione Culturale, e le stime degli storici oscillano tra 300.000 e 7 milioni di vittime. Oltre alle perdite umane, ingenti danni furono arrecati alla cultura (persecuzione di insegnanti, scrittori, artisti, intellettuali) e numerose furono anche le epurazioni, che provocarono un ricambio politico fra il 50 e il 70% a seconda dei diversi contesti. Non molto rilevanti furono invece i danni economici, dato che lo sviluppo riprese il proprio cammino già dal 1969. La principale causa di danni e perdite subiti dalla Cina fu dovuta alle Guardie Rosse, che si svilupparono nel vuoto politico (già dal 1966) creato dal ritiro dalle università delle squadre di lavoro. Le guardie rosse, (giovani appartenenti alla classe operaia e alla classe contadina) si contrapposero alle classi “nere” (fra le quali anche gli intellettuali). Ricevettero l’approvazione di Mao e del Gruppo per la Rivoluzione Culturale, e si diffusero in migliaia di gruppi. Le guardie rosse perseguirono il compito di spazzare via i quattro vecchiumi (vecchie idee, vecchia cultura, vecchie abitudini e vecchi comportamenti) spesso con metodi estremamente violenti. L’inasprirsi delle lotte proseguì fino alla primavera del 1967, quando Mao decise di contrastare la situazione di profonda instabilità e fu aiutato dall’Epl (Esercito Popolare di Liberazione), che restaurò l’ordine reprimendo le guardie rosse più radicali e gestì le organizzazioni di massa. Nella primavera del 1968 le guardie rosse furono smobilitate e più di quattro milioni di studenti (in gran parte guardie rosse) furono inviati nelle campagne a vivere con i contadini e a rieducarsi, così come molti quadri e responsabili del partito. Molto intense furono anche le persecuzioni religiose: le pratiche religiose vennero infatti vietate e chi insisteva nel praticarle subì spesso l’esilio, la carcerazione e la morte. I luoghi di culto vennero chiusi: la loro parziale riapertura venne consentita nuovamente solo a partire dalla fine degli anni ‘70. 18 Le Quattro Modernizzazioni A partire dal 1979 Deng Xiaoping avvia una riforma economica che ottiene indubitabili successi in termini di sviluppo economico e di aumento della produttività ma produce anche alcuni guasti sociali. È la cosiddetta politica delle quattro modernizzazioni: dell’agricoltura, dell’industria, della difesa e della scienza. A causa delle grandi diversità esistenti nello sterminato paese, la riforma viene lanciata in tempi diversi e con modalità differenti a seconda delle aree: alcune sono aperte all’economia di mercato, in altre permane un’organizzazione collettivistica. Questo approccio pragmatico ha permesso di evitare rotture economiche molto forti e di passare gradualmente dal sistema a pianificazione centrale al cosiddetto "socialismo di libero mercato". Modernizzazione dell’economia (agricoltura e industria) a) Nelle campagne avviene l’eliminazione delle comuni rurali del popolo (1984) e l’avvento del "sistema della responsabilità personale" con il ritorno a forme privatistiche di produzione: la terra viene affidata ai contadini per un periodo variabile dai 15 anni (per le colture annuali) ai 50 anni (per le colture arboree), in pratica per sempre. In positivo si ha un forte aumento della produttività, dato che ora il contadino ha un interesse diretto al rendimento della terra: in soli cinque anni raddoppia la produzione agricola cinese. L’altra faccia della medaglia è una disoccupazione contadina - che avrebbe già superato i cento milioni di unità. I braccianti e i lavoratori poveri emigrano disordinatamente verso le grandi città e le zone più ricche, creando in molti casi problemi di ordine pubblico. In altre parole, la riprivatizzazione dell’agricoltura ha riproposto il fenomeno sociale della presenza di contadini ricchi a fianco di contadini poveri. Tuttavia secondo "The Economist" il numero dei cinesi in stato di povertà assoluta si sarebbe dimezzato da 200 a 100 milioni durante i 6 anni della riforma agraria (1979-1985). Ma il rischio della disoccupazione si pone anche per i quasi 100 milioni di lavoratori non agricoli dipendenti da imprese di proprietà statale. b) I prezzi agricoli vengono liberalizzati (eccetto quello del grano). Questo ha incentivato moltissimo la produzione agricola. Accrescendosi i guadagni dei contadini, si è creato un surplus di risparmi utile per il successivo sviluppo industriale. Nel breve periodo la liberalizzazione dei prezzi ha determinato una vampata inflazionistica, che ha considerevolmente inciso sulle condizioni di vita dei lavoratori a stipendio fisso delle città. All’origine del malessere degli intellettuali, che è sfociato poi nella protesta politica di Piazza Tienanmen, c’è stato anche l’impoverimento personale e delle condizioni lavorative di una classe sociale che, storicamente, ha sempre goduto di un forte prestigio fra la popolazione. L’inflazione è stata alimentata anche dall’emissione di una quantità eccessiva di carta moneta per finanziare il deficit di bilancio dello stato cinese. c) La liberalizzazione degli scambi ha permesso uno sviluppo tumultuoso del commercio interno e estero. In questo ultimo campo cade del tutto il monopolio governativo. I beni vengono immessi in circolazione con meccanismi di mercato: i generi immessi sul mercato con meccanismi di pianificazione centrale passano da 700 nel 1978 a 20 nel 1991. In questi anni la Cina aderisce al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale (1980). Vi sono anche maggiori aperture al turismo internazionale, ben visto perché apportatore di valuta pregiata. All’inizio degli anni Novanta il governo cinese consente agli stranieri di visitare anche i territori occupati del Tibet. Questa maggiore libertà economica ha permesso la corsa all’arricchimento di alcune frange sociali, ancora relativamente ristrette rispetto alla maggioranza della popolazione. d) L’apertura agli investimenti internazionali. Condizioni fiscali e doganali particolarmente favorevoli agli operatori stranieri sono state proposte soprattutto nelle cosiddette "zone economiche speciali". Nel 1992 il governo ha autorizzato la formazione di 47.000 imprese a capitale straniero. 19 Spesso gli imprenditori sono i cinesi della diaspora, quelli cioè residenti in paesi del Sud-Est asiatico come Indonesia, Malesia, Singapore, Thailandia, Taiwan. Tra i 55 milioni di cinesi "etnici" vi sono molti imprenditori di successo i cui investimenti hanno avviato il boom. I cinesi d’oltremare controllerebbero il 75% del mercato dei capitali in Asia (Lao Wuguan, Perché non ci potete capire, in "Limes", n. 1/99, p. 10). e) La creazione sperimentale nel luglio 1979 di quattro zone speciali (Shenzhen, Xiamen, Zhuhai, Shantou), aree geograficamente chiuse e privilegiate perché godono di una maggiore autonomia fiscale ed un clima più liberale nei confronti degli investitori stranieri (come l’esenzione dai dazi doganali, incentivi fiscali, facilitazioni nell’utilizzo delle valute straniere). Queste zone sono le punte avanzate di una riforma sempre più accentuatamente neoliberista. Esse sono situate nel sud del paese: tre nella regione di Guangdong, in prossimità di Hong Kong e una nel Fujian, sullo stretto di Taiwan. Il successo di queste aree è stato molto superiore al previsto. Nella provincia di Guangdong la crescita negli ultimi 15 anni è stata di un eccezionale 13% annuo. Nel 1988 anche l'isola di Hainan è stata separata dalla provincia del Guandong per diventare una Zona Economica Speciale. In altre regioni della Cina si stanno costituendo zone speciali "ufficiose" per ripetere le performances delle prime. f) La costruzione di infrastrutture, di cui la Cina è disperatamente carente. La prima autostrada cinese è stata costruita a Shanghai solo nel 1989: un piano prevede la costruzione di 35.000 km in 25 anni. L’offerta nel trasporto aereo è enormemente inferiore alle necessità: sono in costruzione o in ristrutturazione centinaia di aeroporti. Nel 1993 il paese disponeva di soli 30 milioni di linee telefoniche e progettava di posarne 10 milioni per ogni anno fino al 2000. Modernizzazione della difesa Sul piano militare il breve conflitto con il Vietnam nel 1979 evidenzia i limiti dell’esercito di popolo cinese, male armato e incapace di effettuare azioni coordinate fuori dal proprio territorio. Vengono ridotte le forze convenzionali e potenziate quelle strategiche. Si costituiscono unità di reazione rapida. Il potere di comando e di controllo è affidato alla Commissione militare centrale. (Lao Wuguan, Perché non ci potete capire, in "Limes", n. 1/99, p. 8) Modernizzazione delle scienze Deng Xiaoping dice già nel 1977 (Rispettiamo il sapere scientifico, rispettiamo il personale qualificato): "la chiave per acquisire la modernizzazione è lo sviluppo della scienza e della tecnologia. [...] I discorsi vuoti non porteranno il nostro programma di modernizzazione da nessuna parte: dobbiamo acquisire il sapere scientifico e il personale qualificato [...] Ora sembra che la Cina sia indietro di almeno vent’anni rispetto ai paesi sviluppati per quanto riguarda la scienza, la tecnologia e l’istruzione." Uno sviluppo asimmetrico Durante gli anni Ottanta si ha una crescita economica annuale media del 10%. Lo sviluppo economico non è stato uniformemente distribuito ed ha accentuato i fortissimi squilibri nella produzione e nel reddito tra le aree del Paese. Il reddito medio della popolazione rurale è appena il 40% di quello della popolazione urbana e quello di un contadino del Gansu può essere addirittura cento volte inferiore a quello di un manager del Guangdong o del Fujian. In generale, lo sviluppo economico ha toccato più le regioni costiere rispetto a quelle interne, quelle meridionali rispetto alle settentrionali, le città rispetto alle campagne, nelle quali vive ancora oltre il 70% della popolazione. Le campagne in prossimità delle città hanno goduto di una rendita di posizione rispetto a quelle più lontane e non facilmente raggiungibili. Con ciò si sono create le premesse per le rivolte dei contadini dell’interno nei confronti delle zone costiere. Inoltre il quadro generale di sviluppo non ha coinvolto tutti. Il passaggio all'economia di mercato ha comportato anche l'aumento della disoccupazione e dell'inflazione e - per alcuni - la perdita dei servizi sociali in passato garantiti all'interno delle Comuni popolari e delle aziende di Stato. (tutto il materiale dell’opuscolo è stato tratto da Internet e liberamente da me rielaborato) 20