19Recensioni.qxp:Layout 1 16-12-2014 9:01 Pagina 383 383 Recensioni ai problemi globali. L’ottavo ha per titolo: “«Senso del luogo» e tensione universalistica: pluralismo morale e diritti umani”. A partire dall’acceso dibattito fra universalismo e contestualismo (che può modularsi in varie tipologie di relativismo), Walzer, come si è già accennato, ipotizza ciò che si può sintetizzare come un «universalismo reiterativo», e come una forma di «minimalismo morale». Dalla reiterabilità (a partire ancora una volta dal testo biblico, ma anche dalla riflessione filosofico-giuridica di H.L.A. Hart) prende forma l’idea di un “particolarismo dei diritti” che riformula l’importanza assegnata ai diritti umani e fondamentali. I diritti delle minoranze e la constatazione della globalità dell’odierno scenario rinviano – ma è solo un’anticipazione del capitolo seguente – alla problematica conciliazione fra logica contestualista e vocazione universalista. Anticipazione, s’è detto, poiché la (sia o meno presunta) tutela dei diritti ha anche aperto storicamente a interventi armati sorretti da teorie della guerra giusta, oggetto dell’ultimo capitolo dell’opera: “Dilemmi morali oltre il contesto: etica pratica e «guerra giusta»” (pp. 587-644). Anche questo aspetto, uno dei più controversi della produzione walzeriana, l’argomentazione cioè sulla “guerra giusta”, elaborata in Just and Unjust Wars (1977) e Arguing About War (2004), rinvia in definitiva a uno sfondo religioso: l’idea del bellum justum affonda, infatti, le proprie radici nella riflessione della filosofia cristiana medievale e moderna, da Tommaso d’Aquino alla scolastica spagnola di Suárez e Vitoria, ma anche nel pensiero ebraico, come attestato da Maimonide. Casadei cerca qui esplicitamente di mostrare alcune aporie delle elaborazioni walzeriane, fino a tratteggiare, specie con riguardo alle prese di posizione di Walzer a partire dagli anni Novanta, una sorta di «cortocircuito», ovvero una serie di «complicazioni o addirittura contraddi- zioni» (p. 591 s.), sul piano teorico e pratico, che portano Walzer ad andare contro anche al suo approccio pluralizzante. Le “Considerazioni conclusive” (pp. 645-656) forniscono, infine, un quadro sintetico dell’assai ampia trattazione e aprono ad alcuni possibili sviluppi in essa rimasti impliciti, restando «in movimento», sempre secondo il paradigma dell’esodo: in particolare, è la categoria di cittadinanza ad essere al centro dell’interesse, poiché in essa «si mescolano inestricabilmente l’aspetto ‘economicosociale’ e l’‘aspetto identitario’» (p. 649) e in essa appare quella modalità della politica che è sempre un processo, un movimento. E proprio con il movimento in avanti della politica si chiude il libro, richiamando ciò che al movimento sempre si accompagna, ovvero «la più antica tradizione», «quella della critica» (p. 656). Nella linea qui adottata, pare pertanto possibile leggere il volume anche come documentazione della rilevanza della sfera religiosa (e contemporaneamente della sua analisi critica) fin nel dettaglio della pratica politica, tanto nel senso dell’identità e dell’appartenenza quanto in quello del movimento inteso come mutamento. Ponderoso ma assai leggibile, preciso e documentato ma altrettanto capace di rilievi critici non marginali e, nel complesso, efficace nel restituire, in tutta la sua complessità, il profilo scientifico e culturale di Walzer, il volume è dedicato alla memoria di Anselmo Cassani, storico della filosofia e delle idee prematuramente scomparso il 3 maggio del 2001. Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932, Macerata, Quodlibet, 2013, 329 pp. di Alessandra Scotti Quando, una volta giunti alla lettera V dell’Abécédaire, Claire Parnet, sua allie- 19Recensioni.qxp:Layout 1 16-12-2014 9:01 384 va e amica, gli chiedeva perché odiasse così tanto viaggiare, Deleuze invocava a sua discolpa l’esistenza di una géo-philosophie, capace di provocare delle intensités immobiles. Sono paesi profondi, aggiungeva. Mai definizione fu più appropriata al libro di Caterina Zanfi, che viaggia, per l’appunto, tra quattro città simbolo della cultura filosofica tedesca di primo novecento: Jena, Berlino, Heidelberg e Gottinga. Al fine di verificare, «finalement qu’est-ce qu’on fait quand on voyage? On vérifie toujours quelque chose» [G. Deleuze, Abécédaire, «V» Voyage], quali sono i rapporti tra la filosofia bergsoniana e la filosofia tedesca, prima e dopo la Grande Guerra. Il ritratto che ne viene fuori, per ammissione della stessa autrice, è quello di «un Bergson meticcio, filtrato dalla tradizione filosofica della cultura ospitante e spesso frainteso in modo creativo» (p. 11). Si tratta, e qui ritroviamo uno degli spunti più innovativi del testo, di un confronto bidirezionale, teso non solo a rimarcare l’influenza della filosofia bergsoniana sul panorama tedesco, ma capace anche di cogliere un potente movimento di ritorno, cioè l’esistenza di una schietta influenza tedesca nell’evoluzione delle opere bersgoniane, soprattutto in quelle della maturità (e il riferimento è in special modo a Le due fonti della morale e della religione). Ma procediamo con ordine. L’ingresso di Bergson in Germania avviene a Jena attraverso pensatori come Scheler ed Eucken; è proprio quest’ultimo, assieme ai suoi allievi, a promuovere le idee bergsoniane incoraggiando la traduzione delle sue opere presso l’editore Diederichs. Zanfi nota come, anche attraverso precise scelte terminologiche che si avvicendano nel corso delle varie edizioni dell’opus bergsoniano, il francese personifichi l’antikant. La tematica dell’antikantismo è, senza alcun dubbio, un fil rouge che si dipana da Jena a Gottinga, e che caratterizzerà, con una certa Pagina 384 Recensioni generalità, la lettura tedesca dell’opera di Bergson. Ad esempio, la scelta lessicale operata da Steenbergen (primo traduttore insieme a Benrubi di Materia e Memoria) di rendere il francese intelligence con il tedesco Verstand, prevalentemente “ragione”, tradisce un filokantismo che non fu particolarmente apprezzato; tant’è che le due traduttrici de L’evoluzione creatrice e Introduzione alla metafisica (rispettivamente Gertrud Kantorowicz e Margarete Susman) vi preferiscono il termine Intellekt. Nonostante la svista lessicale, Steenbergen ha ben presente le differenze tra l’intuizione kantiana e quella bergsoniana; afferma infatti che in Bergson: «l’intuizione è più affine all’Anschauung, alla percezione, che al pensiero» (p. 54). Essa è descritta come un qualcosa di simile all’istinto, non a caso leggiamo in Introduzione alla metafisica: «chiamiamo qui intuizione quella simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che essa ha di unico e, per conseguenza, di inesprimibile» [H. Bergson, Pensiero e movimento, trad. it. a cura di F. Sforza, Milano, Bompiani, 2000, p. 151]. E ancora ne L’evoluzione creatrice che l’istinto consiste in «una simpatia (nel senso etimologico del termine)» [H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. it. a cura di F. Polidori, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 144], «un’intuizione vissuta più che rappresentata» [H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. it. a cura di F. Polidori, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 146]. Ad ogni modo la prima accoglienza di Bergson in Germania, nella fattispecie nel contesto jenese, ruota, come nota l’autrice, attorno a tre macrotematiche: «lo statuto della vita, in particolare rispetto allo spirito, la dottrina della conoscenza, nella sua originalità rispetto al positivismo e al kantismo, e infine il risvolto di tali presupposti teorici sulle questioni morali e religiose» (p. 63). A Berlino l’articolo di Gundolf, Die 19Recensioni.qxp:Layout 1 22-12-2014 9:11 Recensioni Philosophie Henri Bergsons, è esemplificativo di come la filosofia bergsoniana fosse stata recepita dal circolo poetico formatosi attorno alla figura di Stefan George. Due erano i caratteri peculiari di questa interpretazione: da un lato l’identificazione de l’expérience immediate con l’Erleben, dall’altro la messa in evidenza dell’aspetto creativo nell’opera di Bergson, riconoscendo fra la creatività dell’artista e quella della natura una qualche forma di analogia. Ora, sebbene Gundolf sia rappresentativo di un certo sentire comune alla Berlino filosofica di quegli anni, di assai maggiore interesse è il confronto con la filosofia simmeliana. Tra il 1908 e il 1914 Simmel e Bergson intrattengono un fertile dialogo intellettuale, con invii di lettere e di opere. Suddetto epistolario, all’indomani della morte di Simmel, andrà quasi interamente perduto, tuttavia la Zanfi, attraverso un mirabile lavoro di archivio, ci fa intravedere le profondità di questo scambio filosofico e le influenze reciproche. Invero, sulla base delle sottolineature nelle copie in possesso di Bergson, ritrovate nella sua biblioteca personale, e delle modifiche apportate da Simmel nelle diverse edizioni delle sue opere, è possibile ricostruire il probabile dialogo che intercorse fra loro. Anche in questo caso è l’antikantismo ad unirli; l’autrice ricorda le parole cocenti di Simmel che a proposito di Kant affermava: «che cosa ha fatto al mondo quest’uomo, spiegandolo come una rappresentazione!» (p. 98). Certamente, agli occhi di Simmel, Kant rappresenta «la più tipica forma dell’intellettualità logica ed impersonale sugli ambiti vitali del soggetto e sul residuo qualitativo e non razionale dell’Erlebnis» (p. 101). Alcune constatazioni simmeliane posseggono un’eco bergsoniana, ad esempio, quando ricorda che il processo temporale nella costituzione di ogni forma di conoscenza non è affar kantiano, o ancora, quando afferma che «a fonda- Pagina 385 385 mento dell’a-priori sta in agguato un segreto scetticismo nei riguardi della vita» (p. 103). È la vita, questa parola redentrice del ’900, che deve essere pensata, seguendo una scia che attraversa ’800 e ’900, passando per Goethe, Bergson, Weizsäcker, provando a rendere conto della «ritmica ancora misteriosa dell’organico» (ibid.), giungendo dritti dritti al paradosso di una filosofia della vita che è incapace di cogliere se stessa. Perché se ad accomunare Bergson e Simmel vi è il superamento dell’intellettualismo e l’attenzione alla vita, è vero anche che ad allontanarli è la mancanza, percepita da Simmel, del riconoscimento del destino tragico di ogni filosofia della vita. Bergson manca del tutto il conflitto tra la vita e la sua traduzione in forme, ogni cosa in lui sembra risolversi in un pacificato ottimismo. Non v’è la tensione, irrisolta e irrisolvibile, per cui «la vita è affetta da questa contraddizione: essa può trovare ricetto solo in forme, eppure non può trovare ricetto in forme, per cui oltrepassa ed infrange ogni forma prodotta» (p. 115). Allora la domanda da porsi è: che statuto attribuisce Bergson al negativo? Nel tentativo di rispondere a tale questione Jankélevitch, ad esempio, prova a far dialogare Simmel con Bergson, ravvisando anche in quest’ultimo un carattere conflittuale della vita che, al fine di realizzarsi, nell’evoluzione o nella nostra esperienza, deve prendere forma. La materia, rovescio della memoria, rappresenterebbe un ostacolo necessario ed ineliminabile. Sviluppando questa intuizione Jankélevitch scorgerà in Bergson «un’ambivalenza dialettica […] lo spirito, se vuole esprimersi, ha bisogno di segni che tuttavia lo smentiscono, e lo servono intralciandolo» (p. 132). In conclusione Jankélevitch non manca di notare, nel corpo filosofico bergsoniano, un’oscurità che era passata inosservata a Simmel e che influenzerà anche l’interpretazione merleau-pontiana della critica 19Recensioni.qxp:Layout 1 16-12-2014 9:01 Pagina 386 386 all’idea di nulla presente nel III capitolo de L’evoluzione creatrice, ripensando, così, i rapporti fra essere e nulla e formulando la sua concezione di “essere cavo” o gonfio di negatività presente soprattutto nell’incompiuto Il visibile e l’invisibile. Prima di passare in esame l’influenza che la prima guerra mondiale ebbe sui rapporti, più o meno intensi, che Bergson aveva intessuto con i suoi colleghi d’oltre Reno, occorre quantomeno ricordare l’influsso che la filosofia bergsoniana ebbe sul circolo di Gottinga. Nonostante i contatti con Husserl siano sporadici e superficiali, la scuola husserliana rappresenta l’humus filosofico di uno dei saggi più importanti dedicati a Bergson nell’anteguerra, ovvero Tentativi per una filosofia della vita di Max Scheler. Bergson ha contatti personali con il filosofo tedesco e possiede una copia del saggio, inoltre non bisogna dimenticare che fu proprio Scheler a sollecitare l’editore Diederichs a tradurre le opere del francese in tedesco. Nel suo articolo Scheler presenta Bergson come uno dei padri fondatori della filosofia della vita, accanto a Nietzsche e a Dilthey, facendo assurgere proprio il concetto di vita a categoria riassuntiva della sua filosofia. Ciò che Scheler apprezza in Bergson è che egli non si arresta a una critica dell’intelligenza, ma propone, altresì, una teoria dell’intuizione come accesso immediato alla vita, in grado di irretire lo schema abituale dell’azione caratterizzata da un’«incomprensione naturale alla vita» [H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. it. a cura di F. Polidori, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 138]. E tuttavia, secondo la ricostruzione di Scheler, Bergson opera un appiattimento della natura sulla psiche, presentandosi come uno psicologista e offrendo una versione assai problematica della mistica. In altri termini, secondo il giudizio di Scheler, il francese è incapace di separare la sfera psicologica da quella spirituale laddove, per Recensioni il filosofo di Monaco, Leben e Geist vanno ricondotti a due principi autonomi e opposti. Malgrado ciò, quando la Grande Guerra sarà foriera di ostilità non solo militari, Scheler sarà l’unico fra i filosofi tedeschi che, pur interrompendo i rapporti con Bergson, manterrà una posizione tutto sommato moderata nei suoi confronti. Cosa non facile dopo il discorso proclamato da Bergson all’Académie des Sciences morales et politiques l’8 agosto del 1914 e il suo incipit folgorante: «la lotta impegnata contro la Germania è la lotta della civiltà contro la barbarie» (p. 228). Attirandosi le critiche le più disparate, da le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann agli infelici epiteti attribuitagli da Mauthner «il prode piccolo sarto della moda filosofica» (p. 231) ed Hauptmann e il suo «filosofastro» (Ibidem). Nonostante Bergson si sia lasciato scappare «un’indicibile insulsaggine sul “cinismo e la barbarie” tedesche» (p. 232), Scheler è più propenso a comprendere che a indignarsi, invocando una repubblica, eterna e cosmopolita, di spiriti impegnati nella ricerca in vista di una causa comune che faccia loro da guida, ben al di là di ogni futile nazionalismo. Si tratta della medesima “comunità scientifica” a cui faceva appello Descartes, intriso di vocazione universalistica, alla fine del Discours, e a cui è bene sempre richiamarsi in filosofia, ora come allora, in tempi di guerra o di pace, vera o presunta che sia. Jean Hyppolite. Entre structure et existence, ed. par Giuseppe Bianco, Paris, Éditions Rue d’Ulm/Presses de l’École normal supérieure, 2013, 286 pp. di Andrea Angelini Il volume raccoglie una rivisitazione degli interventi presentati da insigni studiosi in occasione della “Journée Jean Hyp-