7. b) Chi era Verre Gaio Verre, nato nel 115 a.C. era di nobile famiglia, figlio di un senatore, ma privo di altri antenati illustri. Con l’aiuto del padre, dopo un’adolescenza non incline agli studi, ma ai piaceri, per protezione e brogli elettorali poté iniziare presto il cursus honorum, la carriera politica che diventò per lui una corsa ad accaparrarsi enormi ricchezze. Iniziò come questore nell’84 a.C. con la provincia della Gallia Cisalpina sotto il console Cn. Papirio Carbone nel momento in cui fervevano le discordie civili tra Mario e Silla. Egli era di parte aristocratica, seguace di Silla, mentre Carbone teneva per Mario. Delineatasi la vittoria di Silla, sbarcato a Brindisi di ritorno dall’oriente, Verre non esitò ad abbandonare, portando con sé il denaro che gli era stato affidato, il governatore e la provincia, sebbene, come dice Cicerone, fosse stato beneficiis omnibus ornatus dal suo console, e passò dalla parte di Silla che lo mandò a Benevento, dove poi gli concesse beni di proscritti. In seguito, alla resa dei conti, Verre dichiarò di aver lasciato la cassa a Rimini che era stata poi saccheggiata dalle truppe di Silla. Nell’80 a.C., nominato governatore della Cilicia Gneo Cornelio Dolabella, Verre riuscì farsi scegliere come legato e poi, quando il questore G. Malleolo fu ucciso in provincia, la sua carica fu affidata a Verre. Commise ruberie anche durante il viaggio, asportando statue ed oggetti preziosi; in Asia poi depredò la popolazione e fu protagonista di abusi di potere, prepotenze e crudeltà nei confronti dei suoi amministrati, tanto da suscitare tentativi di rivolta tra la popolazione. Fu sempre protetto da Dolabella, ma quando, nel 78, questo dovette rendere i conti del suo governo davanti al tribunale, Verre non esitò a presentarsi come testimone di accusa e Dolabella venne condannato. Per qualche anno si tenne lontano da Roma, ma quando tornò, comperando i voti , 1 riuscì ad essere eletto praetor urbanus per l’anno 74. Aveva così raggiunto la possibilità di disporre a suo piacere dei processi civili, in quanto il pretore urbano pubblicava un editto contenente le norme secondo cui avrebbe esercitato la sua giurisdizione. L’editto doveva adattare la antiche leggi alle nuove condizioni di vita, secondo i nuovi rapporti economici e sociali, con nuove norme, seguendo Roma nell’allargamento progressivo della sua sfera d’azione. Con Verre, influenzato dai suoi favoriti ed anche da una amante dal nome greco di Chelidone (rondinella), la giustizia civile divenne un mercato: egli pronunciò circa seicento ingiuste sentenze su questioni di eredità, possessi ereditari e appalti per la manutenzione degli edifici pubblici. Allora Verre era già sposato da parecchi anni con Vettia ed aveva una figlia sposata e un figlio molto giovane. L’anno seguente, nel 73, Verre, che aveva spudoratamente fatto mercato della giustizia a Roma, fu destinato dalla sorte a reggere la provincia di Sicilia. La Sicilia, terra celebrata per la sua ricchezza e fertilità, era ritenuta il più importante granaio (horreum) di Roma. Vi sorgevano molte fiorenti città adorne di splendidi edifici pubblici e privati ricchi di capolavori di arte greca; Verre vi si recò preparato a raccogliere la maggiore quantità di denaro possibile, circondato da gente della sua razza che aveva portato con sé e che attrasse attorno a sé dalla Sicilia. Per ironia della sorte fu impedito per due volte l’arrivo del suo successore e i poteri gli furono prorogati per due anni oltre il termine annuale imposto dalla legge, colmo di sventura per i siciliani. Cicerone tratta nella Actio II in Verrem le attività criminose del governatore: per estorcere denaro abusò della giurisdizione civile e penale e volse a suo profitto le leggi, fece mercato di uffici e sacerdozii, costrinse città a decretare a sé e al figlio monumenti e statue, i cui lavori, dati in appalto ai suoi fedeli, divenivano per lui altra fonte di guadagno. Fu rapacissimo nella riscossione delle varie forme di tributi senza proteggere gli interessi dei Romani, il decoro militare o la sicurezza della provincia, ma pensando solo a se stesso. Speculava sulle spese per il mantenimento delle navi e dei marinai, faceva mancare alla flotta il 2 numero delle navi assegnate, trattenendo per sé il denaro fornito dalle città della provincia, alimentava male e scarsamente i soldati della flotta, e affidò il comando di essa a Cleomene, marito di una sua amante, che fuggì all’apparire dei pirati lasciando cadere alcune delle navi in mano dei nemici. Verre riuscì anche a far ricadere la colpa del disastro sui capitani delle navi, che condannò a morte dopo averli indotti a dichiarare che le navi erano bene equipaggiate e provviste. Inflisse tormenti e supplizi anche agli stessi cittadini romani fatti percuotere con le verghe, o cacciati nelle Latomie, le cave di pietra di Siracusa, o uccisi in carcere. La Sicilia soddisfece anche i gusti artistici di Verre, affetto da una vera e propria cleptomania nei confronti delle opere d’arte di cui l’isola era fornitissima. Nella Actio II 4, De signis, par.1-2, Cicerone riassume così queste specie di ruberie, prima ancora di farne la minuta narrazione piena di notizie artistiche che per noi è preziosa: “Io sostengo che in tutta quanta la Sicilia, che è una provincia così ricca e di così antica costituzione, con tante città e tante famiglie che vivono nell’abbondanza, non vi era nessun vaso d’argento, nessun vaso di Corinto o di Delo, nessuna pietra preziosa o perla, nessun oggetto d’oro o d’avorio, nessuna statua di bronzo, di marmo o d’avorio; sostengo, ripeto, che non c’era nessun quadro e nessun arazzo, che il nostro imputato non abbia ricercato con cura, non abbia esaminato con attenzione e non abbia poi sottratto, nel caso fosse di suo gradimento. […] Voglio essere anche più esplicito: in tutta quanta la Sicilia costui non ha lasciato nulla in casa di nessuno, neppure in quella degli ospiti, nulla nei luoghi pubblici, neppure nei santuari, nulla che appartenesse ai Siciliani o a cittadini romani, in una parola nulla che cadesse sotto i suoi occhi o che risvegliasse la sua cupidigia, nulla di privato o di pubblico, nulla di profano o di sacro” (Traduzione Marinone) 3 Nel 72 Verre intentò un processo, per immaginaria falsificazione di atti pubblici, contro Stenio di Terme, che si opponeva alla spoliazione di alcune statue della sua città natale. Stenio si recò a Roma per chiedere la protezione del senato, il padre di Verre intercesse per lui, ma non servì a nulla, la sentenza fu implacabile e pronunciata in assenza dell’imputato; a Cicerone, per salvare Stenio, non rimase che intercedere presso i tribuni della plebe per la concessione del diritto d’asilo (cfr. Actio II 2, par. 83-118). Alla fine dei tre anni di quel nefasto governo, appena Verre rimise piede in Italia, si scatenarono le querele dei Siciliani che trovarono favore nel momento in cui era cominciata a Roma la reazione contro i nobili e la parte sillana di cui Verre era sostenitore. Tutte le città dell’isola concorsero ad accusare C. Verre de repetundis, tranne i siracusani, la cui città era residenza di Verre e i messinesi, che erano stati coinvolti nei furti del pretore. Gli altri siciliani scelsero come loro accusatore Cicerone, che era stato questore in Sicilia a Lilibeo nel 75 a.C., sotto il pretore Sesto Peduceo, e aveva adottato un comportamento soddisfacente sia nei confronti di Roma, che quell’anno aveva richiesto abbondanti approvvigionamenti di grano per far fronte ad una carestia, sia nei confronti degli amministrati, usando giustizia con i mercanti, generosità con i sudditi di Roma e umanità con gli alleati; si era quindi meritato la fiducia dei provinciali e, partendo, aveva promesso di prestare aiuto in qualunque necessità. Cicerone dice di aver accettato l’incarico di accusare Verre per dovere di avvocato (officio), lealtà alle promesse fatte (fide), e incoraggiato dai buoni esempi di altri cittadini e dal costume degli antenati. 4