MARCO TULLIO CICERONE Pagine digitali
La prima e l’ultima battaglia
La fulgida carriera oratoria di Cicerone può essere sintetizzata attraverso due vere e proprie battaglie – una combattuta sul piano giudiziario e l’altra su quello politico – che hanno segnato il
fulminante esordio di un giovane avvocato e la commovente lotta di un anziano senatore a difesa
di quella repubblica senatoria in cui credeva. Si tratta, ovviamente, del processo contro Verre e
della strenua opposizione ad Antonio.
Vediamo anzitutto il primo episodio.
Cicerone era già conosciuto come avvocato e aveva già intrapreso il cursus honorum (era stato questore in Sicilia nel 75 a.C.), quando gli fu offerto di sostenere l’accusa in un processo che si preannunciava come clamoroso: la causa de repetundis (per concussione) intentata contro Verre,
uomo potente, ricco e pericoloso, che era stato propretore in Sicilia dal 73 al 71. Egli si era comportato in maniera infame nei confronti dei provinciali, commettendo abusi e violenze d’ogni
sorta, impadronendosi illegalmente di un’immensa ricchezza.
Furono proprio i Siciliani a interpellare Cicerone, perché accettasse di essere il loro patrono.
Ottenuta la possibilità di effettuare un’inchiesta, egli si procurò una quantità di testimonianze e
materiale probatorio impressionante, suscitando il timore di Verre.
L’imputato cercò di far slittare il processo, ma quando giunse la data dell’udienza (il 5 agosto del
70) Cicerone sorprese tutti: invece della solita, lunga arringa di accusa, tenne un’orazione breve
e fulminante, che riassumeva gli elementi di imputazione per sommi capi, per passare subito all’interrogatorio dei testimoni.
La violenza e la rapidità dell’attacco scoraggiarono Verre, che scelse di partire subito per un esilio volontario. Pertanto risultò inutile la seconda, lunga orazione (strutturata in cinque libri),
che Cicerone comunque fece pubblicare.
Con questo inatteso successo si aprì la carriera forense e politica dell’arpinate, che poi trovò tragica conclusione nella lotta contro Antonio, dalla quale nacquero alcuni tra i suoi più forti e riusciti discorsi: in particolare la seconda tra le grandi orazioni composte contro Antonio.
Agli occhi dell’anziano Cicerone, nella confusa situazione successiva all’uccisione di Cesare, il feroce nemico politico aveva intenzione di imporre a Roma il disprezzo per la libertas repubblicana, che già era stato proprio del suo comandante supremo, e la più dura tirannia “cesariana”,
pur senza avere il carisma e le indubbie qualità di Cesare.
Cicerone scrisse la Philippica secunda nell’ottobre del 44 a.C., dopo un violento attacco subito in
senato da Antonio, che oramai vedeva in lui, e in ciò che rappresentava, uno degli ostacoli principali per la sua scalata al potere: aveva cercato così di smontare la sua figura di uomo e di politico, criticandone scelte di vita e operato pubblico. La risposta di Cicerone non fu recitata dall’oratore, ma venne da lui inviata al fidato amico ed editore Attico, affinché la diffondesse al
momento opportuno attraverso copie scritte. Il clima pericoloso che si respirava a Roma aveva indotto l’anziano uomo politico a questa mossa prudente; l’impostazione dell’orazione non perde
però il tono di una vivace risposta “a caldo”, come se Cicerone si trovasse nell’aula del senato di
fronte allo stesso Antonio.
Dentro questo ampio discorso (è la più lunga tra le Philippicae) si incontrano una passione politica degna degli anni giovanili, una struggente difesa del proprio operato e l’odio personale nei
confronti del nemico: il tutto fuso da una sapiente abilità espressiva, che alterna i toni solenni
dell’indignazione a quelli pungenti dell’ironia e del sarcasmo.
Già i lettori antichi consideravano quest’orazione uno dei capolavori di Cicerone: forse il discorso in cui egli più si avvicina all’infuocata passione politica del suo modello greco, Demostene, che a suo tempo aveva combattuto con le sue parole contro il tiranno conquistatore Filippo di Macedonia.
A. DIOTTI, S. DOSSI, F. SIGNORACCI, Res et fabula © SEI 2012
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TESTO
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Actio prima in Verrem, I-II
Actio secunda in Verrem, V, 28
Philippica secunda, 115-118
Philippica secunda, 118-119
TESTO 1
L’esordio dell’Actio prima in Verrem: affermazione
di un giovane avvocato Actio prima in Verrem, I-II
Dall’exordium della prima orazione emergono tutta l’abilità e la forza dell’oratoria giuridica ciceroniana. Per comprenderla appieno, però, bisogna tenere presente che si stava svolgendo in quei giorni
anche un forte contrasto di carattere politico-giuridico: Pompeo infatti voleva inserire tra i giudici
scelti per le cause di concussione (de pecunis repetundis, vedi anche l’Approfondimento “I processi
approfondimento
I processi a Roma
L’autorità giudiziaria a Roma era affidata al pretore, in due figure distinte: il praetor urbanus, incaricato
di giudicare le cause tra cittadini romani, e il praetor peregrinus, al quale venivano assegnate le cause tra
cittadini romani e stranieri (oppure tra stranieri).
Vi erano inoltre due tipi di giudizi (o processi): quelli privati, nei quali si definivano le controversie tra
privati cittadini (e in questi veniva concessa l’actio, cioè la facoltà di agire in giudizio, solo alle parti interessate) e quelli pubblici, in cui si giudicavano i reati pubblici, cioè i delitti in genere (e in questo caso
qualunque cittadino poteva intentare l’actio come pubblico accusatore). Inoltre le indagini, poiché non
c’era un vero e proprio servizio di polizia giudiziaria, erano affidate alla diligenza e all’abilità dei publici
accusatores (come fece, per esempio, Cicerone, recandosi in Sicilia a raccogliere prove contro Verre).
Mentre le questioni di diritto privato erano amministrate dai pretori urbanus e peregrinus, i processi penali
hanno avuto una lunga storia di cambiamenti: in un primo tempo vennero amministrati dai re, poi dai
consoli (ma con possibilità di appellarsi al popolo), infine dal popolo stesso, che delegava giudici speciali,
o quaesitores, che venivano cambiati per ogni processo (in pratica, non esistevano tribunali permanenti).
Quando la città si ingrandì e la sua vita divenne più varia e complessa, questo sistema si rivelò impraticabile, a causa del moltiplicarsi dei delitti. Pertanto, nel 149 a.C., vennero istituite delle corti di giustizia permanenti (quaestiones perpetuae), formate da un pretore, un presidente e alcuni giudici (quindi il
numero dei pretori crebbe, fino a un massimo di 12). Ai tempi di Cicerone queste corti permanenti –
ognuna delle quali si specializzava in un tipo particolare di reato – erano otto:
• de pecuniis repetundis (per i reati di concussione o estorsione),
• de sicariis et veneficiis (per l’omicidio) e de parricidio,
• de peculatu (per il furto di denaro pubblico),
• de ambitu (per i brogli elettorali),
• de maiestate (per i delitti di lesa maestà, di stato, di ribellione),
• de falso (per il falso in atto pubblico),
• de vi (per gli atti di violenza),
• de sodaliciis (per le associazioni illegali).
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a Roma”) i cavalieri oltre ai senatori, fino a quel momento unici responsabili dei tribunali; Cicerone
appoggia la proposta, pur non volendo scontentare troppo gli ottimati. Così si spiega l’ammonimento
ai giudici, che occupa il primo capitolo del discorso: ammonimento finalizzato anche a prevenire eventuali tentativi di corruzione da parte di Verre. Nel secondo capitolo inizia a essere tratteggiata a tinte
fosche la tracotanza dell’imputato.
(I) L’occasione che era soprattutto desiderabile, o giudici, l’occasione che più d’ogni altra serviva a
placare l’ostilità verso la vostra classe e il discredito dell’amministrazione giudiziaria sembra data e offerta a voi, in un momento critico per lo Stato, non per decisione umana ma quasi per volere divino.
Già da tempo infatti è invalsa questa opinione, dannosa per lo stato e pericolosa per voi, che si è diffusa
per i discorsi di tutti non solo fra il popolo romano ma anche fra le nazioni estere: con l’attuale amministrazione della giustizia un uomo danaroso, colpevole quanto si voglia, non può in nessun caso essere
condannato. Ora proprio al culmine della crisi per la vostra classe e per la vostra amministrazione giudiziaria, mentre sono pronti coloro che si accingono a inasprire l’ostilità verso il senato con adunanze
del popolo e proposte di legge, è stato sottoposto a processo Gaio Verre, un uomo che secondo l’opinione generale è già condannato per la sua vita e le sue azioni, ma secondo la sua personale fiducia e
le sue pubbliche asserzioni è assolto per la grande quantità del suo denaro. Io ho assunto questa causa,
giudici, con pieno consenso e vivissima attesa da parte del popolo romano, non per accrescere l’ostilità
Rimase sempre assegnato al giudizio dei comizi centuriati il gravissimo crimen perduellionis, il delitto di
alto tradimento. I giudici che componevano la corte appartenevano solo all’ordine senatorio, almeno
fino all’anno 122 a.C., quando Caio Gracco, attraverso la lex Sempronia, stabilì che la scelta dei giudici
fosse fatta esclusivamente dall’ordine equestre. Silla nell’81 restituì al solo senato la prerogativa di fornire i giudici, ma questa restaurazione durò poco, perché a partire dal 70 a.C. (lex Aurelia iudiciaria) i
giudici furono presi in parti uguali dai tre ordini: dai senatori, dai cavalieri e, in rappresentanza della
plebe, dai tribuni aerarii (ufficiali pagatori, che dovevano avere un ceto di almeno 300 000 sesterzi: non
erano quindi propriamente plebei, ma una sorta di gruppo intermedio tra cavalieri e plebei).
Il processo penale si svolgeva in questo modo: un cittadino di pieni diritti presentava un’accusa scritta
e, da quel momento, diventava pubblico ministero, con poteri di indagine; l’imputato (al quale venivano limitati alcuni diritti), nominava un collegio di difensori (patroni). Una volta insediata la corte
(l’accusa, e solo in parte la difesa, avevano la possibilità di ricusare giudici non graditi), si ascoltava
l’oratio dell’accusa, quindi quella della difesa; seguiva l’interrogatorio dei testimoni e l’esame delle
prove, con relativo dibattito. Alla fine i giudici segnavano la loro sentenza su tavolette (tabellae). I simboli che potevano essere scritti sulle tavolette erano tre:
C = condemno,
A = absolvo,
NL = non liquet, cioè «non è chiaro» (si richiedeva così un supplemento d’indagine).
In caso di colpevolezza (decisa dalla maggioranza più uno dei giudici), si decideva la pena, che diveniva
subito esecutiva (non esisteva appello).
La pena poteva essere una semplice multa pecuniaria (damnum), oppure vincula (carcere in ceppi o catene), o verbera (frustate per i soldati, vergate per i delinquenti prima dell’esecuzione, flagellazione per
gli schiavi); vi era poi talio (pena del taglione, equivalente all’offesa), ignominia (nota d’infamia inflitta
dal censore), exsilium (l’esilio, che aveva come conseguenza la mors civilis) e infine l’extremum supplicium, o pena capitale. In epoca repubblicana la pena capitale inferta a uomini liberi era per lo più sostituita dall’esilio (definito con la frase eufemistica interdictio aqua et igni): il condannato non poteva dimorare a meno di 600 chilometri da Roma.
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verso una classe sociale ma per porre rimedio al discredito generale. Infatti ho portato in tribunale un
uomo che vi desse la possibilità di ristabilire nell’amministrazione giudiziaria la stima perduta, di riconquistare il favore del popolo romano, di dare soddisfazione alle nazioni straniere, un uomo che è
stato dilapidatore del denaro pubblico, persecutore dell’Asia e della Panfilia, 1 pirata della giustizia
nelle cause fra cittadini, 2 rovina e flagello della provincia di Sicilia. 3 Se voi lo giudicherete con imparzialità e scrupolo coscienzioso, resterà salda l’autorità che deve rimanere in voi; se invece le enormi ricchezze di costui infrangeranno lo scrupolo coscienzioso e l’imparzialità dei processi, io raggiungerò
pur sempre questo scopo: risulterà che è venuto a mancare un processo allo Stato piuttosto che un imputato ai giudici o un accusatore all’imputato.
(II) Vi farò una confessione, giudici. Gaio Verre, è vero, mi ha teso molti agguati per terra e per mare: li
ho respinti in parte con la mia attenzione, in parte per interessamento devoto e cortese di amici. Tuttavia
non mi è mai sembrato di affrontare un rischio così grave e non sono mai stato tanto spaventato come ora
al momento del processo. E non mi impressiona tanto l’aspettazione per la mia accusa e l’affluenza di sì
grande folla (circostanze che mi rendono nervoso) quanto le scellerate insidie di costui, che egli tenta di
mettere in atto contemporaneamente contro di me, contro di voi, contro il pretore Manio Acilio Glabrione, 4 contro gli alleati, contro le nazioni estere, contro la classe senatoriale, contro il prestigio stesso
del senato. Egli infatti va ripetendo queste dichiarazioni: avrebbe da temere chi avesse sottratto quanto bastava a lui solo, ma lui ha rubato tanto che può bastare a molti; non esiste probità così integra che il denaro non possa travolgere, non esiste luogo tanto fortificato che esso non possa espugnare. 5 Se fosse
tanto riservato nell’azione quanto è audace nelle sue iniziative, forse una volta o l’altra sarebbe riuscito a
farci cadere in qualche inganno. Ma finora è stata una vera fortuna che una singolare stoltezza sia congiunta alla sua incredibile audacia; infatti, come fu sfacciato ad arraffare denaro, così rese evidenti a tutti
i suoi propositi e i suoi tentativi nella speranza di corrompere il processo. Dice di aver avuto paura una
sola volta in vita sua: appena fu da me formalmente accusato, perché incontrava in quel momento una situazione sfavorevole a corrompere il processo: era rientrato di recente dalla provincia, e l’odio e la cattiva
reputazione che lo scottavano non erano recenti ma di vecchia data e di lunga durata.
(trad. di L. Fiocchi - N. Marinone)
1. Era stato in queste province come coadiutore del governatore G.C. Dolabella nell’80 a.C.
2. Era stato pretore urbano nel 74 a.C.
3. Era stato governatore della provincia di Sicilia nel 7371 a.C.
4.
Si tratta del presidente del tribunale.
5. Allusione al famoso detto di Filippo il Macedone «tutte
le fortezze possono essere prese, purché a esse possa
salire un asinello carico d’oro».
TESTO 2
Un generale... da banchetto!
Actio secunda in Verrem, V, 28
Lo sterminato materiale che Cicerone raccolse nella sua inchiesta siciliana su Verre fu pubblicato in
un secondo tempo dal giovane avvocato (Actio secunda in C. Verrem, in cinque libri), perché l’imputato
preferì l’esilio volontario dopo il primo discorso d’accusa. Pagine di grande efficacia narrativa ritraggono il governatore e i suoi collaboratori in modo tale da suscitare il disprezzo dei giudici romani,
come avviene nel brano seguente, tratto dal libro V (De supliciis) della seconda orazione, dove Verre
è ritratto come un generale (imperator) dedito solamente alla lussuria e alla gozzoviglia: Cicerone arriva a descrivere i banchetti stessi come un campo di battaglia, e gli ubriachi stramazzati al suolo
come i soldati caduti in combattimento, in un procedimento che, dall’ironia iniziale, passa al vero e
proprio sarcasmo.
Quo loco non mihi praetermittenda uidetur praeclari imperatoris egregia ac singularis diligentia. Nam scitote oppidum esse in Sicilia nullum ex iis oppidis in quibus consistere
praetores et conventum agere soleant, quo in oppido non isti ex aliqua familia non ignobili delecta ad libidinem mulier esset. Itaque non nullae ex eo numero in convivium adhiA. DIOTTI, S. DOSSI, F. SIGNORACCI, Res et fabula © SEI 2012
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bebantur palam; si quae castiores erant, ad tempus veniebant, lucem conventumque vitabant. Erant autem convivia non illo silentio populi Romani praetorum atque imperatorum
neque eo pudore qui in magistratuum conviviis versari soleat, sed cum maximo clamore
atque convicio; non numquam etiam res ad pugnam atque ad manus vocabatur. Iste enim
praetor severus ac diligens, qui populi Romani legibus numquam paruisset, illis legibus
quae in poculis ponebantur diligenter obtemperabat. Itaque erant exitus eius modi ut alius
inter manus e convivio tamquam e proelio auferretur, alius tamquam occisus relinqueretur, plerique ut fusi sine mente ac sine ullo sensu iacerent, ut quivis, cum aspexisset, non se
praetoris convivium, sed Cannensem pugnam nequitiae videre arbitraretur.
E a questo punto non mi sembra giusto sottacere la nobile e originale attività di questo brillante generale. Sappiate dunque che in Sicilia non c’è nessuna città, fra quelle dove i governatori abitualmente si
fermano e tengono le sessioni giudiziarie, nella quale non si scegliesse una donna appartenente a famiglia non certo d’infimo rango per darla in pasto alla sua lussuria. Si procedeva così: alcune di esse erano
invitate pubblicamente a banchetto, invece quelle più riservate, se c’erano, arrivavano a ore particolari
per evitare la luce del giorno e le compagnie numerose. I banchetti inoltre non rispettavano quel silenzio che è conforme alla dignità di un governatore e di un generale del popolo romano e neppure quella
decenza che solitamente regna nei conviti dei magistrati, ma si svolgevano nel clamore più assordante e
fra gli schiamazzi più scomposti; talora la situazione degenerava in una rissa e si veniva addirittura alle
mani. Infatti questo governatore severo e scrupoloso, che non si era mai sognato di obbedire alle leggi
del popolo romano, ottemperava meticolosamente alle leggi che si stabilivano nel bere. 1 Ecco dunque
come andavano a finire queste manovre: uno veniva portato via a braccia dalla sala del convito come dal
teatro di una battaglia, un altro veniva lasciato lì come uno caduto sul campo, i più giacevano qua e là
lunghi distesi al suolo fuori di testa e privi di sensi, che se uno mai li avesse visti avrebbe creduto di assistere non al banchetto di un governatore, ma alla battaglia di Canne della depravazione. 2
(trad. di L. Fiocchi - N. Marinone)
1. Cicerone allude all’usanza greca, introdotta anche presso
i Romani, di scegliere un magister convivii, che decideva l’ordine e la misura delle bevande, dava o no la parola ai commensali, puniva chi non si atteneva alle leggi del banchetto.
2. La battaglia di Canne era stata una delle più pesanti
sconfitte romane.
DENTRO IL TESTO Actio secunda in Verrem, V, 28
Leggere il testo
1 Il governatore romano della Sicilia viene qui ritratto
in una sua «nobile e originale attività» (egregia ac
singularis diligentia): di quale attività si tratta?
b Ti sembra che tali immagini formino un crescendo (una sorta di climax)?
c Con quale immagine termina la descrizione? Ti
sembra questo il paragone più forte e provocatorio? Per quale motivo?
Riflettere sul testo
Individuare nodi problematici
2 Il termine imperator, impiegato da Cicerone al-
4 Nel testo emerge un forte contrasto tra il com-
l’inizio del capitolo, permette di descrivere il banchetto di Verre come una vera e propria battaglia:
individua le immagini che collegano i due ambiti.
3 La descrizione contenuta nel capitolo è ironica.
a Quali sono i passaggi dove più scopertamente
emerge l’impiego di questo espediente retorico?
portamento basso e brutale di Verre e quello che
dovrebbe essere l’atteggiamento di un alto funzionario romano: quali sono gli elementi che dovrebbero accompagnare la sua dignità (e che qui
emergono per contrasto)?
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TESTO 3
Dalle Philippicae: Antonio
si guardi dall’imitare Cesare
Philippica secunda, 115-118
In un primo tempo l’azione politica di Antonio era sembrata andare verso una restaurazione delle
magistrature repubblicane, con l’abolizione della dittatura assunta perpetuamente da Cesare. Ben
presto tuttavia egli si è rivelato per ciò che è in realtà: un volgare imitatore del suo generale, senza
averne le indubbie qualità. Pertanto, se non riusciranno gli avversari (com’è accaduto per Cesare),
saranno i suoi stessi amici a eliminare Antonio. Con questo capitolo, che è il penultimo dell’orazione, Cicerone dà inizio alla peroratio conclusiva. Il tono si fa alto, solenne, anche nel confronto
che viene accennato tra la figura di Antonio e il precedente grande avversario, Cesare: di quest’ultimo Cicerone traccia un ritratto politico che sembra quasi un bilancio, complessivamente negativo,
ma anche segnato da elementi di grandezza che egli non è disposto a riconoscere al suo attuale
nemico.
(115) Ricordati dunque, Antonio, di quel giorno nel quale abolisti la dittatura; fa passare davanti ai
tuoi occhi la gioia del senato e del popolo romano; mettila a confronto con questo scandaloso mercato fatto da te e dai tuoi: allora sì che potrai capire che abisso separa il lucro dalla vera gloria. Ma
proprio come taluni, per effetto di qualche malattia e per l’ottundersi della sensibilità, non percepiscono più il sapore gradevole del cibo, così i dissoluti, gli avidi e gli scellerati non sono più in grado
di gustare la vera gloria. Se però l’attrattiva della gloria non riesce più a portarti sulla via della virtù,
nemmeno il timore è in grado di distoglierti da una condotta tanto disonorevole? Della giustizia non
hai paura: se dipende dal fatto che hai la coscienza di non aver fatto nulla di male, me ne compiaccio; se invece dalla fiducia che hai nella violenza, non riesci a capire gli inevitabili gravi timori di chi
non teme la giustizia per codeste tue ragioni. (116) Se poi non hai paura delle persone piene di coraggio e dei cittadini di nobile sentire perché ci pensano le armi a tenerli lontani dalla tua persona,
saranno i tuoi accoliti, credimi, a non sopportarti più per molto. D’altra parte, che razza di vita è
quella di chi vive notte e giorno nel timore dei propri seguaci? A meno che tu non li tenga legati a te
con benefici maggiori di quelli con cui Cesare tenne legati a sé alcuni dei tirannicidi, oppure tu possa
sotto qualche aspetto reggere il confronto con Cesare. Questi aveva genio, acutezza di giudizio, memoria, cultura, assidua applicazione, capacità di riflessione, attività instancabile; aveva condotto delle
operazioni di guerra che, per quanto funeste al nostro paese, furono tuttavia gloriose; da molti anni
aveva concepito il disegno di diventare il signore dello stato e, a prezzo di grandi fatiche e grandi pericoli, aveva portato a compimento il suo proposito; lusingandola con giochi, monumenti, elargizioni
e banchetti si era guadagnata la massa ignorante; i suoi se li era avvinti con le ricompense, gli avversari con la sua clemenza, che era tutta apparente. In conclusione, facendo leva ora sulla paura ora
sulla rassegnazione, era riuscito a introdurre in un libero stato repubblicano l’abitudine a servire.
(117) Con lui io potrei metterti a confronto per la sfrenata cupidigia di potere, ma per il resto nessun
confronto sarebbe possibile. Ma dai moltissimi malanni che Cesare impresse indelebilmente nell’ordinamento repubblicano, è scaturito perlomeno questo vantaggio: il popolo romano sa ormai quanta
fiducia può accordare a ciascuno, a chi può affidarsi, da chi deve guardarsi. Non pensi a tutto questo?
Non capisci che per chi è pieno di coraggio è sufficiente aver appreso che l’uccisione di un tiranno
è un’azione nobile di per se stessa, degna di riconoscenza per il bene che arreca, gloriosa per la rinomanza che procura? O forse, mentre quello non l’hanno sopportato, te ti sopporteranno? (118)
D’ora in poi, credimi, si farà a gara nel correre a compiere una simile impresa, e non si starà ad attendere l’occasione, che potrebbe pure tardare.
(trad. di G. Bellardi)
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TESTO 4
Dalle Philippicae:
l’orgoglio di Cicerone
Philippica secunda, 118-119
Cicerone chiude l’orazione con un’ultima inutile invocazione ad Antonio perché si riconcili con la repubblica: ma è l’occasione per introdurre una pagina di orgogliosa affermazione del valore del proprio
operato, di una vita spesa per lo stato, per il popolo romano e la sua libertà. L’oratore sembra qui
presagire il destino che incombe su di lui, le sue parole si fanno nello stesso tempo solenni e struggenti, a formare una sorta di ideale testamento della propria vita pubblica.
(118) Respice, quaeso, aliquando rem publicam, M. Antoni, quibus ortus sis, non quibuscum vivas considera; mecum, ut voles, redi cum re publica in gratiam. Sed de te tu videris; ego de me ipse profitebor: defendi rem publicam adulescens, non deseram senex;
contempsi Catilinae gladios, non pertimescam tuos. (119) Quim etiam corpus libenter
obtulerim, si repraesentari morte mea libertas civitatis potest, ut aliquando dolor populi
Romani pariat quod iam diu parturit. Etenim si abhinc annos prope viginti hoc ipso in
templo negavi posse mortem immaturam esse consulari, quanto verius nunc negabo
seni. Mihi vero, patres conscripti, iam etiam optanda mors est, perfuncto rebus iis quas
adeptus sum quasque gessi. Duo modo haec opto, unum ut moriens populum Romanum liberum relinquam – hoc mihi maius ab dis immortalibus dari nihil potest –, alterum ut ita cuique eveniat ut de re publica quisque mereatur.
(118) Ti prego, Antonio, rivolgi una buona volta i tuoi occhi al nostro stato, tieni conto della nobiltà
dei tuoi avi, non della gentaglia che ti circonda; con me compòrtati pure a tuo piacimento, ma riconcìliati con la repubblica. Ad ogni modo, per quanto riguarda te, è a te che spetta la decisione; per
parte mia, ecco spontaneamente la mia pubblica dichiarazione: io che ho difeso la repubblica da giovane, non l’abbandonerò da vecchio; io che ho disprezzato le armi di Catilina, non mi lascerò atterrire dalle tue. (119) Anzi offrirei volentieri la vita, se il mio sacrificio può ridonare subito la libertà
allo stato, sicché una buona volta il popolo romano, così pieno di risentimento, esploda in quella
vendetta che già da tanto tempo porta in seno. E se all’incirca vent’anni fa in questo stesso tempio io
dichiarai che la morte non può mai giungere troppo tardi per chi ha raggiunto la dignità di console,
quanto più valida sarà adesso tale mia dichiarazione, riferita com’è a un vecchio. E veramente, senatori, ormai la morte io dovrei addirittura desiderarla, in considerazione di tutti gli onori che ho conseguiti e di tutte le opere che ho compiute. In fondo i miei desideri sono ormai due soltanto: il primo
è quello di lasciare, morendo, il popolo romano libero – il dono più grande che gli dèi possano
farmi! –; il secondo è che ciascuno abbia una sorte corrispondente alle sue benemerenze verso il nostro paese!
(trad. di G. Bellardi)
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RIEPILOGO DEL PERCORSO
1 Il processo contro Verre è un’occasione importante offerta al giovane avvocato di Arpino per mettersi
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in luce nel foro di Roma, ma presenta anche notevoli rischi.
a Riassumi brevemente i termini della causa.
b Che cosa si intende per processo de pecuniis repetundis?
Cicerone struttura la sua accusa in due grandi orazioni precedute da una divinatio.
a Che cos’è la divinatio e quale scopo ha?
b Quali sono le principali differenze tra l’Actio prima e l’Actio secunda in Verrem?
c Perché si può affermare che l’Actio prima è una mossa a sorpresa che spiazza l’accusato?
Quale immagine dell’accusato esce nel ritratto a tinte forti dipinto da Cicerone nel secondo testo proposto (tratto dall’Actio secunda)?
L’avvocato impiega, nella sua requisitoria contro Verre, strumenti retorici particolari: quali? Individua
qualche esempio.
La Philippica secunda rappresenta, per più di un motivo, un’orazione particolare entro l’ultima produzione ciceroniana.
a In quale occasione contingente fu scritta?
b Attraverso quali canali è stato diffuso questo “discorso non pronunciato”?
c Per quale motivo ebbe un iter così particolare?
In generale, quali furono i motivi che spinsero Cicerone ad attaccare Antonio? Quale pericolo individuava l’anziano oratore nell’ex ufficiale di Cesare?
Nella peroratio (che occupa i due brani proposti T3 e T4) viene tracciato un paragone fra Antonio e Cesare.
a Quali sono i meriti che Cicerone riconosce a Cesare e quali i gravi limiti?
b Sotto quale aspetto Antonio è simile a Cesare? Dove risiedono invece le differenze tra i due?
Temi affrontati nei brani conclusivi dell’orazione sono quelli topici della tirannia e della libertas: come
vengono sviluppati in questo passaggio da Cicerone?
In quali termini, invece, l’ex console riflette sul tema della morte, che percepisce come incombente su
di sé?
Leggendo a posteriori queste parole, perché si può affermare che con Cicerone muore anche la repubblica?
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