Statine: una pillola per ogni stagione

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Statine: una pillola per ogni stagione?
A cura di Francesca Fozzato e Gabriele Pesarini
Introduzione
Prof. C. Vassanelli
La dislipidemia risulta essere al secondo posto tra i fattori di rischio cardiovascolari in un campione
estratto dalla popolazione della ASL 20 di Verona. Nello studio INTERHEART il rapporto
ApoB/ApoA è addirittura al primo posto per il rischio di IMA. E’ ormai dimostrato come la
riduzione dell’ipercolesterolemia sia legata ad una diminuzione degli eventi cardiovascolari e della
mortalità. I farmaci ipolipemizzanti che inibiscono l’enzima che sintetizza il colesterolo, ovvero le
statine, hanno dunque un ruolo centrale nella terapia delle coronaropatie, ma non bisogna peraltro
dimenticare i loro effetti ancillari.
L’importanza di questi farmaci sta crescendo sia per l’aumento delle prescrizioni che per l’aumento
dei costi. Molti sono quindi i motivi per meglio definire pregi e svantaggi di questi farmaci.
Lettura: “Un argomento molto... scivoloso: Lipoproteine & Co.”
Dssa. M. Stella Graziani
Solo 10 anni fa era noto quanto fosse difficile interessare i clinici, e in particolare i Cardiologi, ai
lipidi. Oggi il compito non si propone meno arduo.
Metabolismo
La via metabolica del colesterolo è triplice: una via esogena, grazie alla quale i grassi alimentari
vengono assorbiti nell’intestino, vengono trasformati in chilomicroni e, grazie all’intervento della
lipoproteinlipasi, vengono ridotti a remnants, captati poi dal fegato.
Una via endogena che comprende la sintesi epatica di VLDL, precursori delle IDL e delle LDL:
tutte queste molecole sono caratterizzate dalla presenza della ApoB100.
Infine, la terza via costituisce il trasporto inverso del colesterolo dalla periferia al fegato, ad opera
delle HDL.
Aterogenicità delle LDL
L’ossidazione e la glicazione delle LDL non permette loro di venire riconosciute dal loro specifico
recettore, bensì sono captate dal recettore scavenger di cellule che, dopo averle fagocitate, si
trasformano nelle tipiche foam cells. Si sta ponendo molta attenzione anche alla Lp(a), marcata
dall’ApoB e dalla componente proteica (a), che è una LDL molto assomigliante al plasminogeno,
per cui si pensa che possa svolgere un ruolo di competizione con esso, finendo per avere quindi
un’azione protrombotica. Ma questa molecola deve ancora essere approfonditamente studiata.
Un catabolismo efficiente produce HDL mature, che sono anti-infiammatorie ed hanno un effetto
protettivo sull’endotelio. Se invece il catabolismo non avviene in modo efficace, si può presentare
una condizione a rischio, ovvero l’Insulino-Resistenza: bassi livelli di HDL, elevati livelli di TG e
di small dense LDL.
Non dimentichiamo però che anche le VLDL possono essere aterogene, pertanto è stato proposto di
misurare il totale delle molecole che esprimono l’ApoB, e non solo le LDL.
Indicazioni per la richiesta
Secondo le Linee Guida dell’ATP III e quelle europee, la richiesta dovrebbe riguardare non solo il
livello ematico delle LDL, bensì l’intero profilo lipidico: infatti, non sempre le LDL sono misurate
con metodo diretto; è utile inoltre conoscere le HDL, in quanto sono tra i principali fattori di rischio
cardiovascolari, e il colesterolo totale, compreso nelle carte del rischio; le HDL e i trigliceridi,
inoltre, entrano nella definizione di sindrome metabolica; si può avere, infine, la necessità di
identificare dislipidemie diverse dall’ipercolesterolemia.
I cosiddetti fattori di rischio emergenti sono i trigliceridi, le apolipoproteine A1 e B, la Proteina C
Reattiva e la Lp(a).
Secondo alcuni studi, l’accuratezza diagnostica del rapporto ApoB/ApoA1 sarebbe maggiore
rispetto al dosaggio delle sole LDL, altri studi hanno suggerito una loro sostanziale equivalenza. Per
ora la misurazione di ApoB/ApoA1 presenta un livello di evidenza B: è da prendere in
considerazione nei soggetti con colesterolemia normale e ApoB elevata (situazione in cui si hanno
elevati livelli di small dense LDL).
Questa misurazione viene invece consigliata nei pazienti con trigliceridemia elevata (livello di
evidenza A).
Per quanto riguarda la Lp(a), è un fattore di rischio indipendente nelle ipercolesterolemie familiari,
ma vi sono numerose problematiche concernenti la sua misurazione; le è stato assegnato un livello
di evidenza B per la mancanza al momento attuale di studi di outcome. Viene consigliata la sua
determinazione nel caso in cui il paziente abbia un elevato rischio cardiovascolare con una
colesterolemia borderline o elevate ApoB.
Ruolo dell’infiammazione
L’infiammazione ha un ruolo centrale nelle prime fasi di formazione e nella destabilizzazione della
placca. La Proteina C Reattiva (PCR) è il prototipo del marcatore/mediatore della flogosi. Non
dovrebbe esse misurato come screening nella popolazione generale, ma è sicuramente utile la sua
determinazione in caso di rischio intermedio (10-20%) in prevenzione primaria perché potrebbe
indirizzare ad un trattamento più aggressivo.
Affidabilità dei risultati
Qualunque test diagnostico deve avere fondamenti importanti di affidabilità tecnica: basta pensare a
quante decisioni si devono prendere basandosi su numeri che devono essere affidabili. Questo
risultato si raggiunge in strutture accreditate, che sono sottoposte continuamente a controlli-qualità
sia interna che esterna.
Per quanto riguarda il profilo lipidico, è elevata l’affidabilità della determinazione dei valori ematici
di Colesterolo Totale, LDL, HDL e trigliceridi; molto buona quella della PCR, buona quella
dell’ApoB e dell’ApoA, mentre risulta ancora scarsa l’affidabilità della misurazione della Lp(a) e
non affidabile quella delle small dense LDL e delle molecole di adesione.
In conclusione, l’interesse e la conoscenza del ruolo dei lipidi nell’aterogenesi non solo sono
desiderabili, ma mandatori.
“L’evoluzione degli inibitori della HMG-CoA reduttasi”
Prof. E. Manzato
Si deve a M.E. Chevreul nel 1816 la paternità del termine “colesterolo”, sostanza non saponificabile
estratta dai calcoli biliari.
Bisogna arrivare però al 1960 per capire che l’enzima idrossimetilglutarilCoenzimaA reduttasi
(HMG-CoA reduttasi) fosse il sito di sintesi del colesterolo endogeno.
Brevemente, dall’acetilCoA (proveniente dal metabolismo di carboidrati, proteine e grassi) si
giunge all’acido mevalonico, da cui si ottiene lo squalene (composto ancora lineare) e poi il
ciclopentanoperidrofenantrene (composto ciclico), precursore del colesterolo. Impedire la sintesi del
colesterolo non è stato facile: inibitori come il triparanolo erano sì efficaci, ma anche estremamente
dannosi (atrofia epatica giallo acuta).
Solo negli anni ’70 un Giapponese, Akira Endo, riuscì ad isolare una sostanza, la mevastatina, dal
brodo di coltura di un fungo, il Penicillium, sostanza risultata essere in grado di inibire
selettivamente la HMG-CoA reduttasi. Nel 1978 la sperimentazione passò dall’animale all’uomo e
nel 1980 iniziò la storia delle statine. Un’altra Casa Farmaceutica isolò la monacolina dal fungo
Monascus ruber, ma si dimostrò successivamente che mevastatina e monacolina non erano che la
stessa molecola. Nel 1987 la FDA approvò l’uso clinico delle statine.
Sono pertanto farmaci giovani, caratterizzati da un’elevata specificità e selettività per l’inibizione
dell’enzima: una parte della loro struttura, infatti, ha un’altissima analogia con il substrato naturale
dell’enzima, ossia l’HMG-CoA; tra le varie molecole che sono poi state sintetizzate, ciò che cambia
è il resto della struttura, che permette loro una diversa via di metabolizzazione e quindi una diversa
emivita. Nel 1984 si diceva che le resine potessero ridurre l’infarto del miocardio. Solo 10 anni
dopo si affermava che le statine potessero fare lo stesso.
Ora siamo alle metanalisi.
Le statine sanno ridurre il colesterolo. Questa non è una domanda, bensì un’affermazione.
Sanno fare qualcos’altro? Forse è il colesterolo a saper fare qualcos’altro.
Se le statine sappiano fare qualcos’altro rimane una domanda.
“L’effetto anti-aterogeno delle statine: una storia senza limite (inferiore)?”
D.ssa L. Zanolla
Secondo dati recenti, la dislipidemia spiegherebbe il 54,1% del rischio cardiovascolare della
popolazione. Sappiamo che la riduzione della colesterolemia di 30mg/dl abbassa il rischio
coronarico del 30%.
Nelle linee-guida si leggono valori-soglia proposti sempre più bassi: sembra non esista un limite
inferiore!
Il problema sta nel portare il paziente a raggiungere effettivamente questi limiti.
Innanzitutto è essenziale il cambiamento dello stile di vita: il motto “move a little more, eat a little
less” è tuttora validissimo. Si è calcolato che per ridurre drasticamente la colesterolemia
bisognerebbe dimezzare l’apporto dei grassi saturi alimentari, cosa non semplice. La soluzione più
facile è dunque ricorrere al farmaco.
Dalla metanalisi pubblicata su Lancet recentemente si legge che le statine riducono gli eventi
coronarici, la morte per coronaropatia e per tutte le cause. Ed è considerevole il numero di eventi
prevenuti ogni 1000 pazienti in 5 anni.
E’ emersa quindi la teoria del “lower is better”, ovvero un modello lineare della riduzione della
colesterolemia.
Da studi di confronto si è osservato che con l’abbassamento più aggressivo si ha il migliore risultato
angiografico, considerato come endpoint surrogato.
Da studi per eventi in prevenzione primaria la regressione lineare fissa a 55mg/dl risulta il valore
più desiderabile per la colesterolemia. Se poi consideriamo una regressione da studi di prevenzione
secondaria, lo 0% di eventi coronarici si avrebbe per una colesterolemia di 30mg/dl!
Da uno studio di confronto diretto tra la terapia con pravastatina 40mg/die e atorvastatina 80mg/die,
con il trattamento più aggressivo si ottiene un abbassamento significativo della colesterolemia a cui
corrisponde una differenza statisticamente significativa nella riduzione degli eventi.
Inoltre il beneficio è relativamente indipendente dai valori plasmatici di partenza di LDL.
Confrontando poi dosi diverse della stessa molecola (studio TNT) in pazienti con rischio minore,
l’abbassamento del livello plasmatico di LDL correlava con la riduzione significativa degli eventi
coronarici.
Nell’IDEAL, invece, confrontando pazienti a rischio basso, non c’era una differenza significativa
tra il trattamento con atorvastatina 80mg e quello con simvastatina 40mg, pur non smentendo
l’ipotesi che tanto più in basso si vada, minore sembra essere il rischio.
Sembra si possa concordare che nei pazienti ad altissimo rischio il valore limite da ricercare sia una
colesterolemia di 70mg/dl.
Ricordiamo comunque che oltre alle statine esistono anche altri farmaci ipolipemizzanti, anche
nuovi, come l’ezetimibe.
Nuove domande vengono poste: oltre ad abbassare la colesterolemia, le statine sanno fare altro?
Nuovi studi suggeriscono un loro ruolo nell’infiammazione e nella regolazione della funzione
endoteliale... il problema rimane l’interpretazione di questi risultati.
“Quando i pazienti rispondono poco alle statine: come si può rimediare?”
D.tt C. Negri
Si dice che il paziente risponde poco alla statine quando non si raggiunge il target proposto
dall’ATP III, che suggerisce come limite massimo un valore plasmatico di LDL pari a 160 mg/dl
per il paziente con nessuno o un fattore di rischio, di 130 mg/dl per il paziente con almeno 2 fattori
di rischio e di 100 mg/dl per il paziente affetto da cardiopatia ischemica.
Da uno studio americano si stima che solo il 38% dei pazienti in terapia con statine raggiunga il
target. In Europa solo il 62% dei pazienti con cardiopatia ischemica risulta essere in terapia con
statine e di questi il 50% risponde alla terapia.
Di chi è la “colpa”?
- Della molecola? Tutte le diverse molecole in teoria abbassano di circa il 40-60% la
colesterolemia.
- Degli effetti collaterali? Ne viene colpito solo l’1-2% dei pazienti trattati.
- Della compliance? Uno studio compiuto nella regione Toscana ha rilevato che in media un
paziente in terapia con statine ne assume una compressa ogni tre giorni; da uno studio della regione
Umbria emerge che dopo 6 mesi di terapia il 50% dei pazienti interrompe l’assunzione del farmaco.
- Dello stile di vita? Indubbiamente i benefici che si trarrebbero da una terapia dietetica e da un
decremento ponderale sono molti: la riduzione della pressione arteriosa sistemica, la riduzione del
10-15% della colesterolemia LDL e dei trigliceridi, della mortalità totale e l’aumento delle HDL.
E’ necessario inoltre per il clinico chiedersi se, a fronte di una scarsa risposta ad una statina, la
dislipidemia sia in realtà secondaria: ad esempio ad ipotiroidismo (con aumento delle LDL), a
diabete mellito (con aumento dei chilomicroni e delle LDL), a colestasi, ad insufficienza renale e a
sindrome nefrosica, all’alcoolismo, all’anoressia. Anche alcuni farmaci possono causare
dislipidemia: quelli antiacne, l’allopurinolo, gli antiretrovirali, i cortisonici e la ticlopidina.
Allora, di fronte ad un’ipercolesterolemia refrattaria al trattamento con statine, si rende necessario
associare altri farmaci ipolipemizzanti.
Le resine agiscono riducendo l’assorbimento intestinale dei grassi, con il risultato di ridurre del
20% il colesterolo totale, del 30% le LDL e di aumentare del 9% le HDL, a fronte di effetti
collaterali come disturbi intestinali, alterazioni nell’assorbimento di altri farmaci e delle vitamine
liposolubili.
L’acido nicotinico riduce gli acidi grassi che giungono al fegato, portando ad una diminuzione del
30% di LDL e di trigliceridi e all’aumento delle HDL. Può comportare flushing, nausea,
epatotossicità e scatenare un attacco di gotta.
I fibrati sono agonisti del recettore PPAR-gamma; il loro prototipo è il gemfibrozil, che viene
utilizzato nell’ipercolesterolemia familiare combinata. E’ in grado di abbassare del 23% il
colesterolo totale e le LDL, del 50-70% i TG. Collateralmente possono presentarsi nausea,
alterazioni della funzionalità epatica, colelitiasi, mialgia (specie se in associazione con statine) e
può potenziare l’azione del warfarin.
Gli omega-3 o fish-oils (meglio conosciuti come PUFA) sono in grado di ridurre i TG, le aritmie
maligne, hanno effetto antitrombotico, anti-infiammatorio e migliorano la funzione endoteliale.
Sono una validissima alternativa alle statine.
Sono poi da considerare i nuovi farmaci che inibiscono l’enzima CETP, come il torcetrapib.
Un nuovo farmaco (entrato in commercio da poco in Italia) è l’ezetimibe: inibisce l’assorbimento
intestinale del colesterolo, senza alterare l’assorbimento delle vitamine liposolubili. Ha una lunga
emivita, non interagisce con il citocromo P450, ma si rende necessaria prudenza nella
cosomministrazione con ciclosporina. Da soli, 5mg sono in grado di ridurre del 18% le LDL e
dell’8% i TG. La tollerabilità è buona, paragonabile al placebo. E’ stato dimostrato che una dose di
10mg associati alla minima dose di una statina agiscono quanto la massima dose della statina da
sola. L’aggiunta di ezetimibe alla terapia con statine fa ridurre di un ulteriore 20% le LDL e il 72%
dei pazienti “che non rispondevano” alle statine hanno raggiunto il target con l’ezetimibe.
Si ricorda che non è raccomandato associare, invece, i fibrati con questo nuovo farmaco.
“E gli effetti collaterali diventano... fragorosi...”
Dtt. A. Micchi, Dtt. A. Ciaciarelli
Si è molto parlato degli effetti collaterali delle statine: è certo che le reazioni indesiderate di grado
severo sono dose-dipendenti.
Come è già stato affermato, le statine riducono la mortalità cardiovascolare e totale.
Nel 2001 fu ritirato il LipoBay e subito dopo furono segnalati molti eventi alla farmacovigilanza.
Tra il 2004 e il 2005 non sono state molte, in confronto, le segnalazioni. Da ricordare 2 decessi, uno
dei quali per rabdomiolisi. Al primo posto per segnalazioni di effetti avversi troviamo la
simvastatina, di meno la rosuvastatina. I più comuni effetti sono le mialgie, la dispepsia e le
alterazioni delle transaminasi e della CPK.
Un nuovo evento è stato segnalato in USA: la proteinuria e l’insufficienza renale, ma a dosaggi
elevati.
Per quanto riguarda gli effetti epatici, l’aumento di AST-ALT sono transitori e reversibili, non
implicano un’incipiente disfunzione epatica ed è rarissima una conseguente insufficienza epatica.
Inoltre, non si ripresenta se si cambia statina o si riprende la stessa molecola dopo un’interruzione
della terapia. L’assunzione di statina non è controindicato fino a valori di AST-ALT 3 volte
superiori alla norma. E’ comunque opportuno controllare i valori basali, dopo 12 settimane
dall’inizio della terapia e poi annualmente. Il trattamento va sospeso se i valori superano di più di 34 volte i limiti superiori e in caso di gravidanza.
Anche gli effetti muscolari sono noti: sono causati da una inibizione del coenzima Q10, del
citocromo P450 nella sua isoforma 3A4 e per danno muscolare additivo.
Si parla di mialgia quando il paziente lamenta dolore muscolare, ma la CPK risulta nei limiti; di
miosite quando, oltre alla mialgia, si eleva il livello plasmatico di CPK; la rabdomiolisi, infine, che
può comparire anche dopo 2 anni dall’inizio della terapia, comprende inoltre aumento della
creatininemia, comparsa di urine scure e mioglobinuria (la CPK può aumentare anche di 10 volte).
Nell’anziano questo evento grave (che può esitare nell’insufficienza renale, con necessità di dialisi,
e nella morte) può manifestarsi anche solo con debolezza muscolare. La probabilità che si verifichi
una rabdomiolisi è dell’ordine dello 0,08-0,09% e che avvenga una decesso è di una su un milione
di prescrizioni. Si calcola che il 22% dei pazienti in Veneto siano in terapia con farmaci che
possono dare interazioni pericolose. Non si dimentichi che anche i fibrati in monoterapia possono
dare questi stessi problemi.
Si suggerisce di non dosare routinariamente la CPK in assenza di sintomi; è importante invece
controllare il TSH perché l’ipotiroidismo predispone alla miopatia.
La precauzione che è necessario prendere è non utilizzare elevati dosaggi nel paziente anziano,
affetto da insufficienza renale, in trattamento con ciclosporina e con fibrati. Si suggerisce la
sospensione temporanea della statina se è previsto un ciclo di trattamento con macrolidi, nel caso di
una malattia acuta e di un’ospedalizzazione.
Le statine sono farmaci la cui efficacia è stata provata, come pure gli effetti collaterali. Vanno usati
con appropriatezza e giudizio.
Alcuni decessi ci sono stati e questo è indubbiamente fragoroso.
Ma è fragorosa anche la morte del medico che li ha prescritti.
“Statine e... stroke”
Prof. P. Bovi
Nel 2002 una review viene pubblicata con il titolo provocatorio “Statins: the new Aspirin?”.
Indubbiamente le coronaropatie e l’ictus sono patologie che risentono degli stessi fattori di rischio,
anche se il paziente-tipo colpito da stroke differisce per essere più anziano, senza differenze di
sesso, rispetto al cardiopatico-tipo, di sesso maschile e relativamente più giovane.
Ci si è chiesti se il trattamento con statine possa portare vantaggi anche nei confronti dello stroke.
Da studi osservazionali, come il PSC, non si è rilevata una correlazione tra colesterolemia e stroke.
Dai primi trials, disegnati in ambito cardiologico, si osservava che le statine potevano abbassare del
25% il rischio di stroke; bisogna però evidenziare il fatto che le coorti prese in esame erano poco
rappresentative della popolazione a rischio di stroke. Nello studio HPS, si sono distinti i vari
sottotipi di stroke: considerando l’ictus ischemico, con la statina si ha una riduzione del rischio pari
al 35% e si è osservata una diminuzione del 21% anche nei pazienti non coronaropatici. Anche
nello studio ASCOT si è avuta la riduzione del 27% del rischio di stroke, anche se questo era un
end-point secondario.
Ci si chiede dunque come possano le statine agire nei confronti dello stroke: solo abbassando la
colesterolemia? Riducendo la formazione di trombi? Riducendo la pressione arteriosa? Riducendo
l’entità dell’ateroma vertebrale o carotideo (studio ASAP)? O possiedono un effetto neuroprotettivo
specifico?
Sono stati proposti per questi farmaci numerosi effetti pleiotropici: migliorano la funzione
endoteliale; riducono l’infiammazione;inibiscono l’accumulo macrofagico dei lipidi; hanno azione
antitrombotica e di stabilizzazione della placca (inibizione di fattori procoagulanti, della migrazione
e della proliferazione delle fibrocellule muscolari lisce, dell’aggregazione piastrinica, dell’azione
delle metalloproteasi, riducono il fibrinogeno e la viscosità ematica); possiedono attività
neurotrofica, immunomodulante, ma anche angiogenetica e apoptotica.
Ciò che sembra emergere dalla Letteratura è che le statine siano in grado di ridurre l’ictus nei
pazienti coronaropatici e non; il modo nel quale questo avvenga con precisione deve ancora essere
dimostrato. In uno studio pubblicato nel 2000 su Stroke, animali pretrattati con statine e poi
sottoposti a procedure per procurare loro un ictus hanno avuto infarti cerebrali meno estesi rispetto
ai controlli, così come se la statina veniva somministrata immediatamente dopo l’ictus.
Nell’uomo si è visto che il pretrattamento sembra correlato ad un miglioramento dell’outcome, così
come se l’assunzione della statina avveniva subito dopo l’evento.
Sono veramente neuroprotettive? Qualcuno avanza l’ipotesi che possano al contrario costituire un
trigger per un danno apoptotico.
Lo studio SPARCL, ancora in corso, sta valutando se sia opportuno trattare con statine il paziente
con ictus o TIA.
Si è visto che dopo un’emorragia subaracnoidea con la statina si ha una riduzione dello spasmo, che
è una delle più temibili complicanze .
I pazienti trattati con statine che vanno incontro ad intervento di tromboendoarteriectomia carotidea
hanno un miglior outcome, solo però se prima erano sintomatici.
In conclusione, non è ancora chiara la correlazione tra colesterolemia e stroke.
I trials con statine hanno invece dimostrato una relazione tra il loro uso e la riduzione dell’incidenza
di stroke; le statine sono efficaci nella prevenzione dell’ictus ischemico nei pazienti coronaropatici,
sia iper- che normo-colesterolemici; si è in attesa dei risultati dello studio SPARCL su pazienti non
coronaropatici; le statine hanno un buon profilo di sicurezza, perchè non aumentano l’incidenza di
stroke emorragico; vi sono ormai evidenze di un possibile utilizzo delle statine anche nella fase
acuta dello stroke ischemico; sono emerse inoltre interessanti indicazioni, tra cui la TEA e l’ESA;
va infine ricordata l’azione apoptotica delle statine, evento negativo in particolari circostanze.
Agli effetti della prevenzione dell’ictus, il trattamento dell’ipercolesterolemia con le statine è
indicato nei pazienti coronaropatici: il trattamento con Simvastatina 40 mg/die è indicato nei
pazienti ad alto rischio per patologie vascolari (studio HPS); il trattamento con Atorvastatina 10
mg/die è indicato nei pazienti ipertesi con almeno tre altri fattori di rischio per patologie vascolari
(ASCOT-LLA).
Nei pazienti con TIA o ictus ischemico e valori aumentati di colesterolo, sono indicati tutti gli
interventi necessari per ridurre i livelli plasmatici di colesterolo, indipendentemente dalla storia di
eventi coronarici (HPS).
Nei casi di ictus e TIA con alto rischio vascolare, non necessariamente con colesterolo elevato, è
indicato l’utilizzo di statine perché determinano una riduzione degli eventi ischemici maggiori.
Un editoriale francese è stato intitolato: “Should we add a statin to baby’s bottle?”
E’ una domanda provocatoria la cui risposta è negativa dato che la via metabolica del mevalonato è
troppo strategica per la crescita per essere bloccata durante l’infanzia.
Il punto è che i recettori cellulari del C-LDL, come hanno dimostrato i Nobel per la medicina
Brown e Goldstein, sono in misura tale da rispondere in modo efficace a una concentrazione di CLDL di 0.65 mmol/L, che è circa ¼ di quella usuale dell’uomo adulto; pertanto l’uomo occidentale
appare condannato ad ammalarsi e a morire di aterosclerosi.
La domanda da porsi, al di là della prevenzione con un miglior stile di vita, è: quando bisogna
ragionevolmente pensare di iniziare ad assumere una statina?
“Statine e... nefropatia”
Prof. A. Lupo
E’ noto che la nefropatia cronica sia un fattore di rischio indipendente per le malattie
cardiovascolari; essa si può manifestare con proteinuria, microalbuminuria o con la riduzione del
filtrato glomerulare. Si è visto, infatti, che al ridursi del GFR aumentano gli eventi cardiovascolari e
la mortalità.
Si attivano infatti dei fattori di rischio definiti “non tradizionali” che spiegano questa correlazione:
• Iperattività del sistema simpatico
• Stress ossidativo
• Iperattività del sistema renina – angiotensina - aldosterone
• Infiammazione (PCR, Citochine)
• ↑ Omocisteina
• ↑ Lp(a)
• ↑ LMW Apo(a)
• ↑ ADMA
• ↑ Fattori trombogenici (fibrinogeno, etc)
• AGEs (prodotti finali della glicazione avanzata)
• Alterato equilibrio ossido nitrico/endotelina
• Anemia
• Alterazione Ca x PO4.
Non è ancora stato condotto nessuno studio di Nefrologia sulle statine, perciò è necessario
estrapolare i dati dagli studi sul paziente cardiopatico.
Dall’ASCOT si è visto che le statine sembrerebbero apportare dei vantaggi al paziente nefropatico.
Dalla metanalisi degli studi WOSCOP, LIPID e CARE si è osservato come indipendentemente dalla
clearance della creatinina si abbia la stessa riduzione di eventi nei pazienti trattati con statine e che
l’effetto sia superiore in quelli con insufficienza renale.
D’altra parte, la dislipidemia sembra predisporre a patologie renali: da studi di coorte e
longitudinali, il rischio di sviluppare un’insufficienza renale era di 1,77 al crescere della
colesterolemia e di 2 all’abbassarsi delle HDL. La dislipidemia sembra essere un “initiatior” per
l’insufficienza renale al pari dell’iperglicemia.
In effetti l’aterosclerosi e la glomerulosclerosi hanno molto in comune: soprattutto gli stessi fattori
implicati nella genesi della disfunzione endoteliale:
- la cellula mesangiale presenta recettori per le LDL e colesterolo ossidato: se vengono attivati, la
cellula prolifera, la matrice mesangiale aumenta e si ha la sclerosi;
- il podocita, o cellule epiteliale, soffre per la dislipidemia: quando “si riempie” di lipidi, si stacca
dalla membrana basale e va incontro a sclerosi;
- il tubulo prossimale reagisce alla presenza di lipidi richiamando cellule infiammatorie con
conseguente fibrosi.
La dislipidemia ha inoltre un ruolo nella progressione della malattia: i pazienti con insufficienza
renale hanno un più rapido deterioramento della funzione residua. E’ stato dimostrato che nel
diabete il rischio di uremia terminale correla più con la dislipidemia che con il controllo glicemico.
Da un punto di vista sperimentale, le statine sono in grado di ridurre la proliferazione mesangiale,
l’infiltrazione di macrofagi nel glomerulo, la formazione di matrice mesangiale, la fibrosi
interstiziale e la sclerosi glomerulare.
Se si associano alla statina un ACE-inibitore o un sartanico, si azzera il danno (in uno studio
sperimentale).
Anche a livello renale sembrano agire alcuni effetti pleiotropici delle statine: hanno azione
immunomodulatoria, anti-ossidante, cito-protettiva, anti-trombotica, anti-infiammatoria, migliorano
la funzione endoteliale e la stabilità di placca; hanno inoltre un ruolo nell’angiogenesi.
Poiché l’infiammazione ha la sua importanza anche nella patologia renale, la statine, che riducono
la flogosi, possono avere un proprio ruolo.
Si giunge per ora a una duplice conclusione: in primo luogo, le statine riducono il rischio
cardiovascolare in misura maggiore nella popolazione nefropatica; in secondo luogo, potrebbero
avere un ruolo nel migliorare la nefropatia indipendentemente dalla riduzione della colesterolemia,
bensì grazie ad altri meccanismi.
“Statine e…ipertensione”
Dott. A.Rigoni/Prof. E.Arosio
L’attivazione endoteliale, chiave di volta nella genesi e nella progressione del processo
aterosclerotico, è stimolata da molteplici elementi tra i quali i comuni fattori di rischio (fumo, età,
ipertensione, dislipidemia, diabete, ereditarietà…) a noi tutti ben noti. L’endotelio disfunzionante
media una serie di processi, quali la vasocostrizione, l’adesione piastrinica e leucocitaria e la
migrazione e proliferazione di miocellule vasali, che determinano la placca ateromasica ed i suoi
equivalenti clinici nel caso di una sua instabilizzazione. Le LDL ossidate agirebbero mediando una
diminuzione della produzione di NO (via riduzione di NOS e dei substrati quali l-arginina ed
inattivazione O2- mediata) ed un aumento della sintesi di ET1. Questi processi sarebbero alla base
di un deficitario rilasciamento vascolare endotelio-dipendente e del conseguente vasospasmo,
associati a fenomeni pro-trombotici e proliferazione cellulare. A sostegno di quanto esposto, è da
tempo nota una correlazione inversa tra livelli plasmatici di colesterolo ed entità della
vasodilatazione endotelio-dipendente (Zehir et al., Journal of Clin.invest. 1993) e che il trattamento
con satanici e statine migliora questo parametro in maniera significativa. Inoltre infiammazione e
dislipidemia (in particolare le LDL ossidate) agiscono sinergicamente in un “network” tutt’altro che
virtuoso che media anche l’espressione diretta di molecole pro-infiammatorie e pro-trombotiche
(MCP-1, PAI-1, TF…) ed aumenta l’espressione del recettore per l’agiotensina 1. Sebbene non
esistono grandi studi clinici che abbiano dimostrato un ruolo diretto delle statine nel trattamento
dell’ipertensione, è dunque possibile che in soggetti predisposti (particolari polimorfismi genetici),
questi farmaci possano, mediante l’aumento della vasodilatazione endotelio mediata e la
diminuzione della stiffness di parete vasale, diminuire la pressione arteriosa. Un effetto interessante
di tali farmaci è la possibile inibizione della progressione dell’ipertrofia ventricolare mediata dalla
diminuzione dell’ azione di proteine strutturali attivate dalla prenilazione , responsabili del processo
di ipertrofia. Naturalmente terapia ipolipemizzante ed anti-ipertensiva debbono coesistere
soprattutto nei pazienti con molteplici fattori di rischio cardiovascolare, in una sorta di “network
terapeutico”, virtuoso questa volta. L’ASCOT ci dice che in questo tipo di pazienti “…la terapia
ipolipemizzane dovrebbe essere considerata routinaria anche in quei soggetti con range di
colesterolo che rientrano apparentemente nella normalità…”. Nel trattamento della sindrome
metabolica, pur rimanendo in prima linea l’intervento sullo stile di vita dei pazienti, la cessazione
del fumo assieme alla diminuzione dell’LDL-colesterolo e della pressione arteriosa si rivelano
essenziali per un efficace cura del paziente.
“Interazioni pericolose”
Dott. M.Anselmi
La terapia con statine è una delle più diffuse nel trattamento medico (negli USA 12 milioni di
persone le assumono e 36 milioni dovrebbero teoricamente farlo…), e viene spesso instaurata in
pazienti gravati da molteplici co-morbidità. In questo contesto lo spettro di interazioni
framacodinamiche e farmacocinetiche di tali molecole è senz’altro potenzialmente molto ampio.
L’interesse dei media verso problemi di questo tipo è sempre elevato, basti pensare al caso
Cerivastatina che nel 2001 generò un’ondata di circa 890 articoli tra agosto e settembre. In realtà
effetti collaterali particolarmente gravi, come ad esempio la rabdomiolisi sono molto rari ed hanno
un limitato tasso di mortalità (1 su 1 milione circa). Anche eventi meno eclatanti, quali
l’innalzamento delle transaminasi o la miopatia vera, hanno incidenze relativamente contenute
(rispettivamente 0,5-2% e 0,1-0,2%) e sono associate a molteplici fattori di rischio, quali l’età, sesso
femminile, epatopatia, nefropatia, diabete, ipotiroidismo, alcoolismo…. La genesi degli eventi
avversi è senza dubbio multifattoriale anche se gli attori più importanti rimangono il dosaggio e le
caratteristiche della molecola, la terapia di associazione, il pattern genetico, le comorbidità…
Fondamentale è il metabolismo delle molecole che nella maggior parte dei casi interessa il sistema
citocromiale P450, che è peraltro coinvolto nelle vie di trasformazione e catabolismo di almeno il
50% dei farmaci in commercio. Gli isoenzimi che metabolizzano i diversi tipi di statine sono in
particolare il CYP2C9 ed il CYP3A4, ma molti altri farmaci, quali il warfarin, alcuni
antiinfiammatori e diversi antiipertensivi possono competere per tali isoenzimi rischiando di ridurre
la via catabolica ed incrementare gli effetti tossici delle stesse statine. Viceversa, le statine possono
esaltare la tossicità della terapia di associazione. In particolare per il Warfarin, le statine che
rischiano di esacerbare gli effetti anticoagulanti sono in particolare la fluvastatina e la rosuvastatina.
La digossina va monitorata più strettamente, per la possibilità di più facile sovraddosaggio nei
pazienti trattati con statina, probabilmente per meccanismi indipendenti dalla via dei microsomi
epatici. Diversamente da quanto di prospettava tempo addietro, il clopidogrel non sembra essere
inibito nella sua attività antipiastrinica dalla co-somministrazione di statine, ed emergono i risultati
del trattamento associativo nei pazienti ischemici. L’associazione fibrati statine è invece più
“pericolosa”, nel senso che in effetti il fibrato (in particolare il Gemfibrozil) inibisce la
glicuronidazione delle statine con possibile aumento importante degli effetti tossici. Anche il succo
di pompelmo è molto potente nell’inibire l’isoenzima 3A4 e di conseguenza può aumentare in
maniera rilevante le concentrazioni plasmatiche di statina (in particolare Simvastatina, Lovastatina
ed in minor misura Atorvastatina ). Alcuni consigli generali per ridurre il rischi di effetti avversi da
statina possono essere i seguenti: Partire con bassi dosaggi ed in seguito utilizzare i minimi dosaggi
efficaci (non in tutti i casi…). Preferire i fenofibrati al Gemfibrozil, controllare preventivamente la
funzionalità renale ed epatica, monitorare CK, ridurre le dosi se si effettua un trattamento transitorio
con farmaci dotati di potenziale interazione.
“Le statine…pillole per ogni stagione”
Dott.ssa Valeria Ferrero
L’aterosclerosi è una malattia cronica progressiva che causa una alterazione/degenerazione delle
pareti vascolari. Un ruolo chiave nella progressione di tale patologia è senz’altro giocato
dall’infiammazione e dai suoi molteplici attori. Gli equivalenti clinici della malattia sono molteplici,
perché diversi sono i distretti vascolari aggrediti: il cuore, il sistema nervoso, i vasi periferici… I
dati degli studi clinici (vedi studio CAPRIE) mettono in evidenza come nello stesso paziente
possano coesistere i danni dell’aterosclerosi in questi diversi distretti (3,3% dei pz. In tale studio
hanno assieme malattia cardiaca, cerebrovascolare e periferica). Oramai è noto che l’endotelio
vasale non sia uno spettatore passivo in questi processi, ma che anzi abbia un ruolo fondamentale
nel mantenimento dell’integrità vascolare (barriera contro LDL-C, inibizione della migrazione delle
cellule muscolari lisce, inibizione dell’adesione leucocitaria…). La disfunzione endoteliale, indotta
soprattutto dai noti fattori di rischio quali ipertensione, fumo, diabete ed ipercolesterolemia, inibisce
i processi protettivi citati e causa quindi la progressione del processo aterosclerotico. E’ noto
sperimentalmente che tali fattori alterino la funzione endoteliale, e che la loro azione sia sinergica
(studi sulla dilatazione flusso mediata in pazienti asintomatici con crescenti fattori di rischio – Celer
Majer, 1994). La placca ateromasica sembra essere una realtà dinamica influenzata sia dai fattori di
rischio che alimentano i processi degenerativi infiammatori, che da altri fattori, alcuni dei quali
farmacologici come le statine, che tendono alla “riparazione” o “stabilizzazione” delle placche. Le
placche “instabili” sono quelle a rischio di rottura e trombosi, e sono probabilmente quelle con
sottile cap fibroso. L’esame agiografico non è in grado di fornirci dati sulla composizione delle
placche ateromasiche, e quindi necessitiamo di metodiche alternative per lo studio della
progressione/regressione dell’aterosclerosi. L’ecografia tradizionale può studiare un distretto
accessibile come quello carotideo ed è stata utilizzata per valutare gli effetti del trattamento
ipolipemizzante sull’intimal-medial thickness (studi ACAP, CAIUS, REGRESS, MARS….), dando
responsi positivi sull’inibizione del processo di ispessimento nei pazienti trattati. L’ecografia
intravascolare (IVUS) e le sue recenti evoluzioni sono stati usati per valutare la patologia all’interno
dei vasi coronarici. Lo studio REVERSAL si proponeva di confrontare l’effetto sulla progressione
dell’aterosclerosi coronarica di trattamenti ipolipemizzanti diversi (atorvastatina 80 mg vs
pravastatina 40 mg) in oltre 500 pazienti con cardiopatia ischemica sintomatica. La riduzione del
colesterolo, soprattutto LDL, è stata significativamente maggiore nel gruppo dei pazienti trattati con
atorvastatina 80 mg. Il volume medio delle placche coronariche è stato in significativo aumento nei
pazienti trattati con pravastatina, mentre si è mantenuto pressoché stabile in quelli trattati
aggressivamente. La proteina C reattiva (indice infiammatorio) è calata in maniera significativa nel
gruppo a trattamento aggressivo (- 36,4% vs -5,2%) e ciò può correlare almeno in parte con gli
outcome clinici correlati ai due trattamenti. Non si sono osservate differenze significative negli
eventi avversi associati ai due trattamenti. Infine, lo studio non era adeguatamente dimensionato per
valutare variazioni degli eventi clinici. Altre metodiche utilizzate per l’analisi delle placche
ateromasiche sono la Virtual Histology, che utilizza l’analisi dello spettro di frequenze dell’raggio
ultrasonoro di ritorno per differenziare tra i vari componenti della placca (colesterolo, calcio, zone
necrotiche…) e l’ Optical Coherence Technology che sfrutta una sorgente luminosa e produce
immagini di sezioni molto definite con risoluzione di circa 10 micrometri fino a 2 mm di spessore.
Altre informazioni iniziano a giungere dalle analisi in risonanza magnetica standard o dalle nuove
tecniche di risonanza intravascolare. In conclusione: la placca aterosclerotica è un’entità dinamica
strettamente correlata al profilo metabolico. E’ possibile frenare la progressione della placca
mediante il miglioramento del profilo metabolico. Sono necessarie tecniche ad alta risoluzione per
apprezzare effettivamente la regressione delle placche ateromasiche.
“Statine nelle sindromi coronariche acute… non è mai troppo presto”
Dott. Flavio Ribichini
Diversi registro osservazionali, post-hoc analisis di studi randomizzati e trials clinici hanno saggiato
il terreno dell’utilizzo della terapia ipolipemizzante con statine nella sindome coronarica acuta. Il
registro svedese RIKS-HIA rilevava come i pazienti trattati precocemente con statine dopo IMA,
avevano ad un anno un rischio relativo di 0,75 in termini di mortalità rispetto a pazienti che non
avevano intrapreso il trattamento. Alla Mayo clinic l’utilizzo di statine entro 24 ore dall’infarto
determinava una differenza significativa rispetto al non utilizzo, in termini di mortalità
intraospedaliera e mortalità intraospedaliera+reinfarto. Analisi post-hoc degli studi GUSTO-II e
PURSUIT evidenziano una riduzione significativa della mortalità a 1 e 6 mesi dopo sindrome
coronarica acuta nei pazienti trattati con statine. Stessa tendenza si ha nello studio PRISM in termini
di decessi ed IMA non fatale a 30 giorni. Lo studio MIRACL ha randomizzato più di 3000 pazienti
con IMA non Q ed angina instabile al trattamento precoce con placebo o atorvastatina 80 mg per 4
mesi. L’endpoint primario era il tempo al primo evento ischemico in questa popolazione. La
riduzione di LDL colesterolo è stata ovviamente significativamente maggiore nel gruppo in
trattamento. L’end point primario era significativamente a vantaggio del gruppo in trattamento alla
conclusione dello studio (incidenza di eventi ischemici 17,4% vs 14,8% p=0,048). Il rischio relativo
di ictus fatale e non fatale a 4 mesi era di 0,5 nei pazienti in trattamento rispetto al placebo. Inoltre
il gruppo con atorvastatina aveva una riduzione media dei valori di proteina C reattiva del 34%. Un
altro studio a proposito è il PROVE-IT TIMI22. Si tratta di uno studio in doppio cieco che ha
arruolato 4162 pazienti con SCA-IMA in 2 bracci: atorvastatina 80 mg vs pravastatina 40 mg con
follow-up medio di 24 mesi. L’end-point primario era il tempo all’occorrenza di un evento
cardiovascolare maggiore e lo studio era disegnato per dimostrare la non inferiorità di pravarispetto ad atorvastatina. Anche in questo caso si è evidenziato un calo più marcato di PCR nei
pazienti in trattamento aggressivo rispetto all’altro gruppo (differenza – 38% a 24 mesi). L’end
point primario è stato significativamente minore nei pazienti trattati con atorvastatina 80 mg rispetto
ai pazienti trattati con pravastatina 40 mg (morte o evento cv maggiore – 16% al follow-up
p=0,005). Il beneficio si manteneva anche all’analisi statistica a 30, 90 e 180 giorni. Le conclusioni
dello studio furono che nei pazienti con recente SCA il trattamento intensivo con statine comporta
una superiore protezione da more o eventi maggiori rispetto al regime con dosi standard e che questi
pazienti beneficiano di riduzioni precoci e continuative dell’LDL-colesterolo a valori
sostanzialmente inferiori rispetto agli attuali target. Le statine potrebbero avere effetti benefici per i
pazienti ischemici, diversi dalla riduzione dell’LDL colesterolo. Ad esempio:aumento del rilascio di
NO enditeliale, riduzione di ET-1, antiossidazione, inibizione dell’attivazione macrofagica,
inibizione della proliferazione di cellule muscolari lisce, effetti antitrombotici sulle piastrine,
riduzione dell’espressione di PAI-1 e metalloproteasi… Gli effetti anti-infiammatori sembrano
essere centrali, essendo l’infiammazione uno dei più importanti meccanismi coinvolti nella crescita
e nella rottura delle placche ateromasiche e nella genesi degli eventi ischemici associati. Infine, nei
pazienti con sindrome coronarica acuta possiamo individuare un “ABCDE” del comportamento
terapeutico:A:antiplatelet, anticoagulant, ACE-inhibition; B:beta blockade and blood pressare
control; C:cholesterol treatment and sigarette-cessation; D:diabetes management; E: exercise.
“Statine e cuore: non è mai troppo presto… né tardi”
Dott.ssa Laura Rossi
Il concetto di anzianità si sta spostando verso età sempre più avanzate (oltre i 70-75 anni) e
comunque prescinde dall’effettiva situazione biologica del singolo individuo. La base
epidemiologica principale per l’uso dei farmaci ipolipemizzanti nella popolazione anziana deriva
dal fatto che l’incidenza della patologia cardiovascolare aumenta con l’età e che questa è il
determinante maggiore del rischio assoluto cardiovascolare. Più della metà degli eventi
cardiovascolari e ¾ delle morti si verificano sopra i 65 anni. In virtù dell’elevata incidenza in questa
popolazione, anche piccole riduzioni in termini di rischio relativo si traducono in molti eventi
clinici evitati. Inoltre in genere l’evento clinico negli anziani si traduce in disabilità più gravi che
gravano maggiormente sul sistema sanitario, cosa che inviterebbe alla prevenzione anche in
prospettiva economica. Uno studio interessante su giapponesi americani tra i 71 ed i 93 anni seguiti
per 6 anni ha dimostrato una relazione ad “U” tra livelli di colesterolo totale, LDL- colesterolo ed
eventi ischemici, con un range ottimale rispettivamente di 200-220 e 120-140 mg/dl, cosa che in
questa popolazione pone in discussione l’ipotesi “lower is better” per l’LDL colesterolo. L’ATP-III
del national cholesterol education program afferma che “non esistono restrizioni legate all’età
quando si selezionano persone con patologia coronarica confermata per la terapia volta ad abbassare
il colesterolo LDL”, che “farmaci che riducono il col-LDL possono essere considerati anche quando
gli anziani sono ad alto rischio per fattori di rischio multipli o avanzata aterosclerosi subclinica”. Le
linee guida europee sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica nel 2003
affermano che “…I primi trials clinici che documentavano i benefici clinici (aumentata
sopravvivenza) della terapia ipolipemizzante con statine erano limitati a individui < 70 a. e
colesterolo > 5 mmol/l. Trials recentemente pubblicati indicano che il trattamento può essere
efficace anche nei più anziani e in soggetti con livelli di colesterolo più bassi”. Ed ancora il NECP
nel 2004 ribadisce: “Anziani con malattia cardiovascolare: …l’efficacia e la tollerabilità
dimostrata nei trials con statine forniscono una forte giustificazione per una terapia intensiva che
riduca LDLcolesterolo. Anziani senza malattia cardiovascolare: i diabetici sono ad alto rischio;
per gli altri, a prescindere dal rischio con l’algoritmo di Framingham, è richiesto il giudizio clinico
sull’opportunità di iniziare terapia aggressiva contro l’LDL (aterosclerosi subclinica, basso HDL,
proteina C reattiva hs…)”.
Nelle schede tecniche delle statine in italia non si citano controindicazioni o aggiustamenti del
dosaggio relativi a persone anziane. L’unica riserva talora citata è la possibile azione predisponente
al danno muscolare nei pazienti di età avanzata.
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