Intervista a Guido Nicolosi Università di Catania Quale è il ruolo simbolico e materiale del cibo nel definire identità e alterità culturale, in un contesto di globalizzazione connotato dalla progressiva perdita di riferimenti collettivi e da spaesamento? Che dinamiche culturali e politiche si attivano nei contesti consumisti e di “abbondanza” del cibo e quali nei contesti di “carestia” e di dipendenza dall’aiuto del cibo? La nutrizione è un processo biologico fondamentale. Per molti versi, essa è più rilevante della stessa sessualità, che pure ha ottenuto nelle scienze umane e sociali molto più onore ed attenzione. Come sostenuto già nel 1932 dall’antropologa Audrey Richards in Hunger and Work in a Savage Tribe: «un uomo può vivere senza soddisfazioni sessuali, ma senza nutrirsi inevitabilmente morirà». Però, sarebbe un grave errore ridurre la nutrizione ad un fatto meramente biologico. Infatti, se è vero che per vivere noi ingeriamo delle sostanze nutritive, è altrettanto vero che possiamo farlo soltanto dopo avere trasformato tali sostanze in alimenti, ovvero in elementi naturali culturalmente elaborati e consumati nell’ambito di pratiche sociali codificate. Anzi, sia dal punto di vista individuale che collettivo, ciò che mangiamo e, forse ancor più il modo in cui lo facciamo, può spiegare ciò che noi siamo. L’identità di un singolo, così come quella di un gruppo, di una collettività o di un’epoca, dunque, sono fortemente “legate” alle caratteristiche alimentari che le definiscono. Da questo punto di vista, la società occidentale capitalistica è stata spesso rappresentata metaforicamente con un’immagine alimentare assai pregnante: la società obesa. In Francia già negli anni novanta del secolo scorso, Claude Fischler ha mostrato come tale metafora fosse orientata ad esprimere la dimensione negativa dell’obesità (ne esiste anche una positiva), rappresentata dal fatto che l’obeso è simbolicamente colui che non è disposto a dividere il cibo con gli altri membri del gruppo sociale. Non è casuale che, spesso, il capitalista o il capitalismo siano stati rappresentati in ambito ideologico o artistico-letterario con la figura zoomorfa del maiale (Orwell, Pasolini, ecc.). Infatti, nelle società tradizionali, il pasto è il momento in cui il gruppo si riunisce e con-divide il momento della distribuzione sociale. Una distribuzione non necessariamente eguale; in cui ognuno riceve, nelle forme e nel quantum, in base ai ruoli e ai livelli gerarchici di autorità. L’obeso, come un vampiro, è colui che rifiuta la “transazione simbolica” e si nutre, parassitariamente, di risorse scarse. La metafora della società obesa ha bene espresso la traccia più rilevante di un’interpretazione della modernità fondata sulle categorie “economiciste” di capitalismo e industrialismo. Oggi, è arrivato il momento in cui sembra possibile utilizzare una nuova metafora alimentare in grado di rappresentare i tratti socio-culturali salienti della nostra società contemporanea: la società ortoressica. L’ortoressia nervosa è una sindrome psico-culturale, la cui definizione è opera di Steve Bratman, che può essere descritta sommariamente come l’ossessione per la sana (opportuna) alimentazione. L’ortoressico è colui che passa una parte rilevante del proprio tempo alla ricerca spasmodica e ossessiva della perfezione dietetica, organizzando, ricercando e selezionando il cibo. Nonostante il quadro clinico non sia ancora stato definitivamente stabilito, l’ortoressia nervosa rappresenta una condizione che interessa una quota crescente della popolazione occidentale e, qui, ci serve come rappresentazione metaforica di una condizione “epocale”. Viviamo, infatti, in una società fondata sull’iper-riflessività alimentare, nelle sue varie accezioni: dietetica (fitness), etica (consumo critico), estetica (food-design), psicopatologica (disturbi alimentari), ansiogena (paure alimentari). I mass-media e la scienza dell’alimentazione ci propongono quotidianamente una vera e propria babele narrativa e simbolica, da cui traspare la consapevolezza della perdita di un rapporto col cibo che in passato era meno opaco e caratterizzato da mediazioni dirette con la dimensione comunitaria. La società ortoressica, invece, è ossessionata dal cibo, da quello “giusto” e da quello “sbagliato”: vi trovano facile presa l’ansia e la paura per ciò che si mette nel piatto. Quali reti innovative riconnettono la disgiuntura tra cibo, culture e territori, nel sud del mondo e a “casa nostra”? Benkler afferma correttamente che una più ampia accessibilità della conoscenza e dell’informazione può certamente avere un peso notevole nel ridurre le gravi diseguaglianze che minano alla base lo sviluppo umano (HD) mondiale. Quest’ultimo, infatti, è strettamente correlato allo sviluppo concreto di alcuni ambiti specifici come l’alimentazione (cibo e sicurezza alimentare), la salute, la ricerca e l’educazione. In tutti questi ambiti, oggi, giocano un ruolo determinante prodotti, beni e strumenti information-embedded. L’applicazione di forme di produzione commons-based a questi ambiti può aiutare uno sviluppo umano più equo agevolando pratiche bottom up decentralizzate. In tal senso, l’open source può aiutarci ad evitare quella che è stata efficacemente definita da Heller la ‘tragedia degli anticommons’. L’espressione è stata coniata per criticare un utilizzo disinvolto che molti economisti liberisti continuano a fare del famoso dilemma formulato dall’ecologo americano Garrett James Hardin (1968) e noto come: ‘la tragedia dei commons’. Questa è riferita alla situazione in cui una pluralità di soggetti che usufruiscono di un bene comune (non soggetto a restrizioni di proprietà privata), agendo razionalmente per il perseguimento dei propri interessi di breve periodo individuali, finiscono per sperperare le risorse (limitate) comuni, anche se ciò lede evidentemente i propri interessi di lungo periodo. La tragedia degli anti-commons, invece, descrive una situazione opposta, in cui la proliferazione di detentori di diritti di proprietà frustrano la possibilità di raggiungere un risultato sociale desiderabile, a causa del collasso dei meccanismi di coordinamento necessari a garantire lo sviluppo e la commercializzazione dei prodotti. Un caso emblematico di ‘tragedia degli anti-commons’ lo hanno fornito le biotecnologie, sia quelle ‘rosse’ (ambito sanitario e farmaceutico) che quelle ‘verdi’ (ambito agricolo). Lo sforzo effettuato a partire dagli anni ’30 per incrementare le rese dei raccolti e aumentare la qualità nutrizionale del cibo prodotto al fine di ridurre l’impatto delle carestie e della malnutrizione ha spinto verso l’attivazione di processi di innovazione tecno-scientifica che, una volte divenute proprietarie, non hanno più saputo rispondere in maniera soddisfacente alle aspettative. Prendiamo come esempio il caso del Golden Rice, una varietà di riso modificato geneticamente al fine di introdurre vitamina A nella dieta povera delle popolazioni che lo consumano. Qui, il ricorso alla politica della brevettazione proprietaria ha trasformato un prodotto potenzialmente rivoluzionario in un paradosso tragico. I veti, gli impedimenti e i costi elevatissimi causati dall’incrocio delle decine di brevetti (distribuiti in tutto il mondo) che gravano sui vari passaggi che obbligatoriamente bisogna affrontare per la sua realizzazione ha dato vita ad un inestricabile ginepraio legale ed economico che ha reso il Golden Rice un prodotto di fatto non sostenibile. Ne emerge un quadro in cui i livelli di equità sociale, la tutela delle risorse ambientali e della salute pubblica sono stati spesso sottoposti ad inaccettabili distorsioni. Il caso degli organismi geneticamente modificati (GMO), è solo quello più eclatante. Se ne analizziamo l’impatto possiamo affermare che si è trattata di un’esperienza disastrosa dal punto di vista socio-economico (impoverimento e proletarizzazione massiccia dei coltivatori del Terzo Mondo), dal punto di vista ambientale (riduzione della biodiversità), e dal punto di vista della reale efficacia. Senza tener conto della grave crisi simbolica che essi hanno provocato anche nel mondo ricco ed economicamente sviluppato. Mediante una politica brevettuale fondata sulla ‘esclusione’, l’industria biotecnologica ha in maniera crescente ristretto l’accesso dei coltivatori alle risorse fitogenetiche. Infatti, il germoplasma è il materiale grezzo su cui si fonda qualsiasi programma di plant-breeding e a cui tradizionalmente i selezionatori hanno sempre avuto libero accesso per migliorare in maniera iterativa e selettiva, nel corso di varie generazioni, le varietà delle piante. L’avvento degli organismi geneticamente modificati è che un tipico esempio di free-riding antisociale. Il selezionatore (spesso una multinazionale) brevetta (e quindi rende inaccessibile) un germoplasma che è il risultato dell’incrocio di geni e altro germoplasma sviluppati da altri selezionatori in regime di accesso libero. Spesso, infatti, questo materiale biologico è stato sviluppato dalle pratiche culturali di comunità indigene, oppure nell’ambito di programmi finanziati con fondi pubblici o da centri di ricerca internazionali e messi liberamente a disposizione di tutti. Uno dei punti più alti di fondamentalismo brevettuale è stato poi raggiunto quando sono stati brevettati semi resi artificialmente sterili per escludere la possibilità che essi potessero essere ripiantati dai contadini. Le biotecnologie convenzionali, così, separando i semi (e l’informazione genetica contenuta al loro interno) dal raccolto e, quindi, dalle pratiche socio-culturali e dall’ambiente naturale che tradizionalmente lo generavano e ‘custodivano’, hanno reso i coltivatori dipendenti dalle multinazionali globalizzate specializzate e proprietarie dei costosissimi brevetti. Ora, la produzione del cibo e lo sviluppo delle tecniche agricole sono il frutto di un deposito secolare di risorse sociali, culturali e simboliche. Così, tale deposito viene marginalizzato dai processi di produzione scientifica, provocando uno sradicamento del cibo e dell’agricoltura dalle tradizioni locali e un arricchimento diseguale a tutto vantaggio di big players globalizzati. In pratica, mediante la privatizzazione della biodiversità, è stata realizzata una graduale erosione della sovranità che in passato i coltivatori avevano sui semi. Ciò a cui abbiamo assistito è stata, dunque, la sistematica espropriazione delle risorse simboliche e materiali ad opera di opachi e sradicati knowledge network internazionali. La ‘proprietarizzazione’ radicale della ricerca che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni dello sviluppo tecno-scientifico anche in ambito agro-biotecnologico ha introdotto delle gravi inefficienze che hanno limitato drasticamente il suo potenziale economico e sociale. L’open source applicato alla green biotechnology può risolvere molti di questi problemi, adattandosi ai bisogni reali degli utilizzatori a prescindere dall’ampiezza del mercato che questi utilizzatori rappresentano, velocizzando i processi innovativi e rendendoli economicamente più accessibili, oltre che più affidabili. L’open source applicato alle biotecnologie si pone in chiara continuità e anzi rafforza le esperienze già consolidate di re-skilling practices in ambito agricolo che hanno l’obiettivo ambizioso di coniugare la ricerca genetica avanzata e i saperi contadini. In entrambi i casi, infatti, si opera un tentativo di sviluppo tecnologico bottom up che re-incapsuli le biotecnologie nelle tradizioni sociali, culturali ed ambientali delle comunità, attraverso la collaborazione partecipata di tecnologi, scienziati, contadini e cittadini in un meccanismo virtuoso di partecipazione e condivisione che recuperi tutti i saperi e le risorse ambientali locali. Per tale ragione, parlare di commons-based peer production in ambito agrobiotecnologico significa sviluppare un modello di ricerca partecipata in grado di riconoscere agli agricoltori un ruolo fondamentale. Infatti, le biotecnologie ‘convenzionali’, attraverso il miglioramento genetico, procedono alla selezione di varietà che spesso non rispondono alle necessità degli agricoltori più poveri e di quelli che operano in ambienti marginali con condizioni climatiche e sociali difficili dove la scarsezza di beni comuni come l’acqua e l’indisponibilità delle sementi sono una realtà più che mai critica. Al contrario, la decentralizzazione del miglioramento genetico prevede l’utilizzo e la valorizzazione della local knowledge degli agricoltori fin dall'inizio del processo, quando la variabilità genetica è ancora grande. Il processo avvicina agricoltori e ricercatori affinché gli uni apprendano dagli altri. La partecipazione degli agricoltori nel processo di selezione condotto nelle loro condizioni agronomiche e climatiche, non solo è efficace, ma accelera notevolmente il processo di adozione delle nuove varietà senza il coinvolgimento dei complessi meccanismi del rilascio ufficiale delle varietà, della produzione di seme certificato e della divulgazione e garantisce un più alto mantenimento della biodiversità.