La poubelle agréée (la pattumiera gradita) di Italo Calvino (1923 – 1985) Quinta parte Ma come posso io inferire ciò che pensa e vede l’uomo venuto dall’Africa a svuotare la mia poubelle? E’ sempre e solo di me stesso che parlo, è con le mie categorie mentali che cerco di capire il meccanismo di cui faccio (facciamo) parte, anche se entrambi abbiamo un dato di partenza in comune: il distacco e rifiuto di una primitiva condizione agricola entrata in crisi. Quando l’abbondanza dei raccolti viene me no e la carestia asseta i campi, l’uomo agricoltore – dicono gli etnologi – è colto dall’angoscia e dal rimorso e cerca il modo di espiare le proprie colpe. Non so se questo sia vero per l’éboueur (forse per il fellah la memoria d’un tempo che non sia di carestia non esiste; forse è immune da complessi di colpa chi possiede l’Islam); certo per me è vero: il rimorso che mi porto dietro dalla giovinezza è ancora quello del figlio del padrone che contravvenendo al volere del padre ha abbandonato il podere in m ani estranee, rifiutando la mitologia lussureggiante e l’etica severa in cui era stato educato: l’abbondanza è varietà dei frutti che solo l’assidua presenza sui campi del proprietario -coltivatore può strappare alla terra, unita a una ostinazione esclusiva e all’iniziativa e all’efficienza nello sperimentare nuove tecniche e colture. E’ in questa cucina nel cuore della metropoli dove mi ha portato la mia lunga fuga, che si rappresenta ancora per me il vecchio dramma. Ogni famiglia è azienda, ossia hacienda, luogo del fare, luogo della sopravvivenza fisica e culturale attraverso una pratica di lavoro compiuto insieme, dove si compie un ciclo sia pur ridotto di produzione e consumo di alimenti. E sono le norme del mio comportamento entro questa elementare hacienda che sto ora cercando di stabilire, di fissare in un contratto o agreement, è per essere io privatamente agréé che sto manovrando la pubblicamente agréé pattumiera, agréé io nel contesto casalingo, nella tacita distribuzione dei ruoli domestici, nell’orchestrazione della suite quotidiana della sussistenza familiare. Ecco, aspettate, vado a vuotare la poubelle. La poubelle è lo strumento per inserirmi in un’armonia, per rendermi armonico al mondo e rendere e rendere il mondo armonico a me. (Il contratto dunque riguarda solo me, è un mutuo accordo di me con me stesso, con la mia legge interiore o imperativo Kantiano o super – io). Quest’armonia è impossibile. La lunga Crisi della Famiglia Borghese dopo mezzo secolo o più di lento decorso precipita nella sua fase convulsa con la Scomparsa delle Ultime Donne di Servizio, estremo puntello dell’istituzione. La divisione del lavoro tra eguali (come tra il cacciatore d’orsi e la sua sposa fucinatrice d’orsi nella caverna primordiale pare fosse inestricabilmente (forse fin dalle origini) legata alla divisione del lavoro tra ineguali (padroni e servi): tant’è vero che messa in questione la seconda anche la prima si rivela impraticabile. Il discorso che, esplicito o silenzioso, il Coro delle Donne Occidentali rivo lge al Coro degli Uomini, in questo crepuscolo di millennio, suona: “Posso cucinare una volta per festa, una volta per esprimermi, una volta per tramandare un sapere, una volta per necessità, una vola per amore, ma non farò la cucina trecentosessantacinque giorni all’anno perché è deciso che il mio ruolo sia quello di fare la cucina e il tuo quello di sederti a tavola”. Qualcosa di essenziale è cambiato nella coscienza collettiva, ma siccome invece nelle abitudini pratiche non è cambiato quasi niente, il risultato è una nuvola di malumore persistente. L’uomo, qualsiasi sia il contributo che da al bilancio familiare, se non contribuisce al lavoro domestico è visto come un parassita. Forse si arriverà ad un nuovo modus vivendi, a una ridistribuzione dei ruoli; o forse nessun sistema di compensazione è più possibile, né in famiglia né altrove. Forse domani anche al ristorante l’avventore non potrà cavarsela pagando il conto: dovrà prima aiutare a sbucciare le patate e poi a lavare i piatti. La cucina, che dovrebbe essere ed è il luogo pi lieto della casa (pro-memoria: quando ricopierò questa pagina, non devo dimenticarmi d’inserire qui una descrizione attraente: i pensili scintillanti, il ronzio degli apparecchi elettrici, l’odore di limone del detergente per le posate), ora è vista dalla donna come il luogo dell’oppressione, dall’uomo come il luogo del rimorso. La soluzione più semplice sarebbe l’intercambiabilità dei ruoli: marito e moglie che cucinano insieme o a turno, o un coniuge cucina mentre l’altro fa le pulizie e viceversa. Ma il fatto è che questa soluzione è intralciata dal pregiudizio (e qui lascio la trattazione universale per tornare all’esposizione di quel caso particolare che è il mio vissuto quotidiano) per cui mi si crede tanto inabile a muovermi tra i fornelli che appena mi dispongo a far qualcosa subito mi si allontana trovando sbagliato o maldestro o inutile o perfino pericoloso quel che faccio. Come tutti i pregiudizi anche questo è facile da tramandarsi: già mia figlia che è ancora una bambina se ci troviamo soli io e lei in cucina trova modo di criticare ogni mio gesto e preferisce far da sola (e poi fare dettagliati resoconti a sua madre delle mie inadempienze). Una tale sfiducia nelle mie doti, come m’ha sempre scoraggiato all’apprendimento, così mi esautora dal ruolo di educatore: ecco dunque che il sapere accumulato dalle generazioni mi sfiora e mi scavalca escludendomi. Tutto quel che ho detto non sarebbe niente se non sentissi che questa mia deficienza viene considerata una colpa, collegata ad altri miei modi d’essere egualmente colpevoli. Se non mi riesce la cucina è perché non ne sono degno(questo è il senso della polemica contro di me che sento pesarmi addosso), come l’alchimista indegno non potrà ottenere l’oro né il cavaliere indegno vincere il torneo. Anche i miei tentativi di darmi da fare sono malvisti: non prova di buona volontà ma ipocrisia, fumo negli occhi, esibizione istrionica. Non valgono le Opere a salvarmi, ma solo la Grazia che non mi fu né mi sarà concessa. Se mi riesce di fare una frittata, non è l’inizio di un progresso, d’una crescita interiore: quella non sarà mai la Vera Frittata, ma la mistificazione di un falsario, il trucco di un ciarlatano. Non mi resta che cercare altre vie per giustificare la mia presenza al mo ndo. (Trascrizione a cura di Giovanni Corallo)