Conclusioni – La disabilità si specchia nella società Tommaso Vitale To cite this version: Tommaso Vitale. Conclusioni – La disabilità si specchia nella società. Giovanni Merlo. L’attrazione speciale. Minori con disabilità: integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale, Maggioli, pp.159 - 166, 2015, 8891611413. <hal-01491548> HAL Id: hal-01491548 https://hal.archives-ouvertes.fr/hal-01491548 Submitted on 17 Mar 2017 HAL is a multi-disciplinary open access archive for the deposit and dissemination of scientific research documents, whether they are published or not. The documents may come from teaching and research institutions in France or abroad, or from public or private research centers. L’archive ouverte pluridisciplinaire HAL, est destinée au dépôt et à la diffusion de documents scientifiques de niveau recherche, publiés ou non, émanant des établissements d’enseignement et de recherche français ou étrangers, des laboratoires publics ou privés. Conclusioni – La disabilità si specchia nella società di Tommaso Vitale, Sciences Po, CEE, Liepp Vitale T., 2015, « Conclusioni – La disabilità si specchia nella società » in Giovanni Merlo, L’attrazione speciale. Minori con disabilità: integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale, Trento, Erikson, pp. 159-166. ISBN: 8891611413. La sociologia ha elaborato un termine preciso per discutere le modalità con cui un fenomeno importante si specchia nella società: il concetto di riflessività. L’idea di fondo per i sociologi è che alcuni fatti sociali, la disabilità per esempio, permettano alla società di riflettere, dispiegare diverse posizioni, e maturare delle opzioni per il futuro. Lungi da essere questione di poco conto, la riflessività è tema cruciale per i sociologi, che la abbordano empiricamente a partire da due domande stringenti: “a quali condizioni un fatto sociale permette alla società di riflettere su sé stessa?”. E poi: “in che modo si sostanzia tale riflessione della società su se stessa?”. La seconda questione apre la porta a indagini empiriche descrittive, finalizzate a delineare i modi della riflessività sociale: dibattiti, libri, film, chiacchiere sul ciglio della strada, infuocate assemblee, sms che circolano viralmente, e così via. Sono descrizioni che appassionano molti sociologi della cultura, e ci insegnano i mille modi con cui una società, i suoi individui e i suoi gruppi e corpi intermedi, sono capaci di riflettere collettivamente, a distanza. Tuttavia, è la prima questione che appassiona di più i sociologi, e in particolare le scuole di pensiero interessate alla spiegazione, e non solo alla descrizione dei processi sociali (Vitale, 2009). Questa prima questione è cruciale, e non è certo un vezzo intellettuale. A quali condizioni un tema diventa occasione di riflessione collettiva? Il punto essenziale è che moltissime cose che esistono e creano problemi a un sacco di persone nelle nostre società non diventano fatti rilevanti di elaborazione e apprendimento sociale. Restano fatti individuali, spesso privati, propri di individui e gruppi specifici, e non attivano mai un percorso e un processo di riflessione intersoggettiva (Vitale, 2012). La società specchiandosi in sé stessa, non si accorge di questi fatti, e dedica la sua attenzione selettiva ad altro. Si potrebbe obiettare che la società in quanto tale non esiste, o semplificazioni del genere. Perderemmo solo tempo in giochi di parole, perché il punto è cruciale, e può essere tradotto in molte maniere diverse. A quali condizioni un tema o un problema entra nell’agenda dei talk show, dei governi, delle istituzioni culturali, dei gruppi e delle parti sociali, dei rotocalchi e dei settimanali di approfondimento? Studiando comparativamente queste condizioni la sociologia è giunta a dare un peso assai importante ai media e alle campagne di sensibilizzazione dei movimenti sociali (Tarrow, Tilly, 2008). Vi sono altre modalità per penetrare nell’attenzione pubblica e creare riflessione diffusa e condivisa su un tema. Ci sono persone, autorità morali, personalità pubbliche, o personaggi di spettacolo, capaci di lanciare l’attenzione su un tema. Le condizioni di efficacia della loro azione dipendono sempre dalla loro capacità di innervare l’azione di movimenti organizzati, o di ottenere l’attenzione selettiva e sufficientemente duratura dei media. Stessa cosa vale per i gesti eclatanti di violenza, così come per la spettacolarizzazione del dolore: possono attirare l’attenzione e l’emozione di grandi percentuali di cittadini, ma non necessariamente influenzano le dinamiche dell’opinione pubblica. Non sono, da soli, capaci di produrre processi diffusi e capillari di riflessione ed elaborazione, quando non sono legati a gruppi e movimenti capaci di innervare la società di opportunità di riflessione (cfr. Vanhala, 2011). La vicenda delle scuole speciali in Lombardia è un tipico esempio di fatto problematico, che esiste, che tocca la vita di molte persone, che si articola alle istituzioni e organizzazioni del welfare locale, ma che non produce riflessione da parte dell’insieme di corpi intermedi e istituzioni che costituiscono la nostra società. Addirittura non è occasione di riflessione per le istituzioni specializzate maggiormente coinvolte, in primis la scuola e il sistema dei servizi sociali locali. Un’attenzione è d’uopo. Tutte le ricerche sociologiche a nostra disposizione, dagli anni ’50 ad oggi ci dicono che l’assenza di riflessività su un tema non è dovuta al numero di persone coinvolte e toccate direttamente dal tema in questione. Non è una questione demografica (Cousin, Vitale, 2014): se anche aumentassero i bambini e le bambine nelle scuole speciali, non aumenterebbe l’attenzione alla questione, né la riflessione e l’elaborazione in proposito. La riflessività sociale non emerge come effetto immediato, non vi è una soglia da raggiungere oltre la cui automaticamente scattano riflessioni e apprendimenti sociali. Un altro aspetto che la sociologia ha ben messo in luce è che per costruire un fatto come un fatto su cui la società si rispecchia, riflette ed elabora, occorre molta ricerca. Il filosofo Dewey (1927) parlava della necessità di inchieste e indagini sociali per nutrire la capacità di azione dei media (di quelli appartenenti a grandi gruppi multinazionali come di quelli comunitari legati ad associazioni e comunità di base) e dei movimenti sociali. In questo senso l’accurata ricerca di Giovanni Merlo sarà uno strumento unico e prezioso nelle mani di media e movimenti per costruire le condizioni di riflessione sulle scuole speciali. Il libro sarà letto, e sarà usato come occasione di dibattiti, interpellanze, discussioni. Non solo, sarà giudicato, criticato, amato e odiato. Aprirà comunque la discussione. Il suo principale punto di forza è di essere empirico, dettagliato, strettamente basato su fatti, numeri, documenti e interviste. La forza dell’analisi empirica, oggi ancor più di ieri, risiede nel avanzare descrizioni e spiegazioni falsificabili. Questo permette il dialogo e lo studio, e crea le condizioni per una riflessività pluralista (Boltanski, 2008). La sensibilità pragmatista di Merlo ci consegna un volume di ricerca in cui le parole e le emozioni dei genitori sono prese sul serio, sono riportate con cura, non sono piegate a interpretazioni precostituite di parte. Ci mostra con impellenza i motivi delle scelte, e le grammatiche di fatiche e valori che danno senso alle decisioni dei genitori. La cura con cui il questionario è stato pensato, l’attenzione al setting dell’intervista, la cura nel categorizzare e trattare i motivi emersi nelle parole dei genitori: tutto questo lavoro di ricerca ha contribuito a darci un volume robusto su cui ciascuno potrà appoggiarsi per riflettere sulle scuole speciali, per criticarle o supportarle, per pensare nuove regolazioni e integrazioni. Abbiamo finalmente a disposizione un’indagine robusta, che permetterà a ciascuno di esprimere il proprio punto di vista sulle scuole speciali, e non tanto e non solo sull’indagine in sé. Il libro servirà allo scopo se riuscirà ad aprire la riflessione non solo fra i tecnici e gli addetti al mestiere, ma più ampiamente anche fra persone potenzialmente non interessate alla questione, non toccate dal problema. Se anche loro saranno nelle condizioni di potersi esprimere sulla questione, ebbene il libro avrà assolto al suo compito. Ovviamente, visto quanto ci insegnano le ricerche empiriche sulle condizioni della riflessività sociale (Cefaï, 2007), questo non sarà certo solo merito di uno sforzo dell’autore, ma di una delicata costruzione reticolare, fatta di risorse, investimenti e campagne del movimento per i diritti delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Ripoliticizzando il tema dell’accesso all’istruzione per le bambine e i bambini con disabilità. Certo, il tema è spinoso, e il libro stesso lo dice bene: la questione delle scuole speciali apre contraddizioni forti in seno alle famiglie di bambini con disabilità, e anche nelle loro associazioni. Contraddizioni che non sono necessariamente sinonimo di lacerazioni. Contraddizioni che finora hanno suscitato soprattutto imbarazzo, in un gioco ad evitare il punto, in cui tutte le parti hanno cercato di ignorare la questione e guardare altrove. Con l’esito di impedire le condizioni per la riflessione sul tema. Con l’esito di avere un settore di educazione speciale che è emerso e che è stato regolato in maniera assai povera, se non addirittura minimalista. In cui le dimensioni di stigma che alimentano la distanza sociale fra “normali” e “disabili” (sic) non sono prese in considerazione. (Albrecht, Seelman, Bury 2001). Con l’esito, non ultimo, di non avere mai preso sul serio le ragioni di genitori cje si trovati a giudicare l’inserimento del proprio figlio nella scuola ordinaria pubblica come una fatica disumana, come una fonte di offesa e svalorizzazione del proprio figlio, come una cosa semplicemente impossibile, foriera di ulteriori difficoltà in situazioni già assai complicate. La scuola pubblica come questione abnorme, per loro e per i loro figli. In altri termini, il libro riuscirà nel suo intento se sarà preso dal movimento delle persone con disabilità, non fatto proprio, ma letto e usato per riflettere, proporre e agire sul rapporto fra scuola pubblica e disabilità, e sul rapporto fra scuola pubblica e scuola speciale, ben al di là delle comunità professionali degli operatori sociali e degli operatori scolastici. In questo percorso vi sono poche risorse, tantissimi scogli, e molti costi (organizzativi, intellettuali, anche di tempo). A fronte di poche risorse, tanti vincoli e costi onerosi, probabilmente la risorsa più importante e feconda è rappresentata proprio dai genitori che hanno scelto di inviare i propri figli nelle scuole speciali. In questo libro non sono giudicati, né stigmatizzati, né colpevolizzati. Merlo ha adottato un approccio finalizzato a comprenderli, a dare piena dignità e piena attenzione alle loro motivazioni. I genitori dei bambini e delle bambine con disabilità, quale che siano le scelte da loro compiute, e sempre da rispettare, sono la risorsa principale di cui si può disporre per strutturare condizioni di riflessività sociale sulle scuole speciali. Le loro esperienze, soggettività, difficoltà, soddisfazioni sono una risorsa importantissima per la riflessività sociale (Vitale, 2009). Possono essere ascoltati anche da profani, da persone che non sono né operatori, né insegnanti, né medici, ma semplicemente cittadini singoli o organizzati. Possono essere ascoltati, e possono entrare in relazione con cerchie sociali più ampie con cui pensare e ripensare le modalità con cui sono organizzati insegnamenti, socialità e istruzione. Non ci sono denunce toccanti da lanciare: questo libro lo dice chiaramente, non siamo di fronte a situazioni di sporcizia, trascuratezza, abbandono, violenza agita. Le questioni sono allo stesso tempo più sottili e più impegnative, e più gravide di conseguenze. Sono questioni relative al tema della segregazione. Per segregazione intendiamo la separazione formale o informale di un gruppo da un altro. La separazione avviene sulla base di una proprietà di un gruppo su una variabile: puo’ esserci ad esempio segregazione di genere, attraverso una separazione fra donne e uomini. Ma anche per classe sociale, orientamento sessuale, appartenenza religiosa. E vi è segregazione sulla base di una appartennza categoriale funzionale, come nel caso della separazione fra “normodotati” e “disabili” (sic). Vi è segregazione de facto, distinta dalla segregazione legale, o de jure, voluta per legge. Segregazione residenziale e segregazione scolastica hanno conseguenze strutturanti e durature sulle diseguaglianze (Oberti, 2007). Per molti versi il tema delle scuole speciali ricorda la questione della segregazione abitativa su base etnica e sociale. Le persone hanno a volte la tendenza di cercare di vivere vicino ai propri simili, con cui condividono un’identità etnica, religiosa o nazionale (auto-segregazione). Il fatto che vi siano delle spinte forti a livello individuale alla auto-segregazione abitativa, non vuol certo dire che non vi siano pessime conseguenze perverse su chi effettua questa scelta, cosi come sugli altri. E sulla segregazione abitativa giustamente in molti Paesi e in molte città c’è un gran dibattito, e molta riflessione: non solo sulle strategie di de-segregazione (come si fa? cosa funzionano? che effetti perversi ci sono?), ma anche sulla opportunità, legittimità, libertà della segregazione rispetto alle strategie di mix sociale (Vitale, 2013). Nel caso delle classi speciali per bambini con disabilità, i temi potenzialmente su cui riflettere ed elaborare sono gli stessi. Vi sono scelte individuali e conseguenze sociali. Vi sono scelte che sono motivate da una generica ricerca di omogeneità, e decisioni prese in base a un principio di male minore. Vi sono scelte che sono tutt’altro che scelte, sono decisioni obbligate, semplicemente non essendo pressoché sostenibile ricorrere alla scuola pubblica e mista. Non nascondo che la ragione per cui a mio parere la costruzione di condizioni di riflessività sociale sulle scuole speciali è una posta in gioco fondamentale della fase in cui viviamo, va ben oltre ai problemi delle stesse scuole speciali, e riguarda direttamente il problema della segregazione delle persone con disabilità, e delle barriere, discriminazioni, separazioni, reclusioni, mancanza di opportunità, stigma e immagini negative di cui essi fanno esperienza. L’accurata ricerca di Merlo mette in luce infatti due questioni fondamentali: la sconnessione del sistema scolastico dal sistema dei servizi sociali, e la centralità della segregazione come criterio guida per affrontare i problemi della disabilità. Comincio dal primo punto. La scuola speciale diventa una risorsa per le famiglie nel momento in cui la scuola pubblica ordinaria non ce la fa. Non ce la fa anche perché è sola. Non vi è azione collettiva intorno alla scuola. Non vi sono contatti con le associazioni e i gruppi che costituiscono l’ossatura organizzativa del movimento per i diritti delle persone con disabilità. Non vi sono rapporti con i servizi sociali del territorio. Le scuole sono completamente esterne alla programmazione sociale di zona. Gli insegnanti non sono a conoscenza di eventuali forme di presq in carico dei bambini con disabilità. Progetti e attività fatte non sono valutate e vi è poca riflessione su come migliorarle. Non emergono coalizioni e forme stabili di cooperazione fra insegnanti, operatori sociali e attori associativi. La scuola non esplora le risorse e i beni collettivi presenti sul territorio che possono sostenerla per avviare percorsi più inclusivi. La programmazione delle attività scolastiche e la programmazione dei servizi sociali non si coordinano, non si integrano, nemmeno comunicano. Non vi è traccia di disegni strategici in proposito, per intercettare problemi specifici e risorse potenziali diffuse nel territorio limitrofo alla scuola. Non vi è innovazione: non si montano e smontano attività, prestazioni, e modalità educative per rendere la scuola più inclusiva. La questione della disabilità di alcuni alunni viene derubricata ed esce dalle priorità. Si consolidano strategie di exit (abbandono) a discapito di strategie di voice (partecipazione critica) da parte dei genitori. Chi rimane si assume il costo di coordinare ciò che è istituzionalmente frammentato, in relativo isolamento. Vengono meno attori interessati a promuove discussione sul tema della disabilità, e si perdono ulteriori occasioni di riflessione locale e apprendimento situato e relazionale (si veda, invece, per il caso francese Baudot 2013). Sul piano empirico si riscontrano marcate mancanze di beni collettivi per l’inclusione, che possano aiutare la scuola pubblica e i genitori, insieme, a rendere la scuola un luogo risorsa e non un luogo generativo di problemi e insostenibili fatiche. Manca formazione tecnica continua e integrata per insegnanti e genitori, sistemi di comunicazione parsimoniosa e coordinamento finalizzato con i servizi, dispositivi organizzativi di integrazione con il movimento associativo delle persone con disabilità e dei loro familiari; sistemi di supervisione; raccolta e l’elaborazione di dati e informazioni (aspetto potenzialmente molto fecondo, cfr. Baudot, 2014); luoghi e momenti periodici di dialogo e confronto stabile fra i genitori stessi, e fra genitori e insegnanti. L’esito è quello che descrive Merlo: diviene conveniente per tutti ricorrere alle scuole speciali. Veniamo così al secondo punto: la scuola speciale è una forma di adattamento che emerge improntata a una logica di segregazione su base categoriale: i normali di qui, i disabili di là. Le persone vengono ripartite delle persone nello spazio sulla base del valore di una variabile. Il ritorno delle classi speciali, la chiara centralità di un principio di segregazione categoriale, sono indizi di un rapporto irriflesso fra disabilità e società. Le classi speciali emergono come adattamenti in un sistema di welfare locale che non riesce a garantire il mix a scuola. Ma perché questi adattamenti hanno fatto ricorso proprio a una soluzione improntata a un principio di segregazione per semplificare le cose, renderle più sostenibili per famiglie, bambini e operatori,. Perché proprio a questo principio e non ad un altro? Probabilmente per ragioni di isomorfismo istituzionale (Padgett, Powell 2012), perché l’insieme dei servizi per questa categoria sono improntati a un principio di segregazione. Si riscontra una chiara propensione a impostare progetti, interventi e servizi per persone con disabilità come progetti, interventi e servizi dedicati ed esclusivi. Per loro e per loro solamente. La segregazione su base categoriale emerge come principio organizzatore dei centri diurni, delle classe speciali, dei servizi di inserimento lavorativo, e così via. Trasformando delle persone (con disabilità) in categoria amministrativa: disabili (comunque persone, ma fra parentesi). O nel linguaggio insolente di alcuni operatori sociali: “handicapponi” (sic). Questo principio ordinatore, la segregazione, è tanto naturalizzato che spesso neanche si pensa a quale potrebbe essere un’alternativa. Eppure nulla ci dice che il miglior servizio per l’inserimento lavorativo di persone con disabilità sia proprio quello che ha come sola utenza esclusiva le persone con disabilità. Nulla ci dice che il miglior servizio diurno per persone con disabilità sia un servizio a loro dedicato, a loro e solo a loro. Il termine integrazione sembra ormai poco alla moda. L’organizzazione in termini segregativi di servizi e interventi su base di categorie funzionali di capacità e disabilità diviene qualcosa di dato per scontato, quasi fosse non solo opportuna ma anche necessaria e addirittura un bene in sé. A prescindere dal sentire dei diretti interessati. E a prescindere dalle conseguenze individuali e sociali che la segregazione produce. Personalmente ritengo che ogni volta che si tratta di questioni sociali, l’etica consequenzialista della responsabilità, ovverosia il tentativo morale di tenere in considerazione le conseguenze del proprio agire, cosi come dell’agire collettivo e dell’intervento pubblico, sia necessaria. Non sono capace da solo di immaginare e calcolare tutte le conseguenze della sottrazione di bambini dalla scuola pubblica. Bambini che vanno in altre scuole a causa della disabilità che portano. Non sono in grado di dire le conseguenze prevedibili, attese, sui quei bambini stessi. E non sono in grado di dire le conseguenze sui bambini che restano nella scuola pubblica ordinaria, e sui loro genitori. Ho necessità che si apra un processo di riflessività sociale su questo, per immaginare, prevedere, discutere e giudicare le conseguenze attese di queste scelte. Ovviamente la disabilità esiste, ed è reale, ed attiene a vari tipi di limiti funzionali. Limiti funzionali la cui portata sulle capacità delle persone dipende anche dal contesto in cui le persone agiscono. E sono reali i problemi e le tensioni delle persone con disabilità. Ma il fatto che problemi e tensioni siano trattati e organizzati sulla base di un principio di segregazione non è per nulla naturale. Può essere appropriato o meno, e probabilmente la risposta richiede molte differenziazioni. Proprio per questo serve costruire condizioni di riflessività sociale. Per introdurre sfumature, periodizzazioni (può essere utile avere ogni tanto interventi dedicati su una base categoriale esclusiva, e in altri momenti no), monitoraggi, differenze, casistiche. Varietà, e non la segregazione come unico principio di riferimento per organizzare servizi e internventi. Cp, l’obiettivo di raccogliere eccezioni, e tutti quei discorsi che vanno oltre le linee di principio e introducono dei bei ‘si, ma in questo caso...”. Sono discorsi che rilanciano la varietà di situazioni, traiettorie e condizioni, e quindi che fanno riflettere, complessificano, rendono possibile l’intervento amministrativo efficace e, molto spesso, fanno anche risparmiare. Sono convinto che questo libro permetterà al movimento per i diritti delle persone con disabilità di aprire una riflessione sulla segregazione scolastica strutturata in base a criteri di normalità funzionale, e che sarà un dibattito importante per tutti ben al di là delle sole persone con disabilità. Sarà difficile all’inizio, per la tentazione tipica dei movimenti di costituirsi come semplici gruppi di interessi. Tuttavia il movimento in questione non si riduce al lobbying: lo esercita ogni tanto, e giustamente. Vi sono anche interessi da tutelare, ci mancherebbe pure (cfr. Jacquot, Vitale, 2014). Eppure il movimento è più sfaccettato, la sua cultura è più ricca e composita e le sue forme di azione più varie. Sono perciò convinto che non si lascerà intrappolare dalle strettoie di chi vorrà discutere la questione solo in sede istituzionale. Quella è certamente una delle sedi più importanti per la riflessione di una società locale su un tema, ma la ricchezza del dibattito sulla regolazione in sede politica dipende anche dalla estensione del confronto di idee su analisi e proposte in una pluralità di centri, gruppi e luoghi. Bibliografia Albrecht G. L., Seelman K. D., Bury M. (eds.) (2001), Handbook of Disability Studies, Sage, Thousand Oaks, CA. Baudot P.-Y., (2013), "Figures de l’État local. Une approche relationnelle des politiques du handicap", Sciences de la Société, 90, pp. 92-109. Baudot P.-Y. (2014), "Who’s Counting? Institutional Autonomy and the Production of Activity Data for Disability Policy in France (2006-2014)", PArtecipazione e COnflitto, The Open Journal of Sociopolitical Studies, 7 (2), pp. 294-313. DOI: 10.1285/i20356609v7i2p294 Boltanski L. 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