Le parole oracolari di Draghi tra deflazione e vincoli esterni

Le parole oracolari di Draghi tra deflazione e vincoli esterni
Pubblicato il 11/04/2014 @ 11:06 in Giornali,Il Foglio
Siamo in deflazione? “Come sempre, la risposta di Mario
Draghi è stata delfica” commenta il Financial Times: i tassi
rimangono dov’erano e le nuove politiche monetarie non
convenzionali restano nel cassetto, però la Banca centrale
europea è unanime nel riconoscere la necessità di rispondere adeguatamente ai rischi di un
periodo troppo lungo di bassa inflazione.
Ancora una volta, come già per l’Omt (ribattezzato dalle cronache “scudo antispread”)
basterà la parola?
Inflazione e deflazione sono entrambi fenomeni alimentati dalle aspettative: inflazione
quando predomina la convinzione che i prezzi inesorabilmente cresceranno, deflazione nel
caso contrario. Nel primo caso si è indotti a investire, nel secondo a rinviare. Se si sbaglia
previsione, nel primo caso non si realizza il guadagno sperato, nel secondo si incorre in una
perdita imprevista. Il rischio di non guadagnare è percepito diversamente dal rischio di
perdere, le reazioni non sono simmetriche, inflazione non è il contrario di deflazione.
Entrambe si combattono vanificando le aspettative: per ridurre la propensione a investimenti
speculativi, basta tagliare il guadagno atteso; per suscitare una nuova disponibilità a investire
bisogna ridurre il rischio di perdita. Il pericolo di inflazione si riduce eliminando i meccanismi
automatici di adeguamento (scala mobile); quello di deflazione, ad esempio, assicurando chi
assume un dipendente che non dovrà sopportare costi se fosse costretto a licenziarlo l’anno
prossimo. Il mercato del lavoro ha un’importanza rilevante nel produrre l’asimmetria tra
inflazione e deflazione, perché in risposta a uno choc positivo i salari nominali crescono,
mentre è difficile ridurli se lo choc è negativo.
Siamo in deflazione? Sono le aspettative a fare la differenza tra deflazione e discesa dei
prezzi per caduta della domanda aggregata. Differenza non facile da interpretare, e facile da
strumentalizzare. E’ sicuramente vero che i paesi periferici dell’Eurozona devono riacquisire
competitività relativa, e che con la valuta unica questo richiede necessariamente che i prezzi
da noi crescano meno che nei paesi core. Però se da loro l’inflazione è già prossima allo zero,
è altissimo il pericolo che da noi si entri in deflazione, e, come si sa, una volta che si è
innescato l’avvitamento aspettative-decisioni, non ci sono strumenti risolutivi per
contrastarlo.
Oltretutto la dinamica dei prezzi non è uniforme in tutto il mercato: diminuiscono nei settori
esposti alla concorrenza, e restano fermi in quelli che ne sono schermati, chi lavora nel
settore protetto gode di una rendita pagata da chi lavora nel settore che esporta. Sforare
Maastricht non è una soluzione: per ridurre la rendita bisogna ridurre le attività svolte in
regime non concorrenziale, privatizzando e liberalizzando; e dove non si può, creare una
sorta di concorrenza interna, reingegnerizzando le funzioni; e in ogni caso sradicando la
convinzione che dagli organici della Pubblica amministrazione si esce solo quando si va in
pensione. Fare “come un’azienda che perde”, sintetizza Piero Giarda. I tagli di spese
improduttive e le riforme che aumentano la produttività richiedono tempo per avere effetti
reali. Se c’è una cosa che la politica monetaria ci ha insegnato è che le politiche producono
effetti anche prima di essere compiutamente implementate: a condizione che i piani siano
credibili. Tutto dipende di lì: contano le aspettative.
Contro la deflazione, quali politiche non convenzionali può mettere in atto la Banca centrale
europea e che effetto possono avere? Acquistando azioni e obbligazioni il prezzo delle prime
aumenta, il rendimento delle seconde diminuisce: si riduce quindi il costo del capitale;
mettendo in portafoglio titoli a lungo termine, segnala al mercato che cercherà di mantenere
a lungo i tassi bassi, per evitare di subire perdite in conto capitale. Il calo dei rendimenti
dovrebbe deprezzare l’euro rispetto al dollaro, favorendo le esportazioni: questo sì che
sarebbe un aiuto alla crescita.
Se non fossero così numerose le variabili che influenzano i rapporti di cambio, e così
imprevedibili gli effetti dei loro intrecci.
Nell’Europa bancocentrica, la Bce, a differenza della Fed, per comperare azioni e obbligazioni
in quantità significativa, deve passare attraverso le banche. Convoglieranno il danaro alla
cosiddetta economia reale, o lo useranno per migliorare i propri ratio? Sarebbe grottesco se
finissero per finanziare la bolla immobiliare da cui tutto ha avuto inizio. Se le banche
cartolarizzano i propri crediti e possono scaricarli sulla Bce, diminuisce l’incentivo a valutare
correttamente il merito di credito, proprio ciò che invece è indispensabile per selezionare
investitori e investimenti.
“Ibis redibis non morieris in bello”: l’oracolo di Delfi creava ambiguità, l’effetto principale delle
parole di Draghi sarà probabilmente quello di eliminarne alcune.
Il consenso unanime, compreso dunque quello della Deutsche Bundesbank, dovrebbe
eliminare una ragione del “Merkel bashing” che è servito solo ad alimentare risentimenti. Se
la parola deflazione non è più tabù, è possibile concentrarsi sulle cose da fare concretamente
per combatterla: liberalizzazione del mercato del lavoro, senza scalini in entrata e senza
vincolo in uscita; per noi in particolare, l’eterno problema della riforma della Pubblica
amministrazione, danno emergente per i conti pubblici, lucro cessante per chi vi deve
ricorrere. Potrebbe perfino succedere per il Qe quel che è stato per l’Omt: basta la parola.
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