Il Romanticismo tedesco e la filosofia

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I maestri della generazione dei giovani romantici
I romantici sono stati profondamente attratti dall’opera di Rousseau, in cui hanno riconosciuto un precursore e un’anima inquieta a loro affine. Rousseau ha sottolineato che
non è assolutamente possibile una rivoluzione politica senza una profonda rivoluzione
dei cuori. La società democratica ideale da lui proposta non intende essere una costruzione intellettualistica e artificiale, ma il prodotto del ritorno dell’uomo al rispetto
profondo della sua natura, essenzialmente libera e razionale. La società in cui egli vive, invece, uccide la libertà dell’uomo, generando una violenta lacerazione dei cuori,
perché interamente costruita sulla falsità e sull’abbandono della vera natura in nome di
valori astratti, corrotti e illusori. Da Rousseau i romantici imparano che la rivoluzione
non è un affare esclusivamente politico, ma qualcosa di più profondo: è il prodotto di
una radicale rivoluzione dell’uomo, di una generale rieducazione del genere umano. Si
tratta di indicare all’uomo in generale, all’uomo comune, dunque al popolo, la via di
una nuova cultura. Questo è il compito che gli intellettuali (filosofi, poeti, uomini di
fede) sentono come proprio, questo il loro impegno politico.
Un secondo maestro delle giovani generazioni romantiche è Kant, che tra il 1781 e il
1790 pubblica le sue tre critiche. I giovani romantici vedono nell’opera del vecchio
Kant la descrizione filosofica della profonda contraddizione spirituale in cui essi vivono
e a cui la loro sensibilità è portata a dare il massimo risalto.
Kant, infatti, ha indicato nella natura il regno della necessità, posta dallo stesso intelletto attraverso la sintesi a priori compiuta dall’io penso. Allo stesso tempo ha indicato nella ragione, nel suo uso pratico, il regno della libertà, posta dalla ragione stessa
mediante la sua autonoma legge morale. Il dissidio necessità/libertà non è riconducibile
alle sfere separate dell’uomo e della natura, per la semplice ragione che queste due sfere
non sono separate. Obiettivo della filosofia è indicare la via per superare la condizione
di necessità e costruire un autentico regno della libertà: ma è possibile raggiungere questo obiettivo filosofico, che nel linguaggio mistico religioso dell’epoca a volte sarà indicato come regno di Dio? Naturalmente non nei termini del criticismo kantiano. In età
romantica gli idealisti proporranno una diversa interpretazione della realtà dell’uomo e
della natura e presenteranno se stessi come i veri maestri della libertà del genere umano.
Un terzo maestro dei romantici è Lessing, che aveva aperto nella cultura tedesca il dibattito sulla tolleranza religiosa. Nel suo pensiero il problema di Dio si intreccia con la
questione del ruolo delle Chiese rispetto alla coscienza dei fedeli e del rapporto tra
istituzione religiosa e istituzione civile. La razionalizzazione della religione e la sostanziale equiparazione delle fedi che gli illuministi sostengono (si ricordi la leggenda
dei tre anelli di Lessing) hanno aperto la strada a una messa in questione del potere delle Chiese e a una rivalutazione della religiosità intimamente personale. Temi di questo
genere, del resto, risalivano alla tradizione tedesca, perché il messaggio luterano richiamava gli spiriti a una profonda fede interiore e il messaggio pietista aveva abituato il fedele a una religiosità in cui i valori dell’emozione e del sentimento prevalevano sul rito.
La prima generazione romantica aspira a una rivoluzione dei cuori che coinvolga anche la sfera religiosa dell’uomo. Religione e politica si fondono in una miscela rivoluzionaria. L’obiettivo è creare un uomo nuovo, che senta il divino in modo puro e attui
nella storia una profonda unione tra l’umano e il divino.
In questo contesto di problemi un ruolo importante gioca la riscoperta di Spinoza.
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Nel 1785 Jacobi, uno degli intellettuali che collegano la cultura illuminista all’universo
romantico, pubblica le Lettere sulla dottrina di Spinoza, riproponendo la questione
dell’Uno-Tutto. Su questa base i romantici hanno sottolineato l’unità tra il principio
assoluto del mondo (ciò che Spinoza chiama Sostanza, Natura o Dio) e la realtà dei
corpi e dei pensieri, secondo la celebre formula spinoziana:
«l’ordine e la connessione delle idee si identifica con l’ordine e la connessione delle
cose». [Spinoza, Etica, II, prop. VII]
La formula dell’Uno-Tutto consente di interpretare la vita dell’uomo in chiave cosmica, come manifestazione della vivente forza della natura, unica energia vitale che si
esprime tanto nella materia quanto nella sfera dello spirito. Consente pure di interpretare
la natura come realtà organica e non meccanica, vivente e non priva di qualsiasi forma
di spiritualità.
Il romanticismo filosofico e le nozioni di infinito e di ideale
Tipicamente romantico è il tema della finitezza umana contrapposta non solo alla infinità di Dio, ma anche alla infinità delle proprie speranze, al desiderio di immortalità, alla volontà di dare un senso all’esistenza proiettando nella vita futura il senso di ciò che
oggi appare insensato (perché la morte? Perché il dolore? Perché voler vivere?).
La meditazione su questi temi è stata propria della filosofia di ogni tempo e non soltanto del periodo romantico: è però da rilevare che i romantici vivono con estrema tensione questa opposizione, imputando alla vita stessa la contraddizione tra finito e infinito, perché la vita destinata alla morte anela all’immortalità. I romantici vedono in
questa irrisolta tensione una molla all’agire: l’eroismo, il titanismo, il mito
dell’azione, che troveranno in Fichte una voce coerente e di grande fascino per i giovani, derivano dalla profonda ansia di infinito.
L’uomo aspira a una vita piena, a un rapporto totale con l’infinita vita dell’universo,
con Dio. Ma la realtà della sua esistenza è fatta di limiti insuperabili, nel tempo e nello
spazio. Nell’anima dell’uomo c’è una tensione verso l’infinito che è ansia di perfezione e di purezza, ma la realtà della vita lo vede immerso nel fango del compromesso, dal
quale la purezza è assai lontana. I romantici vivono drammaticamente questo dissidio
tra l’altezza dell’ideale e la bassezza della vita reale.
Se consideriamo più a fondo il concetto di ideale, noteremo che esso è tutt’altro che
utopia o assurda aspirazione a una perfezione che, in fondo, non è umana. I romantici
insistono sul fatto che l’ideale è qualcosa di estremamente concreto, benché in modo assai diverso dalla concretezza della realtà. È un’autentica forza interiore, viva e possente:
dà senso allo scorrere del tempo, orienta l’azione dell’uomo, gli fa balenare una speranza. Per l’ideale il romantico giunge a rischiare la vita, perché la vita acquista senso in
virtù dell’ideale e non ne possiede alcuno senza di esso.
Non si tratta di vaneggiamenti di un mondo di sogno, ma di una speranza concreta
della mente sorretta dal sentimento: per i romantici il reale, in sé, è insensato: letteralmente senza senso. La sensibilità romantica percepisce l’ideale come ragione stessa
della vita e dell’azione dell’uomo, come forza vitale sottesa al cangiante fluire delle
cose. In esso riconosce la più profonda e misteriosa realtà. Compito della filosofia è rischiarare questo mistero.
Il romanticismo e la nozione di bellezza
La bellezza ha una parte fondamentale nel desiderio romantico di unione col divino entro i confini della natura e della storia. A prima vista questa idea può apparire strana,
venata di superficialità e di estetismo: non è forse la bellezza l’aspetto più labile della
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realtà, un semplice gioco di superfici, destinato a dissolversi rapidamente col passare del
tempo o col variare dei gusti?
I romantici sanno bene che la bellezza è passeggera e in numerose occasioni cantano
questo suo destino di tramonto. Attraverso di essa tuttavia scoprono un accesso ai misteri altrimenti insondabili delle cose; in essa scorgono un sintomo, una spia, una fenditura nel granitico corpo dell’apparenza materiale del mondo. Nella bellezza vedono la
traccia spirituale che vivifica la morta materia.
Cos’è infatti la bellezza? L’estetica sei-settecentesca l’ha ridotta a gioco di superfici, a
gioco dei sensi. Cartesio, Spinoza, i razionalisti in genere non vedono in essa che un
fluttuare di apparenze. La bellezza è il prodotto dell’immaginazione dell’uomo, che reagisce in termini di piacere-dolore, bellezza-bruttezza, al movimento della realtà attraverso il mutevole gusto soggettivo. Essa non può dirci nulla di nuovo sul mondo e, se è un
veicolo di conoscenza, lo è al più basso grado, quello dell’immaginazione. Per i razionalisti la ragione che coglie la vera natura del mondo non osserva nessuna bellezza in sé.
Nella cultura tedesca del secondo Settecento assume un peso crescente la riflessione
estetica sul mondo greco. L’interesse per questo genere di studi è stato risvegliato
dall’opera di Winckelmann, che ha posto in risalto la perfezione raggiunta dalla statuaria classica e ha indicato nella nobile semplicità e nella quieta grandezza le caratteristiche essenziali dei valori estetici greci: l’ideale materializzatosi nel marmo attraverso
forme perfette.
I romantici vedono nella statuaria classica la compiuta realizzazione della sintesi
tra ideale e reale, perché la materia è vivificata dalla visione ideale della bellezza che si
esprime nei perfetti modelli della figura umana. Qualcosa che non appartiene al tempo –
il valore ideale – è stato intuito dalla mente dell’artista e trasferito nella pietra o nel
bronzo.
Come è stato possibile questo miracolo di serenità dello spirito greco? I romantici
non studiano solo l’arte dei Greci, ma anche la loro società, i loro dèi, la loro concezione dell’uomo e dello Stato. Scoprono così – seguendo Rousseau anche su questo punto
(si ricordi l’idealizzazione roussoiana di Sparta e della comunità organica) – che i Greci
hanno saputo armonizzare la vita dell’individuo con quella della società, creando
un modello organico di pólis con la quale il cittadino è portato a identificarsi pienamente e dalla quale riceve la propria identità completa di uomo. Hanno poi guardato alla divinità come espressione della natura, alla quale ogni creatura appartiene, e hanno visto natura e dèi in armonica conciliazione. La bellezza con cui hanno saputo rappresentare uomini e dèi è la manifestazione sensibile di questa serenità interiore di vita.
L’uomo moderno ha perduto questa serena visione ed è lacerato nella sua più intima essenza. La bellezza greca rappresenta un modello di perfezione ideale che, sebbene sia ormai perduta per i romantici, esercita allo stesso tempo un grandissimo fascino.
La rivoluzione romantica è proposta in nome della perduta serenità greca.
Inoltre i Greci hanno espresso in forme artistiche tra le più profonde di ogni tempo la
tragicità dell’esistenza: hanno creato i miti di Edipo, di Antigone, di Oreste, nei quali il
sentimento tragico del mondo ha trovato plastica rappresentazione. Nella tragedia greca,
dominata dai concetti di destino, di colpa, di giustizia, l’uomo di fronte a forze che lo
sovrastano, è tuttavia libero e cosciente.
È proprio del miracolo greco l’aver saputo trovare un punto di conciliazione tra la serena visione del divino e la consapevolezza tragica dell’esistenza. L’uomo moderno ha
smarrito tutto questo. Il suo sentimento del tragico nasce dalla conflittualità tra sé e la
natura, tra sé e il divino: la vita è tragica perché intimamente lacerata.
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Critica filosofica
Sehnsucht, il “male del desiderio”
La sensibilità romantica, anche in filosofia, è legata a suggestioni letterarie. Un’ottima
introduzione al tema sono le pagine dedicate al Romanticismo dallo storico della letteratura tedesca Ladislao Mittner. L’approccio di Mittner a tutto il periodo è del resto fortemente influenzato dalla filosofia.
«La parola “romantico” deve la sua eccezionalissima, intramontabile fortuna alla
sua iridescente polivalenza; essa tenta infatti di definire l’indefinibile, quel “non so
che“ che incantava già i pre-romantici, proprio perché era suggestivamente avvolto nel
proprio inviolabile mistero. “Non ti posso mandare la mia interpretazione della parola
romantico – scrive Friedrich Schlegel scherzosamente al fratello nel 1798 – essa è lunga 125 fogli”. Si sono raccolte oltre 150 definizioni del romanticismo; la lista è certamente incompleta e vuole essere continuamente aggiornata, poiché ogni decennio (e
quasi ogni nuova scuola d’arte) riscopre o almeno reinterpreta il romanticismo per
conto proprio; varrebbe anche la pena di studiare che cosa significhi oggi romantico
nel linguaggio quotidiano. Per capire il romanticismo in sé, bisognerebbe che la critica
eliminasse, com’è stato più d’una volta seriamente proposto, la parola romantico, che
per il germanista significa una cosa o un complesso di cose, per il francesista o
l’anglista cose o complessi di cose assai diverse. Necessario ci sembra distinguere
sempre il romanticismo categoria psicologica dal romanticismo categoria storica.
Inteso come fatto psicologico, il romantico non è il sentimento che si afferma al di
sopra della ragione o un sentimento di particolare immediatezza, intensità o violenza, e
non è neppure il cosiddetto sentimentale, cioè un sentimento malinconicocontemplativo; è piuttosto un fatto di sensibilità, il fatto puro e semplice, appunto, della
sensibilità, quando essa si traduca in uno stato di eccessiva o addirittura permanente
impressionabilità, irritabilità e reattività. Domina nella sensibilità romantica l’amore
dell’irresolutezza e delle ambivalenze, l’inquietudine e l’irrequietezza che si compiacciono di sé e si esauriscono in sé. La più caratteristica parola del romanticismo tedesco, Sehnsucht, non è lo Heimweh, la nostalgia (male, cioè desiderio, del ritorno a una
felicità già posseduta o almeno nota e determinabile); è invece un desiderio che non
può mai raggiungere la propria meta, perché non la conosce e non vuole e non può conoscerla: e il “male” (Sucht) “del desiderio” (Sehnen). Ma Sehnen stesso significa assai
spesso un desiderio irrealizzabile perché indefinibile, un desiderare tutto e nulla a un
tempo; non per nulla Sucht fu reinterpretato, con una di quelle false etimologie che sono invece creazioni di nuove realtà psicologiche e artistiche, come un Suchen, un cercare; e la Sehnsucht è veramente una ricerca del desiderio, un desiderare il desiderare,
un desiderio che è sentito come inestinguibile e che proprio perciò trova in sé il proprio
pieno appagamento. [...]
“Desideroso di desiderare”, cioè di vivere nella condizione del desiderio puro perché irrealizzabile, l’uomo romantico soffre della sua sensibilità che è troppo acuta e
che pure è da lui ulteriormente acuita; e in balia d’impressioni sempre diverse e contrastanti; si abbandona a esse con segreto piacere e spesso, senza saperlo, le crea. È
soprattutto l’uomo dei dilemmi che non cerca mai di risolvere i propri dilemmi o, risolti
che li abbia, crea dilemmi nuovi, perché il dilemma irresolubile è la forma stessa della
sua esistenza. Il problema per lui non è essere o non essere, ma essere quello che si è e
non essere quello che si è, essere di casa dappertutto e non essere di casa in nessun
luogo, evadere e non evadere da sé. In burrascose età di sconvolgimenti e di transizione
sono sempre numerose tali anime irrequiete che vivono la loro posizione di transitorietà permanente con intensità tanto passionale da non poter appartenere né al passato,
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né all’avvenire. Il romanticismo inteso psicologicamente è una categoria eterna dello
spirito; romantici furono in tal senso, ad esempio, Petrarca e Catullo; di recente si sono scoperti caratteri “tipicamente” romantici nella pittura etrusca e persino in certi
graffiti di lontanissime età preistoriche.» [Mittner, Storia della letteratura tedesca]1
“En kai pan”
Il filosofo tedesco Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) ebbe un ruolo fondamentale
nelle prime fasi della filosofia romantica; per età e cultura apparteneva alla generazione
degli illuministi, ma era attento alla nuova sensibilità e fu lui a introdurre il pensiero
spinoziano presso i giovani filosofi post-kantiani. Nel brano in lettura è narrato il coinvolgimento di Lessing, uno dei padri dell’illuminismo tedesco, nella nuova sensibilità.
«Il mio viaggio ebbe luogo, e il 5 luglio, al dopo pranzo, abbracciavo la prima volta
Lessing. Ancora nello stesso giorno parlammo di molte cose importanti; anche di persone morali e immorali, atei, teisti e cristiani. La mattina seguente Lessing venne nella
mia camera, che io non avevo ancora finito alcune lettere, che avevo da scrivere. Gli
diedi diverse cose della mia cartella, perché intanto ingannasse il tempo. Nel restituirmele, mi domandò se non avessi più nulla che egli potesse leggere. “Sì, sì!” dissi (stavo
per suggellare), “ecco ancora una poesia2; Lei ha dato tanti scandali; per una volta ne
può ben anche prendere uno”.
Copri il tuo cielo, Giove,
col vapor delle nubi!
E la tua forza esercita,
come il fanciullo che svetta i cardi,
sulle querce e sui monti!
Che nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,
per la cui fiamma tu
mi porti invidia.
Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d’oboli e preci
le vostre maestà
e a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.
Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell’oppresso.
Chi mi aiutò
contro la tracotanza dei Titani?
Chi mi salvò da morte,
da schiavitù?
Non hai tutto compiuto tu,
sacro cuore ardente?
E giovane e buono, ingannato,
il tuo fervore di gratitudine rivolgevi
a colui che dormiva lassù?
Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori
di me ch’ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch’ero in angoscia?
Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l’eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?
Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?
Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.
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Lessing, dopo avere letto la poesia e restituendomela: “Non ne ho preso nessuno
scandalo; quest’argomento l’ho di prima mano già da un pezzo”.
Io: “Lei conosce la poesia?”
Lessing: “La poesia non l’ho mai letta, ma mi piace”.
Io: “Nel suo genere, piace anche a me; altrimenti non gliel’avrei fatta vedere”.
Lessing: “Non intendevo questo... Il punto di vista, da cui la poesia parte, è il mio
proprio punto di vista... I concetti ortodossi della divinità non sono più per me; io non li
posso gustare. ‘En kai pan’ (Uno-Tutto)! Non conosco nient’altro. Anche questa poesia
conduce là, e, devo riconoscerlo, essa mi piace molto”.
Io: “Allora Lei converrebbe assai con Spinoza”.
Lessing: “Se mi devo chiamare secondo qualcuno, non so nessun altro”.
Io: “Spinoza mi piace abbastanza: ma pure, quale cattiva salvazione troviamo nel
suo nome!”
Lessing: “Sì! Se Lei vuole!... Eppure... Sa Lei qualcosa di meglio?”»
[F. Jacobi, Lettere sulla dottrina di Spinoza]
3
“In principio era l’Azione”
È una delle scene iniziali del Faust di Goethe. Faust rientra nello studio dopo la passeggiata domenicale, con l’animo inquieto, e legge la Bibbia in greco. Si accinge a tradurre il primo versetto del Vangelo di Giovanni.
«Sta scritto: “In principio era La Parola”.
Ed eccomi già fermo. Chi m’aiuta a procedere?
M’è impossibile dare a “Parola”
tanto valore. Devo tradurre altrimenti,
se mi darà giusto lume lo Spirito.
Sta scritto: “In principio era il Pensiero”.
Medita bene il primo rigo,
ché non ti corra troppo la penna.
Quel che tutto crea e opera è il Pensiero?
Dovrebb’essere: “In principio era l’Energia”.
Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa
già mi dice che non qui potrò fermarmi.
Mi dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro
e, ormai sicuro, scrivo: “In principio era l’Azione!”.» [W. Goethe, Faust]4
Nella citata edizione del Faust, così commenta questi versi il critico letterario Franco
Fortini:
«Faust vorrebbe imprendere la traduzione dell’Evangelo secondo Giovanni, il primo
versetto è quello che contiene (En archè èn o lógos, in principium erat verbum) la parola che è chiave stessa della realtà. Di qui la difficoltà di tradurre il greco lógos. Lutero
ha tradotto con Wort, parola, verbum. Ma al termine latino e tedesco manca un elemento essenziale del lógos, e cioè la sua concettualità. Faust passa quindi a Sinn, inteso come intelletto e pensiero. Ma anche questo non può soddisfarlo, perché viene a
mancare la spinta creatrice che pur è nell’originale greco: e allora propone Kraft, che
è forza ed energia. Ancora una volta Faust-Goethe avverte che Kraft sarebbe il principio creatore ma solo dalla parte del soggetto; e troppo esclusivamente potenziale. La
conclusione è die Tat, l’azione, la prassi. Si ha qui uno dei termini che riassumono
quello che si è convenuto di chiamare il Faustismo; quel complesso atteggiamento che
unisce attivismo e volontarismo e che nel secolo XIX, dall’impeto creativo della bor-
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ghesia in ascesa, trapassa all’irrazionalismo estetizzante di quella avviata
all’imperialismo. Va poi aggiunto che probabilmente nel passaggio da Wort a Sinn a
Kraft e a Tat “il cammino di Faust ripete il cammino storico”5 dall’età della filologia
umanistica al razionalismo cartesiano e illuministico e da questo alla forza espressa
nell’azione creatrice della espansione borghese.»
Hölderlin, la natura, gli dèi
Hölderlin è una figura chiave per il romanticismo filosofico tedesco non solo perché
strettamente legato da rapporti di amicizia con Schelling, con Hegel e con altri, ma perché la sua attività poetica si muove intorno agli stessi temi. Leggiamo una pagina dedicata a Hölderlin dallo storico della letteratura tedesca Ladislao Mittner.
«Hölderlin rivisse e cantò come nessun altro poeta tutto il travaglio della sua epoca
e infuse nella propria lirica un sentimento cosmico e dionisiaco di potenza ignota ai
suoi contemporanei [...]. La poesia di Hölderlin è eterea non soltanto perché canta
spesso l’etere, ma perché è tutta immersa in un bagno di luce e tutta vivificata
dall’etere, che rende traslucide – nitide insieme e immateriali – le cose concrete, creando intorno a esse un’atmosfera che non sembra di questa terra, perché è tutta vibrante di misteriosa e gioiosa luminosità. [...] Romantica è la poesia hölderliniana della natura, perché la teofania, che ne è il fulcro e il senso, vi costituisce un breve momento,
un momento che per la sua brevità appare quasi illusorio. Essa si compie sempre
nell’ora del crepuscolo. I poeti settecenteschi avevano cantato prima di Hölderlin soprattutto l’alba, in cui l’anima e la natura rinascono; la visione cosmico-religiosa di
Hölderlin si accentra tutta nell’ora del tramonto, ora di un’estrema dolcezza, che è anche presentimento della notte e della morte. Prima che la luce svanisca del tutto, per un
attimo, per un attimo solo, il nume scende misteriosamente sulla terra, sembra toccare i
vertici degli alberi più alti e chi sotto gli alberi giace in mezzo ai fiori, è colmo della
certezza inebriante che è scomparsa ogni distanza fra la terra e il cielo, fra gli uomini e
gli dèi, tanto che la lieve aura vespertina che avvolge e compenetra i sensi dei mortali,
ravvivandoli dopo l’arsura meridiana, sembra concreta emanazione dell’anima invisibile e pur presente dell’universo.
L’identificazione romantica del vicino e del lontano, della natura e del soprannaturale, si compie in Hölderlin con eccezionalissima intensità e in una forma sorprendentemente concreta, come fenomeno naturale in cui culmina dolcemente il divenire ciclico
del giorno fra il calare del sole e il sopraggiungere dell’oscurità. Ma poiché la teofania
crepuscolare è brevissima, la poesia dell’etere, che sembra poesia di una permanente e
gioiosa luminosità, è anche un consapevole, spesso disperato aggrapparsi a quella luce
che si manifesta soltanto nella sua fugacità, come luce che si muterà in ombra, e che è
già mista a ombra, che è oramai soltanto ombra. Quando si avverte la presenza del divino sulla terra, la luce è già sul punto di lasciarci. [...] Colmo di gioia fino
all’ebbrezza, il poeta sente la fugacità, la quasi illusorietà della gioia e cerca di acuirla
nella consapevolezza della sua fugacità, di fissarla proprio nella sua fugacità. La terra
infatti è già oscura, mentre la luce è appena scesa sulla terra; la pienezza della gioia
contiene perciò in sé la previsione del dolore con cui la gioia dev’essere scontata,
l’attesa della notte oscura e fredda. [...]
Mentre Schiller aveva insegnato che l’uomo moderno, a differenza dell’uomo greco,
non è più capace di armonizzare le forze della sua anima, Hölderlin precisò, completò e
spiegò a modo suo questo insegnamento: l’uomo moderno in genere, il tedesco in ispecie, non sono più capaci di armonizzare le forze della loro anima, perché hanno perduto il senso del divino, che è appunto senso dell’armonia. Compito del vate è perciò far
rinascere in mezzo all’empia umanità moderna (Hölderlin si riferiva al materialismo
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dei ricchi, ma anche, e assai più, alla rigida ortodossia razionalistica della teologia
protestante) il “culto degli dèi”, cioè il sentimento della divina armonia che è diffusa
nell’universo, ma non vive più nelle anime; il “ritorno degli dèi”, presagito dal vate, sarà inizio di una nuova e definitiva età dell’oro dell’umanità. [...]
Nella stupenda, amplissima e drammaticissima ode in esametri L’arcipelago [...]
rappresenta sé come vate tedesco che ha un’alta missione religiosa da compiere, quella
di recarsi in Grecia per animare col suo canto la terra greca deserta dagli dèi e dagli
uomini e di far risorgere in Grecia gli dèi greci; ma ha anche la missione di rinnovare
il loro culto in Germania, dove essi, appunto per opera del poeta, stanno già risorgendo. Il poeta crede e sa che la primavera greca, età aurea dell’umanità felice, sarà seguita da un autunno fecondo, festa gioiosa della risorta umanità; crede e sa che questa
festa si compirà in Germania.» [L. Mittner, Storia della letteratura tedesca]6
Hölderlin e la Morte di Empedocle
Nella tragedia La morte di Empedocle Hölderlin mette sulla scena gli ultimi giorni della vita del filosofo agrigentino Empedocle, che sceglie di morire per tornare nel seno vivente della natura infinita. Così Empedocle dice agli agrigentini:
«Quando sarò lontano, parleranno per me
i fiori del cielo, le stelle in fiore,
e quanti germogliano a migliaia sulla terra.
La natura presente e divina
non ha bisogno di parole; e se una volta vi è
stata accanto, non vi lascerà mai soli
poiché il suo attimo non finisce mai;
e in eterno, vittorioso ed esaltante,
opera il suo fuoco che scende dal cielo. […]
Evocato dalla luce primaverile, salga come un canto,
dal regno delle ombre a questa festa,
il mondo dimenticato degli eroi,
e il ricordo vi circondi, o gioiosi,
con la nube dorata del lutto.»
E Pentea, giovane donna che ha compreso il rapporto che lega Empedocle agli dèi, così
canta la morte dell’eroe:
«Certo tramonta festoso
l’uomo severo, il tuo prediletto, o Natura!,
il tuo fedele, la tua vittima.
Quelli che temono la morte non ti amano,
la pena li inganna e benda
loro gli occhi, il loro cuore
non batte più sul tuo cuore, separati da te
inaridiscono - Universo santo,
vivente, profondo! Per ringraziarti
e testimoniare di te che non conosci la morte,
l’audace getta sorridendo le sue perle
al mare da cui sono venute.
Così doveva accadere.
Così esige lo spirito
e il maturare dei tempi
perché siamo ciechi
e per una volta ci occorreva il miracolo».
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«[La morte di Empedocle] non è fine, ma ritorno al Tutto vivo della Natura, riconciliazione di ciò che è diviso, segno del divenire e sua garanzia. Non va quindi temuta, ma
scelta e amata con quieta sicurezza razionale. [...] Con la sua fine Empedocle testimonia non solo la maestà del divenire, ma anche la necessità per ogni realtà e ordine di
negare se stessi. Da questo punto di vista la sua morte ha un carattere sacrificale. Egli
si uccide perché la sua figura e il suo messaggio non si sclerotizzino in istituzioni vuote
e inerti. Nega se stesso, ma così si afferma con maggiore forza. Per lui, infatti, la negazione di ciò che è positivo è l’elemento fondante di ogni vera positività: senza sacrificio
non c’è vita né divino.»7
1
L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, II, Einaudi, Torino 1978, pp. 698-701.
2
La poesia che Jacobi dà in lettura a Lessing è l’inno della tragedia Prometeo del giovane Goethe, ancora nel suo
periodo stürmeriano. Il punto di vista nella poesia è spinoziano secondo l’accezione romantica del termine: anche gli
dèi infatti soggiacciono al «tempo onnipotente» e al «destino eterno». Il titano Prometeo nella sua invettiva contro di
essi rappresenta l’uomo nella pienezza della sua potenza e incarna un ideale dapprima stürmeriano, poi romantico. Al
testo della poesia è sotteso un significato politico: «È indubbio che con la sua condanna della dinastia degli dèi sfruttatrice dell’ingenuità umana e del lavoro umano Goethe condanna anche le dinastie terrene che sfruttano in modo
non diverso i sudditi e per giunta si valgono della religione per tenerli in soggezione. La poesia fu subito intesa come
doppiamente rivoluzionaria». [L. Mittner, op. cit. pp. 363-364]
3
F. Jacobi, Lettere sulla dottrina di Spinoza, trad. it. di F. Capra, Laterza, Bari 1969, pp. 66-67.
4
W. Goethe, Faust, trad. it. di F. Fortini, Mondadori, Milano 1987, p. 95.
5
C. Cases, Introduzione al Faust, Torino 1965, p. LX.
6
L. Mittner, op. cit., pp. 708-716.
7
C. Lievi, Introduzione a F. Hölderlin, La morte di Empedocle, Einaudi, Torino 1990, pp. VI-VII.