Dispensa 20 - Corso di Archeologia

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La fine dell’Etruria ellenistica
Dispensa 9 - Lezioni di marzo-aprile 2012
Miscellanea a cura di Sandro Caranzano, riservati
ai fruitori del corso di archeologia presso
l'Università Popolare di Torino 2011–2012
9.1 - La decadenza del mondo etrusco:
Nell'ambito delle antiche civiltà del Mediterraneo, il V sec a.C. è segnato
dall'egemonia militare e navale di Atene, messa in crisi sul finire del secolo dalla
Guerra del Peloponneso e dall'ascesa militare e coloniale di Siracusa; il quadro
politico internazionale culminato nell'occupazione progressiva del Mare Tirreno e
del Mare Adriatico da parte dei siracusani contribuì certamente al generarsi di una
crisi sociale ed economica delle grandi città costiere dell'Etruria meridionale come
Cerveteri, Tarquinia, Vulci e Veio che avevano espresso nelle fasi villanoviano,
orientalizzante e arcaico una preminenza culturale e artistica di tutto rilievo. Non
possiamo, infatti, dimenticare che il tiranno di Siracusa, Dionisio, non solo fu in
grado di celebrare una grande vittoria navale contro Atene, ma dopo la presa di
Reggio nel 388 a.C. ottenne la sudditanza politica di tutte le antiche colonie greche
dell'Italia, avventurandosi sulla sponda illirica del mare Adriatico dove fondò le
colonie di Issa e Lissos e Ancona nella Marche, ponendo poi solide basi nell'emporio
etrusco veneto di Adria. Abbiamo poi già avuto poi
modo di ricordare il saccheggio da parte di Dionigi
del porto di Pyrgi solo quattro anni più tardi: i
siracusani portarono via dal santuario un grande
bottino di prede e prigionieri per un valore di non
meno di 1500 talenti (Diodoro Siculo,XV, 15,3).
Praticamente negli stessi anni si assistetette, infine,
ad un potente processo espansionistico di Roma
destinato, nell'arco di qualche secolo, a stravolgere
la geografia politica dell'Italia antica a tutto
svantaggio della città etrusche. Ancora una volta i
più svantaggiati furono i centri finitimi al corso del
Tevere, così che è possibile seguire con più facilità
l’evolversi della società etrusca studiando quelle
città dell'entroterra che caddero sotto l'egemonia
politica romana con un ritardo di circa un secolo, in
particolare Chiusi e Orvieto (Volsinii).
Fig. 81– Coppia di sposi sul coperchio di urna sepolcrale etrusca di
età tardo classica conservata presso il Museo Guarnacci di Volterra.
9.2 - Caduta di Veio: Per quanto concerne il difficile rapporto con Roma, la prima
città soggetta a un confronto/scontro con la capitale dei Latini fu, per ovvie ragioni
geografiche, Veio. Nel 438 a.C. causa scatenante di un primo conflitto fu
l'atteggiamento ostile di Fidene, una cittadina situata lungo il corso del Tevere
storicamente alleata di Veio che, unilateralmente, aveva deciso di interrompere la
navigazione del Tevere in direzione della Sabina e dell'Umbria: una decisione che
avrebbe avuto effetti devastanti sull'attività commerciale di Roma in direzione
dell'entroterra.
Le fonti antiche (Livio, IV, 17) ricordano anche il nome del re veiente , un tale Larth
Tolumne, ucciso in battaglia da parte del tribuno o console romano Aulo Cornelio
Cosso, sceso in campo con l'esercito dopo l'uccisione degli ambasciatori romani
inviati a Fidene per reclamare contro la rottura dell'antico patto di alleanza. Le fonti
ricordano come Aulo Cornelio dedicasse le armi del sovrano ucciso presso il Tempio
di Giove Feretrio sul Campidoglio (le spoglie opìme) esattamente come aveva fatto
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Romolo dopo l'uccisione di Tito Tazio. Dopo una controffensiva dei Veienti alle porte
di Roma, la città cadde nel 396 a.C., evento capitale per la storia etrusca in quanto
primo caso di assorbimento di una città della Dodecapoli nell'orbita di Roma.
Non è noto se la caduta di Veio sia stata vissuta nel mondo etrusco come un grave
choc, ma le fonti etrusche mediate da Tito Livio sembrano far intendere che il
tradizionale antagonismo e campanilismo delle città stato etrusche giocò un certo
ruolo; a Veio, infatti, la situazione politica era piuttosto travagliata dopo che ad un
periodo di regime repubblicano era seguita la restaurazione della monarchia. In
particolare, un signore di Veio aveva tentato di farsi eleggere sacerdote presso il
fanum Voltumnae (il santuario federale presso cui la lega delle città etrusche si
riuniva per decidere di politica estera e militare) ma non essendoci riuscito aveva
impedito il proseguimento dei giochi allontanandone i propri servi, numerosissimi.
In tale occasione il concilio si sarebbe dichiarato contro Veio per odio della
monarchia ma soprattutto per odio verso la persona del re.
9.3 - L’impresa di Aulo Spurinna: La posizione politica negli stessi anni di
Tarquinia trapela grazie ad un documento di età romana dell'antica famiglia degli
Spurinna, gli Elogia Tarquinensis, in cui si celebra il ricordo di un Velthur Spurinna
figlio di Larth Spurinna, pretore per due volte a Tarquinia che condusse in Sicilia
l'esercito e che "primo fra tutti gli Etruschi traversò il mare" ricevendone una corona
aurea. L'evento sembra collegabile alla guerra scatenata da Atene contro Siracusa
nel 415- 413 a.C. per l'egemonia sul Mediterraneo; non è meraviglia che i
Tarquinensi, in tale occasione, avessero deciso di appoggiare la potenza
peloponnesiaca considerando gli ostacoli
provocati dall'occupazione della rotte navali
tirreniche da parte dei Dionigi di Siracusa.
Secondo Tucidide (VI, 43,1; 88,6; 103,2) gli
strateghi ateniesi già presenti con una propria
armata in Sicilia richiesero formalmente aiuto alle
città etrusche che inviarono loro tre pentacontere
recanti un contingente di armati; questi ultimi
sbarcati e schieratisi in un tratto del fronte
terrestre, respinsero un attacco dei siracusani
cacciandoli in una zona paludosa. Come noto, la
guerra si rivelò per gli Ateniesi una catastrofe e
non è noto se il nostro Velthur abbia potuto
scampare al disastro; fatto sta che il particolare
attivismo di Tarquinia nello scacchiere
mediterraneo può giustificare un certo
antagonismo nei confronti di Veio
Fig. 82– Urnetta funeraria etrusca con rappresentazione di mostro
uscente da un pluteale, probabile citazione di un antico mito indigeno La caduta di Veio in mano romana fece presto
di cui si è perso il ricordo.
comprendere a Tarquinia di avere sottovalutato la
situazione; così tanto i Tarquiniesi che i Volsiniesi,
allarmati, riunitisi presso il Fanum Voltumnae con gli altri popoli dell'Etruria
proposero un intervento collettivo a protezione delle città alleate.
Tarquinia fu il secondo obiettivo romano del Tevere, come dimostrato negli anni
successivi dalle scaramucce avvenute per il controllo della cittadina di Sutri, situata
in un punto strategico tra il lago di Bracciano e il lago di Vico. Le fonti antiche
ricordano la perdita di due borghi (oppida) denominati Cortuosa e Contenebra,
forse corrispondenti ai centri delle necropoli rupestri di San Giuliano, Blera o San
Giovenale.
9.4 - Il sacco di Roma da parte dei Galli: nel 390 a.C., poco dopo la vittoria sui
Veienti, si colloca un grave trauma per la nascente potenza romana ovvero la discesa
in direzione del Tevere di gruppi di Galli Senoni; una tradizione nata in ambiente
etrusco ricordava il ruolo giocato da Chiusi nella discesa in Italia dei Galli per
intervento di un certo Arrunte di Chiusi; costui, entrato in conflitto con i suoi
concittadini a causa di un tale Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, si volle
vendicare allettando i Celti transalpini con del vino. Le armate galliche si
presentarono, dunque, davanti alle porte munite di Chiusi decidendo poi di
proseguire oltre lungo la valle del Tevere fino ad investire rovinosamente Roma
(Diodoro Siculo, XIV, 113; Livio, V, 33; Dionigi Alicarnasso, XIII, 10,11). Se Chiusi
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etrusca giocò un ruolo forse involontario nell'attirare le orde barbariche verso la
capitale, un'altra città etrusca, Cere, contribuì parzialmente alla sua salvezza. La
tradizione annalistica ricorda, infatti, la figura di un plebeo, un certo Lucio Albinio
(o Leukios) che avrebbe trasferito da Roma a Cere i sacerdoti flamini, le vestali e gli
oggetti più sacri della religione romana (sacra). È dunque evidente da questi fatti
come i Ceretani manifestassero amicizia verso Roma, ottenendone poco tempo dopo
il privilegio giuridico di civita sine suffragio. Si viene così, sin da ora a delineare una
contrapposizione tra Cere e Tarquinia nei confronti di Roma che sarà tanto più
evidente il secolo successivo. Non a caso in occasione del conflitto tra Roma e
Tarquinia, l'esercito romano ricevette l'autorizzazione a passare attraverso il
territorio ceretano (Livio, V, 16). Lo sconfinamento dei Galli in Italia centrale fece
gioco al tiranno di Siracusa Dionigi che diede rifugio ai Galli Senoni nelle sue
roccaforti di Rimini e Ancona, probabilmente utilizzandoli in qualità di mercenari
nelle sue molteplici campagne militari. Poco dopo, Cere compare nuovamente sulla
scena impedendo il passaggio dei galli attraverso il territorio romano dopo che
questi erano stati sconfitti e cacciati dalla regione apula.
9.5 - La guerra tra Roma e Tarquinia fra il
358 e il 351 a.C. È possibile dunque ipotizzare
che all'inizio del IV secolo a.C. si fosse creata, di
fatto, una contrapposizione tra Cere e Tarquinia,
la prima filoromana, la seconda impegnata in
un’azione egemonica sulle altre città della
Dodecapoli dopo la rovinosa caduta di Veio. Non
a caso, un secondo elogium scoperto a Tarquinia
(scritto dai discendenti di questa grande casata
aristocratica in età romana) cita un tale Aule
Spurinna figlio di Velthur che, dopo essere stato
eletto pretore per tre volte tolse il potere a un re
di Cere di nome Orgolnio; questo Velthur mostra
un raggio politico d'azione molto vasto perché
intervenne ad Arezzo per sopprimere una rivolta
servile, conquistò nove borghi appartenuti ai
Latini e condusse azioni di guerra nel territorio
falisco.
Proprio tali ultime azioni - non chiaramente
specificate sul piano cronologico e prive di
Fig. 83– Ricostruzione del monumento realizzato in onore della
ulteriori dettagli - potrebbero connettersi alla
famiglia degli Spurinnas con gli elogia tarquinensis scritti sul podio.
guerra scoppiata tra Roma e Tarquinia tra il 358
e il 351 a.C.; le fonti greche e romane (Tito Livio, VII, 12; Diodoro Siculo, XVI, 31,7;
36, 4; 45,8) raccontano che, in un primo tempo, i Tarquinensi intervennero
devastando il territorio romano e infliggendo una grave sconfitta al console Caio
Fabio Ambusto a cui seguì il sacrificio di 307 prigionieri romani nel Foro di
Tarquinia. E a questo punto si colloca il curioso episodio dei Romani terrorizzati
dall'apparizione davanti alle linee etrusche di sacerdoti muniti di faci e di serpenti,
cioè travestiti da furie infernali. L'impressione è che in occasione di questa guerra,
durata circa sette anni, l'intera nazione etrusca si mosse contro Roma e che,
nell'impossibilità di sfondare il fronte di Sutri, l'esercito etrusco si mosse in
direzione della foce del Tevere nella speranza di risalirlo per aggredire i Romani alle
spalle e prenderli di sorpresa. Se Aule Spurinna fu il comandante di questo grande
esercito confederato, è possibile che la deposizione del re ceretano Orlgonio si
motivasse con la necessità di indurre Cere ad abbandonare la tradizionale amicizia
con Roma. L'impresa bellica non ebbe tuttavia l'effetto sperato: qualche anno più
tardi, dopo aver respinto i Tarquinensi alle saline di Roma, i Romani fecero
prigionieri e uccisero nel Foro romano per rappresaglia 358 nobili etruschi; Roma
chiese a Cere di giustificarsi per la defezione, e la città ne uscì indenne solo
appellandosi alle passate benemerenze dell'epoca dell'incendio gallico e adducendo
cause di forza maggiore. Cerveteri ottenne in tale occasione una pace di 100 anni,
ovvero una sorta di protettorato.
Tarquinia spuntò una tregua di quarant'anni a dimostrazione del fatto che non vi
furono né vincitori né vinti, anche se il tentativo egemonico degli Spurinna, di fatto,
era fallito.
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Nei decenni succesivi, è possibile registrare solo più una serie di azioni scomposte da
parte delle diverse etnie antagoniste di Roma nell'area centro italica, spesso però
portate a termine collettivamente. Tra il 312 e il 308 a.C. i popoli dell'Etruria,
costituita una grande coalizione militare, approfittando della debolezza di Roma
impegnata nello scontro contro i Sanniti, tentarono nuovamente di sfondare il fronte
di Sutri ma senza esito. Nella seconda fase del conflitto, il console Quinto Fabio
Rulliano riuscì addirittura nell'ardita impresa di passare i Monti Cimini per
raggiungere l'Etruria settentrionale, ottenendo l'alleanza di Perugia, Cortona e
Arezzo e imponendo tributi a Tarquinia e sottraendo a Volsinii alcune roccaforti.
Sembra chiaro che in questa fase storica l'influenza politica di Tarquinia era già sulla
via del declino e l'iniziativa era passata in mano alle città dell'alto Tevere come
Volsinii e Chiusi; le città ancora più settentrionali come Arezzo (che si rifiutò di
intervenire nella guerra) Perugia e Cortona sembrano intenzionate a mantenere un
rapporto di amicizia con i Romani; fatto sta, che alla fine del secolo, l'Etruria non era
affatto pacificata.
9.6 - Sentino, 295 a.C.: l'ultimo grande atto di resistenza all'espansione politica e
militare etrusca si ebbe nel 295 a Sentino, quando una grande coalizione di Etruschi,
Embri, Galli e Sanniti che si spinse fino in Italia centrale in ultimo grande tentativo
di riscossa; Livio (X, 30) ci ricorda che tra gli altri furono battuti anche Volsiniesi e i
Rosellani. Un ultimo è fatale episodio fu la conquista di Volsinii da parte dei Romani
nel 264 a.C. - approfittando dei rivolgimenti interni della città - con il trasporto dei
suoi abitanti da Orvieto a Bolsena e la probabile depredazione del Fanum
Voltumnae. Varie sono le ragioni che portarono alla dissoluzione di quella grande
compagine di città-stato rappresentato dall'Etruria antica: da un lato la caratteristica
divisione campanilistica che non permise l'affermarsi di una vera e propria entità
statuale etrusca, dall'altro lato un certo conservatorismo e mancanza di modernità,
ben rappresentato dal mantenimento di regimi di stampo aristocratico a ben due
secoli di distanza dalle riforme periclee di Atene, o
più semplicemente, l'avversione verso profonde
riforme di tipo repubblicano del tipo di quelle
attuate Roma a partire da 509 a.C. dopo
l’espulasione dei Tarquini. È vero che nelle città
etrusche appare frequentemente una magistratura
di tipo elettivo (lo zilac, che nelle lamine di
Tarquinia verrà tradotto col nome latino di
praetor) ma è pur vero che a Cere, nel IV sec. a.C.,
persisteva ancora un regime monarchico. Forse si
manifestò una differenza tra le antiche città
oligarchiche della costa (in declino) e quelle più
avanzate dell'entroterra; alcuni storici sono
convinti che la classe dirigente di queste ultime,
forse anche per timore di restaurazioni o colpi di
Fig. 84– Urnetta funeraria etrusca rappresentante una scena di
lettura delle sortes (previsione del futuro) tramite alcune tavolette
mano tirannici, abbia favorito la progressiva
iscritte contenute in un cratere presso un’edicola templare.
emancipazione dei servi e le loro immissione nella
vita pubblica, fino al punto che le masse popolari, acquisiti pienamente i diritti civili
e avuto0 accesso alle magistrature, finirono con l'impossessarsi del potere e con
l'infierire sugli antichi oligarchi; a questi, non restò che rivolgersi all'aiuto di Roma,
dalla quale partì l'operazione di polizia che pose fine all'ultimo baluardo delle
comunità dei popoli etruschi.
9.7 – La città di Volterra: Volterra fu una città della dodecapoli etrusca situata
nel fertile entroterra toscano che beneficiò di un particolare periodo di benessere a
partire dal V sec a.C., in corrispondenza con la fase di progressiva decadenza delle
città costiere del Lazio settentrionale messe in crisi dalla competizione navale
siracusana e dal progressivo espansionismo militare romano.
Volterra nacque al centro di una zona di grande potenziale agricolo da cui era
possibile controllare il territorio delle vicine valli dell’Era, dell'Elsa e del Cecina;
situata su una ampia e imponente terrazza tufacea circondata su più lati da una
falesia a strapiombo, Volterra fu , di fatto, una città fortificata naturalmente in una
posizione che le permetteva di controllare visivamente la crinale appenninica, la
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valle dell'Arno (da San Miniato sino a Pisa), con la possibilità di scorgere in
lontananza persino le Alpi Apuane.
È dunque naturale che il sito presenti un'occupazione umana già in età neolitica e
che sia stato oggetto di attenzione dei gruppi villanoviani a partire dal IX sec. a.C.
La presenza etrusco- villanoviana è testimoniata da una serie di tombe a pozzetto
venute in luce nell'immediato circondario della città (quello meno urbanizzato e più
soggetto a fortunati ritrovamenti archeologici) concentrati presso le necropoli dette
delle Ripaie, del Castello, della Badia, di S. Chiara e della Guerruccia. Il materiale
della prima età del Ferro mostra un perdurare della facies villanoviana sino a tutto il
VII sec a.C., con una modestia di reperti di origine orientale - fino al VII secolo
inoltrato - derivante dal particolare isolamento geografico della regione, lontana dai
grandi traffici internazionali che facevano capo alle potenti città costiere.
L'economia di Volterra era basata su una pluralità di insediamenti agricoli sparsi,
popolati da un numero poco consistente di individui che presidiavano le principali
vie fluviali o di crinale. Dal punto di vista delle vie di comunicazione, la città era
collegata con Populonia mentre una serie di vie secondarie percorrevano la Val di
Cecina, la Val Era e la Val d'Elsa; in particolare, da quest'ultima si ripartivano due
strade di cui la prima diretta all'area fiorentina e l'altra all'importante città di Chiusi.
Le prime influenze orientaleggianti sono percepibili nei corredi sul
finire del VII sec a.C., come dimostrato dalla presenza di bronzetti di
produzione locale rappresentante giovani guerrieri scoperti presso
l'Acropoli.
Il periodo arcaico è poco conosciuto a causa delle distruzioni apportate
dalle molteplici frane che hanno coinvolto la terrazza tufacea, nonché
per gli spianamenti avvenuti il secolo successivo quando si volle dotare
la città di un poderoso muro protettivo. Dai pochi dati disponibili
sembra evidente che anche Volterra fu soggetta ad un'evoluzione
sociale, con l’imporsi di alcune importanti famiglie aristocratiche; tale
tendenza è ben testimoniata da una serie di stele in pietra risalenti alla
seconda metà del VI sec a.C., la più famosa delle quali è quella
riportante il nome di Avile Tite; di forma rettangolare, con l'estremità
superiore arcuata, tale stele reca raffigurato un guerriero barbato con
capigliatura a piani, armato di lancia e elmo crestato. Si tratta
chiaramente di una lastra sepolcrale del tipo ben conosciuto nella
vicina Vetulonia, da cui la moda si diffuse nell'agro fiorentino e
fiesolano. Alla fine del secolo, Volterra assunse finalmente un preciso
aspetto urbano, con la costruzione di una prima cinta muraria attorno
all'acropoli estesa per circa 1 km e 270 m; alla costruzione di tale cinta
si associò la realizzazione di prime costruzioni private civili in
muratura a secco, e l’erezione di tombe a camera scavate nella roccia
presso le necropoli della Guerruccia, di San Giusto e di Santa Chiara;
tombe a tumulo furono probabilmente costruite anche fuori dalla porta
a Selci e dell’Arco.
Nel corso del V sec a.C. si realizzò una seconda cinta muraria, lunga
ora 2 km, che comprendeva uno spazio abitativo di oltre 10 ettari; dal
Fig. 85– Stele funeraria con profilo a
piano di Castello, le mura si dirigevano a sud-ovest per contenere l'area
ferro di cavallo del guerriero Avile
Tite dal Museo Gaurdacci di Volterra. di piazza San Giovanni, via Buonparenti e via Sarti, quindi risalivano
sulla rocca nei pressi di Porta a Selci. In tale fase, sull'acropoli furono
edificati alcuni edifici di culto di cui sono stati recuperati resti fittili frammentari. Gli
scavi archeologici hanno permesso di portare alla luce diversi frammenti di ceramica
attica a figure rosse, segno che la città era ormai inserita nei grandi traffici
internazionali sfruttando l'approdo della vicina Populonia con cui si manteneva in
contatto col mercato greco massaloiota. In questa fase storica dovette anche iniziare
lo sfruttamento intensivo delle miniere di rame (presente in vene superficiali) di
Montecastelli, Monterufoli e Micciano in Val di Cecina; le dinamiche economiche
piuttosto vivaci portarono a un progressivo inurbamento di “campagnoli”; proprio in
questi anni si assistette, inoltre, allo sviluppo del polo portuale di Pisa che
rappresentò un nuovo sbocco marittimo per i prodotti agricoli e le manifatture
realizzate in città.
Nel corso del IV sec a.C. è possibile finalmente assistere alla massima floridezza
della città, testimoniata in primo luogo dalla costruzione di una grande cinta
muraria in blocchi squadrati di pietra locale; lunga circa 7,3 km, essa andava coprire
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ora un'area di ben 116 ettari. La nuova cinta muraria, realizzata evidentemente per
motivi di prestigio ma anche a seguito di una situazione di instabilità latente, andò
ad occupare alcune aree precedentemente destinate a necropoli, inglobandole entrò
l'area urbana. Grazie un'escursione di livello di circa 100 m, il nuovo muro
comprendeva le zone di Santo Stefano, San Giusto alla Guerruccia e costeggiava le
valli di Portone, Pinzano e Vallenuova. È probabile che non tutto lo spazio racchiuso
nel muro fosse occupato da abitazioni; probabilmente la cinta fu prevista anche per
poter accogliere popolazione e bestiame dai vici circostanti in caso di instabilità
militare.
La famosa Porta dell'Arco, vero e proprio simbolo della Volterra etrusca, è uno degli
accessi monumentali della città realizzati in questa fase storica; la forma originaria è
però alterata dalla costruzione dell'arco nel III sec a.C. che, dunque, non appartiene
alla costruzione originaria. Come dobbiamo dunque immaginare la porte etrusca di
IV sec. a.C.? Appartengono alla costruzione di età tardo classica i potenti stipiti
realizzati in blocchi squadrati, ma la parte sommitale doveva essere costituita
semplicemente da una grande impalcatura in legno capace di sostenere gli armati
preposti alla difesa della città e alcune prime balliste difensive. Porte gemelle furono
la cosiddetta Porta di Diana e la Porta d'Arno. Nel III sec a.C., - come si è accennato la porta meridionale della cinta fu dotata di un arco realizzato in conci di pietra,
decorata con tre teste scolpite, ormai illeggibili
perché irrimediabilmente erose; non è noto a
quali divinità o eroi si riferissero, ma è
significativo che una simbologia simile si ritrovi,
nella stessa fase storica, presso le porte di
Perugia e di Norchia.
Contemporaneamente, fu posta in atto una
grande ristrutturazione urbanistica
sull'acropoli, con la costruzione del cosiddetto
tempio A (di pianta rettangolare, cella unica, non
dissimile dal Capitolium di Cosa, dotato di lastre
fittili rappresentanti una Amazzonomachia e una
caccia al cinghiale calidonio) e del vicino tempio
B (posto a nord del precedente e ad adesso
parallelo, forse con una cella dotata di due alae e
doppia fila di colonne anteriore). La nuova
acropoli, studiata scenograficamente e affacciata
sulla città bassa, sembra ispirarsi ai più
Fig. 86 – Foto storica del principio del Novecento rappresentante
aggiornati modelli scenografici urbani
l’antica porta di Diana di Volterra inglobata in un castelletto di età
dell'ellenismo mediterraneo.
medievale.
Nei cimiteri suburbani, l'incremento demografico
è ben rappresentato dal diffondersi di tombe a camera gentilizia scavate nel tufo, di
pianta quadrangolare o circolare. Gli inceneriti erano deposti in urnette di tufo (o
raramente di terracotta) con rilievi decorativi situati sulla cassa e rappresentazioni
plastiche dei defunti sdraiati sul coperchio. Le urnette erano realizzate con una
forma a cassetta e chiuse, inizialmente, con un coperchio displuviato; già a partire
dalla seconda metà del IV sec a.C. invalse però l'uso di rappresentarvi i defunti in
posizione semisdraiata, probabilmente su influenza dell'arte coeva dell'Etruria
meridionale. Le figure rappresentate sul coperchio effigiano, generalmente, maschi
in forma eroicizzata, con torace nudo indossanti una ghirlanda, nell'atto di
banchettare tenendo in mano una pàtera. Il volto dei personaggi rappresentati non
sembra essere realistico ma stereotipato, capace di proporre una serie di "tipi" con
caratteristiche fisionomiche generiche, senza che questo abbia un reale intento
realistico; troviamo così il tipo del giovane, dell'adulto e del vecchio, adattabili senza
problemi a individui differenti; i tratti generali dei volti sono influenzati dalle varie
correnti artistiche coeve; in particolare si riconoscono tipi influenzati dalla moda
apollinea greca e italica, e altri influenzati dal tipi pergameni e romani arcaicizzanti.
Di grandissimo rilievo è soprattutto la produzione realizzata nel locale alabastro, una
tradizione artigianale che rimarrà viva per tutto il medioevo arrivando sino ai giorni
nostri. Con il passare del tempo, data l'alta richiesta di prodotti artigianali di qualità
e la disponibilità economica delle aristocrazie locali, è possibile che alcuni artigiani
di origine greca siano andati ad affiancarsi a quelli indigeni.
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La scelta dei soggetti mitologici rappresentati sulla cassa delle urnette fu
chiaramente influenzata dalla sensibilità della committenza; la tendenza era quella
di una identificazione tra il defunto e il personaggio principale della scena mitologica
rappresentata; molto spesso è presente nella concezione di tipo storico secondo cui
la vita di ogni individuo è dominata da un destino tracciato sin dalla nascita al cui
interno è possibile esercitare un moderato arbitrio: una situazione spesso condivisa
con gli eroi dei grandi miti della grecità classica ed ellenistica.
Vi è chi ha proposto che la ripetizione dei miti tebani (come la famosa Saga dei sette
a Tebe) sia un accenno alla difficile coesistenza tra diversi tipi di cittadini all'interno
della città con chiari riferimenti ai conflitti per la proprietà terriera a cui si assistette
proprio in quegli anni in molto città tirreniche.
Nel II sec a.C., per effetto dell'influenza culturale romana, sempre più
frequentemente del defunto viene
mostrato in costante una tunica o
un mantello; gradatamente si
giunge ad una stanca ripetitività e
a un linguaggio ormai scadente
che lascia presagire il declino
qualitativo del I sec a.C. Nel corso
del III sec a.C. il repertorio delle
urnette tende a semplificarsi, con
la rappresentazione di scene
come il viaggio del defunto
nell'aldilà, o episodi mitici con
scene di morte.
Nello stesso periodo fu avviata
una produzione locale di
ceramica a figure rosse imitante i
più pregiati prodotti di
provenienza attica;
particolarmente rappresentativo
del periodo è il cratere a
Fig. 87– La Porta dell’arco di Volterra, uno dei monumenti simbolo della città; i piedritti in
colonnette (kelebe) decorato con
opera quadrata sono di età classica etrusca ma l’arco con le tre protomi umane è una
riempitivi a reticolo o triangoli,
aggiunta di età romano-ellenistica.
spesso arricchiti con palmette;
parallelamente si diffuse anche la produzione di ceramica a vernice nera, destinata
ad avere un enorme mercato.
Nel periodo coloniale romano, Volterra scelse l'alleanza con Roma, fornendo
frumento e legno per la costruzione della flotta di Scipione nel 205 a.C. durante le
Fig. 88– Urnetta
Guerre Puniche. Tale scelta politica permise all'aristocrazia locale di sopravvivere
funeraria da Volterra
senza grandi traumi fino a 90 a.C., quando Volterra, conseguita la cittadinanza
di età tardo classica
romana, si schierò al fianco di Mario durante le guerre civili, fornendo alcuni reparti
con scena di
processione agli inferi: militari comandati da un tale Carinnas. Dopo la caduta di Mario e la vittoria di Silla,
i costumi e
molte famiglie aristocratiche furono costrette alla fuga (molte trovarono rifugio
l’iconografia sono già
addirittura in Tunisia): la città perse la cittadinanza romana e il suo territorio fu
chiaramente
ridotto ad ager publicus. Altre famiglie sopravvissute accettarono di essere
influenzati dalla
cultura romana.
inquadrate nel nuovo status quo romano. In particolare, la potente famiglia dei
Ceicna/Caecinae mantenne un primato
politico ed economico, finanziando la
costruzione del teatro romano della
città (a Vallebuona) nei primi anni del I
sec a.C.; fra le altre famiglie attive in
città nel periodo augusteo e primo
imperiale si annoverano i Laelii, i
Persii e i Petronii. Successivamente, la
città tagliata fuori dal percorso delle
principali arterie di traffico (l'Aurelia e
la Cassia), divenne uno dei tanti piccoli
municipi dell'Italia romana
transitando, gradatamente, nel
Medioevo quando potette toccare,
nuovamente, i fasti di un tempo.
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Fig. 89 – Planimetria
e disposizione dei
pannelli affrescati
nella Tomba della
Quadriga Infernale di
Sarteano (IV sec
a.C.).
9.8 - Sarteano, la Tomba della Quadriga infernale: la Tomba della quadriga
infernale rappresenta uno degli esempi più significativi e monumentali di tomba
etrusca di età classico- ellenistica; la sua eccezionalità sta anche nel fatto di essere,
tra l’altro, l'ultima grande scoperta archeologica di tale tipo dell'Etruria antica, cosa
che le ha dato un certo risalto nella stampa specializzata sin dal 2003 quando la
scoperta fu ufficialmente annunciata. La tomba fa parte di un complesso sepolcrale
situato presso la necropoli detta delle Pianacce, a breve distanza dal centro storico di
Sarteano.
La tomba, al pari di quelle vicine, presenta un lungo dromos lungo 5 m, scavato con
lieve pendenza in un banco naturale di travertino, al cui termine una porta dà
accesso ad una camera sepolcrale completamente dipinta su uno strato di
preparazione di intonaco bianco.
Procedendo dall'ingresso, sulla parete sinistra, si staglia una megalografia
rappresentante una scena di viaggio agli inferi, allo stato attuale “unica” in tutto il
panorama dell'etruscologia. Due grifoni e due leoni dai colori vivaci trainano un
carro a due ruote guidato da un demone dall'aspetto mostruoso, con naso aquilino,
zanne di cinghiale, chiari segni di putrefazione della carne e occhi spiritati. La
quadriga è rappresentata curiosamente nell'atto di uscire dal sepolcro, dirigendosi
verso la porta di accesso, anticamente sbarrata. Sin dall'epoca della scoperta si è
aperta una vivace discussione relativa all'identificazione di tale figura, forse una
rappresentazione in chiave etrusca del Caronte greco, forse uno dei tanti demoni
inferi che popolavano il pantheon etrusco nel cosiddetto periodo della decadenza.
Gli animali inferi che trainano la quadriga sembrano procedere in modo ordinato
sotto il pieno controllo dell'auriga, al punto che mostrano la zampa destra sollevata,
quasi conducessero una marcia trionfale. Il fatto poi che il carro sia rappresentato
nell'atto di uscire dalla tomba sembra sottintendere la credenza, tutta etrusche, che i
demone inferi potessero agire indisturbati nel mondo dei vivi; forse, ad una vera e
propria consistenza corporea del demone accenna anche l'ombra nera riportata sul
fondo che sembra proiettarsi dal busto di Caronte. La scena successiva, leggermente
deturpata, rappresenta un adulto e un giovane distesi su una tipica kline in un
colloquio affettuoso; in particolare, l'uomo più anziano appoggia affettuosamente la
mano destra sulla spalla destra del giovane, mentre quest'ultimo, protendendosi
verso di lui con entrambe le mani, tocca affettuosamente il dorso della mano sinistra
dell'uomo sdraiato. La scena è piuttosto enigmatica: il ragazzo più giovane presenta
un colorito della pelle più vivace, quello sulla destra, più anziano e dall'aspetto più
perplesso, presenta un colore della pelle anch’esso rossastro ma meno acceso. Che si
tratti di un simposio aristocratico è garantito dalla presenza di un giovane servitore
nelle immediate vicinanze nell'atto di tenere in mano un colino per filtrare il vino. Si
tratta del colloquio intimo tra due familiari (un uomo più anziano già partito e il suo
discendente destinato a essere sepolto a sua volta nella tomba) o di una scena
69
simposiaca con connotazioni di carattere omosessuale?
Il tema della rigenerazione della vita dopo la morte è poi sottolineato da un fregio
rappresentante alcuni delfini che si tuffano tra le onde marine, forse atti a
simboleggiare il momento di passaggio nel mondo ultraterreno. Sulla camera di
fondo è dipinto, infine, uno straordinario serpente a tre teste, probabilmente uno dei
tanti mostri che popolavano il mondo dell'oltretomba nell'immaginario etrusco. Sul
timpano della parete breve di fondo sono inoltre rappresentati due ippocampi;
appoggiati al terreno, immediatamente in basso, si trovano i resti di una colossale
sarcofago in alabastro grigio, rinvenuto in frammenti e poi restaurato. Sul coperchio
il defunto, recumbente, si appoggia a due cuscini, mentre sul rilievo della cassa è
rappresentata una doppia kline in rilievo.
Il corredo, recuperato in frammenti, comprende due coppe a figure rosse della
cosiddetta Officina Senese, una coppa del Gruppo Clusium, ceramiche a vernice
nera, ceramiche grigie e acrome, anfore e pedine da gioco in pasta vitrea.
Lo stile delle pitture e gli oggetti del corredo permettono di precisare un cronologia
della seconda metà del IV sec a.C.; i confronti stilistici delle pitture rimandano alle
stesse maestranze già conosciute presso la necropoli di Orvieto, in particolare presso
la necropoli di Settecamini.
«La necropoli delle Pianacce, mostra la ricchezza delle famiglie insediate nel
territorio di Sarteano tra l'epoca tardo classica e il primo ellenismo; questo nucleo
cimiteriale, inserito in un paesaggio di straordinaria bellezza, costituisce, dopo le
recenti scoperte, uno dei più significativi dell'Etruria antica».
Fig. 90 – Interno
della Tomba dei
Rilievi di Cerveteri
appartenuta alla
famiglia dei Matunas
(IV sec a.C.).
9.9 - Cerveteri, Tomba dei rilievi: nell'ambito dello studio delle tipologie
necropolari del periodo etrusco classico- ellenistico, merita particolare attenzione la
Tomba dei Rilievi di Cerveteri; quest'ultima, oggi visitabile solamente attraverso una
vetrata protettiva per gravi problemi di conservazione, presenta caratteri davvero
eccezionali che ne rendono la visita insostituibile. La tomba - scavata a grande
profondità in un profondo banco tufaceo e situata all'interno della necropoli
orientalizzante della Banditaccia - fu scoperta nel corso dell'Ottocento dal Marchese
Campana. Datata a cavallo tra IV e III sec a.C., essa è costituita da un’unica stanza
rettangolare situata al fondo di un profondo di dromos di accesso; volutamente
destinata a imitare in tutti particolari la casa dei vivi, la tomba fu scolpita con un
soffitto imitante cassettoni, con l'aggiunta di due pilastri quadrati con capitello
eolico finalizzati al meglio chiarire il riferimento all'ambiente domestico e a
garantire la staticità dell'ipogeo.
Lungo le pareti si trovano delle nicchie quadrangolari (loculi) conformate a forma di
lettino sepolcrale destinate a ospitare i corpi di tredici individui; ogni loculo è ornato
da cuscini scolpiti nel tufo posti all'altezza della testa del defunto, arricchiti dal
colore grazie a una stuccatura superficiale dipinta. La tomba doveva essere
evidentemente sovraffollata se è vero
che, a livello del pavimento, furono
aggiunte trenta fosse funerarie per
inumazione, separate l'una dall'altra da
listelli a rilievo.
Caratteristica peculiare della tomba è la
raffinata rappresentazione sulle pareti
dell'instrumentum domesticum e degli
oggetti appartenuti al proprietario,
grazie a una stuccatura a rilievo
policromo di grande effetto scenico. La
nicchia principale, sul fondo, è decorata
sull'architrave da due scudi circolari, un
elmo e una spada da guerriero. Il corpo
del lettino (scolpito anch'esso a rilievo e
dunque illusionistico), rappresenta sulla
sinistra il mostro marino Scilla dal corpo
anguiforme dotato del caratteristico
timone mentre, alla sua destra, si
osserva il cane infernale Cerbero a tre
teste, con la zampa alzata in posizione
70
araldica e quel passo cadenzato che abbiamo già trovato presso la Tomba della
quadriga infernale. Particolarmente graziosi sono poi i due sandali appoggiati su un
lungo poggiapiedi alla base del letto, probabile accenno alla deposizione delle vesti
effettuata dal defunto prima del suo viaggio nel mondo dei morti. Sul pilastro di
sinistra si riconoscono invece una kylix per il vino, uno oinochoé per versare e, più in
basso, un'arca in legno su cui sono appoggiati due panni ripiegati. Sul pilastro di
destra si osservano invece due collane, un flabello e un bastone da passeggio.
Proprio al centro dell'alcova, un’iscrizione riporta il nome del personaggio che fu
probabilmente sepolto nella nicchia: il nome, femminile, è quello di Ramtha
Matunai Canatnei; la situazione non stupisce dal momento che gran parte degli
oggetti rappresentati appartengono alla sfera muliebre, fatta eccezione per le armi
situate sull'architrave che, probabilmente, rappresentano un elemento araldico e di
status familiare. Anche i pilastri che sostengono il soffitto situati al centro della sala
sono arricchiti da una serie di rilievi molto veristici che rappresentano una
straordinaria raccolta di oggetti di uso domestico; come si è detto, tali oggetti non
sono stati scolpiti nel tufo ma applicati in stucco sulle pareti dipinte in modo da
assomigliare il più possibile a quelli reali. Sul pilastro di sinistra si riconoscono una
corda arrotolata, un lungo coltello, un bastone appeso per un laccio e uno oinochoé;
sulla parete bassa del pilastro è ritratto un animale che inarca la schiena, forse un
gatto. Sull'altra faccia del pilastro è ritratta un'anatra nell'atto di beccare a terra, un
lungo bastone ricurvo, un carrello su rotelle in bronzo - probabilmente funzionale
come portavivande oppure come braciere -, una kylix di tipo falisco e una sacca con
oggetti sovraimpressi.
Sul pilastro di destra si riconoscono un mestolo, un portacoltelli con due coltelli
inseriti, alcuni spiedi, una bacinella con treppiede e un pestello. In alto vi è un
oggetto in vimini dall'interpretazione dubbia, forse una forma per formaggi. Sulla
faccia interna del pilastro si trovano, infine, un lungo bastone da pastore, mestoli,
una pinza, un bastoncino a cui è applicata una rotella dentata, un probabile tavolo
da gioco con una borsetta per i dadi. In basso, due animali: un'oca con la testa
piegata e un gatto che gioca con una lucertola.
La datazione della tomba è stata possibile grazie alla sagoma di alcuni oggetti
rappresentati sui pilastri, in particolare grazie alla presenza di un oinochoé bronzeo
tipico della fine del IV sec a.C. e di una coppa di tipo falisco più o meno
contemporanea. Tutti i rilievi sono stati effettuati per essere visti da chi accedeva alla
tomba, come dimostrato dal fatto che la parte posteriore dei pilastri è del tutto priva
di rilievi a stucco e di rappresentazioni.
Immediatamente ai lati della porta d'ingresso (purtroppo non visibili nell'attuale
sistemazione con vetri protettivi) si trovano le riproduzioni in stucco di due grandi
bracieri dotati di manici, di due schinieri anatomici da guerra e di due buccine
(trombe da guerra che gli Etruschi adottarono dai Romani, dalla forma
particolarmente arrotondata). Completano la scena due bucrani affiancati
sull'architrave della porta.
Su un cippo trovato nel dromos che scende alla tomba, infine, è stata scoperta
un'iscrizione in etrusco che ne attribuisce la proprietà alla nobile famiglia ceretana
dei Matuna; essa recita: «Vel Matunas, figlio di Laris ha fatto costruire questa
tomba». Nel dromos è stata anche ritrovata la testa di un leone ora esposta all'inizio
della scalinata; essa, molto probabilmente, faceva parte di una coppia di statue che
ornavano l'ingresso della tomba allo scopo di proteggere la camera sepolcrale dagli
spiriti maligni.
9.10 - La necropoli di Sovana: la necropoli etrusca di Sovana fu scoperta nella
primavera del 1843 dal pittore e viaggiatore S. I. Ainsley che si era fatto
accompagnare da alcuni cittadini locali nelle boscaglie circostanti il centro storico,
nella speranza di individuare il municipium romano di Suana citato da Plinio e da
Claudio Tolomeo. Ainsley, non appena giunto in prossimità delle falesie rupestri, ne
riconobbe il carattere di artefatto; poco tempo dopo, giunse sul posto George Dennis
che dedicò un intero capitolo del suo libro Cities and Cemeteries of Etruria (1847)
alle necropoli rupestri di Sovana. In tale occasione furono riconosciute e denominate
le tombe della "Fontana" (oggi detta della Sirena), la tomba del Sileno, la tomba Pola
e la via cava di San Sebastiano.
71
Fig. 91 – Ricostruzione
della Tomba del Tifone
di Sovana
Fig 92 – Alzato della
Tomba Ildebranda a
Poggio Falceto di Sovana
(IV sec a.C.)
Importanti ricerche furono quindi condotte tra il 1927 e il 1928
da Renuccio Bianchi Bandinelli , in occasione delle quali furono
censite un centinaio di tombe a facciata rupestre; tra le altre, la
tomba Ildebranda, individuata nel 1925 da G. Rosi.
Per concludere, negli anni sessanta del Novecento, l'Università di
Pisa scoprì la cosiddetta "Tomba Pisa" a Poggio Grezzano e la
tomba del Sileno a Monte Rosello. Al 1974 risale la scoperta, del
tutto inaspettata, di una piccola camera con i blocchi di chiusura
ancora in posto, situata nella platea della tomba Ildebranda,
dotata di un corredo che comprendeva un servizio da simposio di
bronzo.
Se, dunque, la necropoli in linea di massima è ben conosciuta,
molto scarse sono le notizie relative all'insediamento etrusco,
anche a causa della continuità di occupazione nel corso dei secoli.
Con ogni probabilità, la città antica occupava tutto il pianoro oggi
sede dell'insediamento medievale. Prime tracce di un
insediamento urbano sono databili al VI sec a.C., con case
rettangolari individuate negli scavi presso il Duomo; nel rispetto
dello schema diffuso in quegli anni in Etruria, tali case avevano
pareti realizzate con una intelaiatura in pali di legno costipati con
paglia e argilla, mentre i tetti, appoggiati ad una travatura lignea,
erano già coperti con tegole di terracotta; l’intero pianoro
sommitale era circondato da una struttura difensiva. Per quanto concerne l'età
ellenistica è noto un quartiere artigianale del III sec a.C. costruito con mattoni crudi
in prossimità del Duomo. La decadenza del centro sembra essere collegata agli
eventi storici che portarono, nel 280 a.C., alla caduta di Vulci ad opera dell'esercito
romano, un evento che ebbe effetti rilevanti per tutta la regione ruotante attorno al
corso del fiume Fiora. Questo evento non comportò, tuttavia, l'abbandono del sito
che manifesta una certa vivacità nel corso del periodo romano.
Per quanto concerne la necropoli, il settore più grandioso si situa sulle colline a nord
del torrente Calesine; qui le facciate rupestri si allineano lungo una falesia rocciosa
lunga quasi 1 km mezzo con la facciata volta a meridione. La prevalenza delle tombe
è del tipo detto "a dado" ma, in alcuni tratti, spiccano edifici di grande prestigio e
qualità architettonica come la Tomba
Pola e la Tomba Ildebranda.
Presso la località Poggio Stanziale
sorge, ad esempio, la Tomba del Tifone
(IV sec a.C.); si tratta di una tomba a
edicola scavata nella roccia, sormontata
da un timpano decorato con una
protome femminile in aggetto,
circondata da foglie e fiorami.
Originariamente fu interpretata da G.
Denis come l'immagine di Tifone - il
mostro marino onnipresente nella
iconografia etrusca ellenistica - ma si
tratta di una semplice figura femminile
velata. L'immagine, originariamente
colorata con tinte vivaci che le conferiva
un aspetto vagamente barocco, trova un
confronto stilistico con decorazioni di
ambiente magnogreco. Il vano
rettangolare sottostante è scolpito con
un soffitto a cassettoni decorato a
losanghe; varie tracce di stucco
dimostrano che originariamente il
monumento era rifinito con una ricca
policromia. Il vano è inquadrato da due
lesene scanalate mentre una scala
scavata nella roccia, sulla destra,
permetteva di raggiungere il vertice del
monumento dove probabilmente veniva
72
Fig. 93 – La camera
sepolcrale recentemente
scoperta a lato della più
famosa Tomba
Ildebranda a Poggio
Falceto di Sovana (IV sec
a.C.)
tenuta la allocuzione in occasione delle esequie pubbliche.
Poco oltre, in località Poggio Felceto si trova la famosa Tomba Ildebranda (prima
metà del III sec a.C.); essa prende il nome da papa Gregorio VII, nativo di Sovana.
La tomba presenta una facciata a imitazione di un tempio classico, con alto podio
modanato accessibile mediante due scale laterali, facciata a sei colonne con base
attica, colonne scanalate e capitelli eclettici decorati con effigi maschili e femminili
policrome, foglie d’acanto, trabeazione ionica decorata a rilievo con una serie di grifi
affrontati, alternati a rosette, e trattenuti per la coda da una figura femminile (forse
la Signora degli Animali/Potnia Theron). Il grande pronao presenta un soffitto
scolpito a finti lacunari; alle spalle della fronte colonnata scolpita è dipinta - nella
roccia - una falsa porta con grata a rilievo. Il monumento era coronato da un grande
cippo di tufo.
Come di regola presso le necropoli ellenistiche costruite lungo il corso del Fiora, la
camera sepolcrale non si trova alle spalle della facciata ma è raggiungibile tramite un
ripido corridoio che conduce ad un ambiente nascosto sottostante. Nel caso della
Tomba Ildebranda un lungo dromos immette in un'ampia camera funeraria
sotterranea situata al di sotto della cella del tempio: a pianta cruciforme, presenta un
soffitto displuviato e un'unica banchina destinata
a deposizioni ad inumazione, un tempo situate
all'interno di un sarcofago ligneo andato perduto.
La tomba fu saccheggiata ab antiquo e non è stato
possibile recuperare alcunché del corredo di
accompagno, eccetto pochi frammenti di ceramica
a vernice nera rinvenuti durante gli scavi di
Renuccio Bianchi Bandinelli. In occasione di
recenti restauri è stato poi possibile individuare
tracce di statue acroteriali angolari dall’aspetto di
animali accosciati. L'ampia platea antistante,
anch'essa scavata nella roccia, ospita altre tre
tombe monumentali di dimensioni minori,
mentre sul lato ovest si aprono piccole tombe a
incinerazione.
Nel 1974, in occasione dei restauri, fu possibile
identificare una piccola tomba intatta di scavata
lungo la parete destra di un dromos scavato ortogonalmente rispetto a quello
principale della Tomba Ildebranda. All’atto dello scavo la terra riempiva la tomba
fino al livello delle banchine sepolcrali: su quella di sinistra fu possibile recuperare
un candelabro, degli oinochoai e una pàtera in bronzo, mentre sulla banchina di
fondo su quella destra furono trovati due grandi anfore. Il corredo era completato da
ceramiche a vernice rossa, ceramiche in argilla decorata con fasce a vernice nera o
bruna e emotivo a gocce, una tipologia di probabile produzione locale. Il nucleo più
significativo del corredo è rappresentato da un servizio da banchetto in bronzo
destinato alle occasioni conviviali e simposiache.
In prossimità di Poggio Prisca si trovano la Tomba Pola e la Tomba dei Demoni
Alati; la prima è una tomba “a tempio” a otto colonne su alto podio con grande
camera di sepoltura dotata di banchina continua lungo le pareti, violata e
saccheggiata in antico. La struttura ha subito, nel tempo, un notevole degrado,
conservando solo una minima parte del colonnato originario; si data al III sec a.C.
La Tomba dei Demoni Alati si trova a poche decine di metri a ovest della Tomba
Ildebranda ed è venuta in luce alla fine degli anni Novanta in occasione delle attività
di ricognizione effettuate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici e
dall'Università di Venezia. La tomba era stata nascosta fino ad allora da un cumulo
di massi di crollo, cosa che ne ha garantito l’eccezionale stato di conservazione; al
centro di una terrazza artificiale larga circa 8 m e profonda circa 4 m si eleva un
colossale blocco cubico sulla cui fronte era scolpita la facciata di un edificio ad
edicola. Fulcro della Tomba è un profondo vano scavato, con copertura a volta e
inquadrato da due statue a tutto tondo rappresentanti personaggi femminili alati
indossanti una tunica a pieghe con pesanti mantelli. L'identificazione delle due
statue come Vanth infernali è garantito dai resti ancora riconoscibili di un attributo
impugnato dalla statua situata di sinistra, una fiaccola rovesciata portata sotto
l'ascella.
73
All'interno delle nicchie è stato possibile portare
alla luce una scultura tridimensionale
rappresentante il defunto disteso su una kline
nell'atto di porgere una patera ombelicata;
particolarmente impressionanti le vivaci tracce
di policromia ancora conservate su tutto il
monumento.
La facciata era coronata da un timpano
triangolare con trabeazione scolpita, decorata
con triglifi e patere, nonché sima rampante
costituita da toro e guscio. Il frontone, oggi
posato a terra nel piccolo recinto protettivo
allestito dalla Soprintendenza Archeologica, era
decorato con un imponente figura di demone
marino dotato di grandi ali e gambe anguiformi
terminanti in code di pesce; l'identificazione
con Scilla è garantito dal grande timone di nave
Fig. 94 – Defunto sdraiato su una kline all’interno della nicchia della
impugnato dalla figura. Nella platea antistante
Tomba dei Demoni alati di Sovana (III sec a.C.)
la facciata, in posizione simmetrica, erano
quindi posate due imponenti sculture raffiguranti una sfinge e uno splendido leone
in assalto.
9.11 - Il cavone di San Sebastiano e le “vie cave”: Nelle immediate adiacenze
della necropoli è possibile, infine percorrere, una delle più impressionanti e
monumentali “vie cave” dell'intera Etruria; per “via cava” si intende, genericamente,
una strada scavata nel tufo dalle pareti tendenzialmente verticali, di lunghezza
oscillante dal centinaio di metri sino a un chilometro e oltre. Le vie cave vengono
considerate, in linea di massima, dei piccoli enigmi dal momento che si trovano
prevalentemente in prossimità di aree cimiteriali e il loro aspetto, fortemente
evocativo, emana qualcosa di misterioso. Per comprendere questo interessante
fenomeno è possibile effettuare alcune considerazioni di massima: tutte le vie cave
conosciute mettono in comunicazione pianori irrigui (situati nelle immediate
vicinanze della città e in posizione altimetricamente rilevata) con il centro cittadino
vero e proprio. Caratterizzate da una debole pendenza esse sono state, talora,
soggette a successivi rifacimenti per cui è possibile riconoscere nelle immediate
vicinanze altre vie cave di minore dimensione con andamento più o meno parallelo
alla principale. La loro antichità è garantita dal fatto che lungo il loro percorso è
spesso possibile individuare artefatti di età etrusca. Nel caso del cavone di Sovana si
riconoscono, in particolare, alcune piccole tombe rupestri ricavate in extremis alla
sommità della falesia, nonché una iscrizione in lingua etrusca a 1,70 m dall'attuale
piano di calpestio riportante il gentilizio VERTNA, associato ad una incisione a
forma di svastica (un antico simbolo solare diffuso tra le popolazioni indoeuropee).
Alcune vie cave come quella di Norchia hanno subito delle trasformazioni in età
romana. Nel caso di Norchia, ad esempio, è possibile dimostrare che il piano di
calpestio era un tempo ricoperto da un tavolato
ligneo al di sotto del quale passava una canale per
lo sfogo dell'acqua piovana; tale
monumentalizzazione della strada si collega al
passaggio in questo tratto proprio di un ramo
dell'antica via Clodia.
In linea di massima, non esiste una spiegazione
"definitiva" sulla genesi e l'evoluzione di tale
tipologia architettonica ma, studiando una via
cava, è necessario ricordare che il livello di
percorrenza odierno si trova spesso più in basso
di quello originario e che il tufo cavato, non molto
difficile da lavorare, poteva essere
tranquillamente utilizzato per la costruzione di
edifici pubblici e privati nelle vicine città; a mio
parere, infatti, molte di queste vie cave sono da
considerarsi, al contempo, sia vie di
Fig. 95 – La via Cava presso la necropoli di Sovana; non molto
comunicazione, sia cave da costruzione. La loro
distante si trova una seconda via cava denominata di S. Sebastiano.
74
vicinanza ai cimiteri si lega al fatto che le necropoli, nell'antichità, erano
regolarmente disposte nelle immediate vicinanze delle mura cittadine e, dunque
nello spazio percorso dalle principali vie di comunicazione terrestri. Tale
interpretazione non osta, tuttavia, con la possibilità che molte di esse, per il proprio
carattere monumentale, siano state utilizzate in età etrusca in funzione delle
processioni funerarie, mantenendo così viva una tradizione consolidata che trova
conforto archeologico nella cosiddetta Via dei morti di Cerveteri (costruita, tuttavia,
alla luce del sole).
Per quanto concerne la via cava di Sovana è poi possibile segnalare il ritrovamento
(nel 1908 da parte del sacerdote di Pitigliano Nicomede Segnini) di due statuette
magiche in piombo rappresentanti un uomo e una donna nudi con le mani legate
dietro alla schiena proprio in corrispondenza di una piccola tomba situata alle falde
del cavone. Sulla gamba destra, le statuette recano iscrizioni onomastiche riportanti
il nome maschile di Zerur Cecnas e quello femminile di Velia Satnea. I due reperti
furono raccolti all'interno di una piccola camera a pianta rettangolare con semplici
banchine lungo le pareti, in associazione ad alcuni frammenti di corredo vascolare
comprendente ceramica depurata di imitazione corinzia inquadrabile
cronologicamente attorno 600 a.C.
Le due statuette per i caratteri stilistici devono
però datarsi al III sec a.C., segno che esse furono
deposte molto tempo dopo la sepoltura
originaria e con finalità distinte. Si tratta con
ogni probabilità di due statuette magiche
destinate alla maledizione dei due individui
rappresentati; rimandano a tale pratica magica
sia le braccia legate lungo la schiena che l'utilizzo
del materiale plumbeo, notoriamente collegato
nell'antichità agli inferi. Si tratta dell'attestazione
archeologica di una forma di magia popolare ben
conosciuta anche nell'ambiente romano dove
maghi e fattucchiere erano soliti preparare per i
propri clienti le cosiddette tabulae defixionis.
Tale interpretazione è confermata dalla recente
scoperta di una tomba etrusca di età medio
Fig. 96 – L’iscrizione etrusca VERTNA scolpita sul fianco sinistro della
ellenistica nell'area di Sovana riportante sul
via cava di Sovana associata ad una svastica “solare”.
frontone anteriore proprio il nome della gens
Satnei.
Sandro Caranzano
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