La fine dell’Etruria ellenistica Dispensa 9 - Lezioni di marzo-aprile 2012 Miscellanea a cura di Sandro Caranzano, riservati ai fruitori del corso di archeologia presso l'Università Popolare di Torino 2011–2012 9.1 - La decadenza del mondo etrusco: Nell'ambito delle antiche civiltà del Mediterraneo, il V sec a.C. è segnato dall'egemonia militare e navale di Atene, messa in crisi sul finire del secolo dalla Guerra del Peloponneso e dall'ascesa militare e coloniale di Siracusa; il quadro politico internazionale culminato nell'occupazione progressiva del Mare Tirreno e del Mare Adriatico da parte dei siracusani contribuì certamente al generarsi di una crisi sociale ed economica delle grandi città costiere dell'Etruria meridionale come Cerveteri, Tarquinia, Vulci e Veio che avevano espresso nelle fasi villanoviano, orientalizzante e arcaico una preminenza culturale e artistica di tutto rilievo. Non possiamo, infatti, dimenticare che il tiranno di Siracusa, Dionisio, non solo fu in grado di celebrare una grande vittoria navale contro Atene, ma dopo la presa di Reggio nel 388 a.C. ottenne la sudditanza politica di tutte le antiche colonie greche dell'Italia, avventurandosi sulla sponda illirica del mare Adriatico dove fondò le colonie di Issa e Lissos e Ancona nella Marche, ponendo poi solide basi nell'emporio etrusco veneto di Adria. Abbiamo poi già avuto poi modo di ricordare il saccheggio da parte di Dionigi del porto di Pyrgi solo quattro anni più tardi: i siracusani portarono via dal santuario un grande bottino di prede e prigionieri per un valore di non meno di 1500 talenti (Diodoro Siculo,XV, 15,3). Praticamente negli stessi anni si assistetette, infine, ad un potente processo espansionistico di Roma destinato, nell'arco di qualche secolo, a stravolgere la geografia politica dell'Italia antica a tutto svantaggio della città etrusche. Ancora una volta i più svantaggiati furono i centri finitimi al corso del Tevere, così che è possibile seguire con più facilità l’evolversi della società etrusca studiando quelle città dell'entroterra che caddero sotto l'egemonia politica romana con un ritardo di circa un secolo, in particolare Chiusi e Orvieto (Volsinii). Fig. 81– Coppia di sposi sul coperchio di urna sepolcrale etrusca di età tardo classica conservata presso il Museo Guarnacci di Volterra. 9.2 - Caduta di Veio: Per quanto concerne il difficile rapporto con Roma, la prima città soggetta a un confronto/scontro con la capitale dei Latini fu, per ovvie ragioni geografiche, Veio. Nel 438 a.C. causa scatenante di un primo conflitto fu l'atteggiamento ostile di Fidene, una cittadina situata lungo il corso del Tevere storicamente alleata di Veio che, unilateralmente, aveva deciso di interrompere la navigazione del Tevere in direzione della Sabina e dell'Umbria: una decisione che avrebbe avuto effetti devastanti sull'attività commerciale di Roma in direzione dell'entroterra. Le fonti antiche (Livio, IV, 17) ricordano anche il nome del re veiente , un tale Larth Tolumne, ucciso in battaglia da parte del tribuno o console romano Aulo Cornelio Cosso, sceso in campo con l'esercito dopo l'uccisione degli ambasciatori romani inviati a Fidene per reclamare contro la rottura dell'antico patto di alleanza. Le fonti ricordano come Aulo Cornelio dedicasse le armi del sovrano ucciso presso il Tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio (le spoglie opìme) esattamente come aveva fatto 62 Romolo dopo l'uccisione di Tito Tazio. Dopo una controffensiva dei Veienti alle porte di Roma, la città cadde nel 396 a.C., evento capitale per la storia etrusca in quanto primo caso di assorbimento di una città della Dodecapoli nell'orbita di Roma. Non è noto se la caduta di Veio sia stata vissuta nel mondo etrusco come un grave choc, ma le fonti etrusche mediate da Tito Livio sembrano far intendere che il tradizionale antagonismo e campanilismo delle città stato etrusche giocò un certo ruolo; a Veio, infatti, la situazione politica era piuttosto travagliata dopo che ad un periodo di regime repubblicano era seguita la restaurazione della monarchia. In particolare, un signore di Veio aveva tentato di farsi eleggere sacerdote presso il fanum Voltumnae (il santuario federale presso cui la lega delle città etrusche si riuniva per decidere di politica estera e militare) ma non essendoci riuscito aveva impedito il proseguimento dei giochi allontanandone i propri servi, numerosissimi. In tale occasione il concilio si sarebbe dichiarato contro Veio per odio della monarchia ma soprattutto per odio verso la persona del re. 9.3 - L’impresa di Aulo Spurinna: La posizione politica negli stessi anni di Tarquinia trapela grazie ad un documento di età romana dell'antica famiglia degli Spurinna, gli Elogia Tarquinensis, in cui si celebra il ricordo di un Velthur Spurinna figlio di Larth Spurinna, pretore per due volte a Tarquinia che condusse in Sicilia l'esercito e che "primo fra tutti gli Etruschi traversò il mare" ricevendone una corona aurea. L'evento sembra collegabile alla guerra scatenata da Atene contro Siracusa nel 415- 413 a.C. per l'egemonia sul Mediterraneo; non è meraviglia che i Tarquinensi, in tale occasione, avessero deciso di appoggiare la potenza peloponnesiaca considerando gli ostacoli provocati dall'occupazione della rotte navali tirreniche da parte dei Dionigi di Siracusa. Secondo Tucidide (VI, 43,1; 88,6; 103,2) gli strateghi ateniesi già presenti con una propria armata in Sicilia richiesero formalmente aiuto alle città etrusche che inviarono loro tre pentacontere recanti un contingente di armati; questi ultimi sbarcati e schieratisi in un tratto del fronte terrestre, respinsero un attacco dei siracusani cacciandoli in una zona paludosa. Come noto, la guerra si rivelò per gli Ateniesi una catastrofe e non è noto se il nostro Velthur abbia potuto scampare al disastro; fatto sta che il particolare attivismo di Tarquinia nello scacchiere mediterraneo può giustificare un certo antagonismo nei confronti di Veio Fig. 82– Urnetta funeraria etrusca con rappresentazione di mostro uscente da un pluteale, probabile citazione di un antico mito indigeno La caduta di Veio in mano romana fece presto di cui si è perso il ricordo. comprendere a Tarquinia di avere sottovalutato la situazione; così tanto i Tarquiniesi che i Volsiniesi, allarmati, riunitisi presso il Fanum Voltumnae con gli altri popoli dell'Etruria proposero un intervento collettivo a protezione delle città alleate. Tarquinia fu il secondo obiettivo romano del Tevere, come dimostrato negli anni successivi dalle scaramucce avvenute per il controllo della cittadina di Sutri, situata in un punto strategico tra il lago di Bracciano e il lago di Vico. Le fonti antiche ricordano la perdita di due borghi (oppida) denominati Cortuosa e Contenebra, forse corrispondenti ai centri delle necropoli rupestri di San Giuliano, Blera o San Giovenale. 9.4 - Il sacco di Roma da parte dei Galli: nel 390 a.C., poco dopo la vittoria sui Veienti, si colloca un grave trauma per la nascente potenza romana ovvero la discesa in direzione del Tevere di gruppi di Galli Senoni; una tradizione nata in ambiente etrusco ricordava il ruolo giocato da Chiusi nella discesa in Italia dei Galli per intervento di un certo Arrunte di Chiusi; costui, entrato in conflitto con i suoi concittadini a causa di un tale Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, si volle vendicare allettando i Celti transalpini con del vino. Le armate galliche si presentarono, dunque, davanti alle porte munite di Chiusi decidendo poi di proseguire oltre lungo la valle del Tevere fino ad investire rovinosamente Roma (Diodoro Siculo, XIV, 113; Livio, V, 33; Dionigi Alicarnasso, XIII, 10,11). Se Chiusi 63 etrusca giocò un ruolo forse involontario nell'attirare le orde barbariche verso la capitale, un'altra città etrusca, Cere, contribuì parzialmente alla sua salvezza. La tradizione annalistica ricorda, infatti, la figura di un plebeo, un certo Lucio Albinio (o Leukios) che avrebbe trasferito da Roma a Cere i sacerdoti flamini, le vestali e gli oggetti più sacri della religione romana (sacra). È dunque evidente da questi fatti come i Ceretani manifestassero amicizia verso Roma, ottenendone poco tempo dopo il privilegio giuridico di civita sine suffragio. Si viene così, sin da ora a delineare una contrapposizione tra Cere e Tarquinia nei confronti di Roma che sarà tanto più evidente il secolo successivo. Non a caso in occasione del conflitto tra Roma e Tarquinia, l'esercito romano ricevette l'autorizzazione a passare attraverso il territorio ceretano (Livio, V, 16). Lo sconfinamento dei Galli in Italia centrale fece gioco al tiranno di Siracusa Dionigi che diede rifugio ai Galli Senoni nelle sue roccaforti di Rimini e Ancona, probabilmente utilizzandoli in qualità di mercenari nelle sue molteplici campagne militari. Poco dopo, Cere compare nuovamente sulla scena impedendo il passaggio dei galli attraverso il territorio romano dopo che questi erano stati sconfitti e cacciati dalla regione apula. 9.5 - La guerra tra Roma e Tarquinia fra il 358 e il 351 a.C. È possibile dunque ipotizzare che all'inizio del IV secolo a.C. si fosse creata, di fatto, una contrapposizione tra Cere e Tarquinia, la prima filoromana, la seconda impegnata in un’azione egemonica sulle altre città della Dodecapoli dopo la rovinosa caduta di Veio. Non a caso, un secondo elogium scoperto a Tarquinia (scritto dai discendenti di questa grande casata aristocratica in età romana) cita un tale Aule Spurinna figlio di Velthur che, dopo essere stato eletto pretore per tre volte tolse il potere a un re di Cere di nome Orgolnio; questo Velthur mostra un raggio politico d'azione molto vasto perché intervenne ad Arezzo per sopprimere una rivolta servile, conquistò nove borghi appartenuti ai Latini e condusse azioni di guerra nel territorio falisco. Proprio tali ultime azioni - non chiaramente specificate sul piano cronologico e prive di Fig. 83– Ricostruzione del monumento realizzato in onore della ulteriori dettagli - potrebbero connettersi alla famiglia degli Spurinnas con gli elogia tarquinensis scritti sul podio. guerra scoppiata tra Roma e Tarquinia tra il 358 e il 351 a.C.; le fonti greche e romane (Tito Livio, VII, 12; Diodoro Siculo, XVI, 31,7; 36, 4; 45,8) raccontano che, in un primo tempo, i Tarquinensi intervennero devastando il territorio romano e infliggendo una grave sconfitta al console Caio Fabio Ambusto a cui seguì il sacrificio di 307 prigionieri romani nel Foro di Tarquinia. E a questo punto si colloca il curioso episodio dei Romani terrorizzati dall'apparizione davanti alle linee etrusche di sacerdoti muniti di faci e di serpenti, cioè travestiti da furie infernali. L'impressione è che in occasione di questa guerra, durata circa sette anni, l'intera nazione etrusca si mosse contro Roma e che, nell'impossibilità di sfondare il fronte di Sutri, l'esercito etrusco si mosse in direzione della foce del Tevere nella speranza di risalirlo per aggredire i Romani alle spalle e prenderli di sorpresa. Se Aule Spurinna fu il comandante di questo grande esercito confederato, è possibile che la deposizione del re ceretano Orlgonio si motivasse con la necessità di indurre Cere ad abbandonare la tradizionale amicizia con Roma. L'impresa bellica non ebbe tuttavia l'effetto sperato: qualche anno più tardi, dopo aver respinto i Tarquinensi alle saline di Roma, i Romani fecero prigionieri e uccisero nel Foro romano per rappresaglia 358 nobili etruschi; Roma chiese a Cere di giustificarsi per la defezione, e la città ne uscì indenne solo appellandosi alle passate benemerenze dell'epoca dell'incendio gallico e adducendo cause di forza maggiore. Cerveteri ottenne in tale occasione una pace di 100 anni, ovvero una sorta di protettorato. Tarquinia spuntò una tregua di quarant'anni a dimostrazione del fatto che non vi furono né vincitori né vinti, anche se il tentativo egemonico degli Spurinna, di fatto, era fallito. 64 Nei decenni succesivi, è possibile registrare solo più una serie di azioni scomposte da parte delle diverse etnie antagoniste di Roma nell'area centro italica, spesso però portate a termine collettivamente. Tra il 312 e il 308 a.C. i popoli dell'Etruria, costituita una grande coalizione militare, approfittando della debolezza di Roma impegnata nello scontro contro i Sanniti, tentarono nuovamente di sfondare il fronte di Sutri ma senza esito. Nella seconda fase del conflitto, il console Quinto Fabio Rulliano riuscì addirittura nell'ardita impresa di passare i Monti Cimini per raggiungere l'Etruria settentrionale, ottenendo l'alleanza di Perugia, Cortona e Arezzo e imponendo tributi a Tarquinia e sottraendo a Volsinii alcune roccaforti. Sembra chiaro che in questa fase storica l'influenza politica di Tarquinia era già sulla via del declino e l'iniziativa era passata in mano alle città dell'alto Tevere come Volsinii e Chiusi; le città ancora più settentrionali come Arezzo (che si rifiutò di intervenire nella guerra) Perugia e Cortona sembrano intenzionate a mantenere un rapporto di amicizia con i Romani; fatto sta, che alla fine del secolo, l'Etruria non era affatto pacificata. 9.6 - Sentino, 295 a.C.: l'ultimo grande atto di resistenza all'espansione politica e militare etrusca si ebbe nel 295 a Sentino, quando una grande coalizione di Etruschi, Embri, Galli e Sanniti che si spinse fino in Italia centrale in ultimo grande tentativo di riscossa; Livio (X, 30) ci ricorda che tra gli altri furono battuti anche Volsiniesi e i Rosellani. Un ultimo è fatale episodio fu la conquista di Volsinii da parte dei Romani nel 264 a.C. - approfittando dei rivolgimenti interni della città - con il trasporto dei suoi abitanti da Orvieto a Bolsena e la probabile depredazione del Fanum Voltumnae. Varie sono le ragioni che portarono alla dissoluzione di quella grande compagine di città-stato rappresentato dall'Etruria antica: da un lato la caratteristica divisione campanilistica che non permise l'affermarsi di una vera e propria entità statuale etrusca, dall'altro lato un certo conservatorismo e mancanza di modernità, ben rappresentato dal mantenimento di regimi di stampo aristocratico a ben due secoli di distanza dalle riforme periclee di Atene, o più semplicemente, l'avversione verso profonde riforme di tipo repubblicano del tipo di quelle attuate Roma a partire da 509 a.C. dopo l’espulasione dei Tarquini. È vero che nelle città etrusche appare frequentemente una magistratura di tipo elettivo (lo zilac, che nelle lamine di Tarquinia verrà tradotto col nome latino di praetor) ma è pur vero che a Cere, nel IV sec. a.C., persisteva ancora un regime monarchico. Forse si manifestò una differenza tra le antiche città oligarchiche della costa (in declino) e quelle più avanzate dell'entroterra; alcuni storici sono convinti che la classe dirigente di queste ultime, forse anche per timore di restaurazioni o colpi di Fig. 84– Urnetta funeraria etrusca rappresentante una scena di lettura delle sortes (previsione del futuro) tramite alcune tavolette mano tirannici, abbia favorito la progressiva iscritte contenute in un cratere presso un’edicola templare. emancipazione dei servi e le loro immissione nella vita pubblica, fino al punto che le masse popolari, acquisiti pienamente i diritti civili e avuto0 accesso alle magistrature, finirono con l'impossessarsi del potere e con l'infierire sugli antichi oligarchi; a questi, non restò che rivolgersi all'aiuto di Roma, dalla quale partì l'operazione di polizia che pose fine all'ultimo baluardo delle comunità dei popoli etruschi. 9.7 – La città di Volterra: Volterra fu una città della dodecapoli etrusca situata nel fertile entroterra toscano che beneficiò di un particolare periodo di benessere a partire dal V sec a.C., in corrispondenza con la fase di progressiva decadenza delle città costiere del Lazio settentrionale messe in crisi dalla competizione navale siracusana e dal progressivo espansionismo militare romano. Volterra nacque al centro di una zona di grande potenziale agricolo da cui era possibile controllare il territorio delle vicine valli dell’Era, dell'Elsa e del Cecina; situata su una ampia e imponente terrazza tufacea circondata su più lati da una falesia a strapiombo, Volterra fu , di fatto, una città fortificata naturalmente in una posizione che le permetteva di controllare visivamente la crinale appenninica, la 65 valle dell'Arno (da San Miniato sino a Pisa), con la possibilità di scorgere in lontananza persino le Alpi Apuane. È dunque naturale che il sito presenti un'occupazione umana già in età neolitica e che sia stato oggetto di attenzione dei gruppi villanoviani a partire dal IX sec. a.C. La presenza etrusco- villanoviana è testimoniata da una serie di tombe a pozzetto venute in luce nell'immediato circondario della città (quello meno urbanizzato e più soggetto a fortunati ritrovamenti archeologici) concentrati presso le necropoli dette delle Ripaie, del Castello, della Badia, di S. Chiara e della Guerruccia. Il materiale della prima età del Ferro mostra un perdurare della facies villanoviana sino a tutto il VII sec a.C., con una modestia di reperti di origine orientale - fino al VII secolo inoltrato - derivante dal particolare isolamento geografico della regione, lontana dai grandi traffici internazionali che facevano capo alle potenti città costiere. L'economia di Volterra era basata su una pluralità di insediamenti agricoli sparsi, popolati da un numero poco consistente di individui che presidiavano le principali vie fluviali o di crinale. Dal punto di vista delle vie di comunicazione, la città era collegata con Populonia mentre una serie di vie secondarie percorrevano la Val di Cecina, la Val Era e la Val d'Elsa; in particolare, da quest'ultima si ripartivano due strade di cui la prima diretta all'area fiorentina e l'altra all'importante città di Chiusi. Le prime influenze orientaleggianti sono percepibili nei corredi sul finire del VII sec a.C., come dimostrato dalla presenza di bronzetti di produzione locale rappresentante giovani guerrieri scoperti presso l'Acropoli. Il periodo arcaico è poco conosciuto a causa delle distruzioni apportate dalle molteplici frane che hanno coinvolto la terrazza tufacea, nonché per gli spianamenti avvenuti il secolo successivo quando si volle dotare la città di un poderoso muro protettivo. Dai pochi dati disponibili sembra evidente che anche Volterra fu soggetta ad un'evoluzione sociale, con l’imporsi di alcune importanti famiglie aristocratiche; tale tendenza è ben testimoniata da una serie di stele in pietra risalenti alla seconda metà del VI sec a.C., la più famosa delle quali è quella riportante il nome di Avile Tite; di forma rettangolare, con l'estremità superiore arcuata, tale stele reca raffigurato un guerriero barbato con capigliatura a piani, armato di lancia e elmo crestato. Si tratta chiaramente di una lastra sepolcrale del tipo ben conosciuto nella vicina Vetulonia, da cui la moda si diffuse nell'agro fiorentino e fiesolano. Alla fine del secolo, Volterra assunse finalmente un preciso aspetto urbano, con la costruzione di una prima cinta muraria attorno all'acropoli estesa per circa 1 km e 270 m; alla costruzione di tale cinta si associò la realizzazione di prime costruzioni private civili in muratura a secco, e l’erezione di tombe a camera scavate nella roccia presso le necropoli della Guerruccia, di San Giusto e di Santa Chiara; tombe a tumulo furono probabilmente costruite anche fuori dalla porta a Selci e dell’Arco. Nel corso del V sec a.C. si realizzò una seconda cinta muraria, lunga ora 2 km, che comprendeva uno spazio abitativo di oltre 10 ettari; dal Fig. 85– Stele funeraria con profilo a piano di Castello, le mura si dirigevano a sud-ovest per contenere l'area ferro di cavallo del guerriero Avile Tite dal Museo Gaurdacci di Volterra. di piazza San Giovanni, via Buonparenti e via Sarti, quindi risalivano sulla rocca nei pressi di Porta a Selci. In tale fase, sull'acropoli furono edificati alcuni edifici di culto di cui sono stati recuperati resti fittili frammentari. Gli scavi archeologici hanno permesso di portare alla luce diversi frammenti di ceramica attica a figure rosse, segno che la città era ormai inserita nei grandi traffici internazionali sfruttando l'approdo della vicina Populonia con cui si manteneva in contatto col mercato greco massaloiota. In questa fase storica dovette anche iniziare lo sfruttamento intensivo delle miniere di rame (presente in vene superficiali) di Montecastelli, Monterufoli e Micciano in Val di Cecina; le dinamiche economiche piuttosto vivaci portarono a un progressivo inurbamento di “campagnoli”; proprio in questi anni si assistette, inoltre, allo sviluppo del polo portuale di Pisa che rappresentò un nuovo sbocco marittimo per i prodotti agricoli e le manifatture realizzate in città. Nel corso del IV sec a.C. è possibile finalmente assistere alla massima floridezza della città, testimoniata in primo luogo dalla costruzione di una grande cinta muraria in blocchi squadrati di pietra locale; lunga circa 7,3 km, essa andava coprire 66 ora un'area di ben 116 ettari. La nuova cinta muraria, realizzata evidentemente per motivi di prestigio ma anche a seguito di una situazione di instabilità latente, andò ad occupare alcune aree precedentemente destinate a necropoli, inglobandole entrò l'area urbana. Grazie un'escursione di livello di circa 100 m, il nuovo muro comprendeva le zone di Santo Stefano, San Giusto alla Guerruccia e costeggiava le valli di Portone, Pinzano e Vallenuova. È probabile che non tutto lo spazio racchiuso nel muro fosse occupato da abitazioni; probabilmente la cinta fu prevista anche per poter accogliere popolazione e bestiame dai vici circostanti in caso di instabilità militare. La famosa Porta dell'Arco, vero e proprio simbolo della Volterra etrusca, è uno degli accessi monumentali della città realizzati in questa fase storica; la forma originaria è però alterata dalla costruzione dell'arco nel III sec a.C. che, dunque, non appartiene alla costruzione originaria. Come dobbiamo dunque immaginare la porte etrusca di IV sec. a.C.? Appartengono alla costruzione di età tardo classica i potenti stipiti realizzati in blocchi squadrati, ma la parte sommitale doveva essere costituita semplicemente da una grande impalcatura in legno capace di sostenere gli armati preposti alla difesa della città e alcune prime balliste difensive. Porte gemelle furono la cosiddetta Porta di Diana e la Porta d'Arno. Nel III sec a.C., - come si è accennato la porta meridionale della cinta fu dotata di un arco realizzato in conci di pietra, decorata con tre teste scolpite, ormai illeggibili perché irrimediabilmente erose; non è noto a quali divinità o eroi si riferissero, ma è significativo che una simbologia simile si ritrovi, nella stessa fase storica, presso le porte di Perugia e di Norchia. Contemporaneamente, fu posta in atto una grande ristrutturazione urbanistica sull'acropoli, con la costruzione del cosiddetto tempio A (di pianta rettangolare, cella unica, non dissimile dal Capitolium di Cosa, dotato di lastre fittili rappresentanti una Amazzonomachia e una caccia al cinghiale calidonio) e del vicino tempio B (posto a nord del precedente e ad adesso parallelo, forse con una cella dotata di due alae e doppia fila di colonne anteriore). La nuova acropoli, studiata scenograficamente e affacciata sulla città bassa, sembra ispirarsi ai più Fig. 86 – Foto storica del principio del Novecento rappresentante aggiornati modelli scenografici urbani l’antica porta di Diana di Volterra inglobata in un castelletto di età dell'ellenismo mediterraneo. medievale. Nei cimiteri suburbani, l'incremento demografico è ben rappresentato dal diffondersi di tombe a camera gentilizia scavate nel tufo, di pianta quadrangolare o circolare. Gli inceneriti erano deposti in urnette di tufo (o raramente di terracotta) con rilievi decorativi situati sulla cassa e rappresentazioni plastiche dei defunti sdraiati sul coperchio. Le urnette erano realizzate con una forma a cassetta e chiuse, inizialmente, con un coperchio displuviato; già a partire dalla seconda metà del IV sec a.C. invalse però l'uso di rappresentarvi i defunti in posizione semisdraiata, probabilmente su influenza dell'arte coeva dell'Etruria meridionale. Le figure rappresentate sul coperchio effigiano, generalmente, maschi in forma eroicizzata, con torace nudo indossanti una ghirlanda, nell'atto di banchettare tenendo in mano una pàtera. Il volto dei personaggi rappresentati non sembra essere realistico ma stereotipato, capace di proporre una serie di "tipi" con caratteristiche fisionomiche generiche, senza che questo abbia un reale intento realistico; troviamo così il tipo del giovane, dell'adulto e del vecchio, adattabili senza problemi a individui differenti; i tratti generali dei volti sono influenzati dalle varie correnti artistiche coeve; in particolare si riconoscono tipi influenzati dalla moda apollinea greca e italica, e altri influenzati dal tipi pergameni e romani arcaicizzanti. Di grandissimo rilievo è soprattutto la produzione realizzata nel locale alabastro, una tradizione artigianale che rimarrà viva per tutto il medioevo arrivando sino ai giorni nostri. Con il passare del tempo, data l'alta richiesta di prodotti artigianali di qualità e la disponibilità economica delle aristocrazie locali, è possibile che alcuni artigiani di origine greca siano andati ad affiancarsi a quelli indigeni. 67 La scelta dei soggetti mitologici rappresentati sulla cassa delle urnette fu chiaramente influenzata dalla sensibilità della committenza; la tendenza era quella di una identificazione tra il defunto e il personaggio principale della scena mitologica rappresentata; molto spesso è presente nella concezione di tipo storico secondo cui la vita di ogni individuo è dominata da un destino tracciato sin dalla nascita al cui interno è possibile esercitare un moderato arbitrio: una situazione spesso condivisa con gli eroi dei grandi miti della grecità classica ed ellenistica. Vi è chi ha proposto che la ripetizione dei miti tebani (come la famosa Saga dei sette a Tebe) sia un accenno alla difficile coesistenza tra diversi tipi di cittadini all'interno della città con chiari riferimenti ai conflitti per la proprietà terriera a cui si assistette proprio in quegli anni in molto città tirreniche. Nel II sec a.C., per effetto dell'influenza culturale romana, sempre più frequentemente del defunto viene mostrato in costante una tunica o un mantello; gradatamente si giunge ad una stanca ripetitività e a un linguaggio ormai scadente che lascia presagire il declino qualitativo del I sec a.C. Nel corso del III sec a.C. il repertorio delle urnette tende a semplificarsi, con la rappresentazione di scene come il viaggio del defunto nell'aldilà, o episodi mitici con scene di morte. Nello stesso periodo fu avviata una produzione locale di ceramica a figure rosse imitante i più pregiati prodotti di provenienza attica; particolarmente rappresentativo del periodo è il cratere a Fig. 87– La Porta dell’arco di Volterra, uno dei monumenti simbolo della città; i piedritti in colonnette (kelebe) decorato con opera quadrata sono di età classica etrusca ma l’arco con le tre protomi umane è una riempitivi a reticolo o triangoli, aggiunta di età romano-ellenistica. spesso arricchiti con palmette; parallelamente si diffuse anche la produzione di ceramica a vernice nera, destinata ad avere un enorme mercato. Nel periodo coloniale romano, Volterra scelse l'alleanza con Roma, fornendo frumento e legno per la costruzione della flotta di Scipione nel 205 a.C. durante le Fig. 88– Urnetta Guerre Puniche. Tale scelta politica permise all'aristocrazia locale di sopravvivere funeraria da Volterra senza grandi traumi fino a 90 a.C., quando Volterra, conseguita la cittadinanza di età tardo classica romana, si schierò al fianco di Mario durante le guerre civili, fornendo alcuni reparti con scena di processione agli inferi: militari comandati da un tale Carinnas. Dopo la caduta di Mario e la vittoria di Silla, i costumi e molte famiglie aristocratiche furono costrette alla fuga (molte trovarono rifugio l’iconografia sono già addirittura in Tunisia): la città perse la cittadinanza romana e il suo territorio fu chiaramente ridotto ad ager publicus. Altre famiglie sopravvissute accettarono di essere influenzati dalla cultura romana. inquadrate nel nuovo status quo romano. In particolare, la potente famiglia dei Ceicna/Caecinae mantenne un primato politico ed economico, finanziando la costruzione del teatro romano della città (a Vallebuona) nei primi anni del I sec a.C.; fra le altre famiglie attive in città nel periodo augusteo e primo imperiale si annoverano i Laelii, i Persii e i Petronii. Successivamente, la città tagliata fuori dal percorso delle principali arterie di traffico (l'Aurelia e la Cassia), divenne uno dei tanti piccoli municipi dell'Italia romana transitando, gradatamente, nel Medioevo quando potette toccare, nuovamente, i fasti di un tempo. 68 Fig. 89 – Planimetria e disposizione dei pannelli affrescati nella Tomba della Quadriga Infernale di Sarteano (IV sec a.C.). 9.8 - Sarteano, la Tomba della Quadriga infernale: la Tomba della quadriga infernale rappresenta uno degli esempi più significativi e monumentali di tomba etrusca di età classico- ellenistica; la sua eccezionalità sta anche nel fatto di essere, tra l’altro, l'ultima grande scoperta archeologica di tale tipo dell'Etruria antica, cosa che le ha dato un certo risalto nella stampa specializzata sin dal 2003 quando la scoperta fu ufficialmente annunciata. La tomba fa parte di un complesso sepolcrale situato presso la necropoli detta delle Pianacce, a breve distanza dal centro storico di Sarteano. La tomba, al pari di quelle vicine, presenta un lungo dromos lungo 5 m, scavato con lieve pendenza in un banco naturale di travertino, al cui termine una porta dà accesso ad una camera sepolcrale completamente dipinta su uno strato di preparazione di intonaco bianco. Procedendo dall'ingresso, sulla parete sinistra, si staglia una megalografia rappresentante una scena di viaggio agli inferi, allo stato attuale “unica” in tutto il panorama dell'etruscologia. Due grifoni e due leoni dai colori vivaci trainano un carro a due ruote guidato da un demone dall'aspetto mostruoso, con naso aquilino, zanne di cinghiale, chiari segni di putrefazione della carne e occhi spiritati. La quadriga è rappresentata curiosamente nell'atto di uscire dal sepolcro, dirigendosi verso la porta di accesso, anticamente sbarrata. Sin dall'epoca della scoperta si è aperta una vivace discussione relativa all'identificazione di tale figura, forse una rappresentazione in chiave etrusca del Caronte greco, forse uno dei tanti demoni inferi che popolavano il pantheon etrusco nel cosiddetto periodo della decadenza. Gli animali inferi che trainano la quadriga sembrano procedere in modo ordinato sotto il pieno controllo dell'auriga, al punto che mostrano la zampa destra sollevata, quasi conducessero una marcia trionfale. Il fatto poi che il carro sia rappresentato nell'atto di uscire dalla tomba sembra sottintendere la credenza, tutta etrusche, che i demone inferi potessero agire indisturbati nel mondo dei vivi; forse, ad una vera e propria consistenza corporea del demone accenna anche l'ombra nera riportata sul fondo che sembra proiettarsi dal busto di Caronte. La scena successiva, leggermente deturpata, rappresenta un adulto e un giovane distesi su una tipica kline in un colloquio affettuoso; in particolare, l'uomo più anziano appoggia affettuosamente la mano destra sulla spalla destra del giovane, mentre quest'ultimo, protendendosi verso di lui con entrambe le mani, tocca affettuosamente il dorso della mano sinistra dell'uomo sdraiato. La scena è piuttosto enigmatica: il ragazzo più giovane presenta un colorito della pelle più vivace, quello sulla destra, più anziano e dall'aspetto più perplesso, presenta un colore della pelle anch’esso rossastro ma meno acceso. Che si tratti di un simposio aristocratico è garantito dalla presenza di un giovane servitore nelle immediate vicinanze nell'atto di tenere in mano un colino per filtrare il vino. Si tratta del colloquio intimo tra due familiari (un uomo più anziano già partito e il suo discendente destinato a essere sepolto a sua volta nella tomba) o di una scena 69 simposiaca con connotazioni di carattere omosessuale? Il tema della rigenerazione della vita dopo la morte è poi sottolineato da un fregio rappresentante alcuni delfini che si tuffano tra le onde marine, forse atti a simboleggiare il momento di passaggio nel mondo ultraterreno. Sulla camera di fondo è dipinto, infine, uno straordinario serpente a tre teste, probabilmente uno dei tanti mostri che popolavano il mondo dell'oltretomba nell'immaginario etrusco. Sul timpano della parete breve di fondo sono inoltre rappresentati due ippocampi; appoggiati al terreno, immediatamente in basso, si trovano i resti di una colossale sarcofago in alabastro grigio, rinvenuto in frammenti e poi restaurato. Sul coperchio il defunto, recumbente, si appoggia a due cuscini, mentre sul rilievo della cassa è rappresentata una doppia kline in rilievo. Il corredo, recuperato in frammenti, comprende due coppe a figure rosse della cosiddetta Officina Senese, una coppa del Gruppo Clusium, ceramiche a vernice nera, ceramiche grigie e acrome, anfore e pedine da gioco in pasta vitrea. Lo stile delle pitture e gli oggetti del corredo permettono di precisare un cronologia della seconda metà del IV sec a.C.; i confronti stilistici delle pitture rimandano alle stesse maestranze già conosciute presso la necropoli di Orvieto, in particolare presso la necropoli di Settecamini. «La necropoli delle Pianacce, mostra la ricchezza delle famiglie insediate nel territorio di Sarteano tra l'epoca tardo classica e il primo ellenismo; questo nucleo cimiteriale, inserito in un paesaggio di straordinaria bellezza, costituisce, dopo le recenti scoperte, uno dei più significativi dell'Etruria antica». Fig. 90 – Interno della Tomba dei Rilievi di Cerveteri appartenuta alla famiglia dei Matunas (IV sec a.C.). 9.9 - Cerveteri, Tomba dei rilievi: nell'ambito dello studio delle tipologie necropolari del periodo etrusco classico- ellenistico, merita particolare attenzione la Tomba dei Rilievi di Cerveteri; quest'ultima, oggi visitabile solamente attraverso una vetrata protettiva per gravi problemi di conservazione, presenta caratteri davvero eccezionali che ne rendono la visita insostituibile. La tomba - scavata a grande profondità in un profondo banco tufaceo e situata all'interno della necropoli orientalizzante della Banditaccia - fu scoperta nel corso dell'Ottocento dal Marchese Campana. Datata a cavallo tra IV e III sec a.C., essa è costituita da un’unica stanza rettangolare situata al fondo di un profondo di dromos di accesso; volutamente destinata a imitare in tutti particolari la casa dei vivi, la tomba fu scolpita con un soffitto imitante cassettoni, con l'aggiunta di due pilastri quadrati con capitello eolico finalizzati al meglio chiarire il riferimento all'ambiente domestico e a garantire la staticità dell'ipogeo. Lungo le pareti si trovano delle nicchie quadrangolari (loculi) conformate a forma di lettino sepolcrale destinate a ospitare i corpi di tredici individui; ogni loculo è ornato da cuscini scolpiti nel tufo posti all'altezza della testa del defunto, arricchiti dal colore grazie a una stuccatura superficiale dipinta. La tomba doveva essere evidentemente sovraffollata se è vero che, a livello del pavimento, furono aggiunte trenta fosse funerarie per inumazione, separate l'una dall'altra da listelli a rilievo. Caratteristica peculiare della tomba è la raffinata rappresentazione sulle pareti dell'instrumentum domesticum e degli oggetti appartenuti al proprietario, grazie a una stuccatura a rilievo policromo di grande effetto scenico. La nicchia principale, sul fondo, è decorata sull'architrave da due scudi circolari, un elmo e una spada da guerriero. Il corpo del lettino (scolpito anch'esso a rilievo e dunque illusionistico), rappresenta sulla sinistra il mostro marino Scilla dal corpo anguiforme dotato del caratteristico timone mentre, alla sua destra, si osserva il cane infernale Cerbero a tre teste, con la zampa alzata in posizione 70 araldica e quel passo cadenzato che abbiamo già trovato presso la Tomba della quadriga infernale. Particolarmente graziosi sono poi i due sandali appoggiati su un lungo poggiapiedi alla base del letto, probabile accenno alla deposizione delle vesti effettuata dal defunto prima del suo viaggio nel mondo dei morti. Sul pilastro di sinistra si riconoscono invece una kylix per il vino, uno oinochoé per versare e, più in basso, un'arca in legno su cui sono appoggiati due panni ripiegati. Sul pilastro di destra si osservano invece due collane, un flabello e un bastone da passeggio. Proprio al centro dell'alcova, un’iscrizione riporta il nome del personaggio che fu probabilmente sepolto nella nicchia: il nome, femminile, è quello di Ramtha Matunai Canatnei; la situazione non stupisce dal momento che gran parte degli oggetti rappresentati appartengono alla sfera muliebre, fatta eccezione per le armi situate sull'architrave che, probabilmente, rappresentano un elemento araldico e di status familiare. Anche i pilastri che sostengono il soffitto situati al centro della sala sono arricchiti da una serie di rilievi molto veristici che rappresentano una straordinaria raccolta di oggetti di uso domestico; come si è detto, tali oggetti non sono stati scolpiti nel tufo ma applicati in stucco sulle pareti dipinte in modo da assomigliare il più possibile a quelli reali. Sul pilastro di sinistra si riconoscono una corda arrotolata, un lungo coltello, un bastone appeso per un laccio e uno oinochoé; sulla parete bassa del pilastro è ritratto un animale che inarca la schiena, forse un gatto. Sull'altra faccia del pilastro è ritratta un'anatra nell'atto di beccare a terra, un lungo bastone ricurvo, un carrello su rotelle in bronzo - probabilmente funzionale come portavivande oppure come braciere -, una kylix di tipo falisco e una sacca con oggetti sovraimpressi. Sul pilastro di destra si riconoscono un mestolo, un portacoltelli con due coltelli inseriti, alcuni spiedi, una bacinella con treppiede e un pestello. In alto vi è un oggetto in vimini dall'interpretazione dubbia, forse una forma per formaggi. Sulla faccia interna del pilastro si trovano, infine, un lungo bastone da pastore, mestoli, una pinza, un bastoncino a cui è applicata una rotella dentata, un probabile tavolo da gioco con una borsetta per i dadi. In basso, due animali: un'oca con la testa piegata e un gatto che gioca con una lucertola. La datazione della tomba è stata possibile grazie alla sagoma di alcuni oggetti rappresentati sui pilastri, in particolare grazie alla presenza di un oinochoé bronzeo tipico della fine del IV sec a.C. e di una coppa di tipo falisco più o meno contemporanea. Tutti i rilievi sono stati effettuati per essere visti da chi accedeva alla tomba, come dimostrato dal fatto che la parte posteriore dei pilastri è del tutto priva di rilievi a stucco e di rappresentazioni. Immediatamente ai lati della porta d'ingresso (purtroppo non visibili nell'attuale sistemazione con vetri protettivi) si trovano le riproduzioni in stucco di due grandi bracieri dotati di manici, di due schinieri anatomici da guerra e di due buccine (trombe da guerra che gli Etruschi adottarono dai Romani, dalla forma particolarmente arrotondata). Completano la scena due bucrani affiancati sull'architrave della porta. Su un cippo trovato nel dromos che scende alla tomba, infine, è stata scoperta un'iscrizione in etrusco che ne attribuisce la proprietà alla nobile famiglia ceretana dei Matuna; essa recita: «Vel Matunas, figlio di Laris ha fatto costruire questa tomba». Nel dromos è stata anche ritrovata la testa di un leone ora esposta all'inizio della scalinata; essa, molto probabilmente, faceva parte di una coppia di statue che ornavano l'ingresso della tomba allo scopo di proteggere la camera sepolcrale dagli spiriti maligni. 9.10 - La necropoli di Sovana: la necropoli etrusca di Sovana fu scoperta nella primavera del 1843 dal pittore e viaggiatore S. I. Ainsley che si era fatto accompagnare da alcuni cittadini locali nelle boscaglie circostanti il centro storico, nella speranza di individuare il municipium romano di Suana citato da Plinio e da Claudio Tolomeo. Ainsley, non appena giunto in prossimità delle falesie rupestri, ne riconobbe il carattere di artefatto; poco tempo dopo, giunse sul posto George Dennis che dedicò un intero capitolo del suo libro Cities and Cemeteries of Etruria (1847) alle necropoli rupestri di Sovana. In tale occasione furono riconosciute e denominate le tombe della "Fontana" (oggi detta della Sirena), la tomba del Sileno, la tomba Pola e la via cava di San Sebastiano. 71 Fig. 91 – Ricostruzione della Tomba del Tifone di Sovana Fig 92 – Alzato della Tomba Ildebranda a Poggio Falceto di Sovana (IV sec a.C.) Importanti ricerche furono quindi condotte tra il 1927 e il 1928 da Renuccio Bianchi Bandinelli , in occasione delle quali furono censite un centinaio di tombe a facciata rupestre; tra le altre, la tomba Ildebranda, individuata nel 1925 da G. Rosi. Per concludere, negli anni sessanta del Novecento, l'Università di Pisa scoprì la cosiddetta "Tomba Pisa" a Poggio Grezzano e la tomba del Sileno a Monte Rosello. Al 1974 risale la scoperta, del tutto inaspettata, di una piccola camera con i blocchi di chiusura ancora in posto, situata nella platea della tomba Ildebranda, dotata di un corredo che comprendeva un servizio da simposio di bronzo. Se, dunque, la necropoli in linea di massima è ben conosciuta, molto scarse sono le notizie relative all'insediamento etrusco, anche a causa della continuità di occupazione nel corso dei secoli. Con ogni probabilità, la città antica occupava tutto il pianoro oggi sede dell'insediamento medievale. Prime tracce di un insediamento urbano sono databili al VI sec a.C., con case rettangolari individuate negli scavi presso il Duomo; nel rispetto dello schema diffuso in quegli anni in Etruria, tali case avevano pareti realizzate con una intelaiatura in pali di legno costipati con paglia e argilla, mentre i tetti, appoggiati ad una travatura lignea, erano già coperti con tegole di terracotta; l’intero pianoro sommitale era circondato da una struttura difensiva. Per quanto concerne l'età ellenistica è noto un quartiere artigianale del III sec a.C. costruito con mattoni crudi in prossimità del Duomo. La decadenza del centro sembra essere collegata agli eventi storici che portarono, nel 280 a.C., alla caduta di Vulci ad opera dell'esercito romano, un evento che ebbe effetti rilevanti per tutta la regione ruotante attorno al corso del fiume Fiora. Questo evento non comportò, tuttavia, l'abbandono del sito che manifesta una certa vivacità nel corso del periodo romano. Per quanto concerne la necropoli, il settore più grandioso si situa sulle colline a nord del torrente Calesine; qui le facciate rupestri si allineano lungo una falesia rocciosa lunga quasi 1 km mezzo con la facciata volta a meridione. La prevalenza delle tombe è del tipo detto "a dado" ma, in alcuni tratti, spiccano edifici di grande prestigio e qualità architettonica come la Tomba Pola e la Tomba Ildebranda. Presso la località Poggio Stanziale sorge, ad esempio, la Tomba del Tifone (IV sec a.C.); si tratta di una tomba a edicola scavata nella roccia, sormontata da un timpano decorato con una protome femminile in aggetto, circondata da foglie e fiorami. Originariamente fu interpretata da G. Denis come l'immagine di Tifone - il mostro marino onnipresente nella iconografia etrusca ellenistica - ma si tratta di una semplice figura femminile velata. L'immagine, originariamente colorata con tinte vivaci che le conferiva un aspetto vagamente barocco, trova un confronto stilistico con decorazioni di ambiente magnogreco. Il vano rettangolare sottostante è scolpito con un soffitto a cassettoni decorato a losanghe; varie tracce di stucco dimostrano che originariamente il monumento era rifinito con una ricca policromia. Il vano è inquadrato da due lesene scanalate mentre una scala scavata nella roccia, sulla destra, permetteva di raggiungere il vertice del monumento dove probabilmente veniva 72 Fig. 93 – La camera sepolcrale recentemente scoperta a lato della più famosa Tomba Ildebranda a Poggio Falceto di Sovana (IV sec a.C.) tenuta la allocuzione in occasione delle esequie pubbliche. Poco oltre, in località Poggio Felceto si trova la famosa Tomba Ildebranda (prima metà del III sec a.C.); essa prende il nome da papa Gregorio VII, nativo di Sovana. La tomba presenta una facciata a imitazione di un tempio classico, con alto podio modanato accessibile mediante due scale laterali, facciata a sei colonne con base attica, colonne scanalate e capitelli eclettici decorati con effigi maschili e femminili policrome, foglie d’acanto, trabeazione ionica decorata a rilievo con una serie di grifi affrontati, alternati a rosette, e trattenuti per la coda da una figura femminile (forse la Signora degli Animali/Potnia Theron). Il grande pronao presenta un soffitto scolpito a finti lacunari; alle spalle della fronte colonnata scolpita è dipinta - nella roccia - una falsa porta con grata a rilievo. Il monumento era coronato da un grande cippo di tufo. Come di regola presso le necropoli ellenistiche costruite lungo il corso del Fiora, la camera sepolcrale non si trova alle spalle della facciata ma è raggiungibile tramite un ripido corridoio che conduce ad un ambiente nascosto sottostante. Nel caso della Tomba Ildebranda un lungo dromos immette in un'ampia camera funeraria sotterranea situata al di sotto della cella del tempio: a pianta cruciforme, presenta un soffitto displuviato e un'unica banchina destinata a deposizioni ad inumazione, un tempo situate all'interno di un sarcofago ligneo andato perduto. La tomba fu saccheggiata ab antiquo e non è stato possibile recuperare alcunché del corredo di accompagno, eccetto pochi frammenti di ceramica a vernice nera rinvenuti durante gli scavi di Renuccio Bianchi Bandinelli. In occasione di recenti restauri è stato poi possibile individuare tracce di statue acroteriali angolari dall’aspetto di animali accosciati. L'ampia platea antistante, anch'essa scavata nella roccia, ospita altre tre tombe monumentali di dimensioni minori, mentre sul lato ovest si aprono piccole tombe a incinerazione. Nel 1974, in occasione dei restauri, fu possibile identificare una piccola tomba intatta di scavata lungo la parete destra di un dromos scavato ortogonalmente rispetto a quello principale della Tomba Ildebranda. All’atto dello scavo la terra riempiva la tomba fino al livello delle banchine sepolcrali: su quella di sinistra fu possibile recuperare un candelabro, degli oinochoai e una pàtera in bronzo, mentre sulla banchina di fondo su quella destra furono trovati due grandi anfore. Il corredo era completato da ceramiche a vernice rossa, ceramiche in argilla decorata con fasce a vernice nera o bruna e emotivo a gocce, una tipologia di probabile produzione locale. Il nucleo più significativo del corredo è rappresentato da un servizio da banchetto in bronzo destinato alle occasioni conviviali e simposiache. In prossimità di Poggio Prisca si trovano la Tomba Pola e la Tomba dei Demoni Alati; la prima è una tomba “a tempio” a otto colonne su alto podio con grande camera di sepoltura dotata di banchina continua lungo le pareti, violata e saccheggiata in antico. La struttura ha subito, nel tempo, un notevole degrado, conservando solo una minima parte del colonnato originario; si data al III sec a.C. La Tomba dei Demoni Alati si trova a poche decine di metri a ovest della Tomba Ildebranda ed è venuta in luce alla fine degli anni Novanta in occasione delle attività di ricognizione effettuate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici e dall'Università di Venezia. La tomba era stata nascosta fino ad allora da un cumulo di massi di crollo, cosa che ne ha garantito l’eccezionale stato di conservazione; al centro di una terrazza artificiale larga circa 8 m e profonda circa 4 m si eleva un colossale blocco cubico sulla cui fronte era scolpita la facciata di un edificio ad edicola. Fulcro della Tomba è un profondo vano scavato, con copertura a volta e inquadrato da due statue a tutto tondo rappresentanti personaggi femminili alati indossanti una tunica a pieghe con pesanti mantelli. L'identificazione delle due statue come Vanth infernali è garantito dai resti ancora riconoscibili di un attributo impugnato dalla statua situata di sinistra, una fiaccola rovesciata portata sotto l'ascella. 73 All'interno delle nicchie è stato possibile portare alla luce una scultura tridimensionale rappresentante il defunto disteso su una kline nell'atto di porgere una patera ombelicata; particolarmente impressionanti le vivaci tracce di policromia ancora conservate su tutto il monumento. La facciata era coronata da un timpano triangolare con trabeazione scolpita, decorata con triglifi e patere, nonché sima rampante costituita da toro e guscio. Il frontone, oggi posato a terra nel piccolo recinto protettivo allestito dalla Soprintendenza Archeologica, era decorato con un imponente figura di demone marino dotato di grandi ali e gambe anguiformi terminanti in code di pesce; l'identificazione con Scilla è garantito dal grande timone di nave Fig. 94 – Defunto sdraiato su una kline all’interno della nicchia della impugnato dalla figura. Nella platea antistante Tomba dei Demoni alati di Sovana (III sec a.C.) la facciata, in posizione simmetrica, erano quindi posate due imponenti sculture raffiguranti una sfinge e uno splendido leone in assalto. 9.11 - Il cavone di San Sebastiano e le “vie cave”: Nelle immediate adiacenze della necropoli è possibile, infine percorrere, una delle più impressionanti e monumentali “vie cave” dell'intera Etruria; per “via cava” si intende, genericamente, una strada scavata nel tufo dalle pareti tendenzialmente verticali, di lunghezza oscillante dal centinaio di metri sino a un chilometro e oltre. Le vie cave vengono considerate, in linea di massima, dei piccoli enigmi dal momento che si trovano prevalentemente in prossimità di aree cimiteriali e il loro aspetto, fortemente evocativo, emana qualcosa di misterioso. Per comprendere questo interessante fenomeno è possibile effettuare alcune considerazioni di massima: tutte le vie cave conosciute mettono in comunicazione pianori irrigui (situati nelle immediate vicinanze della città e in posizione altimetricamente rilevata) con il centro cittadino vero e proprio. Caratterizzate da una debole pendenza esse sono state, talora, soggette a successivi rifacimenti per cui è possibile riconoscere nelle immediate vicinanze altre vie cave di minore dimensione con andamento più o meno parallelo alla principale. La loro antichità è garantita dal fatto che lungo il loro percorso è spesso possibile individuare artefatti di età etrusca. Nel caso del cavone di Sovana si riconoscono, in particolare, alcune piccole tombe rupestri ricavate in extremis alla sommità della falesia, nonché una iscrizione in lingua etrusca a 1,70 m dall'attuale piano di calpestio riportante il gentilizio VERTNA, associato ad una incisione a forma di svastica (un antico simbolo solare diffuso tra le popolazioni indoeuropee). Alcune vie cave come quella di Norchia hanno subito delle trasformazioni in età romana. Nel caso di Norchia, ad esempio, è possibile dimostrare che il piano di calpestio era un tempo ricoperto da un tavolato ligneo al di sotto del quale passava una canale per lo sfogo dell'acqua piovana; tale monumentalizzazione della strada si collega al passaggio in questo tratto proprio di un ramo dell'antica via Clodia. In linea di massima, non esiste una spiegazione "definitiva" sulla genesi e l'evoluzione di tale tipologia architettonica ma, studiando una via cava, è necessario ricordare che il livello di percorrenza odierno si trova spesso più in basso di quello originario e che il tufo cavato, non molto difficile da lavorare, poteva essere tranquillamente utilizzato per la costruzione di edifici pubblici e privati nelle vicine città; a mio parere, infatti, molte di queste vie cave sono da considerarsi, al contempo, sia vie di Fig. 95 – La via Cava presso la necropoli di Sovana; non molto comunicazione, sia cave da costruzione. La loro distante si trova una seconda via cava denominata di S. Sebastiano. 74 vicinanza ai cimiteri si lega al fatto che le necropoli, nell'antichità, erano regolarmente disposte nelle immediate vicinanze delle mura cittadine e, dunque nello spazio percorso dalle principali vie di comunicazione terrestri. Tale interpretazione non osta, tuttavia, con la possibilità che molte di esse, per il proprio carattere monumentale, siano state utilizzate in età etrusca in funzione delle processioni funerarie, mantenendo così viva una tradizione consolidata che trova conforto archeologico nella cosiddetta Via dei morti di Cerveteri (costruita, tuttavia, alla luce del sole). Per quanto concerne la via cava di Sovana è poi possibile segnalare il ritrovamento (nel 1908 da parte del sacerdote di Pitigliano Nicomede Segnini) di due statuette magiche in piombo rappresentanti un uomo e una donna nudi con le mani legate dietro alla schiena proprio in corrispondenza di una piccola tomba situata alle falde del cavone. Sulla gamba destra, le statuette recano iscrizioni onomastiche riportanti il nome maschile di Zerur Cecnas e quello femminile di Velia Satnea. I due reperti furono raccolti all'interno di una piccola camera a pianta rettangolare con semplici banchine lungo le pareti, in associazione ad alcuni frammenti di corredo vascolare comprendente ceramica depurata di imitazione corinzia inquadrabile cronologicamente attorno 600 a.C. Le due statuette per i caratteri stilistici devono però datarsi al III sec a.C., segno che esse furono deposte molto tempo dopo la sepoltura originaria e con finalità distinte. Si tratta con ogni probabilità di due statuette magiche destinate alla maledizione dei due individui rappresentati; rimandano a tale pratica magica sia le braccia legate lungo la schiena che l'utilizzo del materiale plumbeo, notoriamente collegato nell'antichità agli inferi. Si tratta dell'attestazione archeologica di una forma di magia popolare ben conosciuta anche nell'ambiente romano dove maghi e fattucchiere erano soliti preparare per i propri clienti le cosiddette tabulae defixionis. Tale interpretazione è confermata dalla recente scoperta di una tomba etrusca di età medio Fig. 96 – L’iscrizione etrusca VERTNA scolpita sul fianco sinistro della ellenistica nell'area di Sovana riportante sul via cava di Sovana associata ad una svastica “solare”. frontone anteriore proprio il nome della gens Satnei. Sandro Caranzano 75