SCHOPENHAUER e il Mondo come Volontà

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Arthur SCHOPENHAUER
Il Filosofo della Voluntas in cerca della Noluntas
La figura di Schopenhauer nel panorama della storia della filosofia rappresenta
la prima voce di quella che è stata definita la “Cultura del Sospetto”,
principalmente rappresentata da SCHOPENHAUER – MARX – FREUD.
La cifra filosofica che accomuna questi pensatori e che innanzitutto caratterizza
il pensiero “alternativo” di Schopenhauer è l’approccio anti-metafisico.
Nella fattispecie Schopenhauer esprime l’attacco più consapevolmente violento
alle costruzioni sistematico - speculative dell’Idealismo hegeliano. L’ approccio
è dunque innanzitutto critico – decostruttivo. Il pensiero di Schopenhauer
intende squarciare i veli illusori delle costruzioni concettuali che nascondono
l’essenza del Mondo e/o della Vita.
Analizziamo brevemente un quadro delle influenze che determinano il pensiero
complesso o pluridimensionale di Schopenhauer.
1.
KANT – Schopenhauer vede in Immanuel Kant il simbolo della
autentica filosofia moderna e dell’autentica riflessione sui meccanismi
dell’Epistemologia ovvero di una coerente teoria della conoscenza. Kant ha
avuto il merito di basare i principii della conoscenza sulle rappresentazioni
soggettive legittimate dalle due intuizioni pure a-priori di Spazio e Tempo e
articolate entro le 12 categorie dell’Intelletto analitico(Verstand). Schopenhauer
eredita da Kant il concetto di “rappresentazioni” entro cui inquadrare la
conoscenza del mondo, ma lo utilizza secondo una nuova prospettiva
(decisamente lontana dall’autore della “Critica della Ragion Pura”).
2.
PLATONE – Lo stile e il pensiero di Schopenhauer dimostra di essere
eclettico e “aggressivo” sulle concezioni apparentemente più disparate della
filosofia, entro un quadro di coerenza assolutamente originale e, al limite,
provocatoria. Il pensiero di Platone, il filosofo dell’”Iperuranio”, si riflette nella
concezione artistica del filosofo tedesco di Danzica, per cui l’Arte è il passaggio
o, meglio, la “fuga” dell’individuo da se stesso e dal mondo quotidiano e
materiale percorso dal dolore, verso il mondo della Perfezione ideale, il “Mondo
– delle – Idee”, appunto. Qui la “Bellezza” è catartica sulla realtà e sulla vita,
intesa come Tragedia
3.
ROMANTICISMO – la ricchissima cultura romantica è alla radice del
pensiero “irrazionale” di Schopenhauer. I termini Streben (tensione) e Sensucht
(“Desiderio inappagato”) costituiscono le lenti interpretative del suo discorso
che, dal punto di vista stilistico non esibisce un impianto “sillogistico” o
dialettico-speculativo, ma anzi un discorso che ruota attorno alla vita e al
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sentimento dominante e primitivo che è la “volontà di vivere”, l’unica e
autentica “Cosa in Sé” di cui la filosofia e l’uomo possa parlare.
4.
FILOSOFIA INDIANA – Schopenhauer, sulla scorta dei contatti con
l’orientalista Fredrich MAYER avuti nel salotto di sua madre nella casa di
Weimar, rielabora un pensiero “alternativo” alla cultura occidentale incentrata,
da Cartesio a Hegel (non escluso nemmeno Kant), sul centralismo del
SOGGETTO (inteso, alla lettera come Sub-jectum) ovvero sul Principium
Individuationis. Schopenhauer apre la riflessione sulla decentralizzazione del
Soggetto: l’individuum è in realtà un dividuum, scisso e lacerato dalla forza
essenziale della realtà organica. La Volontà di Vivere che procura dolore,
sofferenza e noia (Francesco De Sanctis scrisse un celebre saggio nel 1958 sul
rapporto fra Schopenhauer e Leopardi). La saggezza indiana della Upanisad
conduce ad una dimensione “mistica” e irrazionale (meister ECKHART la
chiamerebbe “iper-razionale”) in cui l’individua dimentica se stesso, secondo il
principio del Nirvana (parola che in sanscrito rinvia a “macerazione”; la
macerazione nella Noluntas cui potremmo associare, a titolo di esempio, una
immagine poetica di beata “dimenticanza di sé”-lo scopo è distruggere il
Principium individuationis, che è la chiave di volta della Cultura Occidentale).
Le opere che esprimono i punti massimi del pensiero di Schopenhauer si
riferiscono soprattutto alla fase giovanile della parabola intellettuale.
Mi riferisco al lavoro coincidente con la sua tesi di Laurea del 1813, “Sulla
Quadruplice radice del Principio di Ragion Sufficiente” e poi al capolavoro
filosofico del 1818, il cui titolo racchiude i termini di tutta la visione del mondo
di Schopenhauer: “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione”.
Prima di entrare nel merito di tali concetti si dovrebbe prestare attenzione,
ancora, al generale tenore del messaggio filosofico: cosa che ne spiega anche lo
stile “arrogante” e “irriverente” (sono famosi gli insulti pesanti rivolti a Hegel,
che a Berlino insegnava proprio accanto all’aula di Schopenhauer, alle cui
lezioni contrariamente a quanto accadeva al “divino” Hegel andavano i
pochissimi. Schopenhauer, tra l’altro aveva voluto che le sue lezioni fossero
coincidenti con quelle di Hegel, in atteggiamento di sfida all’interno delle mura
universitarie).
Il messaggio di Schopenhauer è innanzitutto orientato alla più cruda e realistica
“Disillusione” sulla realtà della vita: i grandi sistemi filosofici basati su valori
eterni e immutabili (vedi l’Ottimismo del “Panlogismo” di LEIBNIZ che, con la
teoria della “Armonia Prestabilita” costruiva un universo perfetto e
razionalmente intelligibile) e, come il Cristianesimo, persino “rassicuranti”.
Senza contare la critica alla contemporanea visione “scientista” del Positivismo
che, con l’Idealismo hegeliano, riproponeva un evoluzionismo storico
Provvidenziale e Perfetto, senza residui inspiegabili o irrazionali.
Schopenhauer afferma proprio questo: che la Vita, il Mondo, la Realtà hanno
una radice irrazionale: al di là delle apparenze illusorie (il “Velo di Maya”,
usando il linguaggio Veda delle Upanisad) delle rappresentazioni. L’”Essenza” o
la “Cosa in sé” – che Kant aveva dichiarata in conoscibile da parte del Soggetto, è
ora per Schopenhauer a portata della conoscenza: ma si tratta di un tipo diverso
dalla conoscenza kantiana; non è l’Intelletto analitico che può cogliere l’essenza,
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ma è la parte irrazionale di noi: il desiderio o la volontà di Vivere, ciò che
Schopenhauer associa ad un forza cosmica che accomuna tutti gli esseri viventi;
vegetali, inorganici, organici e animali; l’uomo è quell’essere che è consapevole
di questa forza e che si esprime sottoforma di desiderio ovvero di dolore.
Schopenhauer rovescia la “scoperta” dell’ottimismo filosofico di Francesco
BACONE: la Volontà (dell’Homo Tecnologicus) è Potere; cioè la Scienza è alla
base della supremazia (i Greci usavano il termine Hybris per indicare la
“tracotanza” o presunzione del Soggetto che sfida gli Dei) del Soggetto
nell’Universo e sulla Natura. Per Schopenhauer, al contrario, i termini della
questione sono i seguenti: VOLERE implica SOFFRIRE; la cifra della Volontà è il
Desiderio e il desiderio che altro è se non il sintomo di uno strappo o di una deficienza (Platone nel Simposio diceva che “si desidera ciò di cui si manca”)?
Il dolore è il desiderio inappagabile o non ancora appagato (e qualora fosse
appagato verrebbe a coincidere con la Noia): su questo punto è fortissimo il
parallelismo con la teoria del Piacere di G. Leopardi (“Il Piacere è diminuzione del
dolore”, “una parentesi tra due dolori”). Schopenhauer diceva esplicitamente che
“(…) la vita oscilla tra il Dolore e la Noia”.
Osservazioni sul concetto di “rappresentazione” (Vorstellung)
Ne “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione” Schopenhauer esordisce con la
prima frase: “Il mondo è una MIA rappresentazione”.
Questa affermazione regge il senso di tutta la prima parte dell’opera (la seconda
dedicata alla Volontà di Vivere), laddove il senso principale è da ricercarsi
nell’aggettivo “MIA”: questo è il punto di distinzione con Kant.
Kant, infatti, sosteneva (nella celebre II^ Edizione del 1787 della Critica della
Ragion Pura) che le rappresentazioni hanno il loro statuto di universalità e
oggettività scientifica nelle 12 categorie dell’Intelletto che organizzano i dati
provenienti dalla sfera della sensibilità, forniti dalle intuizioni sensibili di
Spazio e Tempo.
Schopenhauer, quando riprende il concetto kantiano di “rappresentazione”
dimostra di non rifarsi alla II^ edizione della Critica, bensì alla I^, quella cioè
del 1781.
La differenza è decisiva. Si usa dire che la I^ edizione della Critica abbia un
innegabile impianto “berkeleyano” della concezione della conoscenza: col che si
intende il priviligiamento della dimensione soggettiva – percettiva della
conoscenza da parte di Kant e non ancora l’insistenza sulla oggettività
(“trascendentale”) delle categorie dell’intelletto. In breve, la I^ edizione sarebbe
viziata dall’”Idealismo soggettivo” del principio, del filosofo BERKELEY, “Esse
Est Percipi”. Questo principio evidentemente inibisce una qualsiasi visione
oggettiva del mondo e della realtà, ma tutto è “relativo” alle percezioni
soggettive: dunque in questo senso il termine “rappresentazione” si carica di
questa ipoteca relativistica o, per dirla con Schopenhauer, “illusoria”.
Schopenhauer è chiaro:
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“la vita e i sogni sono pagine dello stesso libro. La lettura seguita è la vita reale.
Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è trascorsa ed arriva il
momento del riposo, noi continuiamo spesso a sfogliare oziosamente il libro,
aprendo a caso questa pagina o quella senz’ordine e senza seguito,
imbattendoci ora in una pagina già letta, ora in una nuova, ma il libro che
leggiamo è sempre il medesimo”.
Ritornando alla conclusione filosofica sul “kantismo” di Schopenhauer
dobbiamo tener conto di questa differenza: la rappresentazione, per
Schopenhauer, è l’Intuizione sensibile di spazio e tempo o, detto sempre con
linguaggio kantiano è “Immaginazione produttiva” (noi percepiamo un oggetto
ed è come se siamo noi a “produrlo”).
Schopenhauer, al di là di questa grande differenza con Kant, ritiene che il
kantismo “vale” e “funziona” per il campo epistemologico o conoscitivo della
filosofia: da qui l’insistenza sulla importanza della categoria della Causalità (che
sostituisce le altre 11 di cui parlava Kant) come principio – cardine per la
spiegazione dei meccanismi della ragione conoscitiva umana, applicabile solo
alla conoscenza dei fenomeni; si tratta del principio essenziale per la critica
kantiana di “Ragion Sufficiente”. La “Cosa – in – Sé” (Ding an Sich) appartiene
ad un ambito puramente metafisico e problematico per la ragione conoscitiva.
Schopenhauer, su questo va oltre Kant annunciando che al di là della “patina”
illusoria dei fenomeni (il “Velo di Maya”) pulsa la “Cosa in Sé” che è un
fondamento radicale di potenza (nel senso greco di “Dynamis” =
“potenzialità”), ovvero energia irrazionale e/o pulsionale. Il “vero”
fondamento è questo e non il Subjectum/Principium individuationis!
Intermezzo antologico sul
“Mondo come Volontà e Rappresentazione”
Sul Linguaggio “eversivo” anti-hegeliano:
“Accademico mercenario (Hegel), insediato dall’alto, dalle forze al potere, fu un
ciarlatano di mente ottusa, insipido nauseabondo, illetterato che raggiunse il
colmo dell’audacia scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificanti non
sensi”
(tratto da un saggio “Sulla Corruzione delle Università”, in PARERGA E
PARALIPOMENA, 1851);
“Quella di Hegel è una buffonata filosofica, la più vuota e insignificante
chiacchierata di cui si sia mai contentata una testa di legno; Hegel è un
ciarlatano pesante e stucchevole”
Sulla realtà “fuggevole” e “fluttuante”:
“(…) il suo essere consiste unicamente nel suo Agire. Meravigliosa è dunque la
precisione del termine Wirklichkeit (derivato da Wirken, Agire)…termine ben più
preciso che non quello di Realtà”.
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(…) I VEDA e i PURANA non hanno, per la conoscenza del mondo reale che
essi chiamano il VELO di MAYA, una similitudine più bella e più frequente di
quella del sogno”
(da “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, cfr. Libro I)
Nel Libro I Schopenhauer non solo mette in luce il carattere relativo e
transitorio delle rappresentazioni (scardinandone l’oggettività kantiana), ma le
riconduce alla loro fonte originaria come oggettivazione o “veli” della vera
essenza della “realtà” che è la “volontà di vivere”. Ora, la Verità consiste nello
strappare il Velo di Maya o, fuori metafora, il guscio limitato e ristretto del
Soggetto conoscente (il Principium Individuationis); rimuovere il razionalismo
analitico per sentirsi parte del Caos, dell’ In-differenza.
La Verità va cercata come dimenticanza di sé, annullamento del proprio
egoismo: per questo il Libro IV de “Il Mondo” (che è quello più importante)
sostiene che pervenire alla consapevolezza della Volontà di Vivere come
essenza della realtà, significa –posti di fronte all’orrore che tale consapevolezza
innesca – predisporsi ad annullare tale Volontà. Insomma: la consapevolezza
della verità nuda e cruda agisce come “quietivo”: induce ad arretrare, “abdicare”
rispetto alla sfera egoistica delle passioni e dei desideri, verso una catarsi o una
quiete (annichilimento di sé che coincide con il Nirvana della sapienza e della
lingua sanscrito-orientale).
Schopenhauer lo sintetizza già nel sottotitolo stesso del Libro IV:
“Acquistata la coscienza di sé, la Volontà di vivere si afferma e poi si nega”
PARAGRAFO 53:
“ la morte è un sonno in cui viene dimenticata l’individualità”.
Qui Schopenhauer allude evidentemente alla negatività dell’esistenza
individuale, riprendendo uno dei capisaldi del pensiero di Spinoza, secondo cui
“Omnis Determinatio est Negatio”. Ovvero: la Verità non è nell’Individuo (come
per il Cogito cartesiano), ma la verità comprende l’individuo, che ne è piuttosto
una semplice manifestazione. Se si vuol cercare un parallelo nella storia del
pensiero antico, viene in mente la concezione che ERACLITO aveva della verità
: LOGOS, come una Totalità in cui tutte le parti si con-fondono e si unificano.
Così, similmente, in Schopenhauer la cifra o il Logos della realtà è la Voluntas,
ovvero quella forza che è alla base di ogni singola determinazione (compresa
l’individualità umana).
Allora l’Etica (ovvero, la sfera dei principi e dei comportamenti umani), per
Schopenhauer, è alla lettera Ethos = Abitudine, costanza di una predisposizione:
l’Etica non si fonda su principii astratti ma parte “dal basso”, cioè si spiega con
la volontà, che si esprime attraverso i desideri e i bisogni.
Nello stesso PAR. 53:
“Ciò che l’uomo vuole realmente e precipuamente, l’oggetto a cui aspira nel
segreto del suo essere, il fine correlativo che si propone, non c’è forza esteriore o
dottrina capace di modificarli; altrimenti dovremmo essere nelle condizioni di
ricreare ex-novo l’uomo. – VELLE NON DISCITUR- dice meravigliosamente
Seneca”.
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E prima, nel Libro II (“L’Oggettivazione della Volontà”) così si era espresso
Schopenhauer:
PARAGRAFO 18:
“In raltà sarebbe impossibile trovare il vero significato di questo mondo che ci
sta dinnanzi come rappresentazione, oppure comprendere il suo passaggio da
semplice rappresentazione del Soggetto conoscente a qualcosa d’altro e di più,
se il filosofo stesso non fosse qualcosa di più che un puro soggetto conoscente
(una testa d’angelo alata, senza corpo). Ma il filosofo ha la sua radice nel mondo”
Tornando al Libro IV, Schopenhauer, dopo aver mostrato come l’Arte
costituisca un possibile, ma momentaneo nonché rarissimo momento di
“elevazione” dal tumulto delle passioni e dal dolore dell’esistenza, perviene
all’analisi dei vari aspetti dell’Etica come tradizionale maschera dell’egoismo
soggettivo. Dietro e al di là dei valori metafisici dell’etica agisce sempre una
motivazione egoistica, che ricerca il soddisfacimento dei propri desideri. Ora,
una forma storica di Etica che rappresenti il tentativo della uscita dal proprio
egoismo e, quindi dal proprio dolore individuale è il Cristianesimo: nalla
fattispecie, relativamente al valore dell’Amore come “Pietà”.
Il Principio è il seguente:
“Ogni Amore (Pietas/Agapè) è Compassione”
Il vero amore si esprime come com-passione, ovvero come rottura di
quell’involucro egoistico di Amor Proprio: uscire da sé per partecipare al dolore
degli altri (Patire-con).
Gli esempi che Schopenhauer riporta di questo Amore estremo sono Cristo,
Socrate e Giordano Bruno, che si annullarono per amore della Verità, un amore
disinteressato.
In realtà questa forma di amore cristiano si apre, nella quotidianità , fatte salve
le eccezioni appena citate, all’ipocrisia implicita nel principio dell’ “Ama il
prossimo tuo come te stesso”; l’egoismo non è del tutto cancellato.
In questo esercizio di smascheramento delle tradizionali forme d’Etica, non
viene risparmiato nemmeno Kant che, nella Critica della ragion Pratica ,
imponeva all’uomo il dovere (“disumano”, cioè irrealizzabile in questo mondo
mortale) rendersi santo attraverso l’uso della ragione (obbediente all’imperativo
categorico del dovere morale disinteressato). Ciò che costantemente emerge
dalle considerazioni pessimiste di Schopenhauer è che comunque è
difficilissimo, se non impossibile, sperimentare l’annullamento della Volontà di
Vivere (escludendo l’atto del suicidio che, piuttosto, esprime l’attaccamento
disperato al proprio egoismo che vorrebbe la realizzazione di una vita fatta
senza dolore).
Dato che non si può procedere con “ricette” metafisiche o dogmatiche,
Schopenhauer cerca di rendersi chiaro attraverso gli esempi di vita vissuta dai
santi, asceti, martiri sia della tradizione occidentale (Schopenhauer allude
esplicitamente a SAN FRANCESCO, Meister ESCHKART, Angelo SILESIUS –
questi ultimi due, mistici della cultura tedesca) sia di quella orientale (CRISTO, i
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precetti dei 4 Vangeli, il BUDDISMO, le UPANISAD dei sapienti VEDA e
PURANA, i martiri TIBETANI).
Al di la dei principi astratti, la redenzione deve passare per l’annullamento di sé:
l’unica massima morale, conseguente alla consapevolezza dell’Essenza della
Realtà, come eterna volontà di vivere, è quella della sapienza Veda che dice,
dell’individuo di fronte ad ogni determinazione e situazione del Mondo “TU
SEI QUESTO” (ovvero: che si è fatti della stessa materia dell’universo e della
stessa essenza, quindi, in sé stessi, si è NULLA): Pascal, tanto per capirci in
senso Occidentale, avrebbe detto “SEI UNA CANNA AL VENTO”, Novalis
invece “SEI UNO ZERO ELEVATO A ZERO”.
Libro IV/ PARAGRAFO 68: Sulla Negazione della Volontà di Vivere ( la
“Noluntas”)
L’Ascesi consiste nell’ALIENAZIONE da sé (Principium Individuationis); implica
il rinnegare se stessi attraverso la RINUNCIA e RASSEGNAZIONE.
Perché si arriva a negare ogni volere?
Ciò deriva, ancora una volta, dalla conoscenza vera e autentica della natura
umana che, già di per sé (offrendo lo spettacolo orrendo del dolore umanouniversale) agisce come “quietivo” di ogni volere.
Tale ascesi deve necessariamente seguire tappe di “esercizi fisico-spirituali” che
fanno capo a:
1.
Libera e perfetta CASTITA’ (eliminare l’istinto sessuale. Nella storia, il
filosofo medievale ABELARDO “abbreviò” le pene di questa rinuncia dandoci
un bel taglio…)
2.
Povertà intenzionale; spogliarsi dei propri beni per mortificare la
propria volontà di vivere (mortificare il proprio egoismo: S. Francesco)
3.
Il DIGIUNO e la “macerazione” (questa è una pratica orientale indiana
che si estremizza, tra i fachiri e i tibetani, attraverso la macerazione nel dolore)
Le parole “macerazione” e “fuga da sé” (che aprono il discorso ad una
dimensione mistica: PLOTINO ne fu l’iniziatore a livello linguistico) conducono
alla comprensione dei termini di NIRVANA (parola sanscrita che significa
appunto “macerazione” /” dispersione”) e PSICHEDELIA (fuga dell’Anima dal
corpo, dileguamento).
Riferendosi proprio alla sapienza sanscrita Schopenhauer vede nell’esperienza
del Nirvana la forma autentica di etica (alla lettera: virtù, disposizione,
abitudine da coltivare con il sacrificio costante di sé) che, rispetto alla sapienza
indiana, va al di là del principio egoistico della Volontà di vivere che, nelle
rappresentazioni mitiche, assumono le sembianze di
1. SIVA (Morte – Distruzione)
2. VISNU (Conservazione)
3. BRAHMA (Generazione – Vita)
Siva, nella cultura Veda delle Upanisad, rappresenta il principio essenziale, la
Cosa-in-sé, l’Alfa e Omega, lo Yin e Yang ( ovvero: la Volontà di Vivere in tutte
le sue molteplici manifestazioni: infatti essa viene rappresentata nell’iconografia
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Veda con la Collana di teschi e, allo stesso momento, con il Lingam, simbolo di
fertilità, che nella cultura Greco – Orientale è rappresentato dal Dio Priapo, il
Fallo.
PAR. 69:
“Mentre chi è ancora prigioniero nel Principium individuationis e nell’egoismo,
non concepisce che le cose particolari, e soltanto in relazione con la propria
persona, senza ricavarne che motivi sempre nuovi che lo eccitano a volere; al
contrario la suaccennata conoscenza del tutto, la conoscenza della natura intima
delle cose in sé, diviene un quietivo per qualsiasi volontà. La volontà allora si
distacca dalla vita e sente orrore di tutte le gioie in cui si traduce la sua
affermazione.
L’uomo perviene ad uno stato di volontaria rinunzia, di rassegnazione, di
perfetta quiete, e di soppressione completa del volere. A noi, miseri mortali
avvolti ancora nel Velo di Maya, accade talvolta che un acerbo dolore personale,
o la viva rappresentazione di sofferenze altrui, ci renda consci della nullità e
dell’amarezza della vita; e allora vorremmo con energico atto di rinunzia,
smussare una volta per sempre la punta dei desideri, chiudere ogni accesso ai
dolori, purificarci e santificarci; ma il fascino ingannatore del mondo
fenomenico torna subito a sedurci e ad irretirci , e i suoi motivi non tardano a
mettere nuovamente la volontà in movimento: siamo impotenti a liberarci. Le
seduzioni della speranza, le lusinghe del presente, la dolcezza delle gioie, il
benessere che per eccezione ci tocca talora in sorte tra le pene ed i guai di questo
misero mondo dominato dal caso e dall’errore, tutto ci sospinge indietro, e
riallaccia di nuovo i nostri vincoli con la vita. Ecco perché Gesù dice: -- È più
facile ad una gomena passare per la cruna di un ago, che Ad un ricco entrare
nel regno di Dio – “
Precedentemente Schopenhauer aveva indicato, stando alle biografie dei santi e
asceti, le sole a rappresentare l’esempio di pratiche di rinuncia di sé, le vie della
rimozione del Principium Individuationis; la dimensione di Nirvana.
In realtà, il discorso ricalca bene anche la concezione ascetica del Buddismo che,
non ostante le differenze di cultura e dottrinarie, si accomuna al Cristianesimo
di Cristo e quello evangelico; alle Upanisad indiane; al misticismo tedescomedievale.
Infatti il Buddismo mette capo al concetto del “Risveglio” che non è affatto in
contraddizione con lo stato di Nirvana (“Estinzione” – “macerazione”) perché si
tratta di parlare dell’estinzione dei desideri e bisogni più contingenti ed
empirici che caratterizzano la vita egoistica dell’individuo.
Lo aveva detto Silesio in una poesia dal titolo “L’uomo porta tutto a Dio”, dove il
mistico tedesco dice:
“Uomo! Tutto ti ama! Ogni cosa si affolla attorno a te;
Tutto verso te corre, per arrivare sino a Dio”
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Versi che sembrano rievocare la “fuga da solo a solo della mente in Dio” di
PLOTINO o anticipare il concetto nicciano di “De-menza” (scrollarsi di dosso le
croste e i limiti ristretti dell’egoismo borghese – “occidentale”.
DIGRESSIONE Schopenhauer/La Rochefoucault:
La Rochefocault, per citare qualche principio indicativo, evidenzia come
“dietro” ai grandi valori metafisici ed eterni di Amore e Amicizia fermentino, in
realtà, principii e passioni egoistiche, offrendo così un quadro quantomeno
disilluso della morale umana o, comunque, di tutti i valori della filosofia e della
cultura fino ad allora imbevute di Cristianesimo e Illusione.
A titolo di “assaggio” dello stile di un pensatore interessante come La
Rochefoucault considera la seguente massima:
 “ La violenza che bisogna esercitare su sé stessi per rimanere fedeli a chi si ama,
non vale più di un’infedeltà”
 Oppure ecco altre massime suggestive di la Rochefoucault:
 “ Spesso l’umiltà non è che una finta sotto missione di cui ci si serve per
sottomettere gli altri; è un artificio dell’orgoglio che si abbassa per innalzarsi”.
 “la riconoscenza della maggior parte degli uomini non è che un segreto desiderio
di ricevere benefici maggiori”
 “Spesso ci vergogneremmo delle nostre più belle azioni se la gente vedesse tutti i
motivi che le determinano”
 “Spesso l’uomo crede di guidarsi e invece è guidato; e mentre con la mente tende
a una meta, il cuore insensibilmente lo trascina verso un’altra”
 Quest’ultima Massima di La Rochefoucault è molto simile ad un
famosissimo principio che ispira il pensiero di un pensatore contrario a
Cartesio, il francese PASCAL, che sottolinea l’importanza primaria della
fragilità umana e della sua natura irrazionale piuttosto che di quella
razionale (come stabilisce Cartesio):
“Il cuore ha delle ragioni che la ragione non può conoscere”.
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