CAPITOLO V UN BRINDISI DI NOTE Introduzione Il vino ha molte analogie e affinità con la musica per la sua capacità di consolare, unire, donare gioia, inebriare gli animi e condurci in un mondo fantastico e onirico. L’unione e il binomio tra vino e cultura si è materializzato anche durante la storia della musica. Musicisti immortali, da Verdi a Mozart a Mascagni, hanno scritto pagine indimenticabili ed eterne dedicate al vino, foriero di gioia e letizia, e il momento conviviale del brindisi ha assunto un ruolo chiave nel contesto operistico e nello svolgimento dell’azione scenica. La musica induce gli animi a gioire, infonde speranza e fortifica lo spirito. 1. Mozart e il Don Giovanni: “Viva il buon vino” Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) visse in un’epoca in cui nuovi concetti si diffondono nell’ordine culturale alla base dei quali vi è il concetto di ragione che rinnova il mondo. In campo musicale si diffonde la sonata fondata su ideali di equilibrio e di perfetta geometria della sua struttura con ordine e simmetrie. Mozart fu, dotato di raro e precoce talento Egli morì a trentacinque anni di età, lasciando pagine indimenticabili di musica classica di ogni genere, tanto da essere definito dal Grove Dictionary come "il compositore più universale nella storia della musica occidentale": la sua produzione comprende musica sinfonica, sacra, da camera e opere di vario genere. La musica di Mozart è considerata la "musica classica" per antonomasia; infatti Mozart è il principale esponente del "Classicismo" settecentesco, i cui canoni principali erano l'armonia, l'eleganza, la calma imperturbabile e l'olimpica serenità. E Mozart raggiunge nella sua musica divina vertici di perfezione adamantina, celestiale e ineguagliabile, tanto che il filosofo Nietzsche lo considererà il simbolo dello "Spirito Apollineo della Musica", in contrapposizione a Wagner, che Nietzsche definirà l'emblema dello "Spirito Dionisiaco della Musica". Il geniale e poliedrico compositore trattò tutti i generi compositivi e lasciò in essi traccia del suo talento immortale. Il “Don Giovanni” insieme al “Flauto Magico” costituiscono l’apice dell’esperienza estetica del celeberrimo compositore. La sua esperienza artistica fu complessa, vasta e smisurata, accompagnata da ricchezza di contenuti morali e sentimentali. Questo titolo Mozartiano suscitò l’interesse di Goethe (1749-1832), Byron (1788-1824) e Kierkegaard (18131855); quest’ultimo pose l’opera alla base di un significativo capitolo della sua riflessione poetica e filosofica. “Don Giovanni” fu composta nel 1787 su commissione dell’Imperatore Giuseppe II e andò in scena per la prima volta a Praga; si tratta di un dramma giocoso per i travestimenti e i capovolgimenti che avvengono sulla scena. Nelle arie dell’opera ci sono riferimenti al vino a cui Don Giovanni così inneggia “Vivan le femmine, viva il buon vino, sostegno e gloria d’umanità”, non accennando a pentirsi, per la sua vita dedita alla passione amorosa. Il Don Giovanni, è l’unica opera di Mozart che godette di una popolarità ininterrotta lungo i secoli. Nell’opera scorrono e si evolvono forze e pulsioni elementari che si scontrano con opposti elementi: vita e morte, spirito vitale, istinto al piacere e al godimento a cui Don Giovanni acconsente sempre con sfacciata ed inebriante esaltazione. Gioia e pianto, disillusione e speranza, gioco e follia, inferno e paradiso si alternano per creare una composizione perfetta. La conquista di Zerlina, promessa sposa, dovrebbe avere luogo durante un ballo, tra vini, donne, champagne, valzer e minuetti, in cui il dio Bacco esalta i sensi e l’ardore amoroso e così il Librettista Del Ponte scrive “finchè han del vino – calda la testa – una gran festa – fa preparar!”. E si aprono le danze, l’orchestra suona e i corteggiamenti e le galanterie divengono più serrati e incalzanti in un tripudio di gioia accompagnate da note sempre più brillanti. Nella scena del Banchetto così Don Giovanni incita “Versa il vino, eccellente Marzemino”, vino che forse ebbe origine in un’antica città sul Mar Nero, “Merzifon”, portato poi sulle rive dell’Adriatico. Per altri il nome del vino deriva da Marzinini, villaggio della Carinzia dove la prelibata bevanda, protagonista del Banchetto di Don Giovanni che incita al godimento, sarebbe nata. Anche Leporello si recherà poi all’osteria a “cercare padrone migliore”. Alcuni ricercatori hanno recentemente ipotizzato che la musica di Mozart influenzi positivamente il crescere delle piante di viti e che aumenti il processo di fermentazione del vino: le basi scientifiche di questa teoria non sono state provate ma si tratta di una strategia di marketing vincente. Il vino fa la sua comparsa anche nel primo atto delle “Nozze di Figaro” di Mozart; in quest’opera il compositore avverte che irrompono nuove energie sociali e anche i servi, in questo libretto, possono provare legittime emozioni; l’espressione di sentimenti fluisce in modo armonico: gli intrighi e gli inganni, gli equivoci e i conflitti si sciolgono con naturalezza sotto i nostri occhi e i personaggi emergono con delicatezza e densità dal tessuto musicale. Figaro dispensa i suoi consigli al Conte d’Almaviva che vuole conquistare Rosina, pupilla del dottor Bartolo: Almaviva si fingerà soldato per essere ospitato con un falso biglietto di alloggio a casa del Dottore e simulerà l’ubriachezza per infondere maggiore fiducia nel protettore di Rosina; se “casca dal vino” non potrà attentare alle virtù della ragazza. 2. “Libiam ne’ lieti calici”: le opere immortali di Verdi Giuseppe Verdi (1813-1901) compose opere caratterizzate da un carattere romantico in cui i personaggi, spesso, possedevano un carattere appassionato e una grande energia vitale. Verdi mette in musica la passione amorosa e anche le menti politico – sociali, scene di vita quotidiana. Verdi, come Shakespeare, rappresenta l’universalità dei sentimenti umani, avvicinando la poesia tragica più alta e sublime alle esperienze degli uomini comuni, attribuendo loro lo stesso spessore drammaturgico, essendo sempre attento ad indagare le sfaccettature dell’animo umano che ci rendono unici. Verdi e Puccini sono accomunati dalla resa della massima sintesi drammatica e dalla perizia nell’uso dei tempi teatrali sul metro del percorso emotivo dello spettatore. Verdi scrive linee melodiche molto eleganti e di sofisticato virtuosismo vocale. Le vicende si manifestavano con grande intensità, realismo e forza e i protagonisti mostravano le contraddizioni dell’umanità con grande intensità espressiva. Il grande compositore cantò le passioni, i dolori, le gioie della gente perché era nato e cresciuto tra uomini e donne semplici, tra gli “umili”, posti al centro della poetica manzoniana dei “Promessi sposi”. I genitori di Verdi gestivano un’osteria a cui era annesso un negozio di alimentari e generi vari e il padre della prima moglie era un grossista di drogheria e liquori. Verdi era un fine gastronomo e apprezzava lo Champagne e meno “il vino della bassa”, mistura schiumosa e spropositata che creava guai allo stomaco. Il Maestro in tema di vino era molto esigente, come testimonia una lettera del 1861 scritta dalla compagna Giuseppina Strepponi che stava per raggiungere San Pietroburgo per la messa in scena della “La forza del destino” in cui emerge la passione del Maestro per il buon bere che desidera “venti bottiglie di Bordeaux fino e venti bottiglie di Champagne”. Egli scrisse famosi brindisi operistici, come vedremo, ma anche un’aria da camera, “Brindisi”, brano grazioso e scorrevole. Il vino riesce a rendere tutto più bello e più sereno: “Mescetemi il vino! Tu solo bicchiere/ tra grandi terreni non sei menzognero/ tu vita dei sensi, letizia del cor” e continua affermando “tu sei chi m’allegri le curi noiose / sei tu che ne torni la gioia che fu / chi meglio risana dal cor le ferite? / Se te non ci desse la provvida vite/ sarebbe immortale l’umano dolor.” È Violetta Valery a Parigi nell’atto primo della “Traviata” la protagonista immortale della celeberrima aria “Libiam nei lieti calici”. Nella sontuosa casa di Violetta è in corso l’ennesima festa in un tripudio di musica, chiacchiere, risate. Violetta è in scena dal primo atto e Verdi tratteggia un'immagine immagine soave e solare della fanciulla; un allegro brillantissimo e molto vivace introduce nel suo salotto, un allegro brillante precede il duetto, seguito dall’ allegro vivo dello stretto finale. La storia si conclude con la cabaletta “Sempre libera”, ancora un allegro brillante che permette all'interprete virtuosismi di stile belcantistico. La poetica verdiana s'incentra sulla freschezza delle situazioni, sulla vitalità e sullo slancio vitale: la vita scorre gioiosa all'insegna delle follie e del piacere innocenti. Il motore narrativo del melodramma è l’eterno conflitto tra il destino e i desideri che si scontrano dando luogo all’effetto drammatico. La musica immortale e assoluta di questo genio giunge direttamente al cuore degli ascoltatori e già nel preludio il suono dei violini richiama l'aria famosa di “Amami Alfredo” e rimanda ai conflitti e alla passione amorosa esaltata durante tutto il corso dell'opera; la musica trascende la razionalità e la conoscenza e crea un'aspettativa enorme a livello emotivo al di là del testo scritto rivolgendosi all'emozione allo stato puro. L’appassionato motivo “Amami Alfredo” sarà ripreso nel finale dell’opera, quasi parlato quando Violetta sente rinascere la vita, il duetto sale con l’orchestra fino a “un fortissimo”, poi ricade, come ricade senza vita la protagonista. La giovane è già profondamente ammalata quando si accorge delle attenzioni di Alfredo Germont, dei suoi complimenti così eleganti e vi risponde schernendosi. Gastone propone un brindisi e invita Alfredo a formularlo “Libiam nei lieti calici”. Rivolto a tutta la compagnia, il brindisi diventa uno scambio di sottintesi, sguardi tra Alfredo e Violetta: “La vita è nel tripudio”, inneggia lei, “quando non s’ami ancor” risponde lui. Nell’attiguo salone si aprono le danze e l’atmosfera è resa elettrizzante dal vino che scorre nei cuori e nelle vene. Violetta si deve arrestare per un colpo di tosse e il giovane la soccorre e, forse reso più spavaldo e coraggioso dagli effetti della bevanda che porta “letizia ai cori”, le indirizza profferte amorose sempre più esplicite e serrate intonando l’aria “Un dì felice eterea”. La melodia procede dapprima timidamente e poi acquista forza, culminando nello splendido e famoso “Di quell’amor ch’è palpito”, che tornerà in seguito nell’opera come simbolo del loro amore. Violetta è la figura più affascinante e complessa del melodramma italiano, protagonista assoluta dell’opera; la sua malattia le impedisce di realizzare il suo sogno d’amore ed e costretta a sacrificarsi all’ordine sociale. Nei duetti si alternano recitativi, cabalette, strofe liriche, rispettando l’alternanza tra cantabile e cabaletta. Il vino e il brindisi inducono così Violetta a esprimersi “Godiam fugace e rapido è il gaudio dell’amore, è un fior che nasce e muore né più si può goder”. Attorno a Violetta tutto vive come di riflesso; la festa sembra nascere dalla sua voglia di vivere e lo slancio amoroso per Alfredo nasce dalla sua stessa vocalità. L’opera è considerata una delle prove più alte del melodramma italiano e il brindisi è il più famoso della storia dell’opera lirica. Così Alfredo inneggia alla vita, alla passione amorosa. “Libiam ne’ lieti calici che la bellezza infiora; e la fuggevol ora si inebrii a voluttà. Libiam ne’ dolci fremiti che suscita l’amor poiché quell’occhio al core onnipotente va. Libiamo, amor tra i calici più ardenti baci avrà”. Il celebre brindisi è a tempo di valzer. Rigoletto, protagonista dell’opera omonima, è il buffone di corte; anche in quest’opera nel terzo atto il vino entra in scena con il sicario Sparafucile, assoldato da Rigoletto per uccidere il Duca che si trova già nella Locanda. Gilda, la figlia segreta di Rigoletto, osserva con il padre dalla fessura di un muro lesionato cosa avviene all’interno. Al giovane viene offerto del vino e il Duca, ebbro di vino inizia a corteggiare Maddalena, sotto gli occhi costernati della povera innamorata delusa che va incontro alla morte con il coraggio infuso da un amore grande e smisurato, arrivando ad operare una sostituzione di persona per salvare la vita dell’amato Duca. Gilda, mentre fuori infuria la tempesta, non riconosciuta, entra nell’osteria e nell’oscurità si offre al sacrificio, sapendo che ad attenderla vi è il pugnale di Sparafucile. Il cinico libertino, di cui si innamora Gilda, pensandolo un giovane studente squattrinato, è in realtà il Duca di Mantova. In quel periodo storico la censura impedì a Verdi di dipingere un Re (Francesco I nel dramma di Victor Hugo) con caratteristiche così dissolute, intemperanti, impudenti e spregiudicate. Con il “Macbeth” ispirato all’omonimo dramma shakesperiano, Verdi dà voce, canto e musica alla tragedia del potere . Il vino assume un ruolo nel dipanarsi ed evolversi delle vicende dei personaggi di grande e sinistra dimensione; Lady Macbeth, durante la scena del banchetto del secondo atto, accecata dall’ambizione per il marito e per se stessa, rinforza con il vino il suo piano criminoso e incita e sollecita per due volte al brindisi con le parole “Si colmi il calice del vino eletto; nasca il diletto, muoia il dolor”; cui tutti i convitati rispondono “cacciam le torbide cure dal petto, nasca il diletto, muoia il dolor”; l’aria intonata da Lady Macbeth, continua invocando il potere salvifico del vino “da noi si involino gli odi e gli sdegni, folleggi e regni qui solo amor. Gustiamo il balsamo di ogni ferita che nova vita ridona al Cor; vuotiam per l’inclito banco i bicchier”. Il vino è, come affermava Shakespeare, un grande provocatore, anche nella parte in cui Macbeth decide di consultare le streghe per conoscere il proprio destino.Verdi riteneva il grande drammaturgo a lui congeniale, i soggetti gli consentivano di confrontarsi con caratteri psicologici di maggiore complessità e spessore. Verdi riesce ad avvincere e rapire lo spettatore con i mezzi della commozione – immedesimazione e la vena melodica sgorga ora impetuosa ora intimamente sofferta: le scena dei balli, dei brindisi delle sue opere catturano l’attenzione per rimanere ricordi indelebili nella memoria. 3. Rossini e i banchetti prelibati Gioacchino Rossini (1792-1868) fu un grande Gourmet e il più esperto di arte culinaria fra i maestri del pentagramma; si dice che da ragazzo gli piacesse il vino servito a Messa. Nella bella casa di Parigi il compositore accoglieva poeti, intellettuali, artisti, politici e richiedeva per i suoi banchetti le prelibatezze italiane, tra le quali i tartufi, dimostrandosi molto attento all’accostamento tra cibo e vino: il “Madera” ai salumi, il “Bordeaux” e il vino del Reno ai piatti freddi, lo “Champagne” all’arrosto e l’“Alicante” e la “Lacrima” a frutta e formaggio. Tra i suoi fornitori più generosi si ricorda il ricco e potente Barone di Rothschild a cui, in uno scritto, rimproverò l’esiguità del vino fornito così esprimendosi “Grazie, la vostra uva è eccellente ma non mi piace il vino in pillole”. La musica di Rossini esprime la sua passione per la buona tavola e il vivere in pace e sicurezza, nella brillantezza dei suoi motivi , nello slancio ritmico e nel temperamento provocante. Anche nel “Viaggio a Reims” Rossini mette in scena un banchetto per rendere omaggio al nuovo Re Carlo X; questo banchetto è organizzato da una allegra compagnia di “bons vivants” rappresentanti delle grandi nazioni europee che non possono recarsi all’incoronazione del Re personalmente, causa la mancanza di cavalli disponibili. I personaggi provengono da nazioni diversissime e questa differenziazione crea situazioni comiche e offre a Rossini lo spunto per innumerevoli parodie stilistiche. Nella ricca tavola imbandita, il Barone propone un brindisi secondo lo stile e le usanze proprie dei vari convitati. 4. Donizetti e l’elisir inebriante Gaetano Donizetti (1797 – 1848) compone “L’Elisir d’amore” in cui si realizza un’ambientazione gustosamente villereccia; la vivacità dei colori ambientali e il colore orchestrale sono coreografici con conviviale propensione alla danza paesana o alla canzone popolare. Tra gli effetti miracolosi del vino vi è anche quello di sostituire un elisir d’amore. Le vicende del timido, buono, credulone e sprovveduto Nemorino, innamorato della bella Adina e ravvivate dallo spassosissimo ciarlatano Dulcamara “famoso in tutto l’universo e altri siti” che promette, all’ingenuo il mezzo sicuro per superare la ritrosia dell’amata. Gli propina una pozione da lui stesso preparata così raccomandandogli: “La bottiglia un po’ si scuote, poi si stappa, ma bada ben che il vapor non se ne vada, poi al labbro l’avvicini e lo bevi a centellini e l’effetto sorprendente non è tardo a conseguir”. Un elisir molto inebriante, il cui sapore appare eccellente: si tratta di vino di Bordeaux. Egli convinto di poter beneficiare degli effetti prodigiosi del potente elisir, comincia a berne a grandi sorsi e con grande euforia esalta le sue portentose virtù: “O caro elisir! Sei mio! Si’, tutto mio. Com’essere possente la tua virtù, se non bevuto ancora, di tanta gioia già mi colmi il petto! Bevasi. Oh! Buono! Oh caro! Un altro sorso. Oh qual di vena in vena dolce calor mi scorre! Ah lei forse anch’essa , forse la fiamma stessa incomincia a sentir. Certo la sente. Me l’annunzia la gioia e l’appetito che in me si risvegliò tutto a un tratto”. Il vino riesce a far superare e vincere la timidezza a Nemorino e gli infonde coraggio, brio e allegria e l’amore riesce a nobilitarlo. Un’imprevista eredità da lui ricevuta, lo rende appetibile tra le ragazze del paese e lo sprovveduto ed incauto innamorato continua ad essere convinto di aver bevuto una pozione magica. Egli, nuovamente euforico per l’effetto dell’elisir, si meraviglia per l’ammirazione che suscita nei suoi compaesani e ormai non nutre più dubbio alcuno sugli effetti miracolosi della potente pozione. Quanto ad Adina, rifiuta il finto filtro propostole dal truffatore Dulcamara perché è molto più arguta e smaliziata. La storia ha un lieto epilogo e i due giovani convolano finalmente a nozze dopo tante peripezie, tribolazioni ed equivoci divertenti. Anche la capricciosa e sbeffeggiatrice Adina è vinta dall’amore e si pente per l’atteggiamento inizialmente sdegnoso tenuto nei confronti di Nemorino. 5. Puccini e la Bohéme: “Aspetti un po’ di vino” Il dramma lirico de La Bohéme, musicato da Giacomo Puccini (1858-1924), racconta la vita e le storie d'amore di giovani poveri ma pieni di vita di speranza e di amore per l'arte. In una misera soffitta di Parigi, quattro giovani artisti conducono "una vita gaia e terribile": la "bohéme". La Bohéme è un capolavoro per invenzione musicale, qualità di orchestrazione ed istinto teatrale. Si avverte un definitivo distacco dal teatro lirico di derivazione romantica, cambia la concezione dell’amore, che diviene un valore in sé e i personaggi sono spogliati da ogni titanismo. Siamo nel 1830 circa, scarse sono le possibilità economiche, spesso si digiuna, ma la gioventù e la spensieratezza aiutano a superare molti ostacoli. Il vino entra in scena subito nel primo atto quando i quattro amici decidono di festeggiare la vigilia di Natale con una cena al Quartiere Latino, ma proprio allora, giunge, inatteso e non gradito, il padrone di casa Benoît a reclamare la pigione dell’ultimo trimestre; per cercare di convincere il padrone di casa a posticipare la rata dell'affitto i giovani e gli offrono del vino e gliene versano una copiosa quantità nei bicchieri per cercare di confonderlo. Costretto a bere dai turbolenti inquilini, il vecchio si lascia andare ad imprudenti confidenze sulle sue infedeltà coniugali e viene perciò cacciato con alte grida di riprovazione dagli improvvisati moralisti. Cosi si svolge la scena: Marcello gli chiede “Vuol bere?” (Gli versa del vino. Poi tutti bevono. Benoît, Rodolfo (poeta), Marcello (pittore) e Schaunard (musicista) seduti, Colline (filosofo) in piedi. Benoît depone il bicchiere e si rivolge a Marcello mostrandogli la carta). Mentre il poeta Rodolfo sta scrivendo per terminare un articolo prima di recarsi al caffè latino, fa la sua apparizione Mimi, una dolce e bella "grisette" che abita in una soffitta dello stesso stabile: le si è spenta la candela, chiede aiuto a Rodolfo per accendere il candeliere: ma, appena entrata, è colta da malore e tossisce violentemente, le cadono di mano il candeliere e la chiave di casa, che saranno poi la causa, nel cercarle nel buio, dell'attacco della celeberrima aria “che gelida manina”, nella quale Rodolfo si presenta alla ragazza. Il vino subito dopo serve a scaldare la povera Mimì, già sofferente e malata. Rodolfo così apostrofa Mimì “Qui c'è tanto freddo. Segga vicino al fuoco. (Mimì fa cenno di no.) e Rodolfo già attratto da lei continua “Aspetti. un po' di vino... “. Mimì timidamente risponde, arrossendo come ella ricorderà nel finale di opera: “Grazie...”. Rodolfo le dà il bicchiere e le versa da bere. Nell’opera si alternano tutti i sentimenti che caratterizzano la giovinezza: riso e pianto; spensieratezza e malinconia; gioco, delicatezza e intensità delle passioni; disperazione profonda e inquietudine esistenziale; amore, passione, incertezze e dubbi. Per il poeta Rodolfo, l'amore sboccia quindi in modo fulmineo e passionale dall'incontro casuale con la dolce Mimì. Gli amori (c'è anche quello fra il pittore e la volubile Musetta) vivono, svaniscono, rifioriscono tra impeti e gelosie, abbandoni e precarie riconciliazioni, sullo sfondo allegro del Quartiere Latino. Nell'opera si dipanano, infatti, le storie d'amore fra Marcello e Musetta e fra Rodolfo e Mimì concludendosi in modo tragico con la morte di quest'ultima, che porterà allo strazio Rodolfo. La loro esistenza è un’opera di genio di ogni giorno, un problema quotidiano che essi riescono sempre a risolvere; sono artisti che amano le più belle donne e le più giovani, bevendo i vini migliori ed i più vecchi. Il vino sarà protagonista sui tavoli del caffè latino in cui tutta Parigi e quindi anche i giovani spensierati artisti si apprestano a festeggiare il Natale. È sera. Ad un crocicchio del Quartiere Latino che al largo prende forma di piazzetta. Si intravedono botteghe adorne di lampioncini e lampioni accesi; un grande fanale illumina l'ingresso al Caffè Momus, meta dei protagonisti e dove, parecchi borghesi, sono seduti ai tavolini fuori dal Caffè. Mimì è ammalata del più diffuso dei mali ottocenteschi, la tisi e il freddo dell'inverno parigino non l'aiuta certo nella guarigione; Rodolfo la lascia più per l'impossibilità di assisterla adeguatamente in quella fredda soffitta che per gelosia; Mimì andrà a cercarlo al freddo e al gelo davanti a un'osteria e nel finale, ormai fragile e prostrata dall'inesorabile malattia, torna in quella soffitta perché vuole morire vicino all'uomo che ama e agli altri pochi amici della sua semplice ma gioiosa vita, fino allora riscaldata dall’amore di Rodolfo e dall'amicizia dei suoi compagni di avventura. La soffitta apre e chiude il dramma esistenziale di Mimì; e luogo reale e simbolico dell’evolversi dell’illusoria speranza di amore e della sua morte, in cui vive i momenti più intensi ed esaltanti della sua breve esperienza di vita terrena. I personaggi sono soli ma l’amore offre loro l’entusiasmo e la spinta vitale per vincere questa solitudine: la bellezza, la creatività e la fiducia dei giovani non riescono a trovare un adeguato riconoscimento nella vita reale. Il finale ha commosso generazioni di melomani e non solo. Non si tratta però solo di un meccanismo narrativo che scatta alla perfezione e produce i suoi effetti, e nemmeno solo dal senso fortissimo di autenticità espresso dalla musica di Puccini. Forse può essere uno scrittore, Enzo Siciliano (1934-2006), a spiegarci il motivo che c'induce alla commozione : "la giovinezza è un momento del vivere, splendido per inconsistenza e non per altro, così che quando pare di averlo afferrato, sparisce"; passioni, rabbie, scherzi, scarsità di denaro, vita condivisa, allegria, delusioni, speranze: questo è la Bohème, e, al di là della trama e dei personaggi, cos'è tutto ciò se non la giovinezza, a cui ogni spettatore viene istintivamente rimandato. Nell'ultimo quadro dell'opera non ci immedesimiamo solo nella morte di un personaggio; quando muore Mimì è tutto quel mondo che si spegne, nel cuore di tutti i personaggi e anche nel nostro, perché quello che noi spettatori sperimentiamo non è altro che il sentimento della ineludibile fine della giovinezza. Quella di ognuno di noi; è di questo che in realtà parla la Bohème, ed è per questo che ogni volta ci sale un groppo in gola. Tutte le eroine Pucciniane da Manon Lescaut a Mimì, da Tosca a Madame Butterfly muoiono di fronte a un mondo che non le comprende e non riesce a accoglierle. Sono sopraffatte da un destino ineluttabile di sofferenza che distrugge la loro fragile o forte personalità. La trascinante linea melodica di canto coinvolge lo spettatore nei drammi emotivi di queste donne grazie all’apporto determinante di tutta l’orchestra. L’eccesso di emotività, le catastrofi sentimentali, le violenze subite rendono questi personaggi toccanti ed autentici. Il vino nella Tosca di Puccini andata in scena per la prima volta nel 1900, appare nel primo atto quando Caravadossi lo offre al fuggitivo Angelotti colto da un eccesso di debolezza ; egli si appoggia all'impalcato e dice dolorosamente:” stremo di forze, più non reggo...” ; Caravadossi rapidissimo, sale sull'impalcato, ne discende col paniere e lo dà ad Angelotti: “ In questo panier v'è cibo e vino”. Alla fine dell’opera anche il perfido e crudele Scarpia parla del vino che paragona alle donne :”me ne sazio e via la getto... volto a nuova esca. Dio creò diverse beltà e vini diversi... Io vo' gustar quanto più posso dell'opra divina!” ; egli beve in modo sfrontato cercando di possedere Tosca che alla fine lo ucciderà per non cadere vittima delle sue sfrenate passioni. 6. Mascagni: “Il vino generoso e spumeggiante” Con “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni (1863 – 1945) incomincia il verismo musicale italiano; il libretto è tratto dall’omonimo dramma di Giuseppe Verga, massimo esponente del verismo letterario italiano. Con Cavalleria si intende un comportamento nobile e generoso, tipico dei cavalieri feudali; rusticana indica che quel modo di comportarsi, proprio dei cavalieri, viene rivissuto dai contadini della campagna, di cui nel famoso epilogo vi sarà una triste traccia. Pubblicata nel 1880, è una delle novelle più famose di Verga, anche grazie alla sua trasposizione teatrale: nel 1884, infatti, venne portata sulle scene con l'eccellente interpretazione di Eleonora Duse. Racconta una vicenda di adulterio e gelosia con uno stile originale, avvincente e primitivo. La “Cavalleria rusticana” appartiene alla raccolta di novelle verghiane “Vita dei campi” (1880), che fu la prima a legarsi ai canoni e metodi di produzione veristici. Lo stile è di grande incisività espressiva e si assiste a una grande carica di vitalità passionale resa in toni drammatici. Per decenni è stata la novella del Verga più popolare e più rappresentata, al punto che lui stesso provvide a ristamparla in edizioni revisionate: in quella del 1883 sostituisce la scena finale e molto cruenta del duello, col grido di un personaggio aggiuntivo, Pipuzza ("Hanno ammazzato compare Turiddu"), ripreso poi da Mascagni, e Turiddu, nel melodramma, chiede alla madre di prendere con sé Santa come figlia, in quanto lui le aveva promesso di sposarla. Le scene nella novella sono rappresentate con una precisione geometrica assoluta nelle tonalità del bianco e del nero, in cui si alternano il bene e il male; i presagi di morte sono frequenti e si possono intravedere anche nel berretto rosso, color del sangue, portato da Turiddu. Con Verga sorgerà una lite giudiziaria a causa della non pattuita definizione dei diritti d’autore. Il linguaggio musicale in Mascagni non è arduo e complesso, i personaggi non sono sublimi fantasmi e l’ascoltatore non deve essere un intenditore iniziato. Il ricorso esteriore al folklore siciliano è nato per rendere i personaggi più veri, secondo i canoni naturalisti: essi cantano, gesticolano, pregano, danzano, accolgono senza che si intravedano processi psicologici ben definiti, guidati da passione e istinto travolgente. La musica di Mascagni è carica di un dinamismo elementare che si risolve in sé in un dramma. Il brindisi nella Cavalleria è foriero di sventure; si dice che la parola brindisi sia da porsi in relazione con la città di Brindisi, presso la quale i giovani Romani delle famiglie agiate, dopo una cena di saluti tra liete libagioni, si accomiatavano alla volta dell’Antica Grecia; per altri invece la parola potrebbe derivare dal tedesco “bring dir’s” (“lo porto, lo offro a te”) frase usata dai Lanzichenecchi quando alzavano il bicchiere per inneggiare alla salute di qualcuno. Questo termine divenne in spagnolo “brindis”, un’offerta amichevole non sempre accettata come in “Cavalleria rusticana”. Alfio ha appreso da Santuzza, cieca di gelosia per Turiddu, che sua moglie Lola lo tradisce con compare Turiddu, il vignaio. Il vino fa il suo ingresso all'inizio della novella in cui la madre entra in scena nel dialogo con Santuzza: il figlio non era andato a fare approvvigionamento di vino bensì aveva trascorso la notte con un'altra donna che si scoprirà poi essere la moglie di un compaesano. L’osteria di mamma Lucia si affaccia sulla piazza e Turiddu offrirà da bere a tutti i compaesani, lì riunitisi dopo la Messa di Pasqua. Il popolo contadino è, come nelle novelle di Verga, uno dei protagonisti dell’opera. Anche nella novella viene rappresentata la scena del Brindisi nel momento di uscita dalla chiesa, momento altamente corale di cui tutto il paese è co-protagonista quasi fosse consapevole della tragedia che si sta per compiere; nella novella il Brindisi è descritto in modo meno festoso e giocoso rispetto a quanto non sia nel libretto d'opera forse perché e maggiormente sentito come il preludio della morte imminente. Ma anche nell’opera Il brindisi è prossimo alla tragedia finale, al compiersi del dramma innescato dalla gelosia e dall’onor tradito. Si brinda con un canto che solo nell’apparenza è giocoso. Turiddu inneggia al vino “spumeggiante, nel bicchiere scintillante come il riso dell’amante, infonde il giubilo”. Nella versione cinematografica dell’opera realizzata dal regista Franco Zeffirelli nel 1982, i bicchieri usati sono semplici coppe umili e non si tratta certo dei cristalli usati per il Brindisi della Traviata; il saluto all'amata mamma è ambientato in un'unica stanza nella quale sono riposte le botti, le bottiglie, i fiaschi e vivono gli animali e le persone, in unico ambiente povero e molto modesto, che ben ritraeva in termini altamente veritieri il contesto contadino e popolare dell'epoca, in cui la miseria era altamente dilagante. È un brindisi festoso, corale, lo inizia Turiddu e lo ripete il Coro e quindi dà tutto un alternarsi di voci “viva il vino ch’è sincero, che ci allieta ogni pensiero, e che annega l’umor nero nell’ebbrezza”. Turiddu osa dichiarare la sua passione per Lola e brinda alla sua bellezza. L’arrivo di Alfio interrompe il brindisi e la risposta di Lola è ambigua e più dirompente per la tragedia finale, rivolgendosi “al più scaltro”; sebbene Turiddu lo inviti a bere e gli riempa il bicchiere, Alfio lo rifiuta e sostiene che “diverrebbe veleno entro il mio petto”. È la fine del brindisi, il fatto di sangue di lì a poco si consumerà, la vendetta della disonorata Santuzza si compierà. Turiddu cosciente del proprio destino, sebbene durante tutto l’evolversi del dramma si atteggi con spavalderia, così si rivolge alla madre che assiste inerme allo scorrere degli eventi fino al tragico epilogo che la porterà all’inevitabile perdita del figlio: “mamma quel vino è generoso, e certo oggi troppi bicchieri ne ho tracannati… vado fuori all’aperto”. Questa celebre romanza “Addio alla madre” è l’ultimo canto di Turiddu che lascia la madre prima di battersi a duello con Alfio. Si tratta di un congedo, struggente, dell’ultimo saluto all’amata genitrice a cui chiede di prendersi cura di Santuzza che avrebbe dovuto condurre all’altare. Lucia non comprende il motivo dell’inquietudine del figlio che allora sostiene di voler uscire per smaltire una sbronza; “Oh, nulla, è il vino che mi ha suggerito” pur dicendole un ultimo doloroso “Addio! Un altro bacio mamma! Addio!”. 7. Il vino protagonista di numerose altre musiche e canzoni Per il suo settimo dramma Metastasio (1698-1782) attinge alle vicende della storia antica, e per l'Artaserse porta sulle scene le fosche vicende della dinastia achemenide persiana: nel 465 a.C il Gran Re Serse, descrittoci da Erodoto come crudele e dispotico, venne assassinato insieme al figlio Dario dal visir Artabano, che prese la reggenza dell'impero. Il traditore finisce giustiziato un anno dopo, quando il figlio di Serse - Artaserse I appunto – riesce a restaurare il potere legittimo della sua dinastia. Sono presenti i tutti gli ingredienti del dramma metastasiano: gli amori contrastati, il dovere filiale e l'amor paterno, la fedeltà al sovrano e il tradimento, la ragion di Stato e l'amicizia. Tutto ciò viene spinto alla massima tensione tramite i rapporti incrociati e complessi tra i personaggi, in un intricato intarsio di contrasti sempre più intollerabile fino al liberatorio scioglimento finale. Una coppa entra in scena sul finale dell'opera come portatrice di morte in quanto piena di veleno, si tratta della coppa in precedenza avvelenata da Artabano Arbace «Se il labro mio mentisce/ si cangi entro il mio seno/ la bevanda vital...»/ (in atto di voler bere)/ Artabano Ferma; è veleno; è a questo punto che il perfido traditore cede e rivela le sue trame, venendo condannato a morte poi, grazie alle suppliche di Arbace, all'esilio. Evitata la tragedia, la scena volge al lieto fine. Una caraffa di vino fa l’ingresso anche in un’altra opera, “Il cavaliere delle rose” di Richard Strauss (1864-1949), senza però essere protagonista di primo piano; questa volta il vino serve per curare una ferita che Odis si è procurato maneggiando una spada per cercare di ostacolare due giovani innamorati, Sophia, figlia di un borghese e il giovane nobile Octaviani. Anche il maestro Toscanini (1867 – 1957) fece un cenno alla bevanda riferendosi ai “sorsi celesti delle botti di Brema che, preziose come reliquie, provengono dalla più bella partita del dio Bacco”. I cantautori contemporanei hanno celebrato il vino, come in “Champagne” di Peppino Gagliardi (1940 - ). “Champagne per brindare a un incontro, con te che già eri di un altro”. il vino è qui legato ai ricordi dolci e struggenti di un amore iniziato ad un festa con la complicità del vino che “faceva girare la testa” all’amata ma “ormai resta solo un bicchiere e un ricordo da gettare via”. E anche la fine di un amore si deve festeggiare in quanto ormai tutto è perduto e chiede “cameriere, champagne”. Giorgio Gaber (1939 – 2003) ha scritto e musicato “Barbera e Champagne”: ancora una volta il vino e la passione amorosa disillusa e perduta sono accostati: “Triste col suo bicchiere di Barbera senza l’amore al tavolo di un bar”; e continua così “con il suo bicchiere di Champagne, augurandosi di “dimenticare con i nostri vini il nostro triste amor”. “Barbera e Champagne questa sera berrò, ai nostri dolori stasera brindiam”. Anche Fabrizio De Andrè (1940 – 1999) nella “Città vecchia” unisce il vino ad ambienti degradati, atmosfere tristi di gente ai margini della società in cui vi sono pensionati “gonfi di vino”, che “tracannano, che cercano la felicità dentro un bicchiere” di “vino forte”. Sergio Endrigo (1933 – 2005) ha scritto e posto in musica “Il primo bicchiere di vino”; egli afferma di aver bevuto per la prima volta per una donna di nome Maria, forse per acquisire il coraggio per dichiararsi e fare capitolare l’amata alle sue parole d’amore: “il primo bicchiere di vino che ho bevuto in vita mia l’ho bevuto alla tua salute, Maria”. Roberto Vecchioni (1943- ) in Stranamore (pure questo è amore), non attribuisce al vino virtù salvifiche, perché analizza anche i comportamenti più abietti che possono essere compiuti, in modo realistico, sotto l'effetto delle bevande alcoliche. “ L'uomo è grande, l'uomo è vivo, l'uomo non è guerra?/I generali gli rispondono che l’uomo è vino/combatte bene e muore meglio solo quando ne è pieno” . La guerra è atroce e induce a compiere comportamenti aberranti da parte delle opposte fazioni in ogni epoca storica e così ne aveva parlato Bertolt Brecht in “Wenn der Krieg beginnt” , (quando comincia la guerra) “ Vi si verseranno grappa nella gola come a tutti gli altri.. Ma voi dovete rimanere lucidi! “. In un'altra strofa il cantautore - Poeta si riferisce a una donna oppressa - e forse maltrattata - dal marito alcolizzato, per farci comprendere le svariate forme che può assumere un amore malato, temi purtroppo tristemente famosi anche nel mondo attuale con gli episodi che sempre più di frequente si verificano ai danni delle donne uccise, violentate e abusate. Vecchioni così verseggia : “È lui che torna a casa sbronzo quasi tutte le sere/e quel silenzio tra noi due che sembra non finire/quando lo svesto, lo rivesto e poi lo metto a letto/e quelle lettere che scrive e poi non sa spedirmi.../forse lasciarlo sulle scale è un modo di salvarmi”. Ligabue (1960 - ) in “Lambrusco e pop corn” afferma che “non è così facile perché prima e dopo il sogno c’è la vita da vivere, vivere”, è come se “quel bicchiere di vigna” offrisse forza e parziale consolazione agli affanni e ai problemi della vita e fosse motivo di facile evasione. “Canzone del vino” è scritta e messa in musica da David Riondino (1952 - ) e la bevanda viene osannata, decantata con termini poetici, puntando l’attenzione sulla calma quasi a ricongiungersi con lo scorrere del tempo eterno “guardando come ti aspetta, senza avere fretta, silenziosamente il vino, guarda come se ne scende elegantemente nel bicchiere grande il vino, senti che dentro la stanza, lentamente, vola un profumo leggerissimo di viola”. Riondino ci rimanda poi al vino santo dei poeti , fonte dei segreti, vino dei profeti a quello della “vita vera” al “vino volo degli amanti”. Ancora il vino è unito al desiderio di oblio, di esperienze oniriche, di rimembranza di amori del passato che riaffiorano. Il vino ha ispirato quindi opere liriche, melodie tra disperazione, malinconia, ardori, esaltazioni amorose. Alcuni musicisti e cantanti sono diventati poi vignaioli come Ron (1953 - )che ha prodotto “Fransent Anni Rosso “ e “Fransent Anni Bianco” dopo la fortunata esperienza di San Remo. Albano Carrisi (1943 - ) possiede una tenuta di 65 ettari in Puglia e molte bottiglie hanno etichette con titoli delle sue canzoni, da “Nostalgia” a “Felicità”. Molto estesa è la schiera di artisti che si sono dedicati alla viticoltura: Bruno Lauzi (1937 – 2006), Lucio Dalla (1943 – 2012), Sting (1951 - ), Mick Hucknall (1960 - ), la voce dei Simple Red. In definitiva, la passione per il vino ha contraddistinto l’intera storia della musica, dalle antiche melodie agresti alle canzoni bacchiche del Rinascimento, ai grandi compositori Bach, Stravinsky, Mozart, Beethoven, Schumann, Brahmas, Verdi, Rossini, fino ad arrivare ai compositori contemporanei, Elton John (Eldberry Wine), ai Rolling Stone (Blood red wine) ai Beatles (Her Majesty). Nei canti popolari il vino è compagno e dispensatore di allegria e ironia. Nella “Mazurka del buon vino” si sostiene che “ma chi l’ha detto che del buon vino bisogna bere solo un bicchierino” e si arriva a nascondere un “fiaschetto sotto il letto” per avere la possibilità di spillare sempre qualche goccio. In queste ballate si creano spassose rime come a titolo esemplificativo “mi sento bello, bevo Brunello; sono stressato, bevo Moscato; se sono birbante, bevo spumante”. Anche Orietta Berti (1945 - ) ha intonato e lodato le virtù del vino così stornellando “l’acqua fa male, il vino fa cantare, e noi che figli siam, beviam beviam beviam del bianco moscatello, del nero marzemin”. In un altro canto dal titolo “Litanie del vino” si dichiara che “Adamo ed Eva nel peccato sotto un pergolato” e quasi cantano al limite del blasfemo si attesta che “lo disse il Padre Eterno, chi non beve va all’Inferno”, passando poi ad affermare, in rima, che tutti i Santi fossero gran bevitori.