L`utilità dell`inutile sapere - Liceo Classico Vittorio Emanuele II

Assaggi di Filosofia
Platone
Assaggi di Filosofia
La capacità di stupirsi delle cose comuni
Platone
Classe I sez. E
a.s. 2014/15
prof. Leopoldo Cicala
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Assaggi di Filosofia
Platone
Introduzione
Era una giornata di pioggia e sfortunatamente per noi era sabato. Era stata una settimana faticosa e
stressante e ovviamente non si erano mai viste giornate così limpide e un cielo così azzurro, ma
ovviamente il caso vuole che il sabato sera si scateni il diluvio Universale. I mie compagni ed io
avevamo organizzato una serata intima tra soli amici, giusto per stare insieme e discutere del più e del
meno; si voleva andare a mangiare fuori e prendere qualcosa da bere, così per distrarsi un po’. Aspettai
un mezzoretta che spiovesse, ma il tempo peggiorava e le nove si avvicinavano, così scrissi sul nostro
gruppo whatsapp “ ragazzi per sta sera non è cosa “. Stavo già per arrendermi e accendere la tv su un
qualche programma o documentario soporifero , quando quasi come se si fossero messi d’accordo
dissero “ma andiamocene a casa di Massimo, ha una casa enorme, ed è libera stasera : ordiniamo una
pizza e beviamo qualcosa “, fui subito contento dell’idea , presi le chiavi e scesi. Per fortuna la casa era
ben collegata, vicina alla metro , e non ci volle nulla ad arrivare . Appena entrato non credevo ai miei
occhi eravamo tutti presenti , non era mai successo , c’era sempre quello che si ammalava o che
disdiceva all’ultimo, invece stasera c’eravamo proprio tutti. Era una atmosfera tranquilla, stavamo
sparpagliati per tutto il salone, chi intorno al tavolo, chi sul divano, chi a terra sul tappeto . Mentre
aspettavamo le pizze, iniziammo solo a bere qualcosa e parlando del più e del meno uscirono fuori i
primi argomenti . Stavamo semplicemente discutendo di attualità , quando uno dei nostri, da sempre
fissato con la politica, volle per forza sapere che idea ne avevamo a proposito . Si aprì un acceso
dibattito su Platone e ciò non fu un caso ovviamente,poiché era fin dai primi anni di liceo che ci
battevamo su questi argomenti e piccole discussioni filosofiche, ciononostante era sempre un piacere
confrontarsi con loro .
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Platone
Così iniziammo …
La visione politica di Platone
di Andrea Pascale
Oggetto di questo saggio è la concezione politica di Platone: come sappiamo Platone dedica una buona
parte della sua riflessione filosofica al problema della giustizia e di come debba essere organizzato lo Stato per
adeguarsi alla sua concezione del bene comune.
L’interesse per questo tema è presente in lui fin dalla più giovane età sia perché, appartenendo alla classe
degli aristocratici, considerava suo compito primario assumersi delle responsabilità in ambito pubblico, sia
perché i drammatici eventi che accompagnarono il processo e la condanna a morte del suo amato maestro
Socrate nella Atene democratica della sua epoca, lo segnarono al punto da spingerlo sempre, anche nei momenti
del suo più alto “volare” filosofico, a non perdere di vista il mondo che lo circondava con i suoi problemi
concreti di convivenza civile e di gestione della cosa pubblica.
Più specificamente l’attenzione sarà posta sulla questione: Platone, dietro la fascinazione delle sue
utopie, era davvero il sostenitore di una concezione di società chiusa e rigida nelle sue articolazioni di classe e
nella distribuzione del potere, o proponeva un percorso “educativo”, “dialettico”, agli uomini del suo tempo nella
direzione di una gestione della res publica condivisa?
Dopo aver analizzato le diverse forme di governo succedutesi nel mondo fino alla sua epoca: la
timocrazia, l’oligarchia, la democrazia e la tirannide, sia nelle loro forme migliori che nelle loro degenerazioni,
Platone giunge a proporre una forma di governo della società che, basandosi sul modello della tripartizione
dell’anima, si presenta come una specie di oligarchia “illuminata”, una noocrazia o governo dei saggi.
Secondo la dottrina della tripartizione dell’anima, l’uomo dispone di tre anime: una concupiscibile, sede
dei bisogni biologici e delle passioni, una irascibile, la cui virtù di riferimento è il coraggio e il cui ruolo è quello
di tenere a bada l’anima concupiscibile, e l’anima razionale, la più nobile, sede della ragione, che può aspirare
alla saggezza, può essere educata, deve orientare l’azione delle altre due anime al fine di un funzionamento
equilibrato, giusto, dell’agire umano.
Il mito del Carro Alato, tratto dal Fedro, rappresenta in maniera efficace tale interazione fra la tre anime:
un auriga, che rappresenta l’anima razionale, deve condurre una biga i cui due cavalli sono uno forte, ma
collaborante, come l’anima irascibile, l’altro ribelle e incontrollabile come la parte concupiscibile dell’anima. Il
procedere della biga dipende dalla capacità del cavallo bianco (anima irascibile) di collaborare efficacemente
con l’auriga nel controllo del cavallo nero (anima concupiscibile).
Platone trasferisce tale modello di tripartizione nel mondo sociale: l’anima concupiscibile trova il suo
corrispettivo nella classe dei produttori, artigiani, contadini e commercianti, mossi dai loro forti bisogni a “fare”,
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l’anima irascibile nella classe dei guardiani, la casta militare, che deve occuparsi, con coraggio, di mantenere
l’ordine e di difendere lo stato dalle aggressioni esterne, l’anima razionale si identifica con la classe dei filosofigovernanti, gli unici predisposti alla guida dello stato.
Per far fronte alle degenerazioni causate dal fatto che il potere, a seconda delle forme di stato, finisce
talvolta nelle mani di pochi, ricchi e interessati solo alla loro ricchezza o votati solo all’affermazione del proprio
potere, o nelle mani di tutti, come nelle forme deteriori di democrazia, in cui tutti, competenti e incompetenti,
possono tentare di imporre interessi tanto in contrasto fra di loro da portare alla distruzione della comunità stessa
e indurre alla tirannide, Platone propone allora un governo degli unici che secondo lui possono veramente avere
a cuore gli interessi di tutti: i filosofi. Questi, per il fatto di essere soprattutto volti al raggiungimento della
conoscenza, non metteranno mai in primo luogo i propri desideri, ma anzi, tutti i loro sforzi saranno volti, in
nome della giustizia, al buon funzionamento dello stato, da cui tutti trarranno vantaggio.
I filosofi, già per loro natura predisposti al perseguimento del bene, somma virtù, saranno sottoposti,
nella Repubblica platonica, a un regime che li metta al riparo da ogni rischio di cedimento alle passioni: essi, e
con loro le loro compagne di vita, che godono degli stessi loro diritti, secondo il filosofo, vivranno in comunione
di beni e di donne, i loro figli non saranno riconosciuti come figli dell’uno o dell’altro, la loro comunità sarà
modello per tutta la società, sono bandite le passioni incontrollate e ogni smania di potere.
Per sostenere la sua proposta, Platone ricorre al mito delle stirpi, di origini fenicie, che lo aiuta, grazie
alla sua natura mitologica (la “grande bugia” a detta dello stesso) a fondare la sua teoria su di una concezione
antropologica capace di spiegare le differenze di predisposizione fra gli uomini. Secondo questo mito gli uomini
sono di tre sostanze: aurea, argentea e bronzea. A seconda della propria natura si è più predisposti verso un tipo
di vita o un altro.
Quelli di natura aurea saranno orientati verso la ricerca filosofica, quelli di natura argentea saranno dei
bravi guerrieri e quelli di natura bronzea degli ottimi produttori.
Per Platone queste sostanze differenti di cui siamo fatti non sono direttamente riconducibile alla classe
sociale di appartenenza: i filosofi non sono per forza figli di aristocratici, né i contadini figli di contadini, anche
se, egli riconosce, è più probabile che da aristocratici nascano persone più predisposte alla filosofia e quindi alla
gestione della cosa pubblica, dai guerrieri gente più abile nel combattimento e dai produttori vengano fuori
produttori.
Uno Stato così concepito sarebbe l’unico, secondo Platone, a poter funzionare adeguatamente: essere in
grado di promuovere la giustizia, indirizzare i suoi cittadini al bene, mantenere la coesione sociale, difendere
dalle aggressioni esterne, moderare gli appetiti dei più “vogliosi”, accrescere la ricchezza collettiva e il benessere
di tutti, creare gli anticorpi contro il rischio di degenerazioni sia di tipo tirannico che di tipo anarcoide.
La concezione dello stato di Platone è stata oggetto di appropriazione intellettuale da parte di movimenti
politici, ma anche di forti critiche da parte di intellettuali e filosofi.
Vediamone i motivi.
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La visione politica di Platone, con il suo modo di concepire la convivenza come un perfetto meccanismo
socio-antropologico, regolato da norme di comportamento precise e improntate al rispetto assoluto degli ideali di
“giustizia”, “bene”, “verità”, ha attratto, nel corso dei secoli, tutti coloro che aspiravano a vivere in condizioni di
stabilità sociale e aborrivano la complessità che il vivere “insieme”, soprattutto nell’età moderna, comporta. Non
ci stupirà dunque scoprire che “influenti intellettuali nazisti, come H. A. Grunsky, H. Guenther e Theodor von
derPfordten abbiano visto in Platone la sorgente delle loro nefaste idee sulla razza e sullo Stato onnipotente”(1)
o che “a Mosca, sulla stele in cui vengono elencati i più grandi pensatori comunisti, Platone sia al primo
posto”(2) .
La visione apparentemente statica della società e il centralismo del potere “burocratizzato” potevano
certamente aver affascinato chi cercasse una fondazione teorica per le proprie mire di potere assoluto. Certe
affermazioni di Platone possono certamente essere interpretate in tal senso: creazione di una razza pura di supersaggi per garantire la purezza e la continuità dell’ideologia al potere, comunione-comunismo dei beni per
favorire la nascita di una ideologia totalitaria basata sull’interesse collettivo e contro l’interesse individuale e
così via. Queste idee, prese nella loro assolutezza e avulse dai loro contesti, hanno sicuramente offerto a chi lo
desiderasse la base per ogni assurda concezione della politica.
Vero è che, pur non negando una possibile mobilità sociale, Platone sembra incastrare le classi sociali in
ruoli rigidi, rifiutando in blocco quella dinamica competitiva cui oggi noi siamo abituati a riconoscere un ruolo
importante nello sviluppo sociale. Da questo punto di vista la “politeia” platonica appare come un corpo unico,
compatto, solidale, ma anche ingessato, con pochi spazi per l’innovazione, insomma un meccanismo perfetto
chiuso nella sua utopistica contemplazione di sé stesso, in cui lo spazio per l’individuo, per la sua libera
iniziativa, per la sua creatività, è ridotto al minimo.
E’ proprio contro questa staticità simil-totalitaria, contro questa rigidità strutturale che lanciano i loro
strali due intellettuali di altissimo livello che, insieme ad altri nel corso dei secoli, hanno accusato Platone di
essere stato il padre dei totalitarismi moderni: Karl Popper e HannahArendt.
Per Popper, famoso per la sua teoria della falsificabilità come unico criterio di “verità” in campo
scientifico, Platone, per i motivi che abbiamo poco avanti elencato, è il teorico della società chiusa contro la
società aperta costituita dalla democrazia ateniese e da Popper considerata come l’unica che garantisca una
maggiore equità, è il sostenitore di quello stato ideale che implica necessariamente il blocco di qualsiasi
mutamento socio-politico, uno stato pietrificato, strutturato su una rigida divisione delle classi e sul dominio
esclusivo dei filosofi-re. Questi, educati istituzionalmente dallo stato, lo tutelano dalla decadenza, impedendo la
nascita dei movimenti politici, dal momento che, per Platone, i movimenti politici non possono non portare che
alla degenerazione, ciò in base alla legge di sviluppo storico, che per Platone è legge di decadenza. Il destino di
un tale stato si identifica con quello delle classi dominanti, è lo stato del privilegio, della censura, del razzismo e
del terrore. Per dirla con Th. Gomperz:” Alla classe dei dominatori Platone accorda una potenza senza
limiti”(3).
Popper arriva a definire il programma politico di Platone come tribale e totalitario; per Popper lo stato
platonico è un insieme di tribalismo, totalitarismo e utopismo fusi nella fede storicistica, che esita in una legge di
decadenza. Per Platone, secondo Popper, c’è solo un gruppo che deve comandare, perché fatto di uomini che
conoscono la verità e la giustizia e che, pertanto sono legittimati a ricondurre gli altri sul “retto sentiero”. Anche
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Hans Kelsen, uno dei massimi teorici del diritto del novecento, riteneva che la mistica di Platone costituisse la
giustificazione della sua politica antidemocratica.
La critica a Platone si estende in Popper alla critica ad ogni storicismo, inteso come disciplina che
intende far credere di aver capito le leggi che regolano lo svolgersi dei fatti storici; questo in Platone, al contrario
che in altri rappresentanti di questo approccio, come Hegel e Marx, non porta verso il futuro, ma verso il passato,
agli archetipi, alle “idee”. Da questo punto di vista, Platone tenderebbe a fermare ogni movimento al fine di
recuperare il passato piuttosto che guadagnare il futuro. E’ per opporsi a questa decadenza che Platone è
costretto a formulare la sua teoria dello stato ideale, alla realizzazione del quale tutti devono assogettarsi, perché,
nonostante tutto, è possibile fermare il degrado, ma, per fare questo, bisogna realizzare quello Stato, che solo può
rendere possibile il raggiungimento di quel sommo fine.
Per la Arendt, con Platone giungerebbe a compimento la disgregazione di quella concezione unitaria del
logos, per il quale non era possibile distinguere nell’uomo l’animale razionale e l’animale politico. Sulla scia di
Parmenide, che dell’Essere, del Pensiero e della Verità fa un’unica cosa, con conseguente svuotamento di senso
di tutto ciò che da questa identità resta escluso, Platone inaugura la storia della metafisica. Da questo momento
in poi questo Essere-Pensiero-Verità può rivelarsi solo ad un organo in grado di cogliere l’invisibile: l’occhio
della mente che rende presente ciò che è assente. Per essere fedele all’occhio della mente (al nous) l’uomo deve
abbandonare la fiducia nei sensi e soprattutto allontanarsi dagli altri uomini. Se si rimane legati al mondo dei
sensi e degli uomini, si possono vedere uomini e fatti giusti, ma non la giustizia, uomini felici, ma non la felicità.
Con la nascita della metafisica non solo pensiero ed azione si separano, ma carattere distintivo del
pensiero diventa la mera recezione, attraverso il nous, di una visione immobile, che sottrae al mondo delle
apparenze le sue verità particolari e ai diversi uomini i loro singoli logoi.
Con Platone il pensiero diventa sistema metafisico del mondo; molteplicità e mutamento vengono presi
in considerazione solo una volta, riconosciuto che il loro fondamento e la loro verità stanno altrove.
Il mondo delle idee immette uno iato tra idea e realtà e stabilisce il primato dell’idea sulla realtà; ne
consegue una separazione gerarchica tra universale e particolare, tra eterno e traseunte, una contrapposizione tra
episteme e doxa e fra mente e corpo. Si evidenzia infine una scissione tra discorso filosofico e discorso politico.
Per la Arendt l’atto di nascita della filosofia è iscritto nell’impossibilità per il pensiero di sopportare la
maledizione del finito, nell’incapacità di accettare il mondo segnato dal lutto della contingenza. Derealizzazione
del mondo nel pensiero, rifiuto del molteplice a favore dell’Uno, negazione della singolarità nell’universale,
questi fondamenti della metafisica non sono altro che la manifestazione di un desiderio di “durare”, che rimuove
la morte e il tempo. Il filosofo, nella sua ansia di immortalità, esiste al singolare, nella misura in cui si occupa
dell’uomo, si occupa dell’uomo “al singolare”, mentre il politico si occupa degli uomini “al plurale”. Platone,
secondo la Arendt, cercherebbe di instaurare la tirannia della ragione sulla praxis, la tirannia della verità. Nel
mito della caverna il mondo degli affari umani viene descritto come un mondo di tenebre, confusione,
disinganno. Se si vuole cogliere la verità bisogna allontanarsene.
Anche la sostituzione dell’idea di bello con l’idea di bene, che avviene nel VI libro della Repubblica,
rappresenterebbe, secondo la Arendt, il sacrificio dell’ideale sommamente contemplativo del Bello all’idea di
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Agathon, che significa letteralmente, più che “buono”, “buono per”, “idoneo”. Le idee si trasformano da
derivazione della bellezza in criteri, unità di misura, applicabili per definizione. La sostituzione del bello col
bene inaugurerebbe, per la Arendt, la filosofia politica, quella disciplina che da quel momento in poi sarà
deputata a risolvere il problema dell’ordine, a garantire che la prassi si modelli su criteri ad essa trascendenti e
messi a punto in un ambito ad essa esterno. Il filosofo ritiene di poter dominare gli altri come è riuscito a
dominare se stesso, ottenendo che l’anima avesse la meglio sul corpo e le passioni. Se nella solitudine della
filosofia e nell’illusoria sensazione di onnipotenza che da essa deriva, si radica la volontà di dominio dell’uomo
su se stesso, sulle proprie contraddizioni e differenze, il filosofo-Re sarà colui che tenderà a fare altrettanto nei
confronti della città: comandare i molti che abitano la polis come se fossero uno solo. Il rischio è che, una volta
intrapresa questa strada, non ci sia spazio per interventi di altri e l’Archon sia l’unico a decidere per tutti. La
Politeia platonica diventa allora la costruzione dello spazio pubblico secondo il modello fornito dall’idea: la
politica viene ridotta a poiesis e a techne, anche gli uomini diventano materia plasmabile ai fini della suprema
realizzazione.
Questo è ciò che si è manifestato, secondo la Arendt, in ogni dottrina filosofico-politica da Platone in
poi, capovolgendo l’originario fare politico, inteso come “agire” dialettico dell’uno verso-contro l’altro
nell’agorà-vita, per trasformalo in un‘imposizione-adeguamento all’ideologia del demiurgo del momento.
Prendiamo adesso in considerazione alcune posizioni di filosofi e studiosi di Platone che non concordano
con le critiche appena espresse
Le posizioni prese in considerazione prima nell’antitesi sono state discusse e contestate da eminenti
studiosi di Platone che hanno accusato i suoi detrattori soprattutto di aver estrapolato alcuni contenuti dai
contesti di riferimento e di averli manipolati in modo tale da travisarne il senso. Per Gadamer questo è ciò che è
capitato a Popper, che, a suo giudizio ne ‘La società aperta e i suoi nemici’ ha scritto “… ciò che di più brutto si
poteva scrivere su Platone nel Novecento”.
Un’altra accusa è stata quella di parzialità nei giudizi. D’altro canto gli scritti lasciati da Platone sono per
la forma, dialogica, e per la complessità, spaziano sull’arco di tutta una vita, difficili da inquadrare in un sistema
chiuso, dal momento che Platone ebbe modo, sulla base delle sue esperienze, di modificare il suo approccio ai
problemi giungendo in fasi diverse della sua vita a conclusioni differenti, sebbene coerenti con la sua
impostazione di fondo. Se non si tiene conto di questa evoluzione del suo pensiero, si rischia di non capire molte
cose del suo discorso filosofico, peraltro poco sistematico.
La Isnardi Parente, dopo aver individuato il nucleo essenziale della Repubblica in un progetto
pedagogico a favore della classe dirigente e non nell’elaborazione di un modello di stato utopico, dichiara che
quello di Platone non è né uno Stato fondato sull’immobilismo delle caste e sul privilegio del censo, dal
momento che l’aristocrazia di Platone non riguarda la nobiltà per nascita, ma la nobiltà intellettuale, né un
comunismo sociale, perché dei governati Platone non se ne occupa, ma si preoccupa piuttosto di un comunismo
etico che abolisca l’egoismo dei governanti nell’esercizio del potere. A questo proposito la Isnardi Parente cita
un passo del IX libro della Repubblica, in cui il filosofo dice:” … se ne occuperà (il filosofo) e molto, in quello
che sia lo stato suo vero, non certo nella patria sua, a meno che a questo non lo aiuti una divina fortuna.
Capisco, -soggiunse- tu parli di quello stato che noi abbiamo fondato e discusso e che non ha realtà se non nei
nostri discorsi, che io non credo, qua sulla terra, si trovi in qualche luogo, ma in cielo forse ve ne è l’esempio, -
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conclusi-, per chi voglia vederlo e ad esso conformarsi nel governare se stesso. E poi poco importa che questo
stato esista o debba essere ancora attuato, chè soltanto di questa città, e di nessun’altra, egli –cioè il filosofopotrebbe occuparsi”.
Per quanto concerne l’evoluzione del pensiero politico di Platone la Isnardi Parente invita a riflettere sul
fatto che, se nella Repubblica il filosofo-re si trova a governare uno stato immobile, dove le leggi non dovranno
mai essere cambiate, cioè non si misurano con la realtà che cambia, questo è dovuto al fatto che l’interesse del
filosofo, in questo dialogo, è quello di criticare gli stati esistenti, piuttosto che di riprodurre questo modello
ideale nella realtà.
Difatti nel Politico l’atteggiamento di Platone nei confronti della realtà che cambia è diverso. L’uomo
politico o basylikòs, l’uomo degno di essere re nel Politico, è sempre il filosofo, ma ha a che fare con una realtà
che gli propone delle situazioni mutate, quindi con la realtà sensibile. Di fronte a questa realtà Platone cambia il
suo modo di pensare la legge.
Quelle che erano le leggi immobili della Repubblica, leggi ideali, diventano invece delle leggi che
devono di volta in volta, a seconda dell’intelligenza filosofica che le governa, adattarsi ad una situazione
concreta che cambia.
Nel dialogo Leggi la figura del filosofo quasi svanisce perché egli lascia come eredità intellettuale le
leggi scritte. Il suo ruolo però sarà necessario di nuovo quando si tratterà di formulare i proemi alle leggi. I
proemi sono per Platone strumenti di persuasione nei confronti di chi deve obbedire alle leggi stesse, perché le
leggi di per se stesse non sono abbastanza persuasive. Servono a dare forza di convinzione alle leggi e a togliere
loro quel carattere tirannico che avrebbero se fossero lasciate nude e crude senza nessun avviamento
propedeutico. Leggi dunque intese non solo come strumento normativo, ma anche come strumento pedagogico.
In questo dialogo i filosofi non devono più governare direttamente, semmai consigliare e se non
governano direttamente, allora devono cercare di far diventare filosofi i governanti.
Per Platone non è importante il potere in se stesso, ma che chi governa lo faccia con saggezza. Pensare di
poter attribuire a Platone la paternità dell’irrazionalismo moderno venuto al potere con il nazismo è
assolutamente improbabile ed inesatto, dal momento che al centro dell’interesse di Platone c’è la ricerca della
verità attraverso la ragione, non la ricerca del potere attraverso la forza.
A questo proposito Giovanni Reale, grande studioso di Platone, ricorda come “nei libri VIII e IX della
Repubblica Platone presenti una delle più belle e approfondite analisi dell’assolutismo nelle sue implicazioni e
nelle sue conseguenze e in particolare una dettagliata descrizione e interpretazione della figura del tiranno nei
suoi vari aspetti, con una condanna categorica: il tiranno e la tirannia rappresentano il peggiore dei mali per
l’uomo”(4).
A chi accusa Platone di imporre un modello ideale cui doversi adattare, Reale risponde che la visione di
Platone è lontana da ogni imposizione perché la città giusta non deve nascere da una pressione esterna, ma prima
di tutto da una trasmutazione interiore dell’anima rivolta al bene e non più incatenata alle “ombre della caverna”.
Questa trasmutazione, secondo Reale, è il più importante contributo “politico” che si possa dare per
l’edificazione di una buona comunità.
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Questa conversione al Bene non significa che il filosofo possieda, e poi imponga o voglia imporre, il
Bene, la Giustizia, la Verità perché il filosofo platonico “non è colui che possiede, ma colui che indaga, che ama
e ricerca la verità”(5). Se il Bene in Platone, secondo Reale, è l’Aformale esente da qualsivoglia limitazione,
esso è apertura alla Realtà totale, non possesso.
La metafisica di Platone sarebbe, in questa visione, antidogmatica nei suoi fondamenti. Tra i limiti della
democrazia del suo tempo e il rifiuto della tirannide, Platone cerca una terza via, incentrata sul ruolo salvifico
della saggezza, che per sua natura non impone, ma attira con la sua luce e con la forza dell’esempio. Una via
necessariamente di tipo pluralistico come confermato anche da alcune altre caratteristiche dell’opera platonica:
a) nei dialoghi Platone non parla in prima persona, ma affida i messaggi importanti a vari
autorevoli personaggi, i quali espongono punti di vista non sempre convergenti, talvolta
conflittuali nei dettagli, non sempre facilmente armonizzabili;
b) i dialoghi raramente giungono a conclusioni monolitiche, spesso impostano l’esame di
problematiche altamente significative, proponendo alcuni orientamenti di fondo, che per il resto
lasciano campo libero al prosieguo della riflessione;
c) il più famoso dei miti platonici, quello della “caverna”, ha il compito di esporre un’ontologia
sostanzialmente plurale, nella misura in cui riconosce che si danno diversi piani di realtà (e
correlativamente diversi piani di conoscenza), quello che qualifica poi ogni grado di
conoscenza è il grado maggiore o minore di apertura alla complessità della Realtà, che è
stratificata su più livelli (culminanti nel Sole, simbolo del Bene aformale); ogni livello di
Realtà e di conoscenza non esclude gli altri (come fanno invece le filosofie contrappositive,
dualistiche), non riduce a sé, o comunque ad un solo elemento, la ricchezza del reale (come
fanno le filosofie monistiche), insomma quella di Platone può essere definita in maniera
efficace una “metafisica della non-dualità”.
d) infine c’è da aggiungere che Platone volutamente non rinchiude la dottrina in rigide
formulazioni concettuali, ma si affida spesso e volentieri alla fluidità delle immagini miticosimboliche, cariche di un enorme potenziale allusivo, in grado di approssimarsi all’infinitudine
del vero, senza mai pretendere di esaurirla.
Hans Kramer osserva che, nella filosofia platonica “… il progetto era mantenuto piuttosto elastico e
flessibile ed era fondamentalmente aperto ad ampliamenti sia nel suo insieme sia nei particolari. Si può pertanto
parlare di una istanza non dogmatica ma euristica, rimasta in alcuni particolari addirittura a livello di abbozzo,
e quindi di un sistema aperto”(6).
Anche Aldo Lo Schiavo in ‘Platone e le misure della sapienza’ sostiene:” La sua ricerca filosofica
rimane in ogni momento aperta. Ridurre pertanto sotto un’etichetta unica la sua complessa esperienza
intellettuale sarebbe oltremodo sbagliato. In Platone non si trovano dogmatismi o chiusure ideologiche di alcun
genere”(7).
Non è possibile trarre conclusioni definitive sulla filosofia di un personaggio cosi ricco e complesso
come Platone senza correre il rischio di schematizzare e quindi impoverire il suo messaggio. Il “Bene” che
Platone ci ha lasciato è soprattutto lo stimolo a pensare e a continuare a confrontarci su quello che ci vuole
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suggerire la sua opera. Finchè ci farà discutere, anche aspramente, continuerà a nutrirci. Penso che egli
desiderasse soprattutto questo.
NOTE
(1) D. Antiseri : “Platone è totalitario, va corretto” , Corriere della Sera, Milano, 12/08/2010
(2) ib.
(3)
Th. Gomperz : “Pensatori greci”, Bompiani, Milano, 2013
(4)
G. Reale : L’utopia del governo perfetto. Platone e l’idea del Bene assoluto”, Corriere della Sera,
Milano, 23/08/2010
(5)
ib.
(6)
H. Kramer : “Platone e i fondamenti della metafisica”, Vita e Pensiero, Milano, 1987, pp. 177-178
(7)
A. Lo Schiavo: “Platone e le misure della sapienza”, Bibliopolis, Napoli, 2008, pag. 481
BIBLIOGRAFIA
Arendt H. “Le origini del totalitarismo”, Einaudi, Torino, 1951
GomperzTh. “Pensatori greci”, Bompiani, Milano, 2013
Isnardi Parente M: “Il pensiero politico di Platone”, Laterza, Roma-Bari, 1996
Lo Schiavo A. “Platone e le misure della sapienza”, Bibliopolis, Napoli, 2008
Popper K. “La società aperta e i suoi nemici”, Armando Editore, Roma, 1973
Reale G. “Per una nuova interpretazione di Platone”, Vita e Pensiero, Milano, 1997
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Platone: la giustizia per uno Stato ideale
Antonio Lucerino
Nello studio della filosofia, soprattutto quella platonica, un campo di importanza decisiva è costituito
dalla giustizia, al fine di realizzare uno Stato ideale. Platone infatti incominciò a considerare la giustizia
un’idea-valore dopo che Socrate, il suo maestro, fu accusato e condannato a morte ingiustamente da tre
democratici oltranzisti- Meleto, Anito e Licone-, nello stesso tempo in cui la sua influenza si era già
esercitata in Atene su di un’intera generazione.
Un supporto bibliografico fondamentale è costituito dalla Repubblica di Platone, una delle sue opere
più famose, in cui il filosofo ordina e connette tutti i temi speculativi e i risultati fondamentali dei
dialoghi intorno al motivo centrale di una comunità giusta. Inoltre, un altro supporto bibliografico è
ricavabile dal libro di filosofia La ricerca del pensiero, Vol. 1a, di Nicola Abbagnano e di Giovanni
Fornero.
Anzitutto, è assolutamente necessario spiegare che cos’è la giustizia, com’era organizzata la comunità e
parlare dell’importanza dell’educazione per custodire i governanti.
La morte di Socrate rappresentò un evento decisivo per Platone. Infatti quest’ultimo incominciò a
dedicarsi alla vita politica, ma la fine di Socrate lo colpì come un’ ingiustizia imperdonabile e lo spinse
a considerare molto negativamente le condizioni politiche di quel tempo: Platone si rese conto che
queste condizioni dovevano essere cambiate e che la risoluzione del problema politico doveva essere il
nuovo compito della filosofia. Quindi, da allora, la filosofia gli apparve come la sola via che potesse
condurre il singolo individuo e la comunità verso la giustizia: «Io vidi che il genere umano non sarebbe
mai stato liberato dal male, se prima non fossero giunti al potere i veri filosofi o se i reggitori di Stato
non fossero, per divina sorte, diventati veramente filosofi»1.
Per Platone c’era bisogno di una comunità perfetta, nella quale il singolo trovava la sua perfetta
formazione. Il progetto di tale comunità era fondato sul principio che costituisce la direttiva di tutta la
filosofia platonica, come dice Platone stesso nella Repubblica: «Se i filosofi non governano le città o se
quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il
potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che
ora si applicano esclusivamente all’uno all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è
impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano»2.
Per Platone il fondamento di tale comunità è senza dubbio la giustizia. Nessuna comunità può
funzionare bene senza la giustizia,poiché quest’ultima è condizione fondamentale della nascita e della
vita armoniosa dello Stato.
Tuttavia lo Stato deve essere costituito da tre classi sociali:
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Platone
1- Governanti: la cui virtù caratteristica è la saggezza, poiché basta che i governanti siano saggi
affinché lo Stato sia saggio.
2- Guerrieri: la cui virtù caratteristica è il coraggio, poiché decidevano di compiere imprese molto
pericolose.
3- Lavoratori: la cui virtù è la temperanza, intesa come accordo sul principio secondo cui
l’inferiore deve essere subordinato al superiore.
In realtà, la temperanza, che è comune a tutte le classi, riguarda particolarmente i lavoratori poiché
questi, non avendo una virtù propria, devono condividere quella di tutta la società.
La giustizia è relativa a tutt’e tre le classi e si realizza soltanto quando il cittadino compie il lavoro
che gli spetta: siccome i compiti dello Stato sono tanti, ogni individuo deve scegliere quello per cui
è più adatto e dedicarsi esclusivamente ad esso. Quindi, in questo modo si può ottenere l’unità del
cittadino e, di conseguenza, l’unità dello Stato.Inoltre, la giustizia garantisce non solo l’unità dello
Stato, ma anche l’efficienza dell’individuo. In particolare, nell’anima di quest’ultimo, Platone
distingue tre parti:
1- Parte razionale: ha sede nel cervello ed è quella per cui l’anima ragiona e domina gli impulsi.
2- Parte concupiscibile: ha sede nel ventre ed è il principio di tutti gli impulsi corporei.
3- Parte irascibile: ha sede nel petto, è l’ausiliario della parte razionale e lotta per ciò che la
ragione ritiene giusto.
Da queste tre parti dell’anima vengono prodotte le virtù di tutte le classi sociali, di cui si è
parlato precedentemente: dalla parte razionale la saggezza, dalla parte concupiscibile la
temperanza, dalla parte irascibile il coraggio. Quindi, anche nel singolo individuo la giustizia si
realizzerà quando ogni parte dell’anima svolgerà la propria funzione.
“Chi custodirà i governanti dello Stato?”
Una volta aver parlato di com’è costituito lo Stato e in quante parti l’anima dell’individuo è
divisa, è bene concentrare l’interesse sull’importanza dell’educazione. Dunque, Platone postula
che i governanti, prima di custodire gli altri, devono essere capaci di custodire se stessi. Infatti,
per il nostro filosofo, lo Stato è come una grande Accademia, che ha come scopo la formazione
educativa di ineccepibili governanti.
Indubbiamente, l’educazione al sapere ed alla virtù di cui parla Platone non riguarda tutti gli
individui della società, ma soltanto quelli delle prime due classi. Tant’è vero che Platone non fa
alcun accenno dell’educazione della massa di cittadini, oppure, della classe dei lavoratori.
Bensì, egli è convinto che il sapere sia una prerogativa delle classi superiori, in quanto è
«impossibile che la massa filosoficamente rifletta»3.
L’educazione al sapere e alla virtù coincide con l’educazione alla filosofia, che è la
conoscenza: all’essere corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non essere
corrisponde l’ignoranza; al divenire, che è una via di mezzo tra l’essere e il non essere,
corrisponde l’opinione, che è a metà strada tra la conoscenza e l’ignoranza. In particolare
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Assaggi di Filosofia
Platone
abbiamo quattro gradi della conoscenza, e quindi dell’educazione, cui corrispondono quattro
gradi della realtà. Della conoscenza sensibile, che rispecchia il mondo mutevole, i due gradi
sono:
1- Congettura: ha come oggetto le ombre o le immagini delle cose.
2- Credenza: ha come oggetto le cose sensibili nei loro rapporti scambievoli.
Invece, della conoscenza razionale, che rispecchia il mondo immutabile, i due gradi sono:
1- Ragione matematica: ha come oggetto le idee matematiche.
2- Intelligenza filosofica: ha come oggetto le idee-valori.
Comunque, Platone è ben consapevole che un simile Stato non esiste “in alcun luogo sulla
terra”4. Infatti, correggendo l’idea che in una società perfetta ogni individuo segua la propria
disposizione naturale, il filosofo afferma piuttosto che l’edificazione dello Stato rende
necessario un agire contrario alla natura umana e volto a dominarne gli aspetti deteriori.
Nonostante ciò, Platone è convinto che lo Stato da lui descritto rappresenti un modello ideale, in
riferimento al quale è possibile migliorare gli Stati esistenti e giudicarne le alterazioni possibili.
Infatti, le degenerazioni dello Stato sono varie:
1- Timocrazia: governo fondato sull’onore, che nasce quando un governante si impossessa di
case e di terre; ad essa corrisponde un uomo ambizioso e amante dell’onore, ma diffidente
verso i sapienti.
2- Oligarchia: governo fondato sul censo, in cui comandano i ricchi, quindi parsimoniosi e
laboriosi.
3- Democrazia: governo in cui i cittadini sono liberi e possono fare ciò che vogliono.
4- Tirannide: nata dall’eccessiva libertà della democrazia. Questo è il governo più spregevole,
perché il tiranno deve circondarsi degli individui peggiori. Il tiranno è schiavo delle passioni
ed è il più infelice degli uomini.
Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce l’eliminazione
della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori, in modo che esse
attendano più efficacemente alla gestione della cosa pubblica. I governanti devono avere cibo e
case semplici, vivere come militari; hanno soltanto i mezzi necessari per vivere. Siccome lo
scopo della città è il bene di tutti ma non la felicità di una classe, sia l’oro che l’argento sono
proibiti, come dice Platone: «Il nostro scopo nel fondare lo Stato non è di rendere felice un
unico tipo di cittadini, ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua totalità […].
Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma
vogliamo la felicità di tutti»5.
Quindi, quello prospettato da Platone si presenta come una sorta di comunismo, che non
riguarda l’intera società, dal momento che la terza classe non viene esclusa dalla proprietà
privata dei mezzi di produzione. In particolare, la classe al potere non avrà famiglia perché
Platone ritiene che i governanti debbano avere in comune anche le donne, questo spiega perché
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Assaggi di Filosofia
Platone
le donne devono essere in completa uguaglianza rispetto agli uomini anche per quanto riguarda
la partecipazione alla vita dello Stato. Inoltre, i matrimoni, dato che Platone è contrario al libero
amore, sono temporanei e sono stabiliti dallo Stato e, sin dal primo giorno della propria
esistenza, i figli sono tolti ai genitori, avendo cura che questi ultimi non sappiano quali sono i
loro figli e viceversa, così da creare un’unica e solidale famiglia: «e così saranno di tutti anche i
figli, né i padri conosceranno i propri figli, né i figli i propri padri»6.
“Platone può essere filosoficamente compreso, in modo adeguato, solo in antitesi ai sofisti?”
La posizione dei sofisti è dunque una forma di “relativismo”. Con questo termine si indica la
teoria secondo cui non esiste una verità “assoluta”, cioè “sciolta” dai vari punti di vista, ma ogni
verità, o ideale, o modello di comportamento, è “relativa” a chi giudica nell’ambito di una certa
situazione. Sulla base di questo relativismo, che distrugge il concetto di una verità unica, o di un
unico sistema di ideali validi per tutti e per sempre, i sofisti amavano insistere sulla diversità ed
eterogeneità dei valori, o ideali, che reggono la convivenza umana.
Ad esempio, per Protagora, la conoscenza è sempre condizionata dal singolo soggetto che
percepisce e pensa, e non esistono criteri universali che consentano di discriminare la verità e la
falsità delle conoscenze soggettive, non una giustizia assoluta, che possa valere da norma
definitiva per i comportamenti etici nello Stato. La misura del giusto non è l’individuo singolo,
ma l’intera comunità a cui appartiene. Giusto sarà ciò che appare tale alla maggioranza, ciò che
giova alla città (secondo il criterio dell’utile) ed ottiene il consenso più ampio possibile dei
cittadini. Così il consenso del pubblico diviene la riconosciuta misura della verità di un
discorso. Come si vede, in Protagora c’è in ogni caso un modo di discriminare fra due opzioni,
che non sono equivalenti per il solo fatto di non potere essere nettamente divise in “vere” e
“false”, “giuste” e “sbagliate”.
Invece, per Gorgia, tutte le possibilità si equivalgono, perché non sono conoscibili e comunque
non sono comunicabili. Ne consegue che con l’arte oratoria si può dimostrare che “tutto è il
contrario di tutto”.
Anche il progetto platonico di una riforma complessiva della comunità umana nasce in antitesi
alla degenerazione della democrazia ateniese. Tant’è che Platone critica sia i sofisti (i teorici
della nuova pòlis) sia gli uomini politici che avevano attuato riforme della città in senso
democratico: Temistocle, Cimone, Aristide e Pericle. Nel Gorgia: «Io sento dire che Pericle ha
reso gli Ateniesi pigri, vili e avidi di denaro, istituendo per primo uno stipendio per gli uffici
pubblici.[…] Pericle, allora non era un buon politico.»7
Questo severo giudizio sulla democrazia ateniese e sui suoi leader nasceva indubbiamente, nel
Platone aristocratico, dal desiderio di ritrovare un modello aristocratico di coesistenza sociale.
Oppure, la proposta politica di Platone va collocata nel contesto sociale della sua epoca, segnata
dallo scontro tra gli àristoi (i nobili) e il démos (il popolo). Tale scontro non implica soltanto
una contrapposizione di interessi, ma anche l’antitesi tra due opposte concezioni della giustizia.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Nel Gorgia: «Io sento dire che Pericle ha reso gli Ateniesi pigri, vili e avidi di denaro,
istituendo per primo uno stipendio per gli uffici pubblici.[…] Pericle, allora non era un buon
politico.»8
In questo saggio, tutto dedicato alla teoria platonica della giustizia e dello Stato ideale, si è
parlato, inizialmente, del fondamento del progetto di tale comunità governata da filosofi, cioè la
giustizia, delle classi sociali dello Stato e delle virtù di quest’ultime. Successivamente, si è
parlato, più nel particolare, delle diverse parti dell’anima dell’individuo, che fa parte di una
delle classi della comunità, e dell’importanza dell’educazione, affinché lo Stato sia governato da
filosofi e non da governanti che pensano soltanto al proprio interesse e desiderano il male della
società. Infine, è stato necessario spiegare sia le degenerazioni dello Stato, poiché non c’era
un’unica comunità, quindi, si andarono a creare diverse riforme, sia del “comunismo” platonico,
poiché era fondamentale per la realizzazione della giustizia e per la buona funzionalità dello
Stato.
NOTE
PLATONE, Lettera VII, 324b – 326b
1
2
PLATONE, Repubblica, V, 437d
3
IVI,
494a
4
IVI,
IX, 588b - 589b
5
IVI,
IV, 420b-c
6
IVI,
IV, 457c-d
7
PLATONE, Gorgia, 515e-516c
BIBLIOGRAFIA
N. ABBAGNANO e G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia. Vol.1a,
Dalle origini ad Aristotele,Milano – Torino, 2012.
PLATONE, Repubblica.
PLATONE, Lettera VII.
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Assaggi di Filosofia
Platone
PLATONE, Gorgia.
Lo stato ideale di Platone è veramente perfetto
Di Edoardo Quarantelli
Nonostante i tentativi compiuti negli ultimi decenni da numerosi studiosi di interpretare in senso
liberal-democratico la filosofia politica di Platone, la tesi del filosofo austriaco Karl Popper secondo la
quale Platone fu un pensatore totalitario, che avversò in maniera radicale la società aperta e la
democrazia, appare difficilmente contestabile. L'avversione platonica nei confronti della democrazia è
di natura profonda e investe importanti aspetti del suo pensiero filosofico, sia sul versante
antropologico sia su quello etico e morale. Per Platone la democrazia assume in maniera del tutto
ingiustificata l'uguaglianza degli uomini e rinuncia programmaticamente al principio di competenza.
Inoltre essa è destinata inevitabilmente a degenerare nella più terribile delle forme di governo: la
tirannide.
La riflessione filosofica del V-IV secolo a.C. fu generalmente ostile alla democrazia. Forse la prassi
democratica non aveva bisogno di venire legittimata sul piano teorico dal momento che era, almeno ad
Atene, diffusa e accettata. Quando la filosofia, con Socrate, Platone e, sia pure in misura meno radicale,
con Aristotele, iniziò a riflettere sistematicamente sui fondamenti della democrazia, assunse un
atteggiamento critico e polemico. Non mancarono tuttavia, soprattutto in ambiente sofistico, tentativi di
legittimare teoreticamente la prassi democratica. Il più interessante di questi tentativi fu probabilmente
compiuto da Protagora di Abdera, uno degli intellettuali più prestigiosi e celebri attivi ad Atene nella
seconda metà del V secolo.
Platone, proprio nel dialogo dedicato a questo sofista, fa esporre a Protagora il celebre mito sull'origine
della civiltà. In base al racconto di Protagora nella distribuzione originaria delle capacità, che Zeus
affidò al poco preveggente Epimeteo, gli uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza,
velocità, robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte alla
soverchiante forza degli altri esseri viventi. Per supplire a questa carenza, Prometeo donò agli uomini la
sapienza tecnica, cioè la competenza artigianale (demiourgikètechne) sotto forma di fuoco. Per
Protagora, tuttavia, il possesso di una competenza tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a
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Assaggi di Filosofia
Platone
garantire la sopravvivenza, perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla
base della sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra loro e a dare vita a forme di
collaborazione e a nuclei associativi. Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la
tecnica politica (politikètechne), la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs), cioè una
forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dike). A differenza delle dotazioni naturali e
delle singole competenze artigianali, la tecnica politica venne distribuita a tutti gli uomini, i quali
risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la vita della comunità (Protagora, 320
D-323 C).
Il mito di Protagora viene considerato il ‘manifesto’ dell'ideologia democratica perché in esso trova
giustificazione una certa forma di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente,
in possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze utili a governare la
città, sia di un'autonomia decisionale, che rinvia a una soggettività autonoma e trasparente. In altre
parole, Protagora sembra fondare l'assunto fondamentale dell'ideologia democratica, il quale stabilisce
che i membri di un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per tutti, sono
liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un patto negoziale.
Sul piano della riflessione filosofica la polemica antidemocratica di Platone si indirizza proprio contro
la validità di questo insieme di assunti. Alla tesi dell'uguaglianza degli uomini egli contrappone un
celebre argomento di natura antropologica, che si fonda su una spregiudicata analisi della struttura
dell'anima.
Quest'ultima presenta tre differenti centri motivazionali, dalla prevalenza di uno dei quali dipende
l'orientamento generale della vita psichica dell'individuo. Solo il primo di questi centri motivazionali è
razionale, e si identifica con la capacità calcolativa della ragione (logismòs). La sua prevalenza
nell'anima dell'individuo garantisce l'orientamento dello stesso alla conoscenza e soprattutto la capacità
di universalizzazione. Viceversa le altre due ‘parti’ sono irrazionali: l'una rappresenta le istanze
dell'impulsività e della reattività collerica, l'altra dei desideri collegati alla corporeità.
Secondo Platone solo in un numero molto limitato di individui il centro razionale esercita il dominio e
assoggetta le altre due parti; le anime della maggioranza dei cittadini sono invece dominate dalle parti
irrazionali. Ciò significa che in questi individui gli interessi privati, i desideri, la pretesa di
autoaffermazione prendono il sopravvento nei confronti dell'orientamento al bene generale. Si tratta di
uomini che risultano ‘schiavi’ dei desideri e che perciò non sono in grado di esercitare in maniera libera
e veramente autonoma il loro ruolo di cittadini. Solo coloro nei quali prevale l'istanza calcolativa e
razionale, cioè i filosofi, possono assumere legittimamente il governo della città, perché solo loro sono
in grado di universalizzare le proprie decisioni, cioè di agire nell'interesse collettivo. Inoltre i filosofi
conoscono il mondo delle idee, cioè l'ambito eterno e invariabile dei valori normativi (la giustizia, il
bene, ecc.) ai quali deve uniformarsi ogni comportamento politico razionale. La conoscenza delle idee
consente di fissare dei criteri universali e assoluti in riferimento ai quali l'uomo politico può stabilire se
una certa legge o un determinato comportamento sia conforme alla ragione e al bene.
E' evidente che, secondo Platone, la democrazia viola le due norme fondamentali del buon governo: la
naturale disuguaglianza degli uomini e il principio di competenza, cioè il possesso del sapere. Platone
affianca alla riflessione filosofica sui fondamenti etici e antropologici della politica un'approfondita
analisi storico-fenomenologica delle varie forme di governo. Come la città democratica è dominata
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Assaggi di Filosofia
Platone
dall'uguaglianza (isonomìa) dei cittadini, così l'uomo democratico è un individuo ‘isonomico’, nel
quale è assente ogni principio gerarchico tra i desideri.
Nell'uomo democratico non esiste un orientamento psichico prevalente, dal momento che ogni
desiderio (perfino quello di sapere) si colloca sullo stesso piano degli altri: la sua anima è dominata dal
principio di libertà, la quale sconfina inevitabilmente nella licenza. Dal punto di vista storico la
democrazia è destinata a trasformarsi nella tirannide che rappresenta la forma più nefasta di governo.
L'eccesso di libertà induce i cittadini a consegnarsi a un difensore, solitamente un demagogo, il quale
sollecita le istanze irrazionali degli individui e riesce a farsi consegnare ‘democraticamente’ il potere,
trasformandosi in tiranno, ed eliminando tutte le libertà della democrazia. Platone fu il primo pensatore
a formulare il cosiddetto paradosso della libertà o della democrazia: si tratta dell'incapacità della
democrazia di autofondarsi, cioè della circostanza che una democrazia può decidere in forma
democratica di annullarsi.
Come si vede, la filosofia politica di Platone fu profondamente antidemocratica; essa appare del tutto
inconciliabile con principi liberali della modernità. Tuttavia la riflessione platonica ha il merito di
aiutarci a collocare in prospettiva, e forse a relativizzare, una serie di assunzioni che appaiono naturali.
In particolare essa invita a considerare l'uguaglianza tra gli uomini non come il presunto dato di
partenza, ma come il fine dell'azione politica. Inoltre l'orientamento universalizzante e comunitario del
pensiero platonico può rappresentare un eccellente antidoto contro l'individualismo e l'eccesso di
privatezza che deformano di fatto la prassi democratica moderna.
Perché lo stato ideale di Platone è inconciliabile con l’idea moderna di stato perfetto.
Per prima cosa dobbiamo dire generalmente cosa si intende per stato ideale. Oggi si tende a pensare che
una società senza criminalità e con pari opportunità per tutti sia una società pressoché perfetta, ma per
Platone non era così infatti secondo la sua idea l’obiettivo ultimo dello stato perfetto era quello di
garantire la vera giustizia intesa da lui come l’adempimento di ogni Parte dell’anima, quindi della
società, al proprio compito. Quindi mi chiedo: in uno stato come quello idealizzato da Platone vi sono
pari opportunità per tutti?
Per dare una risposta a questa domanda credo che sia doveroso definire l’idea di stato perfetto di
Platone.
Come detto prima, Platone credeva che il fine ultimo dello stato fosse quello di garantire la giustizia ad
ogni singolo individuo. Per raggiungerla vi doveva essere equilibrio tra le parti dell’anima, tra le virtù e
tra le classi sociali. Per questo Platone credeva che la società perfetta dovesse essere così strutturata e
ce ne parla nella “Repubblica”.
Ne “La Repubblica”, Platone connette i risultati dei dialoghi precedenti intorno al motivo di una
comunità perfetta. Il fondamento di tale comunità è la giustizia, che si realizza quando ciascun cittadino
attende al suo compito proprio ed ha ciò che gli spetta. Lo Stato deve essere costituito da tre classi:
governanti, guerrieri e cittadini. Ai primi deve appartenere la saggezza, ai secondi
coraggio. La temperanza è virtù comune, ma la giustizia comprende tutte queste virtù.
Come nello Stato, nell’anima individuale Platone distingue tre parti: la parte razionale, che è quella per
cui l’anima ragiona e domina gli impulsi, la parte irascibile che lotta per ciò che la ragione ritiene
giusto, la parte concupiscibile che è il principio degli impulsi corporei.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce anche l’eliminazione
della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori. Ancora, le donne dovranno
godere di una completa uguaglianza con gli uomini e parteciperanno parimenti alla vita dello Stato.
Le degenerazioni dello Stato sono varie. La timocrazia è il governo fondato sull’onore, ad esso
corrisponde l’uomo timocratico, ambizioso e amante del comando e degli onori. Un’altra forma è
l’oligarchia, governo fondato sul censo, in cui comandano i ricchi. Ulteriore forma è la democrazia, in
cui i cittadini sono liberi, ad essa corrisponde l’uomo democratico che tende ad abbandonarsi a desideri
smodati. Infine la tirannide, che spesso nasce dall’eccessiva libertà della democrazia.
Secondo la concezione aristocratica a reggere le sorti della cosa pubblica devono essere i migliori.
Invece, secondo quella democratica, il governo della polis deve essere appannaggio di tutti, ossia un
affare del popolo. Di queste due concezioni la più vicina a Platone è senz’altro la prima.
La giustizia platonica comporta, in concreto, una situazione nella quale i governanti sono tenuti a
governare e i lavoratori a lavorare, senza interferenze. Uno Stato è sano quando ciò avviene; malato
quando le classi non sono al loro posto. Per Platone, i governanti non devono adattarsi al punto di vista
dei governati; egli arriva persino a teorizzare la bugia e l’omicidio di Stato.
Pur non essendo democratico, lo Stato Platonico non deve confondersi con quello aristocratico
tradizionale. Tale stato è sì aristocratico in quanto governano i migliori, ma questi non sono tali per
casato o ricchezza, ma per il possesso del sapere.
Di fronte alla domanda “Chi custodirà i custodi?”, Platone osserva che i custodi, prima di saper
custodire gli altri devono essere in grado di custodire se medesimi. Da ciò l’importanza fondamentale
che riveste il sistema educativo per Platone, nella parte centrale della Repubblica.
All’essere, e quindi alle idee, corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non-essere,
l’ignoranza; e al divenire, che sta in mezzo tra l’essere e il non-essere, corrisponde l’opinione, a metà
strada tra conoscenza e ignoranza. In particolare, Platone paragona la conoscenza ad una linea divisa in
due segmenti (sensibile e razionale), a loro volta divisi in altri due. Abbiamo così quattro gradi del
sapere cui corrispondono quattro gradi della realtà.
La conoscenza sensibile (doxa) comprende: a) la congettura o immaginazione che per oggetto le
ombre; b) la credenza che ha come oggetto le cose sensibili. La conoscenza razionale (episteme)
comprende a) la ragione matematica che ha per oggetto le idee matematiche; b) l’intelligenza filosofica
o poetica che ha per oggetto le idee-valori. La superiorità della filosofia consiste nell’occuparsi dei
problemi dell’uomo e della città.
Platone enumera nella Repubblica cinque discipline matematiche: l’aritmetica, cioè l’arte del calcolo,
la geometria come scienza degli enti immutabili; l’astronomia come scienza del movimento dei cieli; la
musica come scienza dell’armonia. Queste discipline costituiscono la propedeutica della filosofia: esse
preparano il filosofo alla scienza suprema, la dialettica, la scienza delle idee.
La teoria della conoscenza e dell’educazione trova un’esemplificazione allegorica nel mito della
caverna. Immaginiamo che vi siano schiavi incatenati in una caverna sotterranea e costretti a guardare
solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono immagini di statuette, che sporgono al di sopra di
un muro, dietro cui si muovono i portatori di statuette. Più in là brilla un fuoco che rende possibile il
proiettarsi delle immagini sul fondo.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Se uno di essi si liberasse dalle catene, voltandosi si accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse
sono la realtà. Se riuscisse poi a risalire all’apertura della caverna scoprirebbe che la vera realtà non
sono nemmeno le statuette, poiché queste sono a loro volta imitazione di cose reali.
Dapprima abbagliato da tanta luce non riuscirà a distinguere bene gli oggetti, incapace poi di volgere
gli occhi verso il sole, guarderà le costellazioni e il firmamento di notte. Lo schiavo vorrebbe restare là,
ma se egli tornasse nella caverna, i suoi occhi sarebbero offuscati dall’oscurità e non saprebbero più
discernere le ombre: perciò sarebbe deriso dai compagni che, accusandolo di avere gli occhi guasti,
continuerebbero ad attribuire i massimi onori a coloro che sanno più acutamente vedere le ombre.
Infine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli, lo ucciderebbero.
Notevole è la simbologia filosofica di questo mito: la caverna oscura = il nostro mondo, gli schiavi
incatenati = gli uomini, le catene = l’ignoranza e le passioni, le ombre delle statuette = l’immagine
superficiale delle cose, le statuette = le cose del mondo sensibile corrispondenti al grado della credenza,
la liberazione dello schiavo
= l’azione della conoscenza
e della filosofia, il mondo
fuori dalla caverna = le
idee, lo schiavo che
vorrebbe starsene là = la
tentazione del filosofo di
chiudersi in una torre
d’avorio, lo schiavo deriso
= la sorte dell’uomo di
pensiero scambiato per
pazzo.
Platone ritiene che l’arte sia imitazione di una imitazione, di tre gradi lontana dal vero, in quanto essa si
limita a riprodurre l’immagine di cose. Anziché pungolare l’anima verso le idee, l’arte la rinserra nel
mondo. Inoltre l’arte, nutrendosi di immagini, possiede il valore conoscitivo più basso; per il suo potere
corruttore degli animi, essa è psicologicamente e pedagogicamente negativa.
Per Platone queste tre classi sono fortemente gerarchizzate e la sottomissione delle altre classi a quella
dei governanti è la base del suo stato perfetto. Ma chi decide a che classe appartengono gli individui?
Platone risponde a questa domanda dicendo che si nasce già appartenenti a una classe sociale, ma a
questo punto un dubbio sorge spontaneo: chi controlla l’operato dei governanti? Platone ci dice che
sono i governanti stessi a controllarsi da soli.
Questa società ha la sua corrispondente più vicina nella tirannia oligarchica che era proprio la forma di
stato da cui Platone si voleva allontanare. Quindi la società descritta da Platone non dà pari opportunità
a tutti; infatti l’appartenenza ad una classe era data per nascita e non per merito.
CONCLUSIONE
In conclusine possiamo dire che lo stato ideale di Platone non può essere accettato dall’ etica moderna
e che la sua idea di stato è in forte contrasto anche con quello che era il suo pensiero sulla politica.
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Assaggi di Filosofia
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Bibliografia
Enciclopedia online Treccani: la concezione politica di Platone: la critica alla democrazia.
Tesionline: la repubblica e lo stato nella filosofia di Platone
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Platone: teorico dello Stato totalitario?
Il rapporto del filosofo con gli studiosi del Novecento
di Matteo Biccari
Può sembrare strano agli occhi di noi uomini del terzo millennio, figli di un genitore un po’
rivoluzionario come il Novecento, che un filosofo così lontano storicamente, Platone di Atene, e la sua
Teoria dello Stato,siano stati oggetto di discussione da parte dei maggiori studiosi del secolo scorso.
Il filosofo ateniese ipotizzò la formazione di uno Stato ideale, basato sulla tripartizione della società,
governata dai filosofi, unici a conoscere, tramite la loro attività, la vera idea di Giustizia. Tale società,
così gerarchicamente divisa, si fonda anche sul principio di organicismo politico: Platone infatti
stimava lo Stato come un organismo, che, per funzionare, aveva bisogno della regolare attività dei vari
organi (le varie parti delle società), in modo che non interferissero fra di loro.
Questa visione di una società chiusa e fissa nelle sue disparità portò i filosofi del Novecento, tra i quali
certamente va citato il tedesco Karl Popper, a criticare negativamente l’utopiaplatonica.
Egli, sulla scia del suo connazionale Karl Marx, nel suo saggio La società aperta e i suoi nemici,
accusa il filosofo greco di totalitarismo e di essere un nemico della democrazia, assumendo quindi una
posizione che analizzeremo dettagliatamente più avanti.
Non è un caso, inoltre, che anche su di una rilettura strumentalizzata de La Repubblica(l’opera in cui
Platone espone la sua teoria politica) i regimi totalitari, da quello nazista hitleriano a quello
comunista della Russia di Stalin, abbiano fondato la loro ideologia politica.
Ma siamo sicuri che Platone abbia ipotizzato la necessità di uno stato totalitario che neghi le
libertà dell’individuo e che queste accuse non trascendano dagli schemi radicali della politica
contemporanea?
Prima di apprestarci alla critica del rapporto fra il Novecento e lo Stato immaginato da Platone, può
ritenersi opportuna una breve analisi della sua utopia1.
Platone, figlio di un’epoca in cui si assiste al fallimento del sistema politico democratico, immagina
la formazione di uno Stato ideale, la cui società basa la sua vita su tre principali concetti: giustizia,
tripartizione e organicismo politico.
La giustizia nello stato platonico è definita come armonia tra le classi sociali ed è il concetto alla base
della nascita e della vita della società, che è ripartita in tre ordini: quello dei cavalieri, dediti al
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Assaggi di Filosofia
Platone
servizio militare, quello dei produttori, che si occupano solo delle attività necessarie alla vita della
società, e quello deigovernanti, che appunto regolano e dirigono la vita pubblica.
Per usare una metafora ciceroniana, la navis rei publicae ha come timonieri i filosofi, che, alla continua
ricerca del Bene, sono considerati dall’ateniese i più idonei per l’attività politica.
Inoltre, i filosofi, essendo disinteressati al potere, sono quelli che meglio possono gestirlo, perché non
sono attratti dai benefici, quasi sempre illegali, che si presentano davanti a coloro che occupano
posizioni di autorità.
Quindi, non sarebbe nemmeno necessaria una verifica della correttezza del loro operato da parte
degli altri membri della società, che invece devono occuparsi e dedicarsi solo al lavoro che spetta al
loro ruolo sociale, in rispetto a un concetto detto di organicismo politico, cioè vedendo lo Stato come
un organismo, che, per funzionare, ha bisogno del regolare svolgimento delle attività assegnate ai vari
organi (le varie parti delle società), in modo che non interferiscano fra di loro.
Questa costituzione politica, che possiamo chiamare aristocrazia dei filosofi, è quindi per Platone una
forma ideale di costituzione statale, la quale può degenerare in governi come la timocrazia, cioè un
governo basato sull’onore, quindi sul vanto dato dal possesso di beni materiali, l’oligarchia, nella
quale governano gli esponenti più ricchi della società, la democrazia, nella quale, spodestati gli
oligarchi, ogni individuo ha la libertà di fare tutto ciò che asseconda la propria volontà, cedendo quindi
al libertinaggio, e infine la tirannide, in cui un singolo prende il potere con la forza e con questa lo
esercita, suscitando l’odio degli assoggettati.
Popper critica Platone, accusandolo di aver creato uno stato totalitario, che vuole organizzare e
controllare ogni aspetto della vita dei singoli, che non contano nulla di per sé, se non in funzione
dello stato. Si può portare come esempio il caso che Platone cita in uno dei 10 libri della Repubblica: l'
eugenetica, ovvero è lo stato a scegliere gli individui da far “accoppiare” in modo tale da avere una
discendenza perfetta. Popper, con le sue posizioni liberali, critica la società di Platone, perfetta e
totalitaria, ed è in favore di una società aperta, che avesse la possibilità di correggersi e di migliorare,
inferiore a quella totalitaria platonica, ma che abbia conoscenza della propria inferiorità e sappia
correggersi cambiando in continuazione. Una società perfetta, secondo il filosofo tedesco, non ha
motivo di fare questo2.
Un’altra accusa mossa a Platone dagli studiosi del Novecento, specialmente dal contemporaneo Dario
Antiseri, è che il filosofo-re è il solo a conoscere la giustizia e a perseguire l’idea del Bene, e che la
imponga con ogni mezzo ed ad ogni costo, con la soppressione del libero pensiero e
l’intromissione della politica negli angoli più remoti dell’attività privata3.
Secondo questi studiosi “antiplatonisti” ci troveremmo quindi di fronte ad uno scenario molto simile a
quello descritto da George Orwell nel libro 1984: il Grande Fratello e i membri del Partito, che
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Assaggi di Filosofia
Platone
detengono il potere assoluto, attuando un feroce controllo della sfera privata degli individui e
conducendo operazioni di stravolgimento della realtà storica. A questo potere incontrastato,
controllato da un organo di sorveglianza e di repressione dei ribelli chiamato psicopolizia, sono
soggetti i prolet, uomini senza diritti politici che sono relegati in una parte periferica delle città e che
svolgono unicamente attività produttive, utili alla sopravvivenza della macchina statale4.
Questa descrizione sembra una trasfigurazione letteraria (e di fatto lo è) dei regimi totalitari del
Novecento e al tempo stesso un’attuazione del pensiero politico platonico: possiamo infatti distinguere
la tripartizione della società, l’organicismo politico e il potere destinato a un’élite della società.
Eppure, nonostante sia apparentemente inconfutabile la posizione assunta da questi studiosi, l’edificio
accusatorio contro Platone si basa su indebite estrapolazioni attuate sul testo fondamentale per
conoscere la sua utopia, La Repubblica. Se si collocano nel quadro generale dell’opera e si
attribuisce loro il giusto peso, la tesi accusatoria non regge affatto.
Procederemo quindi, confutando tutte le argomentazioni sopra menzionate riguardo al totalitarismo
dello Stato platonico.
Popper ha commesso un errore, tralasciando, nella foga, che Platone parla di un'idea statale e un'idea,
per definizione, non è mai realizzabile. E' solo un punto verso cui muovere. Nelle Leggi, opera
incompiuta, Platone delinea lo stato secondo: dal momento che quello ipotizzato nella Repubblica è
puramente ideale, Platone ne tratteggia uno realizzabile, dove prende gli aspetti migliori di ogni
governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili (questa soluzione piacque molto in
seguito ed è considerata il punto di partenza dello stato misto). Il ragionamento di Popper è dunque in
parte non adatto al contesto di cui si parla: se ipotizzassimo la società perfetta, perché mai dovremmo
cambiarla? Perché cambiare qualcosa di perfetto? Potrebbe cambiare solo in peggio.
Lo stato delineato nella Repubblica è un'utopia ed è interessante notare la distinzione tra i due aggettivi
che ne derivano; utopistico è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile, ma che per fortuna
non lo è: utopisticoè il Comunismo ideale. Utopico è un concetto tipicamente progressista che induce a
vedere il mondo, che molti credono buono così com'è, imperfetto e migliorabile: il progressista ha un
atteggiamento sempre volto al cambiare. Si può dire che il concetto di utopistico si avvicini molto a
Platone che nelle Leggi fa notare che lo stato così com'è non va bene e ne propone uno misto, dal
momento che quello ideale-aristocratico è inattuabile. Popper quindi ha semplicemente preso l'idea
utopica di Platone per utopistica.
Come detto prima, le accuse rivolte a Platone nascono da una strumentalizzazione parziale del suo
pensiero: ciò è dimostrato nei libri VII e IX della Repubblica, in cui il filosofo ateniese si fa aspro
critico dell’assolutismo, in particolare attraverso un’analisi della figura tirannica, simbolo per Platone
del totalitarismo, che definisce come “uno dei peggiori mali per l’uomo”5, smontando di fatto la tesi
popperiana.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Contraddizione che noi possiamo ritrovare anche nell’asserzione di Antiseri: come evidenzia il filosofo
Giovanni Reale, “ il filosofo-re di Platone non impone alcuna idea del Bene, per il semplice fatto che
la città giusta non nasce da una pressione esterna, ma prima di tutto da una trasmutazione interiore
dell’anima rivolta al Bene, e non più incatenata alle “ombre della caverna” [… ] Senza considerare
tale conversione al Bene, non si può capire l’orientamento di fondo della politica platonica”6 [e questa
incomprensione, aggiungerei, riguarda molti autori citati in precedenza].
Basterebbe questo per intuire come il messaggio della Repubblica di Platone trascenda radicalmente gli
schemi riduttivi della politica moderna. La conversione al Bene non comporta che il filosofo possieda
(e poi imponga) il Bene, la Giustizia, la Verità ecc., come sostengono troppi detrattori: Reale, in
chiusura della sua riflessione, ricorda opportunamente che “ il filosofo platonico non è colui che
possiede, ma colui che indaga, che ama e ricerca la verità “7. Si può sintetizzare anche così: non si
tratta di possedere la verità, ma di praticare la costante apertura ad essa.
Abbiamo visto come, in realtà, le accuse rivolte a Platone (di essere un totalitario antidemocratico ecc.)
sembrino essere infondate, dal momento che abbiamo valuto le posizioni nell’ottica dell’intera
Repubblica.
Sulla sponda opposta, però, è giusto ricordare che ci sono stati estremi tentativi di difendere Platone da
Popper, fino a fare del filosofo greco una “caricatura perbenista”8, come asserisce il professore di
filosofia Mario Vegetti.
Sarebbe opportuno quindi per par condicio riconoscere che la critica di Popper e, sulla sua scia, degli
altri studiosi di filosofia del secolo scorso e del periodo attuale serve capire meglio Platone e forse
LaRepubblica può aiutarci a capire i limiti del pensiero liberal-democratico.
Essa è un dialogo politico, in cui Platone espone le sue posizioni in fatto di filosofia politica. Si
possono condividere o rifiutare queste idee, e soprattutto si deve tentare di comprenderle. Ma negarne
l'esistenza e la forza, per tentare di proteggere Platone da se stesso prima ancora che dai suoi critici,
non è una buona strategia storiografica e risulta improduttivo sul piano della riflessione critica. Meglio
fare a meno della Repubblica, se la si considera inaccettabile, che offrirne un' immagine edificante,
depotenziata, insomma normalizzata dal punto di vista del senso comune dei nostri tempi.
Note
1. Per un’analisi più specifica e dettagliata della Teoria dello Stato in Platone, è consigliata la
consultazione di: N. Abbagnano, La ricerca del pensiero, ed. Paravia, vol.1A, pgg. 220-232
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Assaggi di Filosofia
Platone
2. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Vol. 1: Platone totalitario, Armando Editore
3. D. Antiseri, Platone è totalitario, va corretto., Corriere della Sera, 12/08/2010
4. G. Orwell, 1984, ed. Mondadori
5. Platone, Repubblica, trad. e comm. a cura di M. Vegetti, Bibliopolis, VIII, 579 C-D
6. G. Reale, L’utopia del governo perfetto. Platone e l’idea del Bene assoluto, Corriere della Sera,
29/08/2010
7. Idem
8. M. Vegetti, Per favore, non correggete Platone, Corriere della Sera, 01/08/2010
Bibliografia
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•
Platone, Repubblica, trad. e comm. a cura di M. Vegetti, Bibliopolis
N. Abbagnano, La ricerca del pensiero, ed. Paravia, vol.1A
K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Vol. 1: Platone totalitario, Armando Editore
G. Orwell, 1984, ed. Mondadori
C. Sini, I filosofi e le opere, Principato Editore Milano
Platone totalitario o libertario? Breve rassegna degli studi e delle diverse posizioni, a cura della
Redazione AEF – Associazione Eco-Filosofica
• Corriere della Sera, 01 - 12 - 29 /08/2010
Sitografia
• http://www.filosofiatv.org/news_files2/112_PLATONE%20TOTALITARIO%20O%20LIBERTARI
O.pdf
• https://giuseppecapograssi.wordpress.com/2013/01/21/la-figura-del-tiranno-nei-libri-viii-e-ix-dellarepubblica-di-platone/#_ftn41
• http://www.filosofico.net/popper5.htm
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Assaggi di Filosofia
Platone
Utopia: illusione o modello a cui aspirare?
Di Maria Teresa Casiello
Il filosofo dell’antica Grecia Platone fu allievo di Socrate. La figura del suo maestro influenzò in gran
parte il suo pensiero filosofico e gli permise di arrivare ad una piena consapevolezza del grado di
corruzione della società ateniese. Infatti questa società aveva mandato a morte un “uomo giusto”
(Socrate), il cui scopo era far elaborare ai singoli un pensiero proprio. Per questo motivo Platone
giunge a tale conclusione: una società che manda a morte un uomo giusto è una società corrotta.
Le degenerazioni dello stato
Platone riscontra in ogni forma di governo fino ad allora applicata, svariati difetti, che la portano ad
una degenerazione e, per questo motivo, non si avrà mai il governo perfetto inteso dal filosofo. In
particolare egli afferma che:

La timocrazia è la forma di governo fondata sull’onore, alla quale corrisponde l’uomo amante
del comando e ambizioso, ma che diffida dei sapienti.

Nell’oligarchia il potere è detenuto dai ricchi, vi sono uomini avidi e interessati esclusivamente
alle ricchezze.

Nella democrazia ogni uomo è libero di fare ciò che vuole: ad essa corrisponde l’uomo che ha
la tendenza ad abbandonarsi ai desideri più smodati.

Per ultima c’è la tirannide, la forma di Stato più spregevole, che spesso ha origine dall’eccesiva
libertà che nasce dalla democrazia.
Le divisioni dello stato
Poiché Platone ritiene imperfette queste forme di governo, crea l’immagine di quello che, secondo il
suo pensiero, è lo Stato ideale. Secondo questa visione, lo Stato deve essere diviso in tre classi: quella
dei governanti, di cui fanno parte i sapienti contraddistinti dalla saggezza; quella dei guerrieri, i cui
27
Assaggi di Filosofia
Platone
componenti sono caratterizzati dal coraggio; infine quella dei lavoratori (o produttori), i quali sono
contraddistinti dalla temperanza (caratteristica che in parte è propria di ogni classe).
Il “comunismo” platonico
Inoltre, il filosofo greco è convinto che per stabilire la giustizia all’interno dello Stato siano necessarie
l’eliminazione della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori.
I custodi di tali beni devono vivere in maniera modesta, come in un accampamento, e non hanno alcun
compenso per il loro ruolo di guardiani. Si capisce, quindi, che nello Stato ideale non ci deve essere
povertà, e perché questa non esista non deve esistere neanche la ricchezza. Si giunge perciò a parlare di
“comunismo” platonico, il quale in seguito verrà esteso anche alla sfera affettiva, stabilendo che la
classe al potere non deve avere famiglia; si decide inoltre che i governanti debbano avere le donne in
comune: ciò implica che i figli che nascono da esse saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, per
essere poi cresciuti in ambito comunitario, senza che siano a conoscenza dell’identità dei loro parenti.
Con questa visione Platone non intendeva ridimensionare il ruolo già marginale della donna nella
società, ma anzi darle maggior voce in merito a ciò che riguarda lo Stato, rendendola pari al ruolo che
l’uomo aveva avuto fino ad allora.
L’utopia
La visione platonica dello Stato può essere considerata utopica, e proprio per questo tale visione è stata
criticata da commediografi e filosofi sia contemporanei, che successivi allo stesso filosofo. Prendiamo
ad esempio la polemica che nacque tra Platone e Aristofane: il commediografo, infatti, nella sua
commedia “Ecclesiazuse” (Le donne in assemblea) attaccò Platone e il suo Stato ideale. In quest’opera
Aristofane prende di mira, in particolare, la parificazione della condizione delle donne a quella degli
uomini che, in una società fortemente misogina, qual era la società greca, appariva come una
pericolosissima utopia.
28
Assaggi di Filosofia
Platone
Scrive infatti Platone nella Repubblica: “Non c’è nessuna attività di coloro che amministrano la città
che sia della donna in quanto donna o dell’uomo in quanto uomo, ma le nature sono disseminate in
entrambi gli esseri, e la donna partecipa secondo natura di tutte le attività e alla pari, l’uomo di
tutte”9. Nella commedia aristofanea sono protagoniste le donne che, non potendo partecipare alle
assemblee cittadine, travestite da uomini, si radunano all’alba per impadronirsi del governo della città.
È loro intenzione avviare una riforma che farà passare il potere, finora detenuto dagli uomini, alle
donne.
Difatti la loro leader, Prassagora, proclama davanti agli uomini sbigottiti e ignari del tranello:
“Dichiaro che occorre che tutti mettano i propri beni in comune, che tutti dispongano di una parte di
tali beni e che vivano in modo che non ci sia più il ricco e il povero, che uno coltivi un grande
appezzamento di terreno e l’altro non ne abbia a sufficienza neppure per farsi seppellire”10.
Nel nuovo governo che le donne delineano, nessuno potrà avere il possesso esclusivo di qualcosa o di
qualcuno, neppure in materia sessuale. Le donne potranno fare figli con chiunque vogliano. Così coloro
che fino al giorno prima si occupavano dei mariti, della casa e dei figli, si trasformano in una sorta di
militanti “comuniste”.
Inoltre nell’ “Ecclesiazuse” Aristofane deride la comunanza dei figli, che per Platone avrebbe permesso
di costituire una società armonica, priva di gelosie e contrapposizioni. Ridicolizza poi la comunanza
delle ricchezze e delle relazioni sessuali, critica la cancellazione della proprietà e della famiglia.
Tutto ciò perché l’idea di Platone appariva utopica, irrealizzabile. Ma è sbagliato credere in un utopia?
L’utopia è qualcosa da esorcizzare o da incoraggiare per far si che l’uomo, tendendo a quell’ideale
irrealizzabile di perfezione, migliori se stesso?
Luciano Canfora, storico del mondo antico e docente italiano di filologia latina e greca, profondo
conoscitore della cultura classica, autore anche di importanti studi sulla storia antica, afferma che è
proprio la forza dell’utopia che noi dobbiamo recuperare.
Lo storico sostiene che, a distanza di secoli, il dilemma Platone o Aristofane ci pone davanti a
innumerevoli domande: l’utopia può essere considerata semplicemente un “non luogo” o una
condizione felice possibile ?
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Assaggi di Filosofia
Platone
L’utopia è “il rifiuto di rassegnarsi alla rassicurante e paralizzante saggezza dell’immutabilità della
natura umana”11?
E, come dice l’autore, “i fallimenti liquidano l’utopia? L’utopia resta un bisogno morale al di là del
naufragio? E la sua demonizzazione non diviene un alibi per blindare in eterno la conservazione e
l’ingiustizia?”12.
Per Canfora la nostra società ha più che mai bisogno di un’utopia. In un periodo povero di ideali e di
utopie, con l’assistere ad un ritorno di contrapposizioni che pensavamo appartenessero al passato, con
razzismo e povertà in aumento, con lavoratori “schiavi concordati”, forse, sostiene l’autore, occorre un
cambiamento radicale, una mutazione profonda nell’uomo. Platone l’aveva già intuito quando si fece
promotore dell’impegno etico - politico nella disperata ricerca dell’individuo migliore atto a governare.
In un’intervista che Canfora ha rilasciato al Manifesto nel marzo 2014, alla domanda: “Quali saranno
gli esiti della dialettica storica tra ragione utopistica (Platone) e ragione beffarda (Aristofane)”13, lo
storico risponde: “La vittoria del realismo beffardo nei confronti di ogni genere di proposta innovativa,
bollata come utopistica, è fin troppo facile e abbiamo visto nel corso del tempo ripetersi
sistematicamente tale scenario. Il realismo beffardo fa capo al senso comune, che talvolta viene voglia
di definire il sesto senso degli idioti”14.
Fino ad ora si è dibattuto sul concetto di utopia platonica: ma il termine “utopia” che significato ha?
Da dove ha origine?
Innanzitutto, va detto che tale termine fu coniato in epoca rinascimentale da Tommaso Moro che nulla
poteva fare di fronte ad una società ingiusta come quella inglese, nella quale ogni giorno cresceva la
massa dei nullatenenti, grazie a quei brutali atti di violenza con cui i terreni comuni venivano
espropriati e passavano nelle mani dei signorotti locali.
Tale terminepuò derivare tanto dal greco “ou – tópos” (luogo che non c’è), quanto da “eu (bene) +
tópos” (luogo felice). I due significati sono compresenti nell’accezione in cui Moro intendeva la sua
.
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Assaggi di Filosofia
Platone
isola fantastica, visto che essa era sì un luogo inesistente nella realtà, ma anche un luogo felice, in cui
regnava la concordia e la pace tra gli uomini.
Ma, tornando indietro nei secoli, è anche il caso di Platone che, dopo aver per qualche tempo nutrito la
speranza di far diventare filosofo il tiranno di Siracusa, venne poi smentito e da lì nacque il suo
disincanto: uno stato perfetto, in questo mondo, mai c’è stato, né mai ci sarà, l’unica cosa saggia che si
possa fare è provare a tratteggiarne uno, che serva da modello e, contemporaneamente, da critica a
quello reale.
Ed è su questi presupposti che ha avuto origine la “Repubblica”, lo scritto in cui Platone traccia
l’immagine dello Stato perfetto, destinato ad essere preso a modello per interi secoli anche da coloro
che ne hanno tratto le basi per quelle che diventarono ideologie totalitariste. Il filosofo moderno Karl
Popper critica questa visione cogliendo in essa una forma di “società chiusa”, che, in quanto già
perfetta, non ha alcun bisogno di “aprirsi” al confronto con altre società: è questo, secondo il pensatore
viennese, un carattere in qualche misura comune a tutte le utopie, in quanto tutte avanzano la pretesa di
essere modelli perfetti; dal canto suo, invece, la “società aperta” non è perfetta, ma ha coscienza della
propria imperfezione ed è perciò stimolata al confronto con le altre società, per potersi così
perfezionare incessantemente. Può però sembrare che Popper finisca per dimenticare che si tratta di
utopie, ossia di società che sono sì perfette, ma inesistenti e quindi irrealizzabili, sicché non è corretto
criticarle come se già si fossero concretizzate. Lo stesso Platone era cosciente dell’inattuabilità del suo
progetto: è per questo che successivamente lo accantonò e passò a delineare, nel suo scritto “Le leggi”,
uno “stato secondo”, ossia un’altra società, meno perfetta, ma, a differenza dello “stato ideale”, non
incompatibile con la realtà.
Precedentemente abbiamo preso atto dell’impossibilità che l’utopico diventi il reale, non nel senso che
un’utopia non possa realizzarsi, ma nel senso che, realizzandosi, si snatura, diventa qualcosa di diverso
dal modello originario, come se il contatto con la realtà la depotenziasse, uccidendola. L’utopia, in
quest’accezione, è incredibilmente vicina al concetto greco di “adúnaton”, con il quale si designa
l’impossibile. Perdere del tutto la fede nell’utopia significherebbe, in fin dei conti, sentirsi appagati
dalla realtà presente, che pure è sconvolta da così tante imperfezioni e difetti, e dunque smarrire un
ideale da cui trarre ispirazione per indirizzarsi verso un continuo perfezionamento.
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Assaggi di Filosofia
Platone
In conclusione cambiare il mondo è forse impossibile, eppure, non dobbiamo smettere di provarci;
allora l’Utopia non sarà solo un sogno, ma un impegno per ciascuno di noi, per migliorare noi stessi e
per tendere a quell’ideale di perfezione che l’utopia rappresenta.
Note
1
PLATONE, Repubblica.
ARISTOFANE, Ecclesiazuse.
1
CANFORA, L. , La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Editori Laterza.
1
IBIDEM.
1
CANFORA, L. , In nome del principio di realtà, neIl Manifesto,URL= <http://ilmanifesto.info/in-nomedel-principio-di-realta/>.
1
IBIDEM.
1
Bibliografia
PLATONE, Repubblica.
ARISTOFANE, Ecclesiazuse.
CANFORA, L. , La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Editori Laterza.
CANFORA, L. , In nome del principio di realtà, neIl Manifesto,URL= <http://ilmanifesto.info/in-nomedel-principio-di-realta/>.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Utopia di una società perfettamente tripartita
Di Laura Campanella
E’ giusto che una società sia perfettamente tripartita in modo tale da non creare confusione e che le
classi sociali non si mischino tra di loro? E’ una domanda alla quale molti sociologi e filosofi hanno
cercato di trovare risposta, affermando che era più che naturale che ci fossero delle diversità.
Infatti, Platone è stato capace di progettare una società nella quale i filosofi fossero governatori, in
quanto erano gli unici a non essere travolti dalle prospettive di ricchezza e potere. Ma il progetto di
una comunità politica governata dai filosofi presenta a Platone due quesiti fondamentali: “Qual è lo
scopo e il fondamento di questa comunità?” e “Chi sono propriamente i filosofi all’interno di questa
comunità?”. Alla prima domanda la risposta è ‘’la giustizia’’, condizione fondamentale nello Stato. A
tal proposito, il filosofo tripartì la società in:
-
Governanti
Guerrieri
Lavoratori
Soltanto se nello Stato la comunità era perfettamente tripartita era giusta. Anche l’anima era tripartita
in:
-
Parte razionale: ha sede nel cervello ed è quella per cui l’anima ragiona e domina gli impulsi.
Parte concupiscibile: è il principio di tutti gli impulsi corporei, che ha sede nel ventre.
Parte irascibile: è l’ausiliario del principio razionale, che ha come sede il petto e che si sdegna e
lotta per ciò che la ragione ritiene giusto.
In particolare, la virtù del principio razionale è la saggezza; del principio irascibile , il coraggio; infine,
l’accordo di tutt’ e tre le parti nel lasciare il comando all’anima razionale è la temperanza. Anche
nell’uomo singolo si avrà la giustizia, solo quando ogni parte dell’anima svolgerà la propria funzione.
Rispondendo alla seconda domanda, Platone, rifacendosi alla ripartizione psicologica dell’ anima,
afferma che la diversità tra gli individui e la loro differente destinazione sociale dipendono dalla
preponderanza di una parte dell’anima sulle altre. Si hanno gli individui razionali, che sono i filosofi;
gli individui impulsivi, cioè i guerrieri; infine, quelli soggetti al corpo e ai propri desideri, dediti al
lavoro manuale.
A favore di questa tesi, saranno introdotte teorie di scienziati, di sociologi e di filosofi più moderne
sulla stratificazione sociale. Dunque, quest’ultima è la condizione degli strati sociali, composti da
individui o da gruppi di questi, collocati vicini o sovrapposti in una scala di superiorità o inferiorità
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Assaggi di Filosofia
Platone
relativa a seconda della ricchezza, del potere, del prestigio o di ciò che la società in cui vivono ritiene
rilevante ai fini della distinzione sociale. Secondo i sociologi in tutte le società vi
sono disuguaglianze tra un individuo e un altro (universalità della stratificazione), invece, secondo
gli antropologi, possono esistere società a carattere egualitario, in cui tutti i gruppi sociali hanno più o
meno lo stesso diritto di accedere ai gradini superiori della scala sociale per godere di determinati
privilegi.
Altresì, esistono anche le teorie scientifiche, che spiegano il motivo per il quale si creano le
stratificazioni sociali, come:
-
-
La teoria evolutiva:anche nelle società più semplici, esistono disuguaglianze strutturate basate
ad esempio sul sesso o sull’età. Tuttavia, vi sono delle differenze sostanziali messe in luce dallo
studioso Gerhard Lenski, il quale ha individuato le condizioni che favoriscono le
disuguaglianze sociali. La disuguaglianza, nella distribuzione della ricchezza, risulta assai bassa
nelle società di caccia e raccolta, crescendo nelle orticole, raggiungendo il punto massimo in
quelle agricole e diminuendo successivamente. Lenski sostiene che quando le società di caccia e
raccolta si trasformano in quelle orticole, in quelle pastorali e in quelle agricole ne deriva un
“surplus” di beni, che un gruppo dominante pretende di sfruttare dando luogo
alle differenziazioni sociali stratificate. Con l'avvento dell'industrializzazione,le differenze tra
ricchi e poveri sono notevoli ma con il progredire dell'industria, aumenta la classe media per le
possibilità, sebbene non per tutti allo stesso modo, di godere della maggiore produzione. Di
conseguenza, anche il potere politico si espande in forme democratiche limitanti l'eccesso delle
diseguaglianze con le istituzioni dell'assistenza pubblica e della tassazione progressiva.
La teoria funzionalista: questa fu definita nel 1945 con la pubblicazione dell'articolo “Some
principles of stratification”, di Kingsley Davis e Wilbert Moore, i quali sostenevano che:«la
principale necessità funzionale che spiega la presenza universale della stratificazione è
precisamente l'esigenza sentita da ogni società di collocare e motivare gli individui nella
struttura
sociale».http://it.wikipedia.org/wiki/Stratificazione_sociale
cite_note-4 La
stratificazione, quindi, è essenziale per la vita della società. Premesso che in ogni società non
tutte le posizioni hanno la stessa importanza (si pensi agli sciamani o ai medici) e che il numero
di persone disponibili per ricoprire quelle posizioni è limitato, affinché un sistema sociale ben
funzioni, occorre che alcuni individui, particolarmente dotati o proprietari di una preparazione
raggiunta con sacrifici personali, si assumano, in cambio di un maggior reddito o
di prestigio sociale, il compito di esercitare quelle mansioni di maggiore «importanza
funzionale», che, più di altre, contribuiscano ad un buon funzionamento del sistema sociale.
Ma, questa gerarchizzazione ha sempre favorito diversi conflitti tra una casta e un’altra. Si può
spiegarne il motivo attraverso le teorie di alcuni filosofi e studiosi:
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Assaggi di Filosofia
Platone
-
Karl Marx:la teoria del conflitto, ispirata alla dottrina marxista, afferma che la stratificazione
con le diseguaglianze connesse è una naturale misura adottata dai ceti dominanti. Questi,
coscienti come classe per séhttp://it.wikipedia.org/wiki/Stratificazione_sociale - cite_note6 della loro posizione condivisa, cercano di mantenerla inalterata tramite un continuo conflitto,
con il quale difendono la propria condizione sociale, privilegiata dai gruppi inferiori che ,
come classe in sé, non hanno coscienza della propria condizione di classe oppressa e, dunque,
non dispongono di un'organizzazione adeguata, che, accompagnata da una politica d'azione,
consentirebbe loro di superare la diseguaglianza sociale. I teorici del conflitto considerano
l'immagine funzionalista di un consenso generale sui valori una “pura finzione”: in realtà,
accade che chi ha il potere costringe il resto della popolazione all'acquiescenza e alla
conformità. In altre parole, l'ordine sociale viene mantenuto non con il consenso popolare ma
con la forza o con la minaccia dell'uso della forza.I teorici del conflitto non ritengono che il
conflitto sia una forza necessariamente distruttiva, dato che ha spesso dei risultati positivi, in
quanto può portare a cambiamenti sociali che altrimenti non si sarebbero realizzati. Quindi, i
cambiamenti sociali impediscono che la società ristagni.
-
Max Weber: quest’ultimo non si soffermò sull’ importanza delle classi sociali, ma elaborò una
teoria della stratificazione a più dimensioni. I principi fondamentali di aggregazione di classi
erano: l’economia, la cultura e la politica.Gli individui si aggregavano non solo per interessi
economici condivisi, formando le classi sociali, ma anche per aspetti,culturali, ideali,
originando i ceti, e politici, unendosi in partiti per gestire il loro potere. Quindi, nella
stratificazione sociale, è rilevante sia la classe sia il ceto, quest’ultimo inteso come elemento
aggregante in base allo stile di vita che riflette un prestigio sociale, che non dipende solo dalla
ricchezza ma anche da fattori psicologici e derivanti dalla considerazione sociale.
-
Lewis Coser: la teoria del conflitto di Weber è stata ulteriormente sviluppata da Mills e Coser.
Soprattutto quest'ultimo non concentra la propria attenzione, come fece Marx, sulla lotta di
classe, ma considera come un fatto strutturale, che troviamo nella vita di ogni società, il
conflitto tra molti gruppi e interessi, per esempio: i vecchi contro i giovani, i produttori contro i
consumatori, gli abitanti del centro contro quelli della periferia e così via.Iconflittualisti
weberiani erano convinti che la scienza sociale e l'azione politica dovessero restare separate.
Quindi, essi negavano la formulazione di giudizi di valore sugli argomenti indagati, limitandosi,
sulla base del criterio di avalutatività, sviluppato da Max Weber, a descriverli. In particolare, il
pensiero di Coser è molto influenzato dalla visione del sociologo tedesco Georg Simmel, il
quale identificava la società come l'insieme delle relazioni di interazione che collegavano gli
individui. A tal proposito, Coserparla di una "rete del conflitto", sottolineando come il conflitto
sia una delle facce della vita sociale, di per sé, non più rilevante del consenso. In realtà, il suo
interesse è focalizzato sulle conseguenze del conflitto, affermando che il conflitto sociale, come
anche il cambiamento, non è necessariamente disgregante, ma è in grado di generare stabilità.
Infatti, conflitto non significa solo violenza aperta, ma anche tensione, ostilità, competizione e
dissenso sui fini e sui valori. Questo non è un evento occasionale, che interrompe il
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Assaggi di Filosofia
Platone
funzionamento generalmente armonioso della società, ma è una parte costante e necessaria della
vita sociale. Inoltre, Coser mostra interesse per le caratteristiche psicologiche degli attori
sociali, osservando l'esistenza di impulsi ostili nelle persone e la compresenza di sentimenti di
amore e odio nelle relazioni interpersonali. Nello stesso tempo, egli considerava le cause
sociologiche del conflitto. Quest’ultimo ha sì la capacità di innescare un cambiamento, positivo
o negativo, ma anche - ed è questo l'aspetto che interessa di più aCoser - la capacità e il
compito di mantenere la coesione all'interno del gruppo.
In conclusione, dopo aver analizzato queste teorie, si può dimostrare con certezza che la
stratificazione sociale è un fenomeno fondamentale per l’ordine dello Stato in quanto ogni
individuo, con le proprie capacità, aiuta la sua comunità a svilupparsi, avendo bisogno anche delle
competenze altrui. Proprio per questo si ricorre alla gerarchizzazione delle classi sociali, affinché
nessuno possa occuparsi di qualcosa che non gli compete, onde evitare gravi disordini di tipo
collettivo.
Bibliografia
-‘’La ricerca del pensiero’’ di N. Abbagnano e G. Fornero
- Enciclopedia ‘’Treccani’’
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Assaggi di Filosofia
Platone
Lo Stato utopistico o utopico di Platone?
di Raffaella Cardellicchio
La Repubblica rappresenta il cuore del pensiero platonico una sintesi grandiosa in cui giustizia, sapienza e verità
si identificano nella compagine statale governata dal filosofare. Una visione utopica che ha suscitato le più
contrastanti reazioni: dal consenso entusiastico alla sorpresa, al disappunto e al rifiuto.
A suo parere uno Stato per funzionare deve avere tre classi sociali: i governanti, i difensori, i produttori. Ogni
classe deve svolgere le sue funzioni, che non sono però di ugual livello, sebbene siano tutte fondamentali. E’ una
chiara prospettiva aristocratica. In realtà la classe dei governanti si costituisce tramite la selezione di difensori
che maturando diventano governanti, la forza fisica cede il passo a quella intellettuale e morale. Questa
tripartizione ebbe enorme successo nella storia, nel Medioevo, per esempio, la società era suddivisa in oratores,
bellatores e laboratores.
La città ideale di Platone è aristocratica, cioè governata da coloro che risultano essere i migliori ed i più idonei a
svolgere tale compito. I migliori vengono selezionati in base al loro talento e non al fatto che i loro genitori
potessero essere governanti. Tuttavia egli ammette che ci sia una sorta di ereditarietà. Ciò non significa che i
giovani venissero selezionati per la loro discendenza, ma è un dato di fatto che coloro che mostrano maggiori
attitudini per il governo sono proprio i figli dei governanti. Per selezionare occorre effettuare due lavori, la
selezione vera e propria, e sviluppare le propensioni dei selezionati. In realtà lo Stato delineato da Platone è lo
Stato spartano idealizzato. Difatti, a quei tempi presso gli aristocratici era visto come la migliore organizzazione.
Ma Platone tratteggia anche le possibili degenerazioni statali e proprio tra queste ci sarà lo Stato spartano che era
in realtà dominato non da aristocratici, ma da militari e proprietari terrieri.
Secondo Platone ad ogni classe sociale spetta una virtù poi ce n'è una comune a tutti e tre i gruppi in tutto sono
quattro le virtù (anche nel Cristianesimo ci sono le virtù, quattro cardinali e tre teologali le quattro cardinali
l'uomo le possiede per natura, le tre teologali deriverebbero dalla divinità e sono fede, carità e speranza) e si
suddividono così: sapere, coraggio, temperanza e giustizia.
I governanti devono essere filosofi e quindi la loro virtù è il sapere. Quella dei difensori è il coraggio che serve
loro per difendere strenuamente lo Stato. I produttori devono invece essere dotati della temperanza, devono cioè
sapere che vi è chi governa e chi lavora. E’ una virtù che in realtà appartiene un pò a tutti, ma soprattutto a
coloro che devono obbedire.
Nei primi dialoghi (Gorgia, Menone) del secondo periodo platonico (periodo della maturità che segna il distacco
da Socrate), vengono fatti accenni per lo più negativi alla politica, considerata in modo assai pessimistico, data la
vicenda socratica alle spalle. La politica però viene definita eticamente, e cioè proprio come la pratica
consapevole del bene da parte di chi vuole estendere la virtù a tutta quanta la città, a tutti i cittadini e al loro
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Assaggi di Filosofia
Platone
comportamento complessivo, cosa a cui finora si sono sottratti tutti i (falsi) politici, e della quale solo Socrate si
è seriamente occupato.
La teoria politica di Platone si fa più complessa e articolata nella Repubblica dove il filosofo viene descritto
come il perfetto politico, e cioè come colui che sa cos’è la giustizia e la applica consapevolmente. Il dialogo
comincia con la domanda che cosa sia veramente giustizia, approdando a una feconda analogia fra la giustizia
nell’uomo e la giustizia nello Stato. Da questo punto in poi viene ricercata la genesi dello Stato, la sua origine di
carattere economico, fondata cioè sulla necessità di soddisfare i bisogni naturali dell’uomo e della comunità.
D’altra parte lo Stato si fa "gonfio di lusso" e cioè aumentando la popolazione, aumentano e si complicano quei
bisogni che si distaccano dalla iniziale naturalità e necessitano di un allargamento, che provoca guerre, ma
soprattutto disequilibri interni.
La giustizia viene allora identificata proprio con l’equilibrio, con la capacità di ciascuno - e di ciascuna classe
presente nello Stato - di svolgere bene il proprio compito. Ma per fare questo è necessaria la massima
consapevolezza dell’identità fra l’interesse proprio e l’interesse dello Stato. Gli unici a possederla, secondo
Platone, sono i filosofi, ai quali viene affidato il comando supremo. In questo senso si può parlare in Platone di
uno Stato e di rapporti politici fra le classi (filosofi-governanti, guerrieri-soldati e artigiani-agricoltori) in cui
viga la noocrazia, e cioè l’egemonia e il potere di chi sa. Come si vede, qui dove non ce lo aspettavamo, si
impone il concetto e il termine nous, mente, conoscenza e consapevolezza filosofica, la quale solamente può
identificarsi senz’altro con il potere politico. La perfezione politica dello Stato, in altri termini, presuppone la
perfezione filosofico-etica di esso, incarnata dalla classe dei filosofi al potere.
Finché i governanti disporranno di patrimoni e di affetti familiari privati, finché potranno cioè dire “questo è
mio” di beni, di mogli, di figli, non sarà possibile che il loro potere sia davvero disinteressato e rivolto al bene
comune. Sempre di nuovo essi saranno esposti alla tentazione e al sospetto di usare il potere per fini privati, cioè
per aumentare le loro ricchezze e per avvantaggiare la loro famiglia. E dunque necessario estirpare la dimensione
privata dalla vita della polis, o almeno di quella parte della polis che è destinata a guidarla e a custodirla. A
questa parte non sarà consentito possedere beni privati né una famiglia. Al suo sostentamento provvederà la
comunità compensando i governanti con un salario per il servizio pubblico che essi rendono. Maschi e femmine
si uniranno ogni anno, accoppiandosi secondo un sorteggio, per generare i figli. Ma nessuno potrà riconoscere i
figli come propri: essi verranno immediata mente sottratti alle madri e allevati a cura dello Stato. Ogni adulto
considererà come propri figli tutti i giovani della generazione nata durante il suo periodo fecondo, e ognuno dei
giovani di questa generazione considererà padri e madri tutti gli adulti della generazione precedente.
L’essenza del “comunismo” platonico consiste dunque nell’eliminazione simultanea - almeno per il ceto dei
governanti - della proprietà privata e della famiglia. E questa tesi - rigorosamente motivata, del resto, dalla
necessità del disinteresse del gruppo al potere, di una sua completa dedizione al bene comune - era destinata a
suscitare le più dure critiche, a partire da Aristotele e fino ai giorni nostri.
Aristotele considerava che il prezzo che Platone aveva pagato in nome dell’unità della città - per evitare che
essa fosse spaccata fra ricchi e poveri, e poi divisa in una molteplicità di gruppi di interesse tanti quanti erano i
nuclei patrimoniali e familiari - fosse eccessivo e comunque psicologicamente inaccettabile. Ogni uomo, diceva
Aristotele, costruisce la propria identità sulla base di ciò che costituisce la sua sfera privata, di ciò - beni ed
affetti - di cui può appunto dire: «questo è mio». L’interesse collettivo è solo secondario e mediato; nessuno
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Assaggi di Filosofia
Platone
dedica ai beni comuni, oppure ai figli comuni, neppure un millesimo delle energie e delle cure che è pronto a
dedicare ai beni e ai congiunti propri.
A partire da Aristotele, e fino al nostro secolo, la tradizione del pensiero liberale ha su queste basi radicalmente
respinto il progetto platonico. In una celebre opera del 1944, Karl Popper ha considerato Platone (insieme a
Marx) uno dei principali nemici della società liberale, e perciò uno dei padri dei totalitarismi tipici del nostro
secolo. Popper vedeva in Platone il primato assoluto dello Stato sull’individuo e, all’interno dello Stato stesso, la
consegna di un potere assoluto ad una minoranza che si proclamava depositaria di un sapere assoluto, i cui
metodi e i cui fondamenti non potevano però venir resi pubblicamente espliciti: che cosa ci può garantire, diceva
Popper, che questa minoranza (di filosofi in Platone, ma magari anche dei dirigenti di partiti quali quello
giacobino, comunista o nazista) non eserciti di fatto una dittatura sottratta ad ogni controllo democratico?
Popper, inoltre, era del parere che creare una società perfetta fosse impossibile perché l'uomo stesso è imperfetto
per natura. La società aperta è inferiore a quella totalitaria platonica, ma ha conoscenza della propria inferiorità e
sa correggersi cambiando in continuazione, una società perfetta non ha motivo di fare questo. Platone insiste
invece sull'immutabilità, la società per lui è perfetta così com'è e non deve assolutamente cambiare. Popper ha
però commesso un errore dimenticandosi nella foga che Platone parla di un'idea statale un'idea, per definizione,
non è mai realizzabile è solo un punto verso cui muovere. Nelle "Leggi", opera incompiuta, Platone delineerà lo
"Stato secondo" dal momento che quello delineato nella "Repubblica" è puramente ideale,
Platone ne tratteggia uno attuabile, dove prende gli aspetti migliori di ogni governo in modo tale da creare il
miglior Stato tra quelli attuabili.
Questa soluzione piacque molto in seguito ed è considerata il punto di partenza dello Stato "misto". Il
ragionamento di Popper è, dunque, in parte fuori luogo se ipotizzassimo la società perfetta, perché mai
dovremmo cambiarla? Perché cambiare qualcosa di perfetto? Potrebbe cambiare solo in peggio. Abbiamo detto
che lo Stato delineato nella "Repubblica" è un'utopia ed è interessante notare la distinzione tra i due aggettivi che
ne derivano "utopistico" è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile, ma che per fortuna non lo è,
"Utopico" è un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo, che molti credono buono così
com'è, imperfetto e migliorabile. Popper ha preso l'idea di Platone utopica di Stato per utopistica.
I difensori di Platone si sono divisi, di fronte a queste critiche, in due gruppi. I simpatizzanti delle posizioni
liberal-democratiche hanno sostenuto che l’utopia proposta nella Repubblica non deve venir presa alla lettera. Si
tratterebbe, come sostiene ad esempio Hans Georg Gadamer, di una provocazione puramente intellettuale, che ha
una funzione critica rispetto allo stato di cose esistente ai tempi di Platone (cioè l’esercizio del potere in funzione
di interessi privati di gruppi e di famiglie), ma che non pretende in alcun modo che i suoi contenuti siano
possibili e desiderabili. Un gioco intellettuale, in sostanza, senza alcun aspetto progettuale.
All’estremo opposto, i simpatizzanti del pensiero socialista e comunista, come Pohlmann, hanno visto in Platone
uno dei precursori di questa tradizione, anche se si sono scontrati con il problema della limitazione del
“comunismo” platonico. Non sono mancati, infine, negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, usi di Platone in
senso fascista e nazista. Essi apprezzavano il primato che Platone indubbiamente assegna allo Stato, rispetto ai
cui interessi le libertà e i diritti individuali vengono in secondo piano (Platone scrive ad esempio che non è
giusto che la medicina prolunghi la vita di coloro la cui capacità di prestazioni utili agli interessi collettivi sia
irrimediabilmente compromessa).
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Assaggi di Filosofia
Platone
Ognuna di queste interpretazioni polemiche coglie, in misura diversa, una parte della verità, ma nessuna rende
pienamente giustizia allo spirito di Platone, nel quale la dimensione politica deve sempre esser vista come
strettamente connessa al problema dell’anima, da una parte, e a quello della scienza dall’altra.
Prima di entrare in queste considerazioni è, tuttavia, necessario escludere che le proposte della Repubblica
abbiano il carattere di una mera “utopia”, cioè di un sogno, di un “castello sulle nuvole”. Platone ritiene - e lo
ribadisce a più riprese - che la costruzione della società descritta nella Repubblica è difficile ma non
impossibile. Si tratta dunque di un “mondo possibile” che deve venire progettato, desiderato e, se le circostanze
sono favorevoli, costruito. Di un dovere etico-politico, dunque, per chi voglia davvero che la comunità umana sia
messa nella condizione di vivere una vita buona e giusta. Non è possibile, infatti, che questa vita sia raggiunta in
modo solitario da nessun individuo. Il miglioramento di ciascuno è, infatti, l’esito di un’impresa educativa che
può venire svolta con successo soltanto dalla comunità politica. Se è vero che non può esistere una comunità
giusta se non è composta di uomini giusti è anche vero che non possono esistere uomini giusti se non vengono
formati da una comunità giusta. Può trattarsi di un circolo vizioso a meno che una minoranza di giusti, formatasi
in modo autonomo - quella dei filosofi - riesca a prendere il potere e con esso a fare della polis una comunità
educativa al servizio di tutti gli altri uomini che, alla fine di questo processo, potranno anche rendersi autonomi
da quel potere, come i ragazzi cresciuti possono rendersi autonomi dall’autorità del maestro e del padre.
Hegel ha sostenuto in vario modo che lo Stato platonico fosse una “utopia reale” e cioè certamente un prodotto
di pensiero, ma non un ideale vuoto, piuttosto quel concetto di Stato che meglio di tutti coglieva la natura stessa
dell’eticità greca. D’altra parte la Repubblica di Platone ha riscontri oggettivi nell’esperienza da lui vissuta con
la vicenda di Socrate, dalla quale risultò l’esigenza di una profonda riforma politica che riportasse l’equilibrio
all’interno della democrazia e comunque prospettasse la concreta possibilità di fondare lo Stato non su interessi
particolari e privati ma universali e generali.
La "Repubblica" può anche essere vista in chiave di trattato pedagogico-educativo volto all'istruzione dei futuri
governanti. Platone ci indica qui i diversi livelli di conoscenza e contrappone la filosofia ad altri metodi di
educazione, primo tra tutti quello della retorica capeggiato da Isocrate. Per Platone la vera retorica è quella che si
fonda sulla piena conoscenza della verità e delle persone cui ci si rivolge, non come la intendevano tutti i suoi
contemporanei. Per Isocrate e tutti gli altri essa consisteva invece nel formulare discorsi eleganti ma privi di
verità.
Il progetto della Repubblica va dunque preso sul serio. Ma, come si diceva, esso può venire compreso solo sullo
sfondo del rapporto della dimensione politica, con quella scientifica e con quella psicologica.
L’anima di ogni uomo, dice Platone, è divisa in tre parti (noi diremmo in tre istanze psichiche o centri
motivazionali).
Quella superiore è la ragione (logos), capace di comprendere il ragionamento teorico e, in ambito eticopolitico, i valori legati al bene universale. I desideri propri di questa parte dell’anima sono la verità e la giustizia.
Ma dal punto di vista delle energie psichiche, la ragione è debole, rappresenta una minoranza dell’anima.
Ci sono poi due parti irrazionali. La prima di esse è quella emotiva (thymòs). Gli impulsi e i desideri di questa
parte sono di ordine sociale. Essa mira ad affermare il prestigio, il potere, la gloria dell’io nell’ambito della
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Assaggi di Filosofia
Platone
comunità e rappresenta il desiderio collerico di vendetta nel caso in cui l’io si ritenga in giustamente offeso.
Questa seconda parte, benché irrazionale, nutre aspirazioni nobili, di tipo guerriero e con essa la ragione può
stringere un’alleanza per mettere al proprio servizio le sue energie.
La terza parte dell’anima è la più pericolosa. I suoi desideri non sono sociali ma privati e legati alla corporeità e
consistono nella brama dei piaceri alimentari e sessuali, nonché della ricchezza che può soddisfare gli uni e gli
altri. Questa terza parte, secondo la Repubblica, deve venire sottomessa e tenuta a bada dalle prime due se si
vuole salvaguardare l’armonia e l’equilibrio psichico della personalità (ma Platone scrive altrove che anche
l’impulso erotico, in cui consiste la maggiore riserva di energie psichiche, può venire rieducato in modo da venir
messo al servizio della ragione, secondo un processo che anticipa da lontano la sublimazione di cui ha parlato
Sigmund Freud).
La Repubblica non ha mai mancato di svolgere il suo compito principale; quello di invitare a pensare sul destino
della vita individuale e sociale degli uomini un destino, secondo Platone, non prescritto e ìmmutabile, ma da
immaginare, argomentare, costruire.
Bibliografia:
Platone la Repubblica- a cura di Giuseppe Lozza
Platone la Repubblica-a cura di Francesco Adorino
Platone la Repubblica-introduzione di Mario Vegetti
Sitografia:
Enciclopedia Treccani online
Filosofico.net
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Assaggi di Filosofia
Platone
I filosofi non devono governare
Di Myriam Buonfino
Nella Repubblica di Platone ci è ben illustrato il suo pensiero di uno Stato strutturato in maniera del
tutto ideale, e che potrebbe funzionare solo nel suo amato mondo delle idee (Iperuranio). Platone si
affretta ad enunciare lo scopo che deve avere lo Stato: il benessere condiviso e alla portata di tutti. Ma
non tutti sono uguali.
Essendo aristocratico, egli vive un forte senso di appartenenza alle classi e divide la popolazione della
sua città in tre parti:



La classe governante, formata da filosofi e sapienti che conoscono bene le idee dell’iperuranio e
conoscono le cose terrene in maniera più profonda di chiunque altro
La classe dei guerrieri, dotati di forte coraggio e grande virtù
La classe dei produttori o lavoratori, non aventi il diritto di prendere parte alle decisioni dei
governanti, destinati ad essere governati in quanto dediti alla parte concupiscibile della propria
anima
Si può ben vedere come questa tripartizione rifletta in maniera piuttosto diretta quanto Socrate dice nel
Fedone riguardo l’anima, servendosi (come è solito fare Platone) del mito della biga.
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Assaggi di Filosofia
Platone
L’anima è innanzitutto immortale per Platone e composita di tre parti, che hanno ciascuna una
rappresentanza nel mito: c’è una parte concupiscibile, il cavallo nero, che tende a far cadere la biga
sulla terra, attirato dalle passioni e dai beni materiali; c’è una parte irascibile, il cavallo bianco, che
tende a salire verso il cielo e a seguire gli ordini dettati dall’auriga che rappresenta appunto la parte
razionale, quella che ha come scopo il condurre l’anima così tripartita nel mondo delle idee per rendere
visibili quante più conoscenze possibili. A ciò si riconduce anche la tematica di Platone secondo cui
conoscere è ricordare, cioè recuperare la conoscenza delle cose viste nell’iperuranio e quante più cose
si sono viste, grazie al lavoro dell’auriga, la parte razionale, tante più cose si potranno capire una volta
incarnati nel corpo visto come prigione dell’anima alla maniera di Pitagora e dei suoi seguaci. Perciò
colui che ha visto
più cose ha un
auriga
che
ha
svolto
eccellentemente il
suo lavoro e grazie
a ciò è capace di
riconoscere le cose
che
sappiamo
essere
mera
imitazione
delle
idee
dell’iperuranio.
Dopo questo excursus esplicativo riguardo il microcosmo dell’anima che si riflette nel macrocosmo
dello Stato mi accingo a presentare la mia tesi: è sicuro che i filosofi sarebbero abili governanti?
Secondo la Repubblica, la virtù comune a tutte le classi, la giustizia, deve essere la temperanza; in più i
guerrieri devono avere il coraggio e i governanti la saggezza. Da qui Platone ci spiega che la vera
saggezza è conoscere le cose non come si presentano nella realtà, giacché copie, ma come sono
nell’originale, cioè conoscere le idee. Chi se non i filosofi conoscono le idee?
La scienza, la virtù da cui si generano tutte le altre virtù, quindi la definizione stessa (come appreso dal
tanto ammirato maestro Socrate), si distingue in due parti:


La doxa, cioè l’opinione, la conoscenza sensibile
L’episteme, cioè la conoscenza esatta e razionale
La prima va ricondotta a tutti coloro che conoscono le cose per come si presentano nel mondo reale, e
si distingue in immaginazione, che ha per oggetto le ombre, e credenza, che ha per oggetto le cose
sensibili.
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Assaggi di Filosofia
Platone
La seconda va ricondotta invece a coloro che si distaccano dal mondo reale cercando risposte al di fuori
e si distingue in ragione matematica, che ha per oggetto le idee matematiche, e l’intelligenza filosofica
che ha per oggetto le idee-valori.
Per poter spiegare meglio queste distinzioni Platone fa uso del mito della caverna. Gli uomini sono tutti
imprigionati come schiavi in catene, costretti a vedere delle ombre che si muovono sulla parete di una
caverna buia; uno di loro riesce a sciogliere le catene e a guardare dietro di sé, scorgendo le statuette
che muovendosi gettano ombre sulla parete; è questa la credenza. Successivamente si alza e riesce a
vedere che le ombre sono causate dalle fiamme del fuoco che illumina debolmente le statuette. Lo
schiavo liberato esce dalla caverna e si ritrova in un mondo meraviglioso e lucente, quello delle idee,
tanto che i suoi occhi non abituati a tanto splendore faticano a riconoscere le cose e si concentrano sul
riflesso che esse creano nell’acqua, le idee matematiche. Abituatosi a tanta magnificenza lo schiavo
riesce poi a guardare le cose direttamente, e soprattutto il sole che rappresenta l’idea massima, l’idea
del Bene. Vorrebbe rimanere lì per sempre, come i filosofi vogliono rimanere rinchiusi per l’eternità in
una torre d’avorio, ma si rende
subito conto che il bene di cui
è venuto a conoscenza sarebbe
moltiplicato
se
condiviso
anche con gli altri uomini.
Tornato nella caverna non
riesce più a distinguere le
ombre che si muovono sulla
parete e perciò viene deriso da
tutti
gli
altri
schiavi,
felicemente imprigionati nelle
loro catene fatte di passioni per le cose terrene. Soprattutto lodano coloro i quali meglio degli altri
riescono a distinguere le ombre, cioè coloro che si vantano di avere una falsa conoscenza delle cose e
stufi dell’insistenza di quell’unico uomo che ha conosciuto il mondo esterno, lo uccidono.
È ben chiaro che l’unico uomo che è uscito dalla caverna è Socrate e la sorte che gli è toccata è proprio
la stessa, morire e vedere come sono lodati coloro che non sanno ma credono di sapere.
L’idea di Platone sarebbe dunque quella di valorizzare i filosofi rendendoli custodi della giustizia e
“sottomettere” il resto della popolazione rendendoli produttori o lavoratori senza diritto di contestare
l’operato dei governanti. In che modo dunque scegliere coloro che sono degli di essere governanti?
Grande importanza assume dunque un altro mito in Platone, che si rifà direttamente ai Fenici. L’anima
può avere tre nature: aurea, argentea e bronzea. Egli vi associa le sue classi sociali così che i governanti
sono contraddistinti da un’anima aurea, i guerrieri da quella argentea e i lavoratori da quella bronzea.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Interessante elemento, quasi di meritocrazia, è quello dovuto all’ispezione di ogni bambino nato nello
stato ideale giacché, seppure è vero che i figli tendono a imitare i genitori nelle passioni o nella
saggezza, talvolta capita che qualcuno se ne discosti e compito dei filosofi è scorgere le anime auree
nate in contesti bronzei o viceversa.
Questo è importante ai fini dell’educazione, riservata ai soli esponenti della classe aurea. Sarebbe
infatti inutile preservare educazione per coloro che avendo visto poco nell’iperuranio mai potranno
conoscere (in quanto attività affine al ricordare) le cose che li circondano.
Questo è lo stato secondo Platone più giusto che possa esserci e per questo è e rimarrà un ideale, spesso
oggetto di rivisitazione in quanto costituisce un modello unico e perfetto da cui prendere spunto.
Mi sorge spontanea una domanda: in base a cosa i filosofi riescono a intuire una natura aurea, argentea
o bronzea nei bambini? Semplice, i filosofi hanno la conoscenza delle idee dell’iperuranio e dunque
sanno riconoscere, avendola vista nella sua forma originale, una natura aurea.
Ma chi può riconoscere ciascuna anima? Colui che le ha viste già tutte, com’è chiaro.
In definitiva, chi può arrogarsi il diritto di dire di aver visto ogni idea dell’iperuranio?
Con questa semplice domanda, mi auguro di condurre il lettore agevolmente nelle prossime
argomentazioni, consequenziali a questa e indispensabili a confutare la teoria dello stato governato da
filosofi di Platone.
Poiché conoscere è ricordare, non è possibile ricordare ciò che non si è conosciuto, dunque non sarà
mai possibile sapere se si riconosce ogni cosa. Ma d’altronde, sarebbe difficile aver visto ogni idea
dell’iperuranio con attenzione giacché il tempo che vi si trascorre è minimo in quanto il cavallo nero
sfugge alle redini dell’auriga facendo precipitare e incarnare l’anima in un corpo che è la sua prigione.
Dunque, nessuno può dire di sé essere grande conoscitore di tutte le idee.
Se quindi non conosce tutte le idee, non può ricordare nemmeno tutte le sfaccettature che presenta
un’anima aurea e non può dunque riconoscere quelle che non ricorda in un’anima da lui decretata
“bronzea”.
Dunque alcune anime bronzee sarebbero ingiustamente private dell’educazione che le spetta in quanto
anime auree e necessarie allo sviluppo del benessere dello Stato.
Ma non è tutto. Le anime dei filosofi hanno sì visto le idee, ma possono averne alterato l’essenza
originale così che pari buona a loro una cosa che in realtà deriva dall’interpretazione sbagliata, dunque
cattiva, di una idea che in quanto tale è buona.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Così che avremo dei governanti che, convinti di fare il bene, farebbero invece il male e nessuno,
impostato in questo modo lo Stato di Platone, potrebbe obbiettare le loro decisioni, essendo classi
sociali sottomesse e inferiori.
Essendo dunque i filosofi dei cattivi governanti, essendo saggi solo di determinate cose e in un
determinato modo, il governo, che si prefissa di essere il più giusto di ogni altro, diventerebbe una delle
forme degenerate dell’aristocrazia tanto decantata da Platone.
Per il Platone “logico” esistono quattro forme degeneri dello Stato: timocrazia, oligarchia, democrazia
e tirannide. La prima è contrassegnata dal prevalere dell’ambizione, della ricerca degli onori (da timé:
considerazione, onore).
Nella seconda hanno il sopravvento uomini avidi di ricchezza (prevale il censo). Nell’oligarchia “si
plaude e si ammira il ricco”.
All’opposto la costituzione democratica è dominata dai poveri “che massacrano parte dei ricchi e
parte esiliano mentre si dividono con quelli che restano l’amministrazione e le magistrature, il più
delle volte spartendole a sorte”.
Infine, la tirannide prende le mosse dalla democrazia ed è lo sbocco conseguente di una tendenza ad
assolutizzare il principio interno di quella forma politica.
Come l’eccesso di ricerca della ricchezza manda in rovina l’oligarchia aprendo la strada alla
democrazia così dall’esasperazione della libertà si compie il trapasso dallo Stato democratico alla
tirannide.
“E’ naturale dunque che la tirannia da non altro governo può prendere le mosse se non dalla
democrazia: dalla estrema libertà nasce cioè la schiavitù più piena e più atroce.”
Dunque non esiste la giusta aristocrazia che rivendica Platone, si trasformerebbe inevitabilmente in una
delle forme degenerate perché alla base non c’è la giustizia e non potrà mai esserci perché il problema
qui affrontato sta alla base di tutta la teoria platonica.
C’è da dire però che lo stesso Platone si accorge in età senile che quanto da lui teorizzato è un’utopia
irreale e irrealizzabile e dev’essere presa solo come modello per poi adattarla alle diverse situazioni di
governo di ogni Stato reale.
Al giorno d’oggi, dunque, se non i filosofi, i saggi, chi è più idoneo a governare?
Non c’è risposta unica a questa domanda, giacché tutti potrebbero governare perché ugualmente esposti
alle cose presentateci dalla vita, e nessuno potrebbe farlo perché ciascuno è potenzialmente esposto
all’errore o, peggio, alla corruzione. Questi due ultimi aspetti sono insiti nell’animo umano, in
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Assaggi di Filosofia
Platone
qualunque persona ed è proprio ciò che non permette mai di avere uno Stato pienamente giusto o di
raggiungere le forme di governo ideali che pertanto appariranno sempre lontane e irraggiungibili.
Note Bibliografiche
1.
2.
3.
Domenico Valenza. Principali autori e temi dell'indagine filosofica (riassunto)
N. Abbagnano e G. Fornero, La Ricerca del Pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol.1 A, ed. Paravia
Platone, frammento
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Assaggi di Filosofia
Platone
L’uomo può realizzare un buon governo ?
Di Giovanna Olivieri
La politica ,dal greco polis che significa città , è l’arte , scienza del governo e amministrazione dello
Stato. Il filosofo greco Platone si è soffermato a lungo sull’importanza della politica ,su chi dovesse
governare e come dovesse farlo, sull’importanza delle leggi e sul ruolo del filosofo nella società. La sua
riflessione parte in un momento cruciale della sua vita ovvero la morte del suo maestro , Socrate , da
qui la fatilica domanda : “si può condannare a morte un uomo giusto ?”. Platone da questo momento in
poi dedica gran parte della sua vita , come testimoniano i suoi scritti :La Repubblica , Il politico e le
leggi nella ricerca di uno stato ideale. Nel corso della sua vita cambia diverse volte opinioni , sia perché
viene deluso dalle sue aspettative ,come con il tiranno di Siracusa , sia perché perde fiducia nell’essere
umano e nella sua volontà di realizzare un buon governo. Così Platone , un po’ per il suo stato sociale ,
un po’ per ciò che gli è successo , concepisce il governo in modo gerarchico , governato in un primo
momento dai filosofi , poi da re filosofi e infine dalle leggi .
La tesi è : l’uomo è capace di realizzare un buon governo?
Per capire la concezione politica di Platone è necessario capire cosa intendesse per uomo , ovvero come
secondo questo filosofo era l’animo umano
Il Carro Alato
“Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che
dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe
fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piúbreve.Questo sia dunque il
modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un
auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi [b] sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri
esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini,l’auriga conduce la pariglia; poi dei due
corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta.
Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso.”[1]
Alla tesi dell'uguaglianza degli uomini egli contrappone un celebre argomento di natura antropologica,
che si fonda su una spregiudicata analisi della struttura dell'anima. Quest'ultima presenta tre differenti
centri motivazionali, dalla prevalenza di uno dei quali dipende l'orientamento generale della vita
psichica dell'individuo. Solo il primo di questi centri motivazionali è razionale, e si identifica con la
capacità calcolativa della ragione (logismòs). La sua prevalenza nell'anima dell'individuo garantisce
l'orientamento dello stesso alla conoscenza e soprattutto la capacità di universalizzazione. Viceversa le
altre due ‘parti’ sono irrazionali: l'una rappresenta le istanze dell'impulsività e della reattività collerica,
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Assaggi di Filosofia
Platone
l'altra dei desideri collegati alla corporeità.
Secondo Platone solo in un numero molto limitato di individui il centro razionale esercita il dominio e
assoggetta le altre due parti; le anime della maggioranza dei cittadini sono invece dominate dalle parti
irrazionali. Ciò significa che in questi individui gli interessi privati, i desideri, la pretesa di
autoaffermazione prendono il sopravvento nei confronti dell'orientamento al bene generale. Si tratta di
uomini che risultano ‘schiavi’ dei desideri e che perciò non sono in grado di esercitare in maniera libera
e veramente autonoma il loro ruolo di cittadini .
Inoltre un altro famosissimo mito parla dell’anima e di come l’uomo sia predestinato; in senso lato
questo mito ci fa comprendere come per Platone ogni cittadino è importante per lo Stato ma ognuno
entro i suoi limiti e le sue possibilità così che il comando venga affidato solo a chi è realmente
competente . Il mito in particolare è quello di Er dove dopo la morte , all’inizio di una nuova vita ,
l’uomo sceglie il suo destino e sconterà in vita la sua buona o cattiva scelta . In senso lato il mito vuole
“giustificare” la condizione dell’essere umano sulla vita e del perché è destinato a quel ruolo nella
società .
“ la virtù è libera a tutti ;ognuno ne parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia.Ognuno
è responsabile del proprio destino ,la divinità non ne è responsabile.”[2]
Lo Stato per Platone
Lo stato deve essere costituito da tre classi sociali , che non a caso , corrispondono alla tripartizione
dell’anima : quella dei governanti , quella dei guerrieri e quella dei lavoratori o produttori .La saggezza
è la virtù caratteristica della prima di queste classi , poiché basta che i governanti siano saggi perché
tutto lo Stato sia saggio .Il coraggio è la virtù della classe dei guerrieri e la temperanza intesa come
governo della ragione dove l’inferiore viene subordinato al superiore ,è una virtù caratteristica dei
produttori .Uno stato per poter funzionare deve comprendere tutte e tre queste classi sociali e non solo
, anche ogni essere umano deve stare in equilibrio con le tre parti della sua anima . Ovviamente questa
tripartizione non dipende da un diritto di nascita ma da attitudini naturali, come viene spiegato nel
“mito delle stirpi”
“Il dio ordina ai magistrati di sorvegliare attentamente i bambini, di stare bene attenti al metallo che si
trova nella loro anima,e se i loro figli hanno qualche parte di bronzo, di essere per loro senza pietà e di
assegnare ad essi il tipo di onore dovuto alla loro natura, relegandoli nella classe degli artigiani e degli
agricoltori; ma se da questi nasce un bambino la cui anima contiene dell’oro o dell’argento, il dio vuole
che sia onorato elevandolo sia al rango di custode, sia a quello di difensore…” [3] . Il metallo di cui si
parla è sempre riconducibile alla tripartizione dell’anima, i governatori hanno un metallo aureo , i
guerrieri d’argento e i produttori di bronzo.
Ma chi sono questi “ governatori “?
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Assaggi di Filosofia
Platone
A Platone sta a cuore la formazione della classe diligente , di quella piccola “èlite”a cui deve essere
affidato il compito supremo di stabilire l’unità interiore dello Stato mediante il dominio assoluto e
impersonale della ragione .Dopo la morte del maestro inizia a pensare ad uno stato governato da
filosofi perché sono gli unici che riescono a guardare oltre ;infatti,secondo il filosofo, sono gli unici che
posseggono la “ragione”:sanno cosa è giusto , cosa è bello e sono disinteressati dal potere .
Non si potrà dunque approssimare ad uno Stato ideale,conclude Platone ,se non a condizione che o
governino i filosofi o i governanti filosofeggino .
“. Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e soprattutto se potesse
migliorare il governo della città, ma, per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine
m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza
una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta
filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e a lodare solo
essa. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere
politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non
fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi ...”[4]
E se il potere fosse nelle mani di tutti ?
Una concezione di stato totalmente diversa ce la propone il sofista Protagora.
“Così l'uomo divenne partecipe di un destino divino (theia moira). In quanto imparentato con la
divinità, fu l'unico essere vivente a riconoscere gli dei e a praticare il culto. Grazie alla sua
techne imparò ad articolare la voce in parole e inventò case, sandali, letti, vesti, nonché l'agricoltura.
Ma gli uomini continuavano a vivere separati, e non riuscivano a unirsi neppure per difendersi dagli
animali feroci perché non avevano la techne politica, di cui è parte anche quella bellica Allora Zeus,
per salvarli dalla rovina, inviò Hermes a portar loro aidos(vergogna) e dike (giustizia) perché
costituissero ordinamenti delle città e vincoli di philia che li tenessero insieme. Hermes chiese se
doveva distribuire aidos e dike soltanto ad alcuni, come avviene per le technai come la medicina,
oppure a tutti .Zeus gli rispose di darle a tutti, perché senza aidos e dike non potrebbe esistere la
comunità politica: «istituisci dunque in mio nome una legge per la quale chi non è capace di
condividere aidos e dike sia soppresso come una malattia della città» “[5]
In base al racconto di Protagora nella distribuzione originaria delle capacità, che Zeus affidò al poco
preveggente Epimeteo, gli uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza, velocità,
robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte ai pericoli del mondo
esterno e degli altri esseri viventi. Per supplire a questa carenza, Prometeo donò agli uomini la sapienza
tecnica, cioè la competenza artigianale (demiourgikètechne) sotto forma di fuoco. Per Protagora,
tuttavia, il possesso di una competenza tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a garantire la
sopravvivenza, perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla base della
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Assaggi di Filosofia
Platone
sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra loro e a dare vita a forme di
collaborazione e a nuclei associativi. Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la
tecnica politica (politikètechne), la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs), cioè una
forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dike). A differenza delle dotazioni naturali e
delle singole competenze artigianali, la tecnica politica venne distribuita a tutti gli uomini, i quali
risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la vita della comunità
Il mito di Protagora viene considerato il ‘manifesto’ dell'ideologia democratica perché in esso trova
giustificazione una certa forma di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente,
in possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze utili a governare la
città, sia di un'autonomia decisionale, che rinvia a una soggettività autonoma e trasparente. In altre
parole, Protagora sembra fondare l'assunto fondamentale dell'ideologia democratica, il quale stabilisce
che i membri di un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per tutti, sono
liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un patto negoziale.
Platone al contrario considera la democrazia in tutt’altro modo .Il concetto di Democrazia implica la
partecipazione di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica e presenta ,fin dall’antichità,uno
stretto legame con le nozioni di uguaglianza di diritti e di libertà. Il filosofo , provenendo da una forte
affinità con il regime aristocratico, sostiene questa forma di governo come una “licenza”,definendola
come una situazione dove ognuno può fare il proprio comodo , essendo libero da ogni vincolo .
“incantevole governo,a quanto pare,sciolto dal peso di ogni disciplina ,variopinto e che concede
uguaglianza di diritti ai giusti come agli ingiusti”.[6]
Platone inoltre definisce la democrazia una degenerazione dello Stato e si può dire che questo suo
progetto di riforma dello Stato nasca proprio in antitesi con il regime del suo tempo . infatti critica
anche i fautori della Democrazia Ateniese.
“Dimmi soltanto se è voce corrente che gli Ateniesi siano stati i migliori da Pericle o ,al contrario,ne
siano stati corrotti ,Io sento dire che Pericle ha reso gli Ateniesi pigri ,vili,chiacchieroni e avidi di
denaro,istituendo per primo uno stipendio per gli uffici pubblici .”[7]
Come testimoniano Le leggi ,Platone perde completamente fiducia nel genere umano , non crede che
l’uomo sia capace di governare .Viene deluso sia da un governo di filosofi perché disinteressati e
incompetenti a questo compito , sia da re filosofi perché deluso dal tiranno di Siracusa .Mentre nella
produzione precedente il politico era sopra le leggi ora diventa il custode delle norme e
dell’ordinamento giudiziario. Come ultima analisi inizia a concepire che lo Stato debba essere
governato dalle sole leggi e che il compito del filosofo sia quello di portare l’uomo sulla via della
giustizia. Quindi contrariamente alla visione Protagorea o in generale Democratica , non crede e non
incentiva l’uguaglianza di diritti perché non considera tutti gli uomini dotati della capacità di
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Assaggi di Filosofia
Platone
governare. Probabilmente questa sua sfiducia nel genere umano è condizionata dal periodo storico in
cui vive , e indubbiamente dalla morte ingiusta di Socrate .Il suo Stato però resterà per sempre ideale e
lui stesso si renderà conto di tutto in seguito a varie delusioni ;così affiderà lo Stato alle leggi , create
dagli stessi uomini.
Bibliografia
1 Da Treccani,di Franco Ferrari,Platone. Contro la democrazia, BUR 2008.
2 N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1A, ed.
Paravia, 2012
Opere citate
[1] Platone,Fedro, 246 a-249d
[2] Platone,Repubblica,X
[3]Platone,Repubblica,III,415b-c
[4] Platone, Lettera VII,324b-326b,trad di A.Maddalena,Laerza,Roma-Bari1971
[5]Platone,Protagora320c-322d
[6]Platone,Repubblica,557b-558c
[7]Platone Gorgia,515e
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Assaggi di Filosofia
Platone
Oramai era passata un’oretta e mezza e delle pizze nemmeno l’ombra , chiamammo per chiedere
quanto ci volesse ma era ben chiaro che stasera non le avremo mangiate . Così i soliti cuochi della
situazione entrarono in cucina e iniziarono a preparare, ovviamente era una cosa molto arrangiata , ma
fu divertente vederli all’opera. Iniziammo con degli spaghetti molto ma molto al dente , diciamo
immangiabili ,ma tant’era la fame che mangiammo addirittura con gusto. Intanto il discorso era
degenerato , e iniziammo a parlare dell’uomo .
Uomo si nasce o si diventa?
Innatismo e ambientalismo dalla filosofia platonica alla psicologia del ‘900
di Federica D’Alterio
L’uomo, in quanto tale, ha caratteristiche e capacità che differiscono da individuo a individuo.
L’aspetto che incuriosisce di questi singoli e individuali attributi umani è il come questi stessi si
presentino negli individui e quali fattori influiscano sulla loro apparizione, cioè se il processo di
formazione dell’ individualità dell’uomo sia legato ad un fattore innato (l’ uomo nasce con determinate
caratteristiche) oppure è plasmato dall’ esperienze dell’ individuo nell’ ambiente in cui vive
(ambientalismo) .
Per secoli ciò è stato argomento di innumerevoli dibattiti tra le più grandi menti appartenenti ad ogni
campo scientifico, medico e anche filosofico, che hanno sostenuto l’ innatismo o l’ influenza dei fattori
ambientali come causa unica che contribuisce alla formazione dell’ individualità umana. Tuttavia c’è
una terza opzione, la quale è la più determinante causa di questo processo, e cioè che l’ uomo possa
sviluppare singole caratteristiche sia perché esse sono innate, sia perché queste vengono determinate
dall’ ambiente circostante. Dunque, l’unione tra innatismo e ambientalismo è l’ unica che influisce
sulla natura umana.
Il filosofo dell’ antica Grecia Platone aveva intuito il peso di questi due fattori sull’ uomo, formulando
la sua “teoria dello stato”, contenuta nella sua opera “Repubblica”.
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Assaggi di Filosofia
Platone
La “Repubblica” è l’opera più vasta e ampia realizzata dal filosofo greco, in cui tutti i temi e i risultati
elaborati dal filosofo stesso nei precedenti dialoghi, sono ordinati e connessi intorno al motivo centrale
di una comunità perfetta, cioè lo stato platonico ,nel quale il singolo trova la sua perfetta formazione.
Lo stato dovrà essere diviso in tre classi, quella dei governanti, quella dei guerrieri e quella dei
lavoratori. La saggezza è la virtù caratteristica della prima classe e il coraggio appartiene ai guerrieri ,
la temperanza è comune a tutte le classi. La finalità di questo stato “ideale” è il raggiungimento della
Giustizia, valore supremo che si realizza quando ciascun cittadino attende al proprio compito e fa ciò
che gli spetta.
A questo punto una domanda sorge spontanea: “Che cosa fa si che un uomo appartenga o meno ad una
determinata classe per potersi occupare del proprio specifico compito?”
Per rispondere a ciò è necessario ricollegarci al concetto di anima analizzato da Platone nella sua opera
“Il Fedro” attraverso il mito della biga alata . L’ anima individuale è paragonata ad una biga guidata da
due cavalli alati. Uno dei due cavalli è bianco e perfetto e spinge la biga verso l’ Iperuranio (il mondo
delle idee), l ‘altro cavallo, invece, è nero e ingovernabile e dirige la biga verso il mondo terreno. Da
ciò è evidente che il filosofo non concepisce l’anima come un qualcosa di unitario, ma anzi come
un’entità tripartita .
Essa, dunque, è composta da:

una parte razionale che domina gli impulsi e grazie alla quale
l’ anima ragiona (essa
corrisponde all’ auriga nel mito della biga alata che governa i due cavalli).

una parte concupiscibile (il cavallo nero), principio di tutti gli impulsi corporei.

una parte irascibile (il cavallo bianco), ausiliario del principio razionale.
La diversità degli individui e la loro differente destinazione sociale dipendono, secondo il pensiero
platonico, dalla preponderanza di una parte dell’ anima rispetto alle altre. Abbiamo così gli individui
prevalentemente razionali, quelli prevalentemente impulsivi e ancora quelli più soggetti ai beni terreni.
L’ appartenenza degli individui in una specifica classe, quindi, non dipende dal perché “si è nati” in
quella classe, ma è soggetta ad un fattore antropologico e psicologico o, in parole povere, da come l’
individuo è in quanto dotato di anima. Dunque le sue caratteristiche sono soggette a innatismo.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Tuttavia Platone si rende conto che solitamente gli individui tendono a modificare le caratteristiche
della propria anima perché influenzati da un dato contesto in cui vivono e crescono, quindi, solitamente
i figli assomigliano ai padri.
“Ordinariamente, voi generate figli simili a voi stessi”
Platone è il primo filosofo che introduce argomenti riguardo la singolarità della natura umana,
favorendo come causa principale di ciò l’ innatismo e svalutando il contesto vitale poiché costringe l’
uomo a non sviluppare i suoi attributi innati, ma lo plasma rendendolo simile agli altri uomini.
Negativo o meno però l’ ambientalismo, insieme all’ innatismo, secondo il pensiero di Platone,
concorre alla formazione individuale.
Naturalmente Platone, essendo nato molti secoli prima della scoperta dell’ ereditarietà e quindi della
genetica, non era in condizioni di interpretare adeguatamente il funzionamento della mente e della
coscienza umana, cioè ciò a cui egli stesso attribuisce il nome di anima. Dunque, solo verso la fine del
XIX sec. e in tutto il XX gli studi sulla mente umana potettero progredire.
Al centro del dibattito tra innatisti e ambientalisti riguardo la singolare formazione individuale ci sono
sempre stati gli studi sulla natura dell’ intelligenza, se questa sia “naturale”, ossia miscela di varie
capacità (giudizio, saggezza ecc,) che sembrano
prescindere da un eventuale insegnamento
proveniente dall’ esterno, oppure se questa può essere intesa come una forma di adattamento dell’
individuo con il suo ambiente.
A tale proposito sono stati condotti vari esperimenti volti a stabilire quanto, sull’intelligenza, incida il
fattore genetico ed il fattore ambientale. In primo luogo recentemente sono stati svolti studi sui gemelli
monozigoti. Queste ricerche si propongono di individuare ed eventualmente separare all’interno del
concetto di mente e di coscienza umana ciò che è dovuto ai geni e quindi innato, da ciò che è dovuto
alle esperienze post nascita e quindi ambientale. Ad esempio due gemelli monozigoti vengono separati
alla nascita e fatti vivere in contesti assi diversi tra loro. Il limite di queste ricerche è che troppo scarsa
è la disponibilità di casi e quindi di dati per cui le moderne interpretazioni del binomio innatismo
ambientalismo sono ancora oscure ed incomplete. Ciò che si è potuto ricavare è che in alcuni casi i
gemelli monozigoti presentano un forte grado di somiglianza.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Secondo Jean Piaget, psicologo, biologo e pedagogista (considerato il fondatore dello studio dei
processi cognitivi legati alla costruzione della conoscenza nel corso dello sviluppo) l’ intelligenza
intesa come capacità di interazione verbale si fonda su un tipo di intelligenza pratica o motoria, la
quale si basa su abitudini e associazioni acquisite dall’ individuo in tenera età nel momento in cui
incomincia ad entrare in relazione con l’ ambiente che lo circonda. Dunque l’intelligenza del bambino
si sviluppa parallelamente alle stimolazioni ed alle percezioni a cui è gradualmente sottoposto.
“La conoscenza è un processo di costruzione continua”
.Dunque, dato che la conoscenza nell’uomo ha origine nell’azione, è indiscutibile che l’interazione con
l’ambiente sia determinante per un corretto sviluppo intellettivo.
Però, per un ampio e giusto sviluppo cognitivo nei bambini, questa interazione fisica non basta. Infatti
vari concetti (come quello della "permanenza" cioè la capacità di avere presente oggetti rimossi dalla
percezione) sono presenti in uno stadio molto precoce che non risente quindi della esperienza vissuta
ed inoltre, bambini nati con handicap motori possono avere uno sviluppo simile a quello raggiunto da
bambini in grado di interagire normalmente con l’ambiente esterno.
Ciò verrà dimostrato dallo psicologo francese GouinDecarie, il quale sostenne che nei bambini affetti
da focomelia
(nati senza braccia o senza gambe), lo sviluppo intellettivo seguiva la sequenza
piagetiana. Infatti la maggior parte dei bambini sviluppò conoscenza, pensiero e linguaggio normali,
nonostante gli handicap motori li privassero di quelle esperienze sensoriali, ritenute fondamentali per lo
sviluppo intellettuale, secondo Piaget. Infatti i programmi basati su meccanismi di percezioni visive,
uditive e di tatto generano solo una conoscenza intesa come graduale consapevolezza delle proprie
capacità e non un’ intelligenza globale.
G. Decarie fu sostenuto del formulare le sue tesi dallo psicologo statunitense James Gibson, il quale
basandosi sui meccanismi di percezione (cioè il processo psichico che opera la sintesi dei dati
sensoriali in forme dotate di significato) e attenzione spaziale del neonato attribuì all’intelligenza tali
caratteristiche presenti fin dalla nascita.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Pertanto da queste considerazioni è logico pensare che l’ intelligenza abbia radici legate a meccanismi
di percezione e attenzione innati, che rielaborano in dati utili e significativi ciò che del nostro ambiente
captiamo attraverso i sensi. Dunque possiamo affermare che la conoscenza di un determinato individuo
è conseguenza dell’ unione tra capacità innate e dati che percepiamo dall’ esterno. Tuttavia i termini su
come avviene questa unione sono ancora ignoti o potranno essere oggetto di scoperte che si
svilupperanno nell’ immediato futuro.
La mente e le caratteristiche dell’ uomo sono ancora al centro di molti studi in campo genetico,
psicologico e filosofico, pochi dei quali sono giunti a conclusione. L’ uomo rimane per l’ uomo stesso
un mistero ai giorni nostri. Tuttavia è certo ormai che alla formazione individuale concorrono sia fattori
innati che provenienti dall’ esterno, anche se non si conoscono i termini di questa unione.
Note bibliografiche
“Ambientalismo”: contrario di “innatismo”.
Platone: da “L’origine del pensiero” di Nicola Abbagnano ; Frammento Rep. III,41.
Ricerche sui gemelli omozigoti : da” Il gene egoista” di Stephen Dawkins.
“Epistemologia genetica” di J, Pigeat
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Assaggi di Filosofia
Platone
Su cosa di fonda la conoscenza: Innatismo ed empirismo
Di Alessandra Buonaiuto
Chi è migliore, un pianista che nasce con una predisposizione innata alla musica ma che si esercita
poco, o invece un altro che non ha una predisposizione naturale per la musica, ma che si esercita
moltissimo?
Ma soprattutto, su cosa si fonda la conoscenza?
Innatismo ed empirismo sono correnti di pensiero in netta contrapposizione fra loro, di cui ancora oggi
si dibatte moltissimo. Da una parte c’è Platone, che ha elaborato la teoria della reminiscenza, dando
vita ad una forma di innatismo, dall’altra Lock che l’ha confutata ritenendo che la conoscenza viene
acquisita dalla coscienza tramite sensazioni interne o esterne attraverso il mondo sensibile. Si vuole
dimostrare come entrambi le parti da sole si rivelino insufficienti.
A cavallo tra il Seicento e il Settecento nasce l’empirismo il cui fondatore è Jhon Locke.
Filosoficamente parlando, l’empirismo risulta caratterizzato dalla teoria della ragione come insieme dei
poteri limitati dall’esperienza, intesa come origine della conoscenza e come criterio di verità.
In paricolare Locke riteneva che non esiste principio a tal punto valido da sfuggire ad ogni controllo
dell’esperienza.
“ Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza
alcuna idea. In che modo verrà ad esserne fornito? Da dove proviene quel vasto deposito che la
fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha tracciato con una varietà quasi infinita? Da dove si
procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola:
dall’ESPERIENZA”.
L’empirismo nasce proprio in contrapposizione con l’innatismo platonico e la teoria della reminiscenza
di Platone. In particolare Locke nega l’esistenza di “ idee innate”. Tutto ciò che caratterizza l’uomo è
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Assaggi di Filosofia
Platone
solo frutto dell’esperienza attraverso il mondo sensibile. Infatti anche se si volesse ridurre l’innatismo
a poche idee universali che hanno un “ consenso universale” per il quale:
«i principi ammessi da tutto il genere umano come veri, sono innati; quei principi che ammettono gli
uomini di retta ragione sono proprio i principi ammessi dall’intero genere umano; noi, e coloro che
hanno la nostra stessa opinione, siamo uomini di retta ragione; dunque, poiché noi siamo d’accordo, i
nostri principi sono innati.»
In ogni caso non si riuscirebbe a trovare un principio universale condivisibile anche dai bambini e dagli
ignoranti. Affermando ad esempio che l’idea di Dio è comune a tutte le civiltà, e confrontando le
diverse caratterizzazioni di Dio si constaterebbe che in comune c’è solo il nome, in quanto la
caratterizzazione del Dio dipende solo dalle particolari esperienze delle civiltà stesse.
«Ma, ed è la cosa peggiore, questa argomentazione del consenso universale, che viene impiegata per
provare l'esistenza di princípi innati, mi sembra una dimostrazione che non c'è nessun principio al quale
tutta l'umanità dia il proprio universale consenso. È evidente che tutti i bambini e gli idioti non hanno la
minima apprensione o il minimo pensiero di quei princípi. E la mancanza di ciò è sufficiente a
distruggere quel consenso universale che deve necessariamente accompagnare tutte le verità innate.»
L’innatismo platonico nasce dalla teoria dell’anamnesi anche detta “ la teoria della reminiscenza”.
Secondo questa teoria la conoscenza non deriva dal primo contatto con il mondo sensibile bensì da idee
e modelli preesistenti, formulate in un un’altra zona d’essere chiamata poeticamente e metaforicamente
“iperuranio” ovvero “ al di là del cielo”.
Nell’iperuranio, un mondo perfetto e immutabile, tutte le idee come “ La bellezza ”, “L’intelligenza”,
si configurano con le “ cose ” del mondo sensibile, secondo un rapporto “modello-copia”.
Dunque se nel mondo sensibile si idealizzerà una “ bellezza perfetta” questa sarà soltanto il ricordo di
ciò che l’anima ha “ conosciuto”, prima della nascita, nell’iperuranio. Per spiegare meglio questo
concetto Platone nel Fedro elabora il mito della biga alata:
“La natura dell’anima, nella quale Platone distingue tre parti, una razionale, una irascibile o
impulsiva , una concupiscibile o desiderante si può esprimere con un mito. L’anima secondo Platone, è
simile a una coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: uno dei cavalli ( quello bianco) è eccellente,
l’altro ( quello nero) è pessimo, sicché l’opera dell’auriga è difficile e penosa. L’auriga cerca di
indirizzare verso il cielo i cavalli, al seguito degli dei, verso quella regione sopraceleste (iperuranio)
che è la sede dell’essere autentico. In questa regione sta la “ vera sostanza”, priva di colore e di
forma, impalpabile, che può essere contemplata solo da quella guida dell’anima che è la ragione.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Questa sostanza è la totalità delle idee ( giustizia in sé, temperanza in sé ecc.). Ma l’anima può
contemplarla solo per poco, poiché il cavallo nero ( simbolo dei desideri e degli impulsi corporei) la
tira verso il basso. Ogni anima, perciò, contempla la sostanza dell’essere di più o di meno. Tuttavia,
quando per oblio o per colpa, si appesantisce, perde le ali e si incarna, va a vivificare il corpo di un
uomo che sarà tale quale essa lo rende. Allora l’anima che ha visto di più vivificherà il corpo di un
uomo che si consacrerà al culto della sapienza o dell’amore, mentre le anime che hanno visto di meno
s’incarneranno in uomini che saranno via via più alieni dalla ricerca della verità e della bellezza”.
Secondo Platone il ricordo avviene in forma intuitiva, stimolato dal contatto col mondo sensibile che
serve solo come spunto per avviare la reminiscenza. In particolare nel “Menone” spiega proprio come
Socrate riesca ad aiutare uno schiavo privo di cultura a comprendere il “ teorema di pitagora”.
L’innatismo sta proprio nel fatto che sebbene lo schiavo non avesse acquisito una forma di conoscenza
nel mondo sensibile, era riuscito a capire i processi logici di quel teorema poiché probabilmente quei
processi erano già in forma latente dentro di lui.
Per confutare le convinzioni dell’empirismo, Bertrand Russel ( 1872-1970) racconta la storia del
“tacchino induttivista ” :
“ Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva
dato il cibo alle nove del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle
sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei
giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno
il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni le più disparate. Finché la sua coscienza
induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: “ Mi danno il cibo alle
nove del mattino.” Purtroppo, però, questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di
Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato”
La domanda che pone Russel con questo divertente aneddoto è : “ l’induzione da sola può essere uno
strumento efficace per le leggi universali della natura ?”
In altre parole, se una persona ha visto solo cani neri, è mai possibile che tutti i cani siano neri?
Dall’altra parte c’è la critica al metodo della deduzione, prevalentemente innatista, che sembra
anch’esso insufficiente per garantire il processo della conoscenza. Ad esempio il classico sillogismo:
“Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale” è certamente un ragionamento
valido ma che, avendo una premessa implicita, diventa superfluo e si riduce a diventare un’ovvietà.
Tirando le somme da una parte il ragionamento empirista è “ prigionerio” dei dati empirici e quindi
non dà garanzie di validità universale, dall’altro il ragionamento innatista, muovendosi entro sé stesso
e non avendo alcun rapporto con la realtà, non sembra in grado di ampliare il nostro sapere sulle cose.
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Assaggi di Filosofia
Platone
In conclusione a mio parere la conoscenza, si fonda sulla “ collaborazione” tra ragione ed esperienza,
entrambe indispensabili ed entrambe insufficienti se utilizzate da sole.
Bibliografia:
1. Da N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia,
vol. 2A, ed. Paravia
2. J. Locke Op. cit., I, III, §20
3. J. Locke Op. cit., I, cap. I
4. N. Abbagnano, e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia,
vol. 1A, ed. Paravia
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Assaggi di Filosofia
Platone
L’INNATISMO PLATONICO.
Di Valeria Speranza
Un quesito che ha sempre crucciato l'uomo è quello di come si fa a sapere, a conoscere. I sofisti
sostenevano che non si può imparare perché o già una cosa la si conosce o non la si conosce: nel
secondo caso è impossibile trovare una cosa che non si sa cosa sia, come sia fatta. Socrate stesso aveva
detto che non si poteva insegnare, ma solo imparare tramite la maieutica, la tecnica con la quale faceva
“partorire” le anime. Questo tema Platone lo affronta soprattutto nel "Menone". Ancora una volta
Platone assume una posizione intermedia, servendosi in parte delle affermazioni dei sofisti: se è vero
quel che dicono i sofisti e in particolare uno dei loro più grandi esponenti, Gorgia, (cioè che non si può
imparare e quindi neanche insegnare), si può solo ricordare: una cosa che ci siamo dimenticati e ci
torna in mente, non possiamo dire di conoscerla ma neanche di non conoscerla. Dunque per Platone il
processo attraverso il quale si impara e si conosce è puramente di rammemorazione (in greco
“anamnesis”). L'unico modo di considerare il sapere come "ricordare" è quello di fare una ipotesi
piuttosto strana (ragionare per ipotesi significa vedere quale è la condizione che bisogna ammettere
perché si verifichi un determinato fatto): l'unica ipotesi per Platone valida è quella della preesistenza
dell'anima. Il “Fedone” è un dialogo giovanile di Platone, ed è un'opera che si può in qualche misura
affiancare al “Menone” perché Platone anche qui si sofferma a lungo sull'”anamnesis” , la
reminiscenza. Anche nel "Fedone" , dialogo ambientato nel periodo dopo la condanna e prima della sua
morte , Socrate parla con due Pitagorici ( Fedone e Echecrate ) a riguardo della preesistenza dell'anima:
egli li porta a capire la questione servendosi di esempi. Infatti tira in ballo la scienza dell'uomo e quella
della lira, che sono evidentemente diverse tra loro; Socrate afferma che agli innamorati, nel momento
in cui vedono una lira o un vestito che il loro amato è solito usare, succede quanto segue, ovvero
riconoscono la lira e nel pensiero colgono l'idea del ragazzo a cui appartiene la lira. La reminiscenza
consiste proprio in questo, riuscire a ricordarsi cose tramite vari "agganci", aspetti che stimolano il
ricordo. Nel "Menone" Socrate parla con uno schiavo privo di cultura e gli pone una serie di domande
mirate e legate al teorema di Pitagora; chiaramente lo schiavo non lo conosce, ma Socrate ponendogli
solo domande specifiche lo porta alla soluzione. Questo è un tipico caso di maieutica. L'unica
spiegazione possibile è che lo schiavo si ricordi di un qualcosa che già conosceva, ma aveva
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Assaggi di Filosofia
Platone
dimenticato; dato che non l'ha conosciuto nell'attuale vita significa che l'ha conosciuto in un'altra
dimensione ( l'altopiano dell'iperuranio). Tale dimenticanza è legata al momento dell'incarnazione:
nella sua vita terrena l'uomo può avere momenti in cui ricorda. L'apprendimento è quindi interpretato
come il recupero di conoscenze acquisite dall'anima prima di incarnarsi in un corpo, ma dimenticate al
momento della nascita e rimaste latenti in essa. Si definisce giustamente Platone "INNATISTA",
perché sostiene che quando nasciamo sono già presenti in noi alcuni elementi di conoscenza. Lo
schiavo il teorema ce l'aveva già nella sua mente, si trattava solo di ricordarglielo. Quali sono dunque le
vie per ricordare? Un modo, come nel “Menone”, è avere qualcuno che ci aiuti (Socrate), un altro (più
impegnativo) è usare bene la propria esperienza (come nel caso di Pitagora , che per primo si ricordò
con la sua esperienza del teorema che gli viene attribuito: in realtà lui non l'ha inventato,
se l’è solo
ricordato per primo).
“«Beh, è proprio possibile». «Quindi, in base a tutto questo, non consegue forse che c’è reminiscenza
in certi casi a partire da simili, in altri da dissimili?» «Ne consegue». «Ma, ecco, quando qualcuno si
rammenta di qualcosa a partire da simili, non è forse necessario che patisca appresso anche questo:
che rifletta se questo difetti di qualcosa in somiglianza con ciò di cui si è rammentato oppure no?» «Di
necessità», disse. «Esamina dunque», disse poi lui, «se queste cose stanno così. Diciamo qui che
l’eguale è? Parlo non di legno a legno né di pietra a pietra né di alcuno di tali enti, ma di altro rispetto
a tutti loro: dell’eguale in sé. Dobbiamo dire che è qualcosa o niente?» «Toh, a sorpresa dobbiamo
dire che è qualcosa sì, per Giove!», disse Simmia. «Conosciamo anche stabilmente che cosa esso è?»
«Assolutamente sì», disse poi lui. «Donde assumendo conoscenza stabile di esso? Non forse da ciò che
or ora dicevamo, vedendo legni o pietre o altri enti che sono eguali, a partire dai quali abbiamo
riflettuto su quel che è altro da loro? O ti pare non sia altro? Esamina dunque anche questo punto:
legni e pietre eguali talvolta non paiono forse eguali a uno e a un altro no, pur essendo gli stessi?»
«Assolutamente». «E dunque? Ti è talvolta parso che gli eguali in sé siano ineguali o che
l’eguaglianza sia ineguaglianza?» «Giammai, Socrate». «Allora non sono lo stesso», disse poi lui,
«questi enti: gli enti eguali e l’uguale in sé». «In nessun modo, mi pare, Socrate». «Peraltro, a partire
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Assaggi di Filosofia
Platone
da questi eguali», disse, «che pur sono altri da quell’eguale, hai insieme riflettuto e hai colto la
conoscenza stabile di esso» «Dici cose verissime», disse. «Che quindi è simile o dissimile da essi, no?»
«Assolutamente sì». «Ma non fa proprio nessuna differenza», disse poi lui, «fintantoché, veduto
qualcosa, a partire da questa visione rifletti su altro, sia poi simile o dissimile è lo stesso, è
necessario», disse, «che si generi reminiscenza». «Assolutamente». «E dunque?», disse poi lui,
«patiamo forse qualcosa di tale e quale rispetto agli eguali nei legni e in ciò di cui or ora parlavamo?
Ci pare forse siano eguali così come lo è l’eguale in sé o sono indigenti in qualcosa di esso, nell’essere
tali e quali all’eguale? O non sono indigenti in nulla?» «Eh sì, sono piuttosto indigenti», disse.
«Quindi non concordiamo forse? Quando qualcuno che vede qualcosa riflette così: “Questo che ora io
guardo vuole essere quale un altro degli enti, però è indigente e non può essere tale e quale a quello
ma è inferiore”, è necessario forse che a chi riflette su questo sia accaduto di aver visto primo quello a
cui dice che esso rassomiglia pur avendo indigenza rispetto a quello?» «È così». «Ma anche su questo
concordiamo: non viene da altro questo stesso riflettere né è possibile che ci sia questo riflettere se
non dal vedere o dal toccare o da qualche altra tra le sensazioni; dico dunque che tutte loro son lo
stesso» «Sono lo stesso, Socrate, relativamente a ciò che vuol chiarire l’argomento». «Ma, or dunque,
a partire dalle sensazioni si deve riflettere sul fatto che tutto ciò che è nelle sensazioni si dirige verso
quello che è l’eguale, anche se sono indigenti rispetto ad esso; oppure come possiamo argomentare?»
«Così». «Allora, prima che iniziassimo a vedere e ad udire e ad avere le altre sensazioni bisogna che
ci fosse accaduto di già di cogliere la conoscenza stabile di ciò che è l’eguale in sé, se in futuro vi
avremmo riferito gli eguali derivati dalle sensazioni, perché tutte aspirano ad essere tali e quali a
quello, benché gli siano inferiori». «Segue di necessità da ciò che si è detto prima, Socrate». «Ebbene,
appena nati, forse non vedevamo e udivamo e avevamo le altre sensazioni?» «Assolutamente sì».
«Bisognava dunque, diciamo, che già prima di esse avessimo colto la conoscenza stabile dell’eguale,
sì?» «Sì». «Prima di nascere allora, come si vede, è necessario che noi l’avessimo colta». «Si vede di
sì».
(Fedone, 74a- 75c).
Tesi:
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Assaggi di Filosofia
Platone
Come già ampiamente spiegato nell’introduzione, Platone sostiene che la conoscenza è data dalla
reminiscenza. Quindi, per Platone, i nostri comportamenti sono dettati dall’innatismo, nel senso che
l’uomo (intendendo per «uomo» l’essere umano maschile, perché l’incarnazione in una donna è
considerata una punizione dell’anima; cfr. “Timeo” 42 b) dispone già di tutti i concetti prima
dell’esperienza terrena. «Poiché l’anima – si legge nel “Menone” (81 c) – è immortale ed è nata molte
volte e ha visto ogni cosa, sia qui che nell’Ade, non c’è niente che essa non abbia appreso: sicché non
fa meraviglia che possa ricordare, sia intorno alla virtù, sia intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva».
Le idee, quindi, non derivano dall’esperienza, ma costituiscono l’oggetto di una pura “visione della
mente”. L’esperienza sensibile è invece una “visione del corpo”, che delle idee offre una “copia”
imperfetta e sbiadita, fungendo solo da occasione e da stimolo perché l’uomo possa ricordare, ovvero
attingere nell’interiorità della propria anima i “paradigmi” delle cose, vale a dire le loro forme
immateriali. Un esempio pratico è che quando guardiamo con “gli occhi del corpo” osserviamo degli
altri uomini, ad esempio, il loro aspetto fisico, la loro pluralità e mutevolezza; quando invece
osserviamo con “gli occhi della mente”, cogliamo il loro essere tutti uomini in quanto tali, la loro
comune essenza unica. Ecco perché la verità, per Platone, non è attestata dai sensi, ma consiste nella
visione dell’essere intelligibile e incorporeo, che si coglie solo con la ragione (lògos) e nella misura in
cui essa è capace di liberarsi dai sensi:
“-[…]E dunque non è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che si rivela all’anima la
verità?-Sì.
-E l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di tali
sensazioni, né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa
dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso,
intende[leggi:tende] con ogni suo sforzo alla verità. -E’ cos.
-[…] orbene, di codeste cose[le idee] ne hai tu veduta mai alcuna con gli occhi?- Affatto, rispose.
– E con altro senso del corpo sei riuscito mai a percepirle? Bada, io intendo dire di tutte le cose, per
esempio, della grandezza, della sanità, della forza e, in una parola, di tutte quante nella loro realtà
ultima, cioè, che cosa sia realmente ciascuna di esse; e domando: si scopre in esse coi sensi del corpo
la verità assoluta, o invece è così, che solo chi di noi più intensamente e più acutamente si appresti a
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Assaggi di Filosofia
Platone
penetrare col pensiero ogni oggetto di cui faccia ricerca nella sua intima realtà, solo costui andrà più
vicino di ogni altro alla conoscenza di codesto oggetto? – Precisamente.
– Potrà dunque far questo con purità perfetta chi massimamente si adopri di avvicinarsi a ciascun
oggetto col suo solo pensiero, senza né aiutarsi, nel suo meditare, della vista, né trarsi dietro alcun
altro senso insieme col suo raziocinio; bensì cerchi, valendosi esclusivamente del suo pensiero in se
stesso, mondo da ogni impurità, di rintracciare esclusivamente in se stesso, mondo da ogni impurità,
ogni oggetto, astraendo, per quanto può, e da occhi e da orecchi e insomma da tutto il corpo, come
quello che perturba l’anima e non le permette di acquistare verità e intelligenza quando abbia
comunanza con esso.”
(Fedone, 65c-66a).
Antitesi:
La tesi platonica riguardo l’innatismo, però, è da alcuni considerata errata; primo fra tutti da Aristotele.
Infatti la concezione secondo la quale la conoscenza deriva e non può prescindere dall’esperienza
sensibile trova la sua prima formulazione filosofica nell’empirismo di Aristotele, il quale ritiene che,
prima dell’esperienza, la nostra mente sia “tabula rasa”. Le idee, quindi, non sono innate e non
esistono separatamente dalle cose, ma sono prodotte dall’intelletto a partire dai dati empirici e mediante
un procedimento di astrazione. Per Aristotele, in realtà, sono innate solo le facoltà conoscitive, come ad
esempio la vista. La vista, infatti, è una capacità innata del nostro corpo: oggetti visibili (in potenza)
diventano visti (in atto, cioè effettivamente presenti al nostro organo di senso) solo in presenza di
determinate condizioni di luce, quindi il fatto che “possiamo vederli” non significa che preesistono
nella nostra mente. Solo, quindi, tramite le facoltà conoscitive e l’intelligenza( l’”intelletto”),cioè la
capacità di conoscere le pure forme intellegibili delle cose, le quali “possono” essere pensate, ma non
sono ancora effettivamente presenti nella nostra mente, possiamo sapere e conoscere, e non più
limitarci a “riconoscere”.
“Quella parte dell’anima che chiamiamo intelletto (e dico intelletto ciò per cui l’anima pensa e
concepisce) non è in atto nessuna delle cose prima di pensarle. […] Hanno ragione quindi quelli [cioè
Platone e i platonici] che sostengono che l’anima è il luogo delle forme, solo che […] non si tratta di
forme in atto, ma in potenza […: in qualche modo, infatti, l’intelletto è in potenza gli intellegibili, ma
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Assaggi di Filosofia
Platone
in atto nessuno prima di pensarli. Deve essere di esso come di una tavoletta in cui non c’è scritto
niente attualmente […].
(Sull’anima, III, 429a 25, 429b 30).
Smentita dell’antitesi:
Per smentire l’antitesi, è utile riproporre un passo del “Fedone”:
“-[…] Dunque, prima che noi cominciassimo a vedere e a udire e insomma a far uso degli altri sensi,
bisognava pure che già ci trovassimo in possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che cosa
realmente esso è, se poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, riportarli a quello, e
pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello, mentre poi gli rimangono al di
sotto.
-Da quello che s’è detto, o Socrate, bisogna concludere così.”
(Fedone, 75b).
Platone, quindi, evidenzia i limiti della concezione empiristica della conoscenza sulla base di
un’efficace argomentazione: gli empiristi sostengono che la nozione generale di “uguaglianza” si
costruisce per via induttiva o astrattiva a partire dall’osservazione di più oggetti che i nostri sensi
percepiscono come uguali; in realtà, obietta Platone, in natura non esistono due cose perfettamente
uguali, né l’uguaglianza una “cosa” che percepiamo; pertanto l’” uguale in sé”, ovvero l’idea
dell’uguaglianza quale criterio di valutazione, deve essere innata, cioè anteriore all’esperienza. Rispetto
al percorso del processo conoscitivo tracciato dagli empiristi, quello delineato da Platone segue dunque
la direzione opposta: solo dal momento che possediamo, prima di ogni esperienza possibile, la nozione
di “uguaglianza”, possiamo giudicare le cose come uguali.
BIBLIOGRAFIA:
-Platone: “Il Menone” a cura di Francesco Adorno- Laterza.
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Assaggi di Filosofia
Platone
-Platone: "Il Fedone" a cura di Gaetano Capone Braga - La Nuova Italia.
-Platone: “Timeo” a cura di Michele Sciacca- Mondadori.
-Aristotele: “Sull’anima” a cura di Giancarlo Movia- Bompiani.
-Nicola Abbagnano/ Giovanni Fornero :"Protagonisti e testi della filosofia" vol. 1° - Paravia.
-Enciclopedia Treccani.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Come condizionano la conoscenza le idee innate?
Di Sara La Torraca
Già Socrate riteneva che la filosofia fosse una continua ricerca della verità (alétheia) e che, per
raggiungere quest’ultima, l’uomo aveva bisogno della virtù (areté, secondo i Greci la maniera ottimale
di essere uomini), intesa come scienza; dunque, secondo Socrate, la virtù era conoscenza, una forma di
sapere, il fine ultimo della vita dell’uomo. Solo dopo aver ottenuto faticosamente tale scienza si poteva
accedere infine alla verità. Successivamente anche il suo allievo Platone concepirà un’idea di filosofia
come «ricerca inesauribile e mai conclusa, ossia un infinito sforzo verso una verità che l’uomo non
possiede mai totalmente»15.
Ma quale sarà per quest’ultimo l’oggetto della conoscenza che porterà poi alla verità assoluta?
Platone infatti si dedicherà ad approfondire il concetto di scienza (epistéme, sophía) chiedendosi quale
sia l’oggetto proprio di quest’ultima: «qual è la realtà fotografata dal sapere?»16. È proprio a partire da
questa domanda che egli inizia a sviluppare la teoria che segnerà il definitivo distacco dalla dottrina
socratica, la cosiddetta teoria delle idee.
Le idee, secondo il filosofo, rappresentano «entità immutabili e perfette»17 e si trovano in una zona
d’essere chiamata iperuranio, che significa “al di là del cielo”. Invece le cose, presenti nel nostro
mondo, non sono altro che copie delle idee originali, quindi semplici imitazioni imperfette. «L’idea
platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo»18.
Dunque le cose rappresentano la conoscenza sensibile, l’opinione (dóxa), dato che sono mutevoli e
imperfette, al contrario le idee costituiscono la conoscenza razionale, essendo immutabili e perfette. Si
vanno a creare dunque due gradi di conoscenza, l’opinione e la scienza (dualismo gnoseologico), e due
tipi d’essere, le cose e le idee (dualismo ontologico); si può dire in conclusione che la filosofia
platonica può essere considerata come un tentativo di sintesi fra l’eraclitismo e l’eleatismo. «Da
Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il regno della mutevolezza, mentre da
Parmenide trae il concetto secondo cui l’essere è autentico ed immutabile»19, l’idea platonica infatti
rispecchia in pieno i caratteri dell’essere parmenideo.
Dopo aver compreso il concetto di idea, dobbiamo adesso soffermarci sulle tipologie secondo cui
Platone le ha classificate, le categorie fondamentali sono:
-
idee-valori, che corrispondono ai supremi principi etici, estetici e politici. Per esempio il Bene,
la Bellezza, la Giustizia ecc..
idee-matematiche, corrispondenti alle entità dell’aritmetica e della geometria, poiché, per
esempio, nella realtà non possiamo ritrovare il quadrato perfetto.
idee di cose naturali (es. l’umanità), idee di cose artificiali (es. il letto).
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Assaggi di Filosofia
Platone
Le idee, inoltre, sono caratterizzate da una gerarchia piramidale al cui vertice vi è l’idea del Bene,
seguita dalle idee-valori. Il Bene infatti è il supremo valore e la perfezione massima di cui le idee sono
partecipi.
Come si è già detto a proposito del dualismo ontologico, fra le idee e le cose vi è un legame: l’idea può
essere considerata infatti come “modello” delle cose presenti nella realtà e verranno in seguito definite
da Platone “essenze archetipe” delle cose. Il termine “archetipo” deriva dal greco archétypon, cioè
“primo tipo” e designa ciò che per Platone era il “paradigma”, «ossia l’idea in quanto modello
primordiale delle cose»20. In ultima analisi le cose imitano le idee (mimesi), le cose partecipano
dell’essenza delle idee (metessi), le idee sono presenti nelle cose (parusia); tuttavia per il filosofo la
questione del rapporto idee-cose ha sempre costituito un problema almeno fino alla sua vecchiaia. Solo
quando il filosofo introdurrà una terza figura, quella del Demiurgo, si riuscirà a delineare, pur sempre
in maniera incerta, il rapporto idee-cose. Il Demiurgo (dal gr. demiourgós, “artefice”, “artigiano”) non
è altro che una sorta di divino artefice, che plasma il mondo a somiglianza delle idee.
Come si è detto precedentemente il compito del filosofo, secondo Platone, è quello di ricercare la verità
e quindi di aspirare al raggiungimento della stessa; per fare ciò, però, è necessario innanzi tutto
distaccarsi il più possibile dal mondo sensibile (costituito dalle cose e dunque mera opinione) per
giungere gradualmente al grado massimo della conoscenza (le idee e cioè la perfezione che non si
conquisterà mai pienamente).
Ma in che modo si possono conoscere le idee? In che modo l’uomo può accedere ad esse?
Proprio per risolvere questo problema il filosofo ricorre alla dottrina-mito dell’anamnesi o
reminescenza (più semplicemente “ricordo”): l’anima prima di incarnarsi nel nostro corpo, sarebbe
vissuta nel mondo delle idee, dove avrebbe potuto contemplare e assimilare gli esemplari perfetti delle
cose. Quando l’anima entra in contatto con il nostro mondo, conserva dentro di sé solo un ricordo di
quello che ha veduto nell’iperuranio, come dice Platone «conoscere è ricordare». Bisogna pertanto
«scoprire una realtà che si possedeva già», poiché «la teoria della reminescenza [...] è una teoria
stimolante; è per questa che “noi dobbiamo essere coraggiosi e dobbiamo sforzarci di ritrovare la
memoria di ciò di cui abbiamo perso il ricordo” [...] La reminescenza è il primo segno di autonomia
dello spirito nella ricerca»21. L’uomo possiede un ricordo della verità, non possiede una verità
completa, né si trova in una situazione di ignoranza totale, ma parte da una condizione di “preconoscenza”, un’ «ignoranza gravida di sapere»22, da cui bisogna ricavare la vera conoscenza. Alla
reminescenza delle idee si collega molto strettamente,nelMenone, la possibilità di possedere delle
opinioni giuste senza essere capaci di giustificarle, sarebbe a dire, senza avere la scienza 23. La
gnoseologia platonica può essere considerata una forma di innatismo, in quanto la conoscenza non
deriva dall’esperienza sensibile (empirismo), ma da quella razionale (razionalismo), ma di questo
parleremo in seguito.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Inoltre la teoria della reminescenza implica l’affermazione dell’immortalità dell’anima (che diviene
così una condizione della scienza), di cui Platone aveva già parlato nei precedenti dialoghi, ma solo
successivamente, nel Fedro, il filosofo parlerà del modo in cui «l’anima ha acquisito, prima di entrare
nel corpo, la conoscenza delle realtà di cui ritroverà il ricordo durante la vita terrestre»24.
Per ritornare all’argomento principale, la conoscenza, bisogna prima chiarire il pensiero platonico
riguardante l’educazione. Innanzi tutto secondo Platone l’educazione al sapere e alla virtù consiste
nell’educazione alla filosofia, ma solo pochi individui, forse predestinati, possono accedere a tale
sapere.
Platone infatti divide la società in tre classi: quella dei governanti, quella dei guerrieri e quella dei
lavoratori; ad ognuna di queste corrisponde una virtù: la saggezza per la prima, il coraggio per la
seconda e la temperanza per la terza. Ma l’educazione alla filosofia non riguarda tutti questi individui,
ma solo quelli delle prime due classi, infatti «il sapere è una prerogativa delle classi superiori»25. La
figura del filosofo ha il compito di educare non solo le prime due classi, ma anche sé stesso, egli è
«colui che ama la conoscenza nella sua totalità»26 e solo tramite la ricerca può scalare i gradini della
conoscenza e cercare di raggiungere la somma verità.
Ma allora quali sono i gradi della conoscenza?
Vi sono quattro gradi della conoscenza, a cui corrispondono quattro gradi della realtà.
La conoscenza sensibile (dóxa, opinione), racchiude in se il nostro mondo mutevole e imperfetto e
comprende a sua volta:
-
la congettura: ombre o immagini delle cose.
la credenza: cose sensibili e percepibili chiaramente.
La conoscenza razionale (epistéme, scienza), racchiude in se il mondo immutabile e perfetto delle idee
e comprende a sua volta:
-
la ragione matematica: idee matematiche (conoscenza dianoetica)
l’intelligenza filosofica: idee-valori (conoscenza noetica)
Platone espose la sua teoria della conoscenza e dell’educazione attraverso uno dei suoi miti più famosi:
il Mito della Caverna (cfr. Repubblica, VII, 514-518). Tale mito narra di alcuni schiavi incatenati in
una caverna, costretti a guardare solo davanti a sé. Alle loro spalle vi è un muro dietro al quale degli
uomini muovono delle statuette, le cui ombre vengono proiettate sul fondo della caverna grazie
all’ausilio di un fuoco. I prigionieri vivono nell’illusione, poiché scambiano tali ombre per la realtà.
Solo uno di essi riuscirà a liberarsi e a capire che la vera realtà è costituita dalle statuette. Tuttavia, una
volta uscito dalla caverna, egli scopre che la realtà non è costituita dalle statuette, poiché sono
anch’esse imitazioni di cose reali. L’uomo, mentre è all’esterno della caverna, cercherà dapprima di
guardare gli oggetti attraverso il loro riflesso in uno specchio d’acqua (poiché la luce del sole lo
abbaglierebbe), in seguito riuscirà ad osservare direttamente le cose e solo il giorno dopo sarà in grado
di scrutare direttamente il sole. Egli, però, vuole rendere anche i suoi compagni partecipi della
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Assaggi di Filosofia
Platone
straordinaria scoperta, ma una volta tornato nella caverna, non essendo più abituato all’oscurità e non
essendo più in grado di distinguere le ombre, viene deriso. Infine l’uomo tenta di convincere gli altri
schiavi ad uscire dalla caverna e questi ultimi, infastiditi, lo uccidono.
Questo mito è ricco di simbologia e in esso è racchiuso il concetto del dualismo gnoseologico e
ontologico di cui si parla nella teoria delle idee. La caverna oscura = il nostro mondo, le ombre delle
statuette = la congettura, le statuette = la credenza, la liberazione dello schiavo = l’azione della
conoscenza e della filosofia, il mondo esterno = le idee, il riflesso nell’acqua = le idee matematiche, il
sole = l’idea del Bene, lo schiavo che ritorna nella caverna = il compito del filosofo di educare gli altri,
l’uccisione del filosofo = la sorte toccata a Socrate, prima deriso dalla società troppo vincolata ai
pregiudizi.
Adesso, una volta chiarito il concetto di conoscenza secondo la filosofia platonica, bisogna ritornare a
quello di innatismo, poiché tutto ciò che l’uomo “riconosce” nel mondo sensibile è dovuto a tale stato,
a tale condizione anteriore all’esperienza. Nella concezione platonica le idee sono una “visione della
mente”, contrariamente le cose sensibili sono una “visione del corpo”, fungono da stimolo affinché
l’uomo possa ricordare le idee archetipe delle cose. Per esempio quando noi vediamo un cane, di
qualsiasi razza esso sia, tramite una “visione del corpo” noi ci ricordiamo del suo archetipo, cioè del
suo “vero essere”, che appartiene all’insieme dei “cani”. La verità per Platone non è data dai sensi,
pertanto «consiste nella visione dell’essere intellegibile e incorporeo, che si coglie solo con la ragione
(lógos)»27.
In opposizione a questa dottrina filosofica abbiamo la corrente di pensiero empirica. Uno dei primi
empiristi è stato il filosofo greco Aristotele (Stagira, Macedonia, 384 – Calcide, Eubea, 322 a.C).
Secondo la sua concezione solo le nostre facoltà conoscitive sono innate. Prima dell’esperienza
l’individuo è tabula rasa, per esempio ha la facoltà di vedere oggetti visibili (potenza), ma tali oggetti
diventano visti (atto) solo grazie al dato sensibile: essi non preesistono nella nostra anima. Un archetipo
di una cosa non è già presente dentro di noi al momento della nascita, ma si acquisisce con
l’esperienza, vale a dire con un processo induttivo. Aristotele non reputa le idee enti “trascendenti” o
“separati”, in quanto «forme indissolubilmente legate alla materia, esse sono piuttosto immanenti alle
cose e contenute “in potenza” nelle sensazioni»28, esse sono separabili dall’intelletto che le ricava dai
dati empirici. Il filosofo definisce questo processo come “immaginazione”, l’individuo evoca
l’immagine (phantasma) delle cose percepite sensibilmente, per poi eliminare le caratteristiche della
cosa che non ritiene “essenziali” (riprendendo l’esempio del cane, il colore del pelo, la grandezza, etc.),
per poi arrivare ad un’unica forma intellegibile.
Un altro famoso empirista dell’antichità è Epicuro (Samo, 341 – 270 a.c), egli essendo un filosofo
materialista, riprende in parte la dottrina di Democrito: crede che la realtà sia formata da atomi in
movimento e questi ultimi, combinandosi fra loro, formano le cose del mondo. La sua convinzione
infatti è che la realtà è solo materia e non necessita di alcun intervento divino. A differenza di Platone,
per Epicuro la stessa anima è materiale e immortale, poiché costituita da atomi sottili: «se l’anima fosse
incorporea non potrebbe essere né attiva né passiva, ciò che contrasta con l’esperienza; infine
72
Assaggi di Filosofia
Platone
l’anima, pur essendo dotata di ragione e di libertà, non può superare l’ambito empirico»29. Ma anche
epicuro si è espresso riguardo alla questione della “ricerca della verità”: «La logica epicurea riconosce
tre mezzi per arrivare non tanto alla verità, quanto alla saggezza: le sensazioni, l’anticipazione e i
sentimenti; fondamentale è la sensibilità, con cui si può arrivare all’evidenza; gli éidola o immagini
(materiali) si staccano dalle cose e sono causa delle sensazioni»30.
Tuttavia il conflitto tra innatismo ed empirismo ha caratterizzato il pensiero di molti filosofi dei secoli a
venire.
Tra gli esponenti dell’innatismo successivi a Platone abbiamo il filosofo pagano Plotino (Licopoli,
203/205 – Minturno, 270 d.C) e il cristiano Sant’Agostino (Tagaste, 354 – Ippona, 430), i quali
ripresero le sue teorie senza modificarle ulteriormente. Nel diciassettesimo secolo ricordiamo Gottfried
Wilhelm von Leibniz (1646-1716) che , nei NouveauxEssaissur l’Entendementhumain, corresse
l’empirista Locke, aggiungendo alla massima «nihil est in intellectuquodprius non fuerit in sensu»31
(«Nulla è nell’intelletto che non fu già nei sensi») «excipe: nisiintellectus ipse» («fatta eccezione per
l’intelletto stesso»).32 Ciò sta a significare che non vi è nulla nella mente prima della nascita, e quindi
dell’esperienza sensibile, se non la mente stessa, con le sue strutture e categorie, che includono vari
concetti molto generali, formali, quali spazio, tempo, oggetto, ecc. Leibniz affermò che nella mente
sono presenti tutte le idee, sia intelligibili che sensibili (“innatismo totale”), ma non tutte in modo
cosciente, chiaro e distinto (“innatismo virtuale”). Come in un blocco di marmo, nel quale delle
venature già predispongono il disegno della futura statua che sarà scolpita, così le idee presenti nella
mente fin dalla nascita, a contatto con il mondo esterno, vengono portate alla coscienza del soggetto.
Infine al giorno d’oggi il linguista e filosofo Noam Chomsky (Filadelfia, 1928), grazie ad alcune analisi
linguistiche ha teorizzato la probabile esistenza di strutture grammaticali innate, presenti nel cervello
già alla nascita (e.g. nell’area di Broca), grazie alle quali i bambini acquisiscono una (o più) lingue con
maggiore rapidità di quanto sarebbe possibile senza queste strutture innate.
Invece fra gli avversari dell’innatismo abbiamo il già citato John Locke (Wrington, 1632 – Oates,
1704), il quale, nel suo Saggio sull’intelletto umano si è schierato a favore della polemica anti
innatistica e contro le idee innate del filosofo francese razionalista Cartesio (La Haye, 1596 –
Stoccolma 1650), esponendo tali tesi: «l’intelletto umano prima dell’esperienza è una tabula rasa,
anche se questo non significa che esso non sia dotato di attitudini particolari e di specifiche
potenzialità; tutte le conoscenze umane derivano dall’esperienza, esterna (sensazione) e interna
(riflessione)»33. In seguito la posizione di Locke sarà radicalizzata da David Hume, filosofo scozzese
(Edimburgo 1711-1776) che porterà l’empirismo alle sue estreme conseguenze.
La soluzione all’annoso problema del conflitto tra empirismo e innatismo la darà in modo definitivo
Immanuel Kant, filosofo tedesco del diciottesimo secolo: la materia della conoscenza deriva
dall’esperienza, ma la forma della conoscenza è a priori. Kant mutua quindi da Leibniz l’istanza
innatistica, pur depurandola. Dunque dal soggetto deriviamo le forme della conoscenza, dai sensi
73
Assaggi di Filosofia
Platone
deriviamo invece i contenuti. Si ha così una “sintesi a priori”, espressione che per Kant designa
l’attività dell’intelletto, il quale sulla base delle sue leggi (categorie), unifica il molteplice fornito
dall’esperienza entro le forme pure della sensibilità (funzioni conoscitive dello spazio e tempo).
In conclusione si può dire che per Platone la conoscenza consiste nelle idee, per gli empiristi la
conoscenza sta nei dati sensibili, o più semplicemente nelle cose. Allora, come porre fine a questo
immenso conflitto? Nell’interpretazione kantiana le idee non sono altro che strutture mentali attraverso
le quali il nostro intelletto è in grado di riorganizzare e di interpretare i dati forniteci dalla conoscenza
sensibile, dunque i due concetti potrebbero essere legati fra di loro. L’esperienza da sola non basta,
poiché senza l’innatismo, che avvicina l’uomo alla conoscenza, non servirebbe a nulla; viceversa, se
l’individuo non è stimolato dalle esperienze, a cosa servirebbe allora questa potenzialità innata che
porta al sapere? Pertanto queste due correnti di pensiero si dovrebbero conciliare definitivamente,
essendo entrambe indispensabili per delineare aspetti distinti della gnoseologia.
BIBLIOGRAFIA
ABBAGNANO, N. – FORNERO, G., La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, vol.
1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014.
BRÉHIER, ÉMILE, Histoire de la philosophie, Paris, 2004.
Dizionario di filosofia. Gli autori, le correnti, i concetti, le opere, Milano, BUR, 1985.
NOTE
1
ABBAGNANO, N. – FORNERO, G., La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia,
vol.1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014; p. 191.
1
IVI, p. 205.
1
IVI.
1
IVI.
1
IVI, p. 206.
1
IVI, p. 218.
1
BRÉHIER, ÉMILE, Histoire de la philosophie, Paris, 2004; p. 106.
1
ABBAGNANO, p. 210.
1
BRÉHIER, p. 106.
1
IVI.
1
ABBAGNANO, p. 228.
1
IVI.
1
ABBAGNANO, p. 410.
1
ABBAGNANO, p. 411.
1
Dizionario di filosofia. Gli autori, le correnti, i concetti, le opere, Milano, BUR, 1985; p. 138.
1
IVI, p. 139.
1
J. LOCKE, An Essay concerning Human Understanding, lib. II, cap. 1, § 5.
74
Assaggi di Filosofia
1
1
Platone
G. W. VON LEIBNIZ, Nouveaux Essaissurl’Entendementhumain, lib. II, cap. 1, § 6.
Dizionario…, p. 262.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Platone e la seconda navigazione
diDaniil D’Alessio
Platone, di origine aristocratica, fu allievo di Socrate; inizialmente si dedicò alla vita politica, che
decise poi di abbandonare a causa di diversi avvenimenti, tra cui la condanna a morte di Socrate.
Come il proprio maestro, Platone sostiene che la scrittura debba avere solo funzione ipomnematica,
ovvero di far ricordare delle nozioni o un dialogo già avvenuto e poi trascritto. La scrittura è infatti
condannata, perché non è una "ricetta" per la memoria, ma serve solo per richiamare alla mente, non dà
la vera sapienza, ma solo la presunzione di sapere, inoltre ha sempre bisogno di un padre per spiegare
ciò che è scritto, se si pone una domanda lo scritto manifesta sempre la stessa risposta ed infine può
giungere nella mani di chiunque. L'oralità, invece, è l' unico mezzo per raggiungere la verità, che viene
estrapolata attraverso i dialoghi: i dialoghi trascritti sono ideali e costituiscono l' unico mezzo per
descrivere al pubblico il senso della filosofia.
Nonostante la filosofia sia nata con l' avvento del razionale ed il rifiuto del mito, Platone fa uso del
mito anche per meglio spiegare concetti incomprensibili alle persone, per poter parlare di realtà che
superano la dimensione razionale e che non possono essere spiegate oggettivamente.
Il motivo più importante per cui Platone viene ricordato è l' introduzione della metafisica, il termine,
coniato successivamente da Andronico da Rodi, deriva dal greco metà tàfusicà e significa "oltre le cose
sensibili", coglibili con i sensi; altri sinonimi della parola sono ultrasensibile, ultraterreno, soprafisico,
soprasensibile ed intelligibile. Si ebbero numerosi vantaggi grazie all' introduzione della metafisica e
tutti i filosofi posteriori a Platone si confrontarono con lui, chiedendosi se esistesse veramente la realtà
soprasensibile. Platone opera un paragone: come in passato i marinai avevano usato soltanto le vele ed
il vento per navigare, così i filosofi a lui antecedenti avevano considerato solo il mondo sensibile, non
potendo, così, andare troppo lontano. Con la metafisica, invece, egli aveva intraprende la seconda
navigazione, quella più sicura, che gli avrebbe permesso di fare maggiori scoperte e di andare più
lontano, esattamente come i marinai che usufruivano oltre che del vento, anche dei remi.
Il soprasensibile nella filosofia platonica può essere innanzitutto individuato nella causa del mondo
sensibile. Platone, infatti, sostiene che il principio del mondo, l'archè, debba essere trascendente e non
immanente al mondo stesso, non deve cioè fare parte del mondo sensibile. Il mondo in cui viviamo è
mutevole e sensibile, quindi la causa di esso ha caratteristiche opposte, è immutabile e non percepibile
con i sensi, ma unicamente per mezzo della conoscenza. Il mondo sensibile è una riproduzione del
mondo ideale compiuta da Demiurgo, una figura mitica, il quale vuole mettervi ordine imprimendovi la
forma del mondo ideale. Ma la copia è mal riuscita, poiché, come già affermato, ha caratteristiche
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Assaggi di Filosofia
Platone
opposte al mondo ultrasensibile. Il mondo ideale è quindi la causa di quello sensibile ed i rapporti che
intercorrono sono mimesi34, metessi35 e parusia36.
Il mondo soprasensibile, il quale è perfetto, intelligibile e immutabile, è composto da idee; il termine
non ha il valore odierno, che acquisì solo nel 1630 con Cartesio; non indica un concetto, ma deriva dal
termine greco eidos, che significa forma, modello, paradigma e causa del mondo sensibile. Le idee
sono presenti nell' iperuranio, "luogo non fisico", "al di là del cielo", sono in sé e per sé, ovvero sono
assolute, cioè oggettive, non relative a nulla e non soggette ad alcun cambiamento. Le idee sono inoltre
invisibili, non possono essere colte dai sensi ma dal solo ragionamento, e molteplici, ovvero vi è un'
idea per ogni cosa. Nonostante nella realtà vi sia una struttura gerarchica in cui al primo posto si
colloca l'idea di Bene ed i valori, al secondo le idee matematiche e al terzo le cose sensibili, non esiste
una differenza qualitativa tra le idee, altrimenti ciò implicherebbe che queste non siano assolute. Le
idee sono ingenerate, contemporanee e derivano dall' idea di Bene, o Uno, che rende conoscibili le
altre, perché le determina. L' idea Uno, inoltre, agisce sull'idea Diade, che è naturalmente a sua volta
illimitata ed indeterminata, tendendo all' infinita grandezza e insieme all’infinita piccolezza: l' Uno le
dà ordine e la determina e il risultato di questo processo sono le idee, ciascuna delle quali, quindi,
contiene sia l' Uno che la Diade, in quanto principi originari.
Ne deriva un dualismo ontologico: esistono due tipi di essere, quello sensibile, il mondo in cui viviamo,
e quello ultrasensibile, il mondo delle idee. Grazie all' introduzione della realtà metafisica, Platone, pur
non definendo il divenire, propone un nuovo modo di conciliare il pensiero eracliteo, secondo cui tutto
muta incessantemente con quello parmenideo, che negava tassativamente il divenire37. A differenza dei
pluralisti che rimangono nella sfera del sensibile, Platone si sposta su due realtà completamente
opposte: i pluralisti, infatti, sostengono che, partendo da elementi fissi, si possano formare oggetti
diversi, mantenendo, così, la presenza del divenire, senza però implicare il passaggio dall' essere al
non- essere e viceversa, ma l' unione e la separazione di più elementi. Per Platone, invece, all'essere
sensibile corrisponde l'essere concepito da Eraclito, continuamente soggetto a mutamenti e percepibile
attraverso i sensi; all'essere intelligibile corrisponde quello parmenideo, che è ingenerato, incorruttibile,
eterno, immobile, finito, necessario e uno, proprio come le idee.
Poiché esistono due realtà, esistono anche due forme di conoscenza: quella sensibile e quella
soprasensibile. Della conoscenza sensibile o opinione fanno parte l' immaginazione o eikasia, prima
forma di conoscenza che permette di cogliere l'ombra delle cose sensibili e la credenza o pistis, che ne
consente l’elaborazione. Della scienza, la conoscenza del mondo ideale, fanno parte la conoscenza
matematica o dianoia e la conoscenza scientifica o noesis. La conoscenza dianoetica è la via di mezzo
tra la conoscenza sensibile e quella ideale, senza la quale non si può giungere a conoscere il mondo
ultrasensibile; essa ha caratteristiche sia sensibili, poiché può essere rappresentata e quindi è
percepibile con i sensi, sia caratteristiche ideali, perché è immutabile. La noesis consiste nell'
intellezione delle idee: è, cioè, la capacità di cogliere le idee e il mondo soprasensibile con il puro
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.
.
36
.
37
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35
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Assaggi di Filosofia
Platone
intelletto. Il processo conoscitivo da compiere è quello ascensivo, ovvero si parte dall' opinione per
arrivare alla scienza, perché solo ripercorrendo la via da basso all' alto, si può conoscere meglio il
mondo ideale. Come per Parmenide, esistono la via dell' assoluta verità, raggiunta con la ragione,
quella della verosomiglianza e quella della falsità attestata dai sensi; per Platone vi sono, quindi,
la doxa, conoscenza opinabile, soggettiva, soggetta a mutamento perché appunto percepita dai sensi, e
l' episteme, conoscenza oggettiva, certa e assoluta, perché raggiunta con la conoscenza ed il
ragionamento.
Quando una persona osserva un oggetto, ne coglie un'idea, la quale ne ha una corrispondente nell'
iperuranio; la vera conoscenza non è quella sensibile, ma quella acquisita quando si coglie la causa dell'
idea, percepita guardando l' oggetto. Ad esempio, osservando un fiore, si sollecitano i sensi e si può
cogliere l' idea di bellezza; solo quando l' anima si ricorda di aver contemplato l' idea di bellezza nell'
iperuranio, si acquisisce la vera conoscenza, poiché si ricorda il mondo delle idee; il fiore, dunque,
partecipa ed incarna l' idea di bellezza presente nell' iperuranio. Il mondo sensibile è, quindi, la
possibilità che si offre all' anima di ricordare il mondo soprasensibile: infatti, quando il corpo muore, l'
anima si disincarna e si reca nell' iperuranio per contemplare le idee. Esiste, quindi, un nesso tra
escatologia, la scienza che studia la vita dell' anima dopo la morte, e la gneosologia: l' anima conosce le
idee quando è disincarnata. Si possono anche ravvisare, a questo proposito, suggestioni di ascendenza
pitagorica38.
In relazione alla prospettiva metafisica e al dualismo ontologico, Platone elabora pure un dualismo
antropologico: l' uomo è formato da corpo e anima, il primo è sensibile, la seconda invece è spirito,
essere soprasensibile, intrappolata nel corpo a causa di una colpa originaria. Bisogna vivere il più
possibile in funzione dell' anima; così facendo, quando il corpo muore e l' anima si reca nell'
iperuranio, essa potrà stare il più a lungo possibile a contemplare le idee: più il periodo sarà lungo, più,
al momento della scelta, l' anima sceglierà un corpo migliore in cui reincarnarsi; migliore è il corpo,
migliore sarà la vita terrena. Con questo processo l' anima, quando la vita terrena sarà giunta alla
perfezione, potrà disincarnarsi per l' eternità e dimorare nell' iperuranio a contemplare per sempre le
idee. L'etica è quindi collegata alla metafisica, al dualismo antropologico, alla gneosologia e all'
escatologia: migliore è la vita terrena, raggiunta con la conoscenza, migliore la vita dell' anima nell'
iperuranio. A differenza che per Socrate, il primo a definire l' etica concentrandosi sul comportamento
umano, a prescindere dalla religione, e identificando l' anima con la razionalità, per Platone essa è
spirito, essere soprasensibile.
Per vivere una vita in funzione dell' anima bisogna vivere secondo i valori morali ed operare una fuga
dal corpo, non intesa come suicidio, ma come vita lontana dalla mondanità e dalla materialità. Vivere
in funzione dell' anima è per Platone virtù; con la stessa parola, invece, Socrate indicava la conoscenza.
Inoltre, il vero compimento della vita etica va di pari passo con la conoscenza, più si vive per l' anima,
più ci si eleva alla noesis e viceversa, più si è virtuosi, più si progredisce conoscitivamente. La
conoscenza viene definita da Platone dialettica, con lo stesso termine usato da Socrate per indicare il
metodo di insegnamento e la capacità di far emergere la verità39. Esiste un altro nesso, quindi, tra
38
.
.
39
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Assaggi di Filosofia
Platone
escatologia, antropologia e gneosologia: più l'uomo progredisce conoscitivamente durante la vita, più l'
anima potrà trattenersi nell' iperuranio. Il nesso tra escatologia e metafisica consiste nel fatto che l'
anima, quando è disincarnata, si reca nell' iperuranio, luogo metafisico. Esiste anche un nesso tra
escatologia ed antropologia: poiché l' anima è essere soprasensibile, ha una vita disincarnata rispetto al
corpo ed è quindi immortale. Platone ha elaborato tre prove dell' immortalità dell'anima: la prima
sostiene che, siccome la conoscenza è anamnesi, l' anima non può non essere immortale, visto che ha
vissuto nell' iperuranio, la seconda che, essendo il mondo sensibile calato nei contrari ed essendo il
corpo mortale, l' anima deve essere immortale, la terza viene infine esposta attraverso "Il mito della
biga alata" e "Il mito di Er". "Il mito della biga alata" narra dell' anima, simile a una coppia di cavalli
alati guidati da un auriga, vi è un cavallo bianco eccellente ed uno nero pessimo. L' auriga cerca di
indirizzare i cavalli verso l' iperuranio nel quale ha sede la "vera sostanza", ovvero la totalità delle idee,
che può essere contemplata solo dalla guida dell' anima, ovvero dalla ragione. Ogni anima rimane a
contemplare le idee fino a quando il cavallo nero non la porta verso il basso, fino a reincarnarsi in un
nuovo corpo. L'anima perde le ali, si appesantisce e cade nel corpo a causa della dimenticanza e della
colpa di non aver contemplato sufficientemente le idee. Tra tutte le idee "...la più evidente e la più
amabile" è la bellezza, essa è quella che più colpisce l' uomo, più si desidera la bellezza sensibile, più
ci si eleva, bisogna infatti essere educati al gusto. "Il mito di Er" narra di un guerriero morto e
resuscitato dopo dodici giorni, in grado dunque di raccontare agli uomini il destino che li attende dopo
la morte. Le anime risiedono per un massimo di mille anni nell' iperuranio a contemplare le idee, poi,
quando giunge il momento, si recano nella "pianura della verità", dove le attendono le tre parche: Cloto
fila i destini degli uomini, Lachesi sancisce il momento della scelta del bussolotto e Atropo taglia il filo
della vita umana. Lì le anime scelgono il proprio destino ed il corpo in cui reincarnarsi, le tre parche
lanciano il bussolotto in cui è presente il corpo in cui reincarnarsi. Degno di nota è il fatto che il destino
non dipenda dagli dei ma dalla responsabilità di ognuno.
In relazione con l' etica, Platone elabora anche un pensiero politico. Per Platone sono i filosofi coloro
che devono governare, è impossibile che i mali delle città smettano di esistere, se il potere politico e la
filosofia non coincidono. I governanti vivono tutti nello stesso luogo, non possiedono nessun tipo di
bene se non l' essenziale per sopravvivere, addirittura i figli vengono da loro allontanati e poi allevati in
comune, per evitare distinzioni e preferenze. I guardiani sono felici in primo luogo perché in loro
risiede la giustizia, inoltre sono già di per sé felici; non vi è bisogno di custodirli, perché prima di saper
custodire gli altri sanno custodire se stessi. Lo scopo della comunità è la giustizia, che si attua quando
tutte le persone svolgono il proprio compito: è grazie alla giustizia che uno stato è forte ed unito, è
inoltre l' accordo tra l' individuo e la comunità. Platone suddivide la popolazione in tre classi: vi sono,
come già detto, la classe dei governanti, la quale ha il compito di governare, essi sono saggi ed hanno
un' anima razionale, la classe dei guerrieri, essi difendono la città, sono coraggiosi e hanno un' anima
irascibile, infine vi sono i produttori di cui la principale caratteristica è la temperanza e la loro anima è
concupiscibile. Questa distinzione non dipende dalla provenienza della famiglia ma dalle doti naturali,
un bambino nato ad esempio da produttori o da guerrieri può progredire alla classe superiore, ma ciò è
difficile che si verifichi e solitamente i figli sono della stessa classe dei genitori. Platone abbatte la
democrazia perché sostiene che se un lavoratore dovesse assumere il compito di un governante, non ne
sarebbe in grado, quindi ognuno deve svolgere il proprio compito. Non si può però definire, secondo
alcuni studiosi, la politica di Platone come aristocratica, poiché vige il governo di pochi, non però dei
più ricchi, ma dei più dotati.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Per meglio descrivere l'ontologia, la dottrina delle idee, la gneosologia, e in generale tutto il suo
pensiero filosofico, Platone introduce nella trattazione un altro mito, "Il mito della caverna". In una
caverna oscura, che rappresenta il mondo sensibile, vi sono degli schiavi, gli uomini, legati da catene
che sono il simbolo dell' ignoranza e della arrendevolezza alle passioni. Alle spalle degli schiavi vi è un
muro, al di sopra di questo vi sono delle statuette, simbolo del grado gneosologico della credenza,
tenute da uomini, le quali riflettono la propria ombra sulla parete verso la quale gli schiavi stanno
guardando, grazie a un fuoco, il principio fisico con cui i primi filosofi spiegarono la realtà. Gli schiavi
scambiano per realtà le ombre, che corrispondono al grado gneosologico dell' immaginazione. Uno
degli schiavi riesce a liberarsi dalle catene: egli rappresenta l' azione della conoscenza e della filosofia,
ed esce dalla caverna, il mondo di fuori visto dallo schiavo è la realtà, quindi le idee. Lo schiavo vede
delle cose riflesse nell' acqua, sono il simbolo dalla conoscenza matematica che prepara alla filosofia,
vede poi il sole, l' idea di Bene, e lo contempla, azione simbolo dei massimi livelli della filosofia. Lo
schiavo vorrebbe stare per sempre a contemplare il sole, ma ritorna indietro per avvisare i compagni,
simbolo dell' impegno sociale del filosofo. Quando entra di nuovo nella caverna, lo schiavo non riesce
più a vedere le ombre, perché si è abituato a contemplare le idee: viene così deriso, a simboleggiare la
società attaccata ai pregiudizi e a modi di vita volgare; gli altri schiavi che, invece, attribuiscono grandi
onori a coloro che riescono a vedere le ombre, nella realtà rappresentano i premi della società offerti ai
falsi sapienti. Infine, lo schiavo che si era liberato viene ucciso esattamente come toccò a Socrate.
Questo mito rappresenta l'intera filosofia di Platone, si descrivono, infatti, il mondo fisico e metafisico,
ne derivano, poi, i diversi gradi della conoscenza e infine il comportamento etico ed il ruolo del
filosofo nella società.
1
Il mondo sensibile partecipa di quello soprasensibile.
Il mondo sensibile imita, anche se male, quello soprasensibile.
3
Il mondo intelligibile è presente in quello sensibile.
4
Per Parmenide il divenire avrebbe costituito una legittimazione del non essere, palese e assurda contraddizione.
5
Riguardo alla teoria della metempsicosi, ovvero della reincarnazione dell'anima.
6
Per i sofisti, invece, il termine indicava l’abilità nel parlare.
2
Bibliografia:
Platone, Opere complete, a cura Manara Valgimigli, Bari, Laterza, 1974Giovanni Reale, Platone, in Storia della filosofia antica, Milano, Vita & Pensiero, 1975
Francesco Adorno, Introduzione a Platone, Roma-Bari, Laterza, 2005
Sitografia:
80
Assaggi di Filosofia
Platone
www.filosofico.net
www.sapere.it
81
Assaggi di Filosofia
Platone
Platone tra eros e retorica.
Il rapporto tra corpo e conoscenza
Di Lorenza Pesacane
Introduzione
Processo di integrazione di istanze pulsionali ed emotive in grado di stabilire legami intersoggettivi che
possono anche travalicare il rapporto binario. Se dal punto di vista della biologia evolutiva l’amore si
configura come un sistema innato, la cui espressione è influenzata da segnali di natura sociale, i diversi
approcci delle scienze umane insistono sul suo carattere di “emozione primaria” che non può essere
spiegata come conseguenza di altri sentimenti o motivazioni. Variamente connotato come éros
(trasporto, passione che coinvolge la totalità della persona), come philìa (benevolenza e
reciprocità) o come aghápe (altruismo, fratellanza), l’amore è un tema ricorrente nella storia della
filosofia occidentale, oggetto volta a volta di speculazioni cosmologico-metafisiche e teologiche,
riflessioni etiche, teorizzazioni psicologiche e sociologiche. Il concetto antico di eros (tradotto in latino
con Cupido, Amor) è spesso associato all'attrazione sessuale ma anche, inteso come forza che tiene
uniti elementi diversi e talora contrastanti senza arrivare ad annullarli, all'amicizia e, con la finalità di
unire in un unico corpo sociale una moltitudine di cittadini, alla politica.1
Nel suo specifico significato filosofico eros è stato primariamente inteso come la forza vitale che
muove il pensiero e la filosofia stessa, fungendo da tramite fra la dimensione terrena e quella
sovrasensibile. In questo saggio si illustrerà come il rapporto tra il corpo e la conoscenza abbia
avuto una considerevole importanza nel corso della storia della filosofia occidentale.
1. Eros nella filosofia greca antica
“Amore, fra gli dei l'amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all'antica condizione.
Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l'umana natura”.2
I Greci videro nell’amore una forza unificatrice e armonizzante, e la intesero come il fondamento
dell’amore sessuale, della concordia politica e dell’amicizia. Su questo concetto di philìa (“attrazione,
amicizia”) vertono le analisi platoniche giovanili del Liside, da cui nasce la concezione dell’eros, in
seguito largamente svolta nel Simposio e nel Fedro. Nel primo l’attenzione è focalizzata sull’oggetto
dell’amore, ossia la bellezza, di cui vengono stabiliti gradi gerarchici, laddove il Fedro considera
l’amore nella dimensione soggettiva, ossia come aspirazione verso la bellezza e come elevazione
progressiva dell’anima al mondo dell’essere cui la bellezza pertiene. Nel dialogo Liside Platone tratta
l'argomento dell'éros inteso come quello che intercorre tra due amici: chi è l'amico, colui che ama o
colui che riceve amore? Platone propende per il secondo caso ma non ignora le difficoltà connesse al
problema. Nel Fedro egli spiega questo concetto ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre
tra gli occhi: “E come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da superfici levigate e solide, viene
rinviata al punto di emissione, così il flusso della bellezza, arrivando nuovamente al bell'amato
attraverso gli occhi, che sono la via naturale per arrivare all'anima, come vi è giunto e l'ha eccitata al
volo, irrora i condotti delle ali, stimola il formarsi delle ali e colma d'amore l'anima, a sua volta,
82
Assaggi di Filosofia
Platone
dell'amato.”3Secondo il filosofo può venirsi a creare una situazione di “specchio”: in realtà l'amato
vede negli occhi di chi lo ama se stesso perché vede riflessa la propria bellezza;è una concezione mitica
che rievoca i celeberrimi versi di Dante “Amor, (...)ch'a nullo amato amar perdona”4. È come se chi è
amato si innamorasse del sentimento stesso. L'eros, inteso come amicizia, sfugge infatti sia al
principio empedocleo per il quale il simile ama il simile sia a quello eracliteo per cui il contrario è
amico del contrario. L'eros allora esprime una situazione intermedia che trova spiegazione nel
Simposio. Eros è descritto, per bocca di Diotima di Mantinea, non come un dio ma come un dèmone,5
un essere che si pone a metà strada fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione di
intermediare tra queste due dimensioni: un essere, sempre inquieto e scontento, identificato con la
filosofia, intesa letteralmente come “amore del sapere”.6 Prendendo le mosse dal mito degli androgini,
esseri primitivi composti di uomo e donna divisi dagli dei per punizione di due metà di cui l’una va
incessantemente in cerca dell’altra per ricostituire l’unità primitiva, Platone arriva a individuare uno dei
caratteri fondamentali dell’a.: esso è in primo luogo mancanza, bisogno, aspirazione dell’imperfetto
verso il perfetto.La peculiarità di éros è infatti essenzialmente la sua ambiguità, ovvero l'impossibilità
di approdare a un sapere certo e definitivo, e tuttavia l'incapacità di rassegnarsi all'ignoranza.
“ Anche fra sapienza e ignoranza si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dei è
filosofo, o desidera veramente diventare sapiente (che lo è già), né chi è già sapiente s’applica alla
filosofia. D’altra parte, neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi,
proprio per questo l’ignoranza è terribile (…) chi non avverte d’esser in difetto non aspira a ciò di cui
non crede d’aver bisogno .” 7 Secondo Platone infatti Eros è figlio di Pòros (Abbandonza, ricchezza,
risorsa) e Penìa (Povertà): la filosofia intesa come éros è dunque essenzialmente amore ascensivo, che
aspira alla verità assoluta e disinteressata (ecco la sua abbondanza); ma al contempo è costretta a
vagare nelle tenebre di una sempre mai risolta ignoranza (la sua povertà). “ Dunque, come figlio di
Pòrose di Penìa, ad Amore è capitato questo destino:innanzi tutto è sempre povero, ed è molto lontano
dall’essere delicato e bello, come pensano molti, ma anzi è duro, squallido, scalzo, pergrino(…) perché
conforme alla natura della madre, ha sempre la miseria in casa. Ma da parte del padre è insidiatore
dei belli e dei nobili, coraggioso, audace e risoluto, cacciatore tremendo(…) ricco di trappole, intento
tutta la vita a filosofare .”8Concetti questi già presenti nel socratico “sapere di non sapere”, come pure
in altri miti di Platone, ad esempio in quello della caverna dove gli uomini sono condannati a vedere
solamente le ombre del vero. Il dualismo e la contrapposizione tra verità e ignoranza era quindi così
vissuta da Platone, ma anche già dal suo maestro Socrate,9come una profonda lacerazione, fonte di
continua irrequietezza e insoddisfazione. Come può allora l’anima umana raggiungere la bellezza
suprema? È questo il problema del Fedro, il quale perciò parte dalla considerazione dell’anima, nella
quale Platone distingue tre parti, una razionale, una irascibile o impulsiva, una concupiscibile o
desiderabile. Tale natura tripartita si può esprimere con un mito. L’anima secondo Platone è simile a
una coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: uno dei cavalli, bianco, è eccellente, l’altro, nero, è
pessimo; di conseguenza l’opera dell’auriga è difficile e penosa. Egli cerca di indirizzare i cavalli verso
il cielo, verso quella regione sopraceleste (iperuranio) che è la sede dell’essere autentico. “L'anima se
ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non
trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che
possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono
i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il
momento almeno, questo soavissimo piacere. (...) Perché, oltre a venerare colui che possiede la
bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio
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Assaggi di Filosofia
Platone
bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore”10.Ogni anima perciò contempla la
sostanza dell’essere di più o di meno. Tuttavia quando essa si incarna, va a dare vita il corpo di un
uomo che sarà tale quale essa lo renderà. Se l’anima ha visto di più, allora, ne consegue che darà vita al
corpo di un uomo che si consacrerà al culto della sapienza o dell’amore. È proprio la bellezza a
risvegliare nell’anima incarnata il ricordo delle sostanze ideali. La bellezza dunque fa da mediatrice
tra l’uomo caduto e il mondo delle idee e ad essa l’uomo risponde con l’amore. L’éros diventa
perciò procedimento razionale, dialettica. La dialettica è nello stesso tempo ricerca dell’essere in sé e
unione amorosa delle anime nell’apprendere e nell’insegnare. È quindi “psicagogia”, guida dell’anima,
con la mediazione della bellezza, verso il suo autentico destino.
2. Eros nella teologia cristiana
“dilige, et quod vis fac” “Ama e fa ciò che vuoi” 11
La concezione dell’amore elaborata dalla filosofia e dalla teologia cristiane riprendono,
opportunamente modificati e adattati, vari elementi della speculazione platonica e aristotelica, ma vi
inseriscono anche motivi nuovi. La principale innovazione apportata dal cristianesimo è costituita
dall’interpretazione dell’amore in termini di caritas(aghápe), quale realizzazione del fondamentale
precetto dell’etica cristiana “ama il prossimo tuo come te stesso”. L’amore diventa un attributo
fondamentale della divinità, che ama gli uomini, si fa uomo, soffre e muore per essi. Nel concetto
cristiano dell’amore oggetto primario e formale dell’amore è Dio, e in ragione di Dio, oggetto
secondario l’uomo stesso, il prossimo, tutto il genere umano, persino i nemici in quanto ci sono fratelli
nella umana natura. L’amore nell’accezione di caritas acquista con ciò importanza grandissima
nell’etica cristiana. La riflessione sull’amore acquista un ruolo di importanza primaria anche nel
pensiero di Sant’ Agostino. Egli parte dall’ipotesi che ciò che porta l’uomo a compiere l’itinerario dal
mondo esterno all’interiorità dell’anima alla verità trascendente è il desiderio di essere felice (beate
vivere), che si realizza nella conoscenza del vero bene. Per conoscere qualcosa, però, occorre volerlo,
e si vuole ciò che si ama, si cerca per trovare ciò che si ama. Così come il corpo tende con il suo
peso al luogo che gli è proprio, allo stesso modo l’amore fa gravitare irresistibilmente l’animo verso
l’oggetto voluto e ritenuto buono: “pondusmeum amor meus: eoferorquocumque feror”12. Senza amore
non vi è movimento, non vi è conoscenza, senza amore buono, cioè rivolto verso un fine che è il bene,
non può esservi felicità. Nel De TrinitateAgostino introduce l’amore nella stessa essenza divina,
identificandolo con lo Spirito Santo: Dio padre, nel pensare, genera interiormente la propria sapienza o
Verbo; una relazione d’amore lega la mente pensante al suo lògos; allo stesso modo nell’uomo il
pensiero (mens), la conoscenza (notitia) e l’amore (amor) sono tre funzioni distinte ma strette
nell’unità di uno stesso spirito e pensabili solo in relazione reciproca: non si può infatti conoscersi
senza amarsi, né amarsi senza conoscersi; né conoscersi e amarsi fuori dal pensiero. La nozione di
amore assume una peculiare centralità anche nella teologia della storia delineata da Agostino nel De
civitate Dei (La città di Dio). Due amori hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al
disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città
celeste. Come per il singolo, anche per l’uomo in generale vale la possibilità di determinarsi attraverso
la scelta dell’oggetto d’amore: di perdersi nell’amore inordinatus o di elevarsi nell’amore
consapevole dell’ordine del mondo. Un rilievo centrale assume il tema dell’amore nella speculazione
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Assaggi di Filosofia
Platone
dei mistici, soprattutto dei maestri “vittorini” (specialmente Riccardo) e San Bernardo. Entrambi
considerano come a. perfetto quello di benevolenza e di amicizia, sicché l’amore basta a sé stesso
anche senza il possesso; inoltre descrivono (Riccardo attraverso i quattro gradi: invincibile,
torturante, esclusivo, insaziabile) l’amore di Dio che spinge l’amante a “uscire di sé” e diventa
violento e “forte come la morte” (Bernardo). La scolastica aristotelica dal canto suo riprenderà,
adattandole, le considerazioni di Aristotele sull’amicizia per caratterizzare l’amore nell’accezione
cristiana della caritas. Così San Tommaso identifica quest’ultima con l’amore intellettuale, e lo
definisce come “amicizia dell’uomo verso Dio”, intendendo l’amicizia in senso aristotelico come
amore associato alla benevolenza e alla reciprocità.
3. Eros nella filosofia moderna
“ Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio di Amore e di
consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli ch’Egli possiede e fa loro sentire
interiormente la loro miseria e la Sua misericordia infinita.”13
Nei filosofi rinascimentaliéros e aghápe si fondono in un unico concetto. Il tema dell'éros acquista
una centralità particolare soprattutto nella filosofia di Marsilio Ficino: l'amore viene da lui inteso come
il dilatarsi stesso di Dio nell'universo: Dio “si riversa” nel mondo e produce negli uomini il desiderio di
ritornare a Lui. Si tratta di un processo circolare che si riflette nell'uomo, il quale a sua volta è chiamato
ad essere copula mundi, immagine dell'Essere dal quale proviene tutta la realtà e che tiene legati in sé
gli estremi opposti dell'universo.14 Nella Metafisicadi Tommaso Campanella, l'eros è una delle tre
essenze primarie che strutturano l'essere sul modello trinitario: potenza (Padre), sapienza (Spirito),
amore (Figlio). Afferma Campanella: “Ogni ente, potendo essere, ha la potenza di essere. Ciò che può
essere sa di essere. Se non avvertisse di essere non amerebbe sé stesso e non sfuggirebbe il nemico che
lo distrugge e non seguirebbe l'ente che lo conserva come fanno tutti gli enti. Il sapere emana dal
potere, noi non sappiamo infatti quel che non possiamo sapere e molto possiamo sapere che prima non
sappiamo. L'amore profluisce dalla sapienza e dalla potenza”. 15 In Giordano Bruno, l'éros diventa
“eroico furore”,16esaltazione dei sensi e della memoria, elevazione della ragione invasata
dall'amore per la verità tale che l'intellettuale si “india”, raggiunge Dio, l'Uno-Tutto-Infinito,
contemplando la sua presenza in tutti gli esseri. Per Cartesio l'amore è inteso naturalisticamente come
una passione dell'anima17 che si caratterizza in relazione agli oggetti amati e all'intensità del
sentimento provato: se proviamo per l'oggetto d'amore un sentimento di grado inferiore all'amore per
noi stessi, si tratta di affetto, se di grado uguale è amicizia, se superiore è devozione e, in questo caso,
rientra Dio tra gli oggetti amati. Leibnizrileverà la contraddizione in cui fa cadere l'amore per cui noi
non possiamo volere che il nostro bene e nello stesso tempo desideriamo il bene di un oggetto
amato: “ Quando si ama sinceramente una persona non si cerca il proprio profitto né un piacere
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Assaggi di Filosofia
Platone
staccato da quello della persona amata, ma si cerca il proprio piacere nell'appagamento e nella
felicità di questa persona”. 18 Per Spinoza bisogna distinguere due specie di amore: quello che, come
tutte le emozioni, deriva da una mutazione dell'anima, e questo tipo di amore non può riguardare la
perfezione divina che non ama nessuno, e quell'amore intellettuale di Dio che è la visione del Dio che
s'identifica con la mirabile perfezione dell'universo ordinato. Dio non può che amare se stesso e
“Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e per conseguenza che l'amore di Dio verso gli uomini e
19
l’amore
intellettuale
della
mente
verso
Dio,
sono
la
medesima
cosa”.
Per gli autori settecenteschi la costituzione dell'amore è di natura sensibile e tra questi Kant che
distingue l'amore sensibile o “patologico”, passionale, e quello “pratico”, morale che è imposto dal
comando cristiano.20
4. Eros nella filosofia contemporanea
Il pensiero romantico riprende ed esalta la concezione spinoziana dell'unità di Dio e Natura, di
infinito e finito, riferendola all'eros, coincidente con il sentimento e la poesia, come strumenti per
cogliere l'Assoluto nelle creature contingenti: “ La sorgente e l'anima di tutte le emozioni è l'amore; e lo
spirito dell'amore deve nella poesia romantica esser presente ovunque, invisibile e visibile.” 21
Nelle sue opere giovanili22Hegelconsidera l'amore al di là di ogni opposizione anche se ha in se stesso
la mortalità dei corpi e la distinzione dei due amanti. Infatti il sentimento supera la corporeità mortale
con la generazione, principio d'immortalità. La stessa essenza del cristianesimo si fonda sull'amore
reciproco tra Dio e il suo fedele realizzando così la perfetta sintesi degli opposti, se non fosse però che
la tendenza del cristianesimo a mondanizzarsi, facendosi religione positiva, lo riporterà alla mortalità
terrena: da qui la necessità di una nuova religione.
Nella
Fenomenologia dello spirito l'amore viene sostituito dalla ragione dialettica con il desiderio di
conoscere che sottintende ancora l'eros. Si vuole conoscere infatti l' “altro da sé” per poter
pienamente realizzare il “proprio sé”, da ciò si rientra in quella condizione di inappagamento che
caratterizza così l'amore come desiderio di sapere. Nelle opere successive Hegel ribadisce questa sua
concezione dell'amore: “L'amore esprime in generale la coscienza della mia unità con un altro.”23,
“ La vera essenza dell’amore consiste nell’abbandonare la coscienza di sé nell'obliarsi in un altro se stesso
e tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest'oblio.” 24
Nelle Lezioni
sulla filosofia della religioneHegel riprende il tema pagano e cristiano dell'eros come unione di amore
e morte: Dio nella realtà della Croce è l'amore-morte e l'amore come sintesi degli opposti vita-morte,
finito-infinito, umano-divino.25Schopenhauer riprende l'antico concetto di eros mettendone in rilievo
la caratteristica più comunemente nota quella cioè di amore sessuale di cui si serve irrazionalmente la
volontà di vivereper perpetuarsi ed accrescersi. Diverso da questo è l'amore puro che si manifesta nella
compassione, intesa come il comune soffrire per il dolore universale, una via questa, parzialmente
inutile,
per
tentare
di
sfuggire
alla
volontà
di
vivere.
Feuerbach riprende la concezione romantica del sentimento amoroso come unità di finito e infinito,
incarnandola nello stesso uomo finito da dove l'amore sessuale si sublima moralmente fino ad includere
tutta l'umanità come oggetto di vero amore. La visione feuerbachiana di un amore che si allarghi dal
singolo alla universalità viene criticata radicalmente da MaxScheler che ritiene invece che quanto più
l'amore si restringa tanto più esso s'intensifichi e si realizzi. Scheler respinge altresì la visione
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Assaggi di Filosofia
Platone
romantica dell'amore come assoluta unità avanzando il concetto di simpatia, un atteggiamento che si
basa sulla diversità essenziale degli individui: “ l'amore vero consiste nel comprendere sufficientemente
un'altra individualità modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la
considero altra da me e differente da me e pur mentre affermo, con calore emozionale e senza riserva, la
sua propria realtà e il suo proprio modo d'essere.”26Scheler non crede in un generico e astratto amore per
l'umanità che in realtà è semplicemente l'espressione dell'amore come lo concepisce l'uomo medio di
una
certa
epoca
e
di
una
determinata
morale.
Il superamento dell'amore, romanticamente inteso, è invece in Bertrand Russell che ne dà una
descrizione del tutto empirica mettendone in rilievo le sue conseguenze sociali, morali e politiche.27
Una sintesi del concetto nella storia della filosofia è in Nicola Abbagnano secondo il quale per alcuni
autori come Platone, Aristotele, Tommaso, Cartesio, Leibniz, Scheler, Russell, l’amore, come unione e
non come unità, realizza un rapporto reciproco, concreto, umano, finito che consolida e non nega
le soggettività individuali tra cui avviene. Per altri invece come in Spinoza e negli autori romantici,
in Hegel e Feuerbach, l'amore è una pretesa fallimentare di esseri umani finiti e contingenti di
conseguire l'unità assoluta o infinita.
5. L’analisi sociologica e psicologica: la teoria freudiana
“sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte (...). A questo punto
sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver
pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti
altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a
nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato
se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni”28.
Significativi contributi allo studio dell’amore come forma specifica di interazione e come istanza
affettiva-pulsionale saranno offerti dalla sociologia e in misura maggiore dalla psicologia,
progressivamente sviluppatesi e specializzatesi a partire dalla seconda metà del XX secolo come
discipline autonome. Nell’ambito della psicologia che viene sviluppata la riflessione sull’amore quale
emozione o sentimento primario che si manifesta nella forma di bisogno immediato o di pulsione.
Fondamentale importanza hanno in questo campo le teorie di Freud, variamente riprese e declinate
dalle diverse scuole psicanalitiche. Nel pensiero freudiano l’amore è interpretato come specificazione e
sublimazione di una forza o pulsione istintuale originaria, la libido, che può essere libera come nel
processo primario, dove fluttua disancorata da vincoli da rappresentazione a rappresentazione, oppure
legata o controllata come nel processo secondario, in cui viene riversata in forme più o meno
permanenti verso determinati oggetti. Può inoltre investire un oggetto esterno all’individuo (libido
oggettuale) o l’individuo stesso (libido dell’Io o narcisistica). Dalla libido, secondo Freud, si
sviluppano le forme superiori dell’amore attraverso i due meccanismi dell’inibizione, che ha la
funzione di contenere e immobilizzare le manifestazioni della libido nei limiti compatibili con la
conservazione della specie, e da cui derivano le emozioni morali (vergogna, pudore, ecc.), e della
sublimazione, un processo che devia l’energia della pulsione verso mete non sessuali diverse da quelle
originarie, usualmente valorizzate dalla società. Postulando tale processo, Freud dimostra il sussistere
di una relazione tra la dimensione sessuale e tutte le attività umane, in particolare l’attività artistica,
intellettuale e religiosa. Tutte le forme superiori dell’amore non sono, secondo Freud, che sublimazioni
della libido inibita. Nell’elaborazione più matura della sua metapsicologia, in particolare in
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Assaggi di Filosofia
Platone
JenseitsdesLustprinzips (Al di là del principio di piacere), Freud arriva a una concettualizzazione
dell’amore come principio speculativo-cosmogonico (Eros), che comprende tanto le pulsioni sessuali
quanto le pulsioni di autoconservazione, finalizzate all’instaurazione e alla conservazione della “unità
del vivente”. Coesistenti e in perenne conflitto con tale principio sono le “pulsioni di morte”, in cui
sono ricomprese le pulsioni di aggressione e quelle di distruzione che rappresentano la tendenza di ogni
vivente a tornare al proprio stadio originario inorganico e a ripristinare lo stato di inerzia e di
annullamento delle tensioni. Richiamandosi al mito platonico dell’androgino narrato da Aristofane nel
Simposio, Freud arriva a concludere che anche le pulsioni dell’Eros sono pulsioni regressive: la loro
spinta a unire ciò che è diviso e a formare nuovi esseri viventi si identifica con la spinta a
ripristinare un’unità primordiale perduta.
6. Bilancio conclusivo
Alla luce di quanto si è detto, si assiste qui a una vera e propria rivoluzione del rapporto tra corpo e
conoscenza, in cui risulta quanto l’eros e la retorica siano strettamente legati tra loro.
Non fa filosofia infatti chi è sapiente e neppure chi è del tutto ignorante e chiuso nella sua presunzione
di sapere tutto, ma al contrario soltanto chi si sente in uno stato di povertà, di bisogno, riguardo al
sapere, e nello stesso tempo è tutto preso dal desiderio del suo oggetto, che lo attrae e lo alletta. Questa
condizione di tensione, generata insieme da abbondanza e da povertà, questa situazione intermedia tra
sapienza e ignoranza è precisamente l’eros, come aspirazione alla bellezza, in quanto ordine e armonia.
La retorica rende “capaci di parlare e di pensare” è attenta ai contenuti, pur riconoscendo di poterli
abbellire con una forma adeguata. Tuttavia solo la filosofia può accedere alla verità, mentre la retorica
si limita a ciò che è plausibile.
Di conseguenza, la retorica non ha una
propria autonomia, ma è soltanto lo strumento della dialettica, che è il vero metodo della filosofia.
Note
1.
2.
3.
4.
Nicola Ubaldo, Atlante illustrato di filosofia, p. 40: Eros, Firenze, Giunti Editore, 2000.
Platone, Simposio, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari, 1971.
Platone, Fedro, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari,2014.
Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, V, vv. 102-104, a cura di N.Sapegno, La Nuova
Italia, Firenze, 1982.
5. Dal greco anticodaìmon. In Omero col significato di “potenza divina” che non può o non si
vuole nominare, da cui il senso di divinità e d'altra parte di destino.
6. Giovanni Reale, Eros demone mediatore, Milano, Rizzoli, 1997.
7. Platone, Simposio, op.cit.
8. Idem.
9. Per Leon Robin (in La teoria platonica dell'amore, ed. Celuc libri, 1973) il tema dell'eros è
definito compiutamente nel dialogo Fedro dal personaggio Socrate.
10. Platone, Fedro, op.cit.
11. Agostino d'Ippona, Epist. Joan., VII, 8; PL XXXV, 2033.
12. Agostino d’Ippona, Confessioni, XIII, 9, 10
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Assaggi di Filosofia
Platone
13. Blaise Pascal, Pensieri 556.
14. Ioan P. Couliano, Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago Press, 1987.
15. Tommaso Campanella, Metafisica VI.
16. La radice del termine eroico in Bruno è propriamente “eros”, (cfr. I nomi dell'amore: Bruno e
Nietzsche. Eroico furore e volontà di potenza, p. 2, Biblioteca Tiraboschi).
17. Descartes, Pass. de l'âme, II 79-83.
18. Leibniz, Op. Phil., ed. Erdmann, pp. 789-90.
19. Baruch Spinoza, Ethica, V 17 corol.
20. Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, I cap. 3.
21. Friedrich Schlegel, ProsaischenJugendschriften, ediz. Minor, II, p. 371.
22. Hegel, Scritti teologici (1793-1800): Religione popolare e cristianesimo, Sull'amore,
Frammento sistematico.
23. Hegel, Filosofia del diritto, par. 158.
24. Hegel, Lezioni di estetica, edit. Glockner, II, p. 149, pp. 178-79.
25. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, edit. Glockner, II, p. 304.
26. Scheler, Essenza e forme della simpatia, Milano, Franco Angeli, 2010
27. Bertrand Russell: Principi di ricostruzione sociale, p. 192; La conquista della felicità, p. 42;
Matrimonio e morale IX, p. 118.
28. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, pp. 248-9,1920.
Bibliografia


F.Adorno, T.Gregory, V. Verra, Storia della filosofia, vol. I, Laterza, 1982.
N. Abbagnano, G. Fornero, La ricerca del pensiero, vol. 1A, Paravia, 2012.
 G.Limone, Dal mito platonico della biga alata alla colomba di Kant: per una rivoluzione del











rapporto tra corpo e conoscenza, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012.
Platone, Simposio, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari, 1971.
Platone, Fedro, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari,2014.
D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di N.Sapegno, La Nuova Italia, Firenze, 1982.
G. Reale, Eros demone mediatore. Una lettura del Simposio di Platone, Milano, Rizzoli, 1997.
L. Robin, La teoria platonica dell'amore, Celuc Libri, 1973.
G. Bataille, LesLarmes d'Éros (1961), trad. it. a curadi A. Salsano, Le lacrime di Eros, Bollati
Boringhieri, 1995 e 2004.
I. P. Couliano, Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago Press, 1987.
I. Kant, Critica della Ragion Pratica, Laterza, Roma-Bari, 2012.
F. Schlegel, ProsaischenJugendschriften, ediz. Minor.
Scheler, Essenza e forme della simpatia, Milano, Franco Angeli, 2010
Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, pp. 248-9,1920.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Sitografia




http://it.wikipedia.org/wiki/Eros_(filosofia)
http://www.treccani.it/enciclopedia/amore_(Dizionario-di-filosofia)/
http://www.filosofico.net/amor32.html
https://www.youtube.com/watch?v=Z5ZdMRAlWGw
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Assaggi di Filosofia
Platone
IL CONTRASTO TRA ORALITÀ E SCRITTURA!
Di Marino Bianco
La vita di Platone e la figura di Socrate
Platone nacque ad Atene verso il 428-427 a. C., da famiglia nobile e ricca. Iniziato alla filosofia di
Cratilo, discepolo di Eraclito, passò poi nel circolo di Socrate e lì rimase fino alla morte del maestro[1].
Dal punto di vista politico, il tempo di Platone fu caratterizzato dal tramonto dell’età d’oro della Grecia
periclea[2]. Essendo un democratico avvertì più di altri la crisi imperante ed essendo un filosofo fu
indotto a radicalizzare la situazione problematica e a viverla come crisi dell’uomo nella sua totalità.
Per queste cose, cominciò a idealizzare la figura di Socrate, che per Platone divenne un simbolo della
crisi e al tempo stesso della speranza di superarla. Egli affermava che, se si era giunti a uccidere l’uomo
più giusto di tutti, “il malessere della società è pervenuto al suo punto-limite”[3].
Prima della morte del maestro Platone avrebbe voluto dedicarsi alla politica, ma la fine di Socrate fu
un’ingiustizia imperdonabile che lo spinse a condannare la politica del tempo. Il filosofo capì che lo
scopo della filosofia doveva essere quello di cambiare le condizioni della vita associata. Da qui egli
intese che questa dottrina era “l’unica via che potesse condurre l’uomo e la comunità verso la
giustizia”[4].
Dopo la morte di Socrate, Platone viaggiò molto recandosi prima a Megara, presso Euclide, poi in
Egitto e a Cirene. Nei suoi scritti non parlò di questi viaggi, ma di quello che fece in Italia meridionale,
presso Siracusa, dove entrò in buoni rapporti con il tiranno Dione, cognato di Dionigi il Vecchio.
Ad Atene Platone fondò la sua scuola, l’ Accademia, che costituì per molti secoli uno dei massimi
centri culturali dell’antichità, fino a quando venne chiusa da Giustiniano nel 529 d. C..
La fedeltà all’insegnamento e alla persona di Socrate domina l’intera attività filosofica di Platone, ma
non tutte le dottrine sono dedicate a Socrate: basti pensare che la sua teoria più grande, quella che si
pone alla base del platonismo (il rapporto fra idee e cose), è una sua innovazione poiché il maestro non
ha mai toccato un simile argomento. Lo sforzo di Platone, tuttavia, è quello di rintracciare alla fine di
ogni opera la figura del maestro, infatti “la ricerca platonica tende a configurarsi come uno sforzo di
interpretazione della personalità filosofica”[5].
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Assaggi di Filosofia
Platone
Il primo periodo dell’attività filosofica di Platone è dedicato all’illustrazione e alla difesa dell’
insegnamento di Socrate. L’ Apologia di Socrate chiarisce l’atteggiamento di quest’ultimo di fronte
all’accusa, al processo e alla condanna da parte del tribunale ateniese, e il suo rifiuto a ogni proposta di
fuga, fatta per evitare la morte. Nell’Apologia viene esaltato il compito del maestro che dedica la sua
vita alla ricerca filosofica, come evidenziato nel passo seguente, che può essere considerato come uno
dei più significativi dell’opera: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall’uomo”[6].
Il dialogo e il mito di Theuth
Platone riprende da Socrate il sistema filosofico del dialogo; questo rappresenta un atto di fedeltà
dell’allievo nei confronti del silenzio letterario del maestro. Entrambi i filosofi concepiscono la
filosofia come sapere aperto[7] e il dialogo è inteso come il solo mezzo attraverso il quale si possa
comunicare la modalità dell’indagine filosofica agli altri, in quanto è ciò che più si avvicina al discorso
a voce.
Nel Fedro, dialogo tra quest’ultimo e Socrate, Platone espone il contrasto tra scrittura e oralità
attraverso il mito di Theuth, criticando la prima:
SOCRATE: Ho sentito narrare che a Naucrati d'Egitto dimorava uno dei vecchi dei del paese, il dio a
cui è sacro l'uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l'inventore dei numeri, del calcolo,
della geometria e dell'astronomia per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle
lettere dell'alfabeto. Re dell'intero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città
dell'Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re,
gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna
gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli
sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus
aveva molti argomenti da dire a Theuth, sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli.
Quando giunsero all'alfabeto: «Questa scienza, o re - disse Theuth - renderà gli Egiziani più sapienti e
arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria». E il
re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è
giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu,
per benevolenza verso l'alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto.
Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria
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Assaggi di Filosofia
Platone
perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal
di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per
richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza perché essi,
grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d'essere dottissimi,
mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di
opinioni invece che sapienti».
FEDRO: Fai bene a darmi addosso; anch'io son del parere che riguardo l'alfabeto le cose stiano come
dice il Tebano.
SOCRATE: Dunque chi crede di poter tramandare un'arte affidandola all'alfabeto e chi a sua volta
l'accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve
essere pieno d'una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se
s'immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui
tratta lo scritto.
FEDRO: È giustissimo.
SOCRATE: Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella
della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi,
tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che
potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro
qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia
messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l'intende tanto di chi non ci ha
nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso
ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi.
FEDRO: Ancora hai perfettamente ragione[8].
Anche nella Lettera VII Platone ribadisce la sua critica alla scrittura, affermando, nel passo 341c, che
“tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui mi occupo per averlo
sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscono nulla, a mio
giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto[9]. Il filosofo sembra sostenere
che ci sono dottrine che non possono essere comunicate per iscritto a motivo della debolezza di questo
mezzo”[10].
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Assaggi di Filosofia
Platone
Perché è più importante l’oralità?
Nel mito appena analizzato, Platone fa dire a Socrate che “la scrittura è disumana, poiché finge di
ricreare al di fuori della mente ciò che in realtà può esistere solo al suo interno”. Si può dire che per
Socrate, ovvero per Platone, la scrittura è un prodotto manufatto, così come oggi si dice soprattutto
riguardo ai computer.
Altra accusa, molto più grave, mossa alla scrittura da parte del Socrate di Platone è quella che “la
scrittura distrugge la memoria e indebolisce la mente”; infatti, chi si serve della scrittura avrà più
difficoltà a ricordare. Nell’affermare che la scrittura è disumana, inanimata e distrugge la memoria,
come sopra riportato, Platone finisce per associarla alla morte.
Platone, in effetti, riconosce all’oralità un ruolo dominante e infatti, egli afferma che “il dialogo è il
solo mezzo attraverso il quale si possa esprimere e comunicare agli altri la modalità dell’indagine
filosofica”[11].
Per altri studiosi e critici del pensiero platonivo, poi, il fatto che l’oralità si presenti come dimensione
più disomogenea rispetto alla scrittura non costituisce un suo punto debole, ma di forza. Infatti,
l’esposizione orale si arricchisce di una contestualità e viene accompagnata da gesti e posizioni del
corpo, oltre che dall’intonazione, che aiutano ad interpretare il significato che si vuole trasmettere,
nonché a superare l’ambiguità delle espressioni. Inoltre, l’oralità non è ingabbiata dalla rigidità della
sintassi e/o del lessico e, pertanto, rende la comprensione di un messaggio non certo più difficile di uno
scritto, ma indubbiamente più viva (cosa quasi impossibile per un testo scritto in cui le parole sono
prive di forza e non hanno alcuna intonazione) [12].
Oggi si è convinti che su eventi passati le registrazioni scritte forniscano più elementi rispetto al
parlato. Le culture antiche, però, pur conoscendo la scrittura, affermavano il contrario. La ragione era
che le testimonianze orali erano più credibili di quelle scritte, poiché potevano essere messe in
discussione, e chi le forniva doveva difenderle, cosa che non poteva avvenire per i testi scritti[13].
Anche sulla base di tali considerazioni agli inizi del ‘900 vi è stata una rivalutazione del primato
dell’oralità sulla scrittura.
Ci sono, però, anche altre varie ragioni per affermare ciò: prima di tutto la comunicazione orale è
anteriore di millenni a quella scritta; inoltre, contrariamente a quanto accade per la scrittura, la parola
risponde alle esigenze comunicative di tutti i popoli; infine, un esempio può essere fatto prendendo
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Assaggi di Filosofia
Platone
come riferimenti i bambini, i quali sviluppano da soli la capacità di parlare, mentre la scrittura la
apprendono in modo faticoso attraverso insegnamenti altrui.
A tal proposito il linguista Leonard Bloomfield afferma che “la scrittura non è un linguaggio, ma
semplicemente un modo di registrare il linguaggio per mezzo di segni visibili”. Quest’affermazione a
favore dell’oralità tende a relegare la scrittura in secondo piano poiché questa si dimostrerebbe utile
soltanto in contesti scientifici e letterari[14].
Perché il primato spetta alla scrittura?
Nonostante quanto sostenuto da Platone e da altri, è innegabile che la scrittura ha modificato
profondamente il pensiero umano, conferendogli un’articolazione e un’organizzazione che
l’espressione orale non conosceva. Senza la scrittura, un individuo alfabetizzato non saprebbe e non
potrebbe pensare nel modo in cui lo fa, non solo quando scrive, ma anche quando si esprime in forma
orale. La scrittura, infatti, ha trasformato la mente umana più di qualsiasi altra invenzione[15].
Essa si è subito imposta come codice più unitario e omogeneo nella sua struttura, il pensiero è più
organizzato, senza frammentazioni. La comunicazione orale, invece, quando non è pianificata, è duttile,
permeabile e variamente adattabile, non riesce a nascondere le correzioni e le rettifiche apportate di
volta in volta da colui che parla. Inoltre la lingua scritta fissa modelli e regole cui la tradizione orale fa
riferimento[16].
Al contrario del linguaggio orale, la scrittura è artificiale: infatti non vi è modo di scrivere in modo
naturale, al contrario dell’esposizione orale.
Dire che la scrittura è artificiale non deve essere, però, inteso come un limite, anzi è il contrario: essa,
più di ogni altra creazione artificiale, ha un valore inestimabile, poiché è essenziale allo sviluppo più
pieno dei potenziali umani interiori[17]. Infatti, la scrittura non si limita ad essere un aiuto esterno, ma
trasforma la struttura mentale di chi scrive e legge, consentendo di trasmettere il proprio pensiero e di
apprendere il pensiero altrui, al di là degli specifici contesti temporali e spaziali.
A partire dal XIX secolo alla scrittura è stato riconosciuto un ruolo dominante perché ha dotato il
linguaggio di permanenza e autorità. La parola parlata era “madre” di quella scritta, ma data la sua
carenza nell’organizzare il discorso, doveva necessariamente essere subordinata a quest’ultima e quindi
aveva un ruolo di secondo piano[18].
95
Assaggi di Filosofia
Platone
La scrittura ha portato una tradizione nuova e ha comportato un nuovo modo di trasmissione e
creazione. Essa ha liberato l’uomo dal dovere di memorizzare tutto ed ha consentito sviluppo e
progresso dell’umanità[19].
Per alcuni studiosi, poi, la critica di Platone nei confronti della scrittura non è una condanna nei
confronti dello scritto, ma l’ammonimento che “la verità non si apprende banalmente dai libri o dai
testi scritti in generale, bensì dall’indagine interiore e dal dialogo continuo”.
La ricerca della filosofia deve essere continuata al di là dello scritto e d’altra parte la stessa
incomunicabilità di alcune dottrine porterebbe a far pensare che non solo la scrittura, ma anche l’oralità
non sia in grado di trasmetterle[20].
Chi prevale?
Da quanto evidenziato nei due paragrafi precedenti è difficile decidere quale tra fonte orale e quella
scritta sia la più importante. Infatti, se da un lato la parola è nata prima della scrittura ed è stato l’unico
mezzo che per millenni ha permesso la comunicazione tra i popoli, da un altro la scrittura è stata la
principale fonte di conoscenza del passato. E’ indubbio anche che la scrittura non può né riesce a
sostituirsi alla comunicazione orale, né l’oralità può sostituirsi alla scrittura.
Il predominio della scrittura rispetto all’oralità, però, la si può evincere proprio dai riportati passi di
Platone.
Infatti, la critica alla scrittura di Platone presenta un punto debole, in quanto il filosofo per dare
efficacia alle sue obiezioni si serve proprio dello scritto; anche l’ulteriore critica espressa dal filosofo
nella Lettera VII presta il fianco al riconoscimento della superiorità della scrittura.
Se invece si volesse ritenere, come sostenuto da alcuni studiosi, che esista una dottrina segreta che
Platone ha preferito comunicare solo oralmente e solo ai propri allievi, di questa parte della filosofia
platonica non è rimasta memoria.
È, poi, un dato oggettivo che il pensiero di Socrate è pervenuto ai posteri proprio grazie agli scritti del
suo allievo e che lo stesso pensiero filosofico platonico è giunto alle generazioni future attraverso i suoi
scritti.
Va, quindi, condivisa l’affermazione di Havelock che “inconsciamentetutta l’epistemologia platonica
si fondava proprio sul rifiuto del mondo della cultura orale… – pur difeso strenuamente dal Socrate
del Fedro – e sull’accettazione della prevalenza della vista sull’udito derivata dalla scrittura…”[21].
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Assaggi di Filosofia
Platone
Note
1
L. GEYMONAT, Storia della filosofia, vol. I, Garzanti, Milano, 1980, pag. 67
2
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia,
Paravia, Milano-Torino, 2012, pag. 187
3
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 187
4
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 189
5
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 191
6
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 193
7
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 191
8
PLATONE, Fedro, 274c-276a, trad. it. di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari, 1971
9
PLATONE, Lettera VII, trad. it. di A. Maddalena, Roma-Bari, 1966
10
G. REALE, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, BUR Biblioteca Università Rizzoli, Milano,
1998, pp. 115-120
11
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 191
12
S. RAFFAELE, Fondamenti di linguistica, Laterza, Roma-Bari, 2004, 15°ed.
13
W.J. ONG,Oralità e scrittura: le tecnologie della parola,Il Mulino, Bologna, 1986
14
E.A. HAVELOCK in https://comunicazionetestuale.wordpress.com/intro/havelock
15
W.J. ONG,op. cit.
16
S. RAFFAELE, op. cit.
17
W.J. ONG, op. cit.
18
E.A. HAVELOCK, op. cit.
19
J. R. GOODY in it.wikipedia.org/wiki/Jack_Goody
20
PLATONE, Lettera VII, init.wikipedia.org/wiki/Lettera_VII
21
E.A. HAVELOCK, Preface to Plato, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, trad. it.
Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Bari, Laterza, 1973
97
Assaggi di Filosofia
Platone
Oltre i sentieri interrotti
Di Matteo Russo
Introduzione
Ad ogni azione corrisponde una reazione
Il terzo principio della dinamica dice che: “se un corpo A agisce con una forza su un corpo B, il
corpo B reagisce sul corpo A con una forza che ha la stessa intensità e direzione, ma il verso
opposto”(1).Cioè, secondo Newton: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.
Questa legge fisica si può adattare alla filosofia, infatti l’enunciato focalizza a pieno Platone: egli è
spinto dal degrado morale della società a dare una risposta, una scossa, esponendo le sue dottrine
tramite il mezzo più semplice che potesse trovare, quello che coinvolge tutti, il mito.
Dal punto di vista politico, il tempo di Platone è caratterizzato dal tramonto dell’età d’oro della Grecia
periclea. La sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso, il fallimentare esperimento aristocratico
dei Trenta tiranni e il deludente ritorno di una democrazia ben diversa da quella precedente e presto
bagnata dal sangue di Socrate: sono tutti avvenimenti che concorrono a delineare un vistoso quadro di
decadenza. Analogo scadimento troviamo nell’ambito culturale, segnato dall’esasperazione della
sofistica e dalla dissoluzione del socratismo nelle varie scuole minori.
Platone, essendo un aristocratico, è portato ad avvertire più di altri la crisi imperante e a desiderare
rinnovate ‘stabilità’, soprattutto politiche. Essendo un filosofo, invece, è indotto a radicalizzare
intellettualmente la situazione problematica e a viverla come crisi dell’uomo nella sua totalità, e non
solo della politica in senso stretto.
Per questi motivi, egli comincia a idealizzare la figura di Socrate, che ai suoi occhi diviene un simbolo
della crisi e al tempo stesso della speranza di superarla. Infatti, se si è giunti a uccidere l’uomo più
giusti di tutti, vuol dire, secondo Platone, che il malessere della società è pervenuto al suo punto-limite.
Egli ritiene infatti che la crisi etico- politica derivi in primo luogo da una crisi di tipo intellettuale : si
convince sempre di più dell’insufficienza di un semplice mutamento di forme governative e
dell’improrogabile necessità di una riforma globale dell’esistenza umana.
Tesi
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Assaggi di Filosofia
Platone
Mito: mezzo per superare il limite
In linea generale si può dire che il mito in Platone rivesta due significati fondamentali.
In un primo senso, il mito è uno strumento di cui il filosofo si serve per comunicare in maniera più
accessibile e intuitiva le proprie dottrine all’interlocutore. Da questo punto di vista il mito è
un’escogitazione didattico- espositiva, concepita ai fini della comunicazione intellettuale.
In un secondo senso, più profondo, il mito è un mezzo di cui il filosofo si serve per poter parlare di
realtà che vanno al di là dei limiti entro i quali l ‘indagine rigorosamente razionale deve contenersi. In
altre parole, la filosofia, avendo a che fare con i problemi più alti e difficili della mente si trova spesso
a doversi muovere ai confini del pensabile, cioè di fronte a ‘sentieri interrotti’ ( per usare
un’espressione del filosofo novecentesco Martin Heidegger), che la costringono a tornare indietro,
oppure a procedere per un’altra via, che Platone individua nell’allusione mitica. Da questo punto di
vista il mito è qualcosa che si inserisce nelle lacune della ricerca filosofica, permettendole in alcuni casi
di formulare una teoria verosimile che, come tale, non è né una semplice favola, né un’argomentazione
pienamente dimostrativa, bensì qualcosa che, pur essendo indimostrato e indimostrabile, si può
ragionevolmente ritenere vero.
Si noti come il mito platonico abbia senso solo se visto in stretta connessione con il discorso filosofico,
in rapporto al quale riveste un valore persuasivo e complementare. Ciò non esclude, tuttavia, che il
mito possieda una profondità e una ricchezza di rimandi proprie, che nessuna lettura razionale di esso
potrebbe esaurire. Inoltre, l’uso dei miti, se da un lato rende più difficile l’interpretazione della filosofia
platonica, poiché in qualche caso non si capisce bene dove finisca il mito e cominci la filosofia, e
viceversa, dall’altro lato conferisce al platonismo un aspetto inconfondibilmente suggestivo, che ha
contribuito, nel tempo, alla sua fortuna presso un pubblico più vasto.
In alcuni casi il mito ha una funzione ausiliaria: esso traduce i concetti in immagini, facilitandone così
la comprensione. E’ questo il caso del mito della caverna narrato da Platone nel settimo libro della
Repubblica. In esso si ritrova – espressa nel linguaggio accessibile del mito – tutta la teoria platonica
della conoscenza, ma anche si ribadisce il rapporto tra filosofia e impegno di vita: conoscere il Bene
significa anche praticarlo; il filosofo che ha contemplato la Verità del Mondo delle Idee non può
chiudersi nella sua torre d’avorio: deve tornare – a rischio della propria vita – fra gli uomini, per
liberarli dalle catene della conoscenza illusoria del mondo sensibile:
“«Osserva ora» io dissi «che cosa rappresenterebbero per costoro lo scioglimento dai loro legami e la
guarigione dalla loro follia, se per natura accadesse loro qualcosa di questo genere. Quando uno fosse
sciolto e improvvisamente costretto ad alzarsi, a girare il collo, a camminare, ad alzare lo sguardo
verso la luce, tutto questo facendo soffrirebbe e a causa del riverbero non potrebbe fissare gli occhi
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Assaggi di Filosofia
Platone
sugli oggetti di cui prima vedeva le ombre; che cosa credi risponderebbe, se qualcuno gli dicesse che
prima vedeva semplici illusioni, e che ora, più vicino all’essere e rivolto verso oggetti dotati di
maggiore esistenza, vede in modo più corretto, e se inoltre, mostrandogli ognuno degli oggetti che
sfilano, gli chiedesse che cosa è, e lo costringesse a rispondere? non credi che sarebbe in difficoltà e
riterrebbe che ciò che vedeva prima era più vero di quel che adesso gli si mostra?»”(2)
Il mito del Demiurgo, nel Timeo, ha una funzione diversa; esso costituisce infatti il “discorso
verosimile” del quale ci si deve accontentare per l’impossibilità di pervenire, sulla questione
dell’origine dell’universo, a un “ discorso vero”, cioè dimostrabile mediante concetti ben fondati:
“Timeo – Diciamo dunque per qual cagione l’artefice fece la generazione e quest’universo. Egli era
buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle
che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se alcuno accetta questa dagli uomini
prudenti come la principale cagione della generazione e dell’universo, l’accetta molto rettamente.
Perché dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna cattiva, prese
dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente,
e lo ridusse dal disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai, né è
lecito all’ottimo di far altro se non la cosa più bella.”(3)
Certe volte Platone, invece, si serve del mito come “scorciatoia” rispetto alla via lunga e ardua della
spiegazione razionale, come il mito del carro alato nel quale divide l’anima in tre parti, una razionale,
una irascibile e una concupiscibile:
“Tale è la legge di Adrastea. Che qualunque anima, divenuta seguace di un dio, abbia scorto qualcosa
della realtà vera, fino all’orbita successiva sia sana e salva, e, qualora abbia sempre la capacità di
fare ciò, sia incolume per sempre; qualora invece, non essendo riuscita a farsi guidare, non abbia
visto, e, colpita da qualche accidente, riempita di oblio e di cattiveria, sia divenuta pesante, e, una
volta appesantita, perda le penne e cada verso la terra, allora c’è una legge che questa non si impianti
in nessuna natura ferina nella prima generazione, ma che quella che ha visto di più si impianti nel
seme di un uomo che diventerà filosofo o amico della bellezza.”(4)
Può presentare anche punti di vista che esprimono solo parzialmente la verità intorno all’argomento
discusso, come il mito dell’androgino:
“Durante il simposio, prende la parola anche il commediografo Aristofane e dà la sua opinione
sull’amore narrando un mito. Un tempo – egli dice – gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano
di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li divide in
due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà e trovando questa torna
all’antica perfezione.”(5)
100
Assaggi di Filosofia
Platone
Vi sono poi miti che conferiscono a una tesi filosofica l’autorità di una sapienza antica e illustre, come
il mito di Theuth, nel Fedro:
“E così ora tu, per benevolenza verso l'alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo
vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi
la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la
memoria ma per richiamare alla mente.”(6)
Infine, ve ne sono altri che hanno soprattutto un valore di esortazione morale, come il mito di Er, nella
Repubblica:
“Tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era una pianura priva
d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al calare della sera, essi si accampavano sulla sponda
del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a
berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di piú della misura. Via via
che uno beveva, si scordava di tutto.”(7)
Gli usi diversi che Platone fa del mito nascono comunque tutti dalla consapevolezza che si pensa per
immagini, non solo per concetti, sicché l’alternanza di concetti e immagini rappresenta la forma più
completa e incisiva di comunicazione filosofica.
Antitesi
Mito: sogno della realtà
Per i presocratici il mito ha una funzione totalmente diversa.
La parola mito deriva dal greco mythos che significa parola, discorso, racconto, mentre la
parola mitologia designa l'insieme dei miti tramandati da un popolo ma anche gli studi scientifici sul
mito stesso.
Il mito, propriamente parlando, non è altro che la parola, la più ricca fonte di informazioni della storia
umana, esso può essere considerato un racconto sacro che svela dei misteri e che dà la risposta a molti
interrogativi degli uomini, come sono nati l'universo e l'umanità, come hanno avuto origine gli astri e la
terra, le piante e gli animali e spiega come si sono formate le società civili con l'aiuto degli eroi.
Di fronte all'uomo la natura, la vita, la storia e tutto ciò che lo circonda, appare come un turbinio di
immagini senza senso e il mito diventa quindi un modo per ordinare e conoscere la propria realtà.
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Assaggi di Filosofia
Platone
L’uomo non conosce le leggi che governano la natura, le cause della vita e della morte, del bene e del
male, non comprende i motivi storici che hanno determinato la condizione del suo popolo e davanti a
questo universo di immagini incomposte, che la natura e la vita gli propongono ogni giorno, rischia di
perdersi, di cadere preda dell'ansia e della paura e, solo attraverso i miti, egli trova il senso della realtà,
costruisce l'ordine di quelle immagini, altrimenti incomprensibili.
I miti rivelano l'ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l'estate e
l'inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà.
Il mito è il bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura, è
spiegazione di un rito, di un atto formale che corrisponde ad esigenze dell’uomo.
Dunque questi erano creati per superare le paure ma non si avvicinavano neanche a sfiorare la verità,
erano un limite: l’uomo sogna la realtà. Da qui egli sente il bisogno di ottenere una conoscenza piena,
in grado di dare significato ed orientamento alla vita, capace di condurre verso la via della perfezione,
senza mai raggiungerla. Nasce la filosofia. Nasce grande.
Sintesi
Mito: forza attiva nel tempo
Nelle società demolite dalla corruzione, infettate da una profonda crisi morale, nasce un bisogno di
ripartire da zero. L’ istinto porta l’uomo ad aggrapparsi alle cose più semplici, ai mezzi più accessibili,
alle favole, come quelle che vengono raccontate ai bambini prima di andare a dormire. Proprio perché
queste sono considerate inutili, quasi banali, troppo lontane dalla realtà, coinvolgono l’uomo, lo fanno
sentire partecipe. I miti non cambiano la società, bensì servono a dare un pizzicotto, una scossa
all’animo dell’uomo, esortandolo a porsi delle domande: “chi sono? qual è il mio rapporto con gli altri?
Che funzione ho nella società?”
Il mito è dunque un ingrediente vitale della civiltà umana, non favola vana, ma forza attiva costruita
nel tempo.
Note
1.
2.
3.
4.
5.
Da I. Newton, PhilosophiaeNaturalis Principia Mathematica, 1687.
Da Platone, Repubblica, VII, 370 a.C.
Da Platone, Timeo, 360 a.C.
Da Platone, Fedro, 370 a.C.
Da Platone, Simposio, 375 a.C
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Assaggi di Filosofia
Platone
6. Da Platone, Fedro, 370 a.C.
7. Da Platone, Repubblica, X, 370 a.C
Bibliografia
N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1°, ed.
Paravia, 2012
M. Imbimbo, L. Parasporo, M. Salucci, Viaggio nella filosofia, epoche, autori, opere, temi, vol 1°, ed.
E.G.Palumbo, 2004
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Assaggi di Filosofia
Platone
Platone e l’immortalità dell’anima
-
Di Massimo Di Genua.
Per fare riferimento all'immortalità dell'anima, dobbiamo citare necessariamente Il Fedone, ovvero il dialogo
relativo all'immortalità dell'anima, che ha come sfondo temporale le ultime ore vissute da Socrate prima di
morire. Allo stato d'animo dei discepoli, tristi per il destino ingiusto del loro maestro, si contrappone la serenità
estrema del filosofo. Egli rassicura i presenti trattando l'argomento fondamentale del Fedone: l'immortalità
dell'anima. Socrate osserva come deve essere aspirazione più alta del vero filosofo la morte: e per questo,
arrivato il momento della morte, il filosofo non si deve affliggere di ciò che ha per lungo tempo desiderato. La
tesi di Socrate è dimostrata con un richiamo alle dottrine orfico-pitagoriche secondo cui il destino dell'uomo è
regolato da Dei ottimi, quelli che il filosofo spera di trovare nell'oltretomba. La vera dimostrazione segue la
credenza enunciata: la morte - dice Socrate - è separazione dell'anima dal corpo; il filosofo non fa del godimento
dei piaceri corporei lo scopo della sua vita, e cerca di liberare, durante la vita, la propria anima dal corpo,
separazione che avviene con la morte; il filosofo, inoltre, aspira alla sapienza, che si raggiunge con l'attività del
pensiero puro, slegata completamente dall'esercizio dei sensi corporei; l'oggetto di tale attività, le idee, infatti
sono intelligibili e non sensibili perciò per la loro conoscenza il corpo è inutile, la morte rappresenta il termine
naturale della vita del filosofo, che con essa vede realizzata la sua maggiore aspirazione. L'attività del pensiero
puro è la sapienza, che è la vera virtù: essa dà valore alle azioni umane e ogni altro valore non è che il riflesso
della sapienza. Virtù non è rinuncia ad un piacere maggiore, ma rinuncia dei piaceri in vista della purificazione
spirituale dal corpo. Queste premesse sono valide se si è certi dell'immortalità dell'anima: argomento da
dimostrare.
Tesi:
Il filosofo Platone parte dalla definizione dell' uomo data da Socrate , e la porta alle estreme conseguenze , a tutti
i livelli . La definizione che Socrate ha dato dell' uomo è stata rivoluzionaria : l' uomo è la sua anima ; il corpo è
lo strumento di cui essa si avvale . Prima di Socrate l' anima aveva differenti significati . In Omero è la larva
inconsapevole che resta dell' uomo che va agli inferi . Negli Orfici è un dèmone , che per un' originaria colpa
104
Assaggi di Filosofia
Platone
commessa cade in un corpo , da cui , sia attraverso le trasmigrazioni , sia mediante le purificazioni , tornerà a
liberarsi . Ma essa non coincide con la razionalità dell' uomo . Nei Presocratici è stata in vario modo connessa
col principio , ma in modo ancora generico . Con Socrate l' anima diventa ciò per cui l' uomo conosce e
determina la sua vita morale . E da Socrate in poi è questo il senso che la parola anima ha assunto . Ma Socrate
ha lasciato ancora aperto un problema : quello dell' immortalità . Dal punto di vista della credenza , egli
propendeva nettamente per l' immortalità dell' anima ; ma , dal punto di vista teoretico , non aveva ancora
guadagnato quei fondamenti metafisici , in base ai quali questa credenza poteva venir dimostrata razionalmente .
E' appunto questo il problema che Platone si è assunto , con tutte le conseguenze che ne derivano . L' opera in
cui per la prima volta questo problema viene posto in modo radicale è " Il Gorgia " . E proprio sull' impostazione
che Platone dà al problema in questo dialogo bisogna concentrarsi per ben comprenderlo . Socrate il giusto è
stato ucciso , e l' ingiusto sembra invece trionfare . Il virtuoso e il giusto sono in balìa dell' ingiusto e ne soffrono
i soprusi . I viziosi e gli ingiusti sembrano invece felici e soddisfatti delle loro prepotenze . Il politico giusto
soccombe , mentre quello senza scrupoli si impone . Dovrebbe trionfare il bene , e invece sembra che trionfi il
male . Da che parte sta allora il vero ? Callicle , uno dei protagonisti del " Gorgia " , che dà voce alle tendenze
estremistiche che erano maturate in quei tempi con gli epigoni dei sofisti , non esita a proclamare , con sfrontata
impudenza , che la verità è dalla parte del più forte , cioè di colui che sa farsi beffa di tutto e di tutti , sa godersi
ogni piacere , sa soddisfare tutte le sue passioni e sa saziare qualsiasi suo desiderio . La giustizia è una
invenzione , a suo avviso , dei deboli , la virtù é una sciocchezza e la temperanza una assurdità . Chi si astiene
dai piaceri e si modera é uno stolto , perché la vita che costui vive , in realtà , è uguale alla morte . Proprio in
risposta a questa concezione estrema Platone recupera le verità orfico - pitagoriche , le fonda sulle basi della sua
metafisica , spingendo molto oltre Socrate , anche se sulla scia da lui tracciata . Callicle e tutti coloro di cui
Callicle è simbolo dicono che la vita del virtuoso , che mortifica gli istinti , è vita senza senso , e quindi morte .
Ma che cosa è la vita e che cosa la morte ? Non potrebbe aver ragione chi dice : " Chi può sapere se vivere non
sia morire e morire non sia vivere ? " . E' chiaro allora che per Platone diventa risolutiva proprio la risposta a
quel problema che Socrate aveva volutamente lasciato insoluto , ossia il problema dell' immortalità e delle sorti
escatologiche dell' anima . Infatti , se l' anima fosse mortale e se , con la morte del corpo , anche lo spirito dell'
uomo si dissolvesse , allora la dottrina di Socrate , da sola , non basterebbe a confutare quella di Callicle . Per
conseguenza , la dottrina dell' immortalità emerge in primo piano e conferisce una nuova dimensione all' etica e
alla politica . Vivere per il corpo , come fanno molti uomini , significa vivere per ciò che è destinato a morire ;
vivere , invece , per l' anima significa vivere per ciò che è destinato ad essere sempre . L' uomo giusto che in
questa vita viene ucciso , perde il corpo , ossia ciò che é mortale , ma salva l' anima , che è , invece , immortale .
E' evidente dunque che le prove dell' immortalità dell' anima rivestono una grandissima importanza nel pensiero
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Assaggi di Filosofia
Platone
di Platone , perché devono portare questa problematica dal piano della semplice credenza a un piano filosofico di
dimostrazione razionale coerente e consistente . Platone si concentra su questo problema nel " Fedone " . Delle
tre e molto complesse e articolate prove dell' immortalità , qui ricordiamo il nocciolo della seconda ,
particolarmente significativo . L' anima umana è capace di conoscere cose " immutabili ed eterne " . Ma la
condizione necessaria e indispensabile per cui essa possa conoscere queste cose , è che essa abbia una natura
loro affine , altrimenti queste rimarrebbero al di fuori delle sue capacità . Ebbene , come quelle cose sono
immutabili ed eterne , così anche l' anima deve essere ontologicamente immutabile ed immortale . E' questa una
prova che porta alle estreme conseguenze il principio , già ben radicato nel pensiero greco , che solo il simile
conosce il proprio simile , ma riguadagnato sul piano metafisico , sulla base della scoperta del mondo
intelligibile delle idee . Un' altra prova dell' immortalità dell' anima è che essa , per dirla proprio alla Platone ,
partecipa più di ogni altra cosa all' idea di vita e , di conseguenza , come potrebbe partecipare anche a quella di
morte ? Ulteriori prove Platone le fornisce nella " Repubblica " e nel " Fedro " . Nella " Repubblica " mostra che
i mali del corpo distruggono il corpo , quelli dell' anima , anche portati alle estreme conseguenze , non la
distruggono ; il che significa appunto che è incorruttibile . Nel " Fedro " , infine , la prova viene concentrata
intorno al concetto di automovimento . Ma la questione decisiva per risolvere in modo razionale il problema
posto nel " Gorgia " , è quella strettamente connessa all' immortalità , ossia il problema della sorte dell' anima
dopo la morte dell' uomo . La soluzione di questo problema Platone l' ha affidata ai grandi miti del " Gorgia " ,
del " Fedone " e della " Repubblica " . Il nucleo concettuale che permane identico nelle complesse variazioni e
differenziazioni immaginifiche che vengono presentate in questi miti è il seguente . I buoni riceveranno un
premio per le loro virtù . Quelli che vissero una vita media , e quindi commettendo colpe sanabili , sconteranno
una pena che li purificherà dall' ingiustizia commessa , mediante la sofferenza , perché dall' ingiustizia , afferma
Platone " non ci si può liberare in modo diverso " . Quelli che commisero ingiustizie insanabili saranno
condannati nell' Ade a soffrire i patimenti più grandi . Fra le molte affermazioni che Platone fa sulle sorti delle
anime nell' al di là , ne ricordiamo due del " Gorgia " , particolarmente rilevanti . Il supremo giudizio viene fatto
sull' anima spoglia del corpo e di tutto ciò che sulla terra è legato alla dimensione del corporeo . E nell' anima di
colui che viene giudicato " resta tutto ben visibile quando si sia spogliata del corpo e le sue caratteristiche
costituzionali e le affezioni che l' uomo le ha procurato , mediante il modo di comportarsi in ciascuna circostanza
" . Inoltre , Platone afferma che Zeus costituì come giudici nell' al di là tre suoi figli . In questa affermazione fa
veramente impressione l' analogia con l' affermazione evangelica " Il Padre non giudica nessuno , ma affida il
giudizio al figlio " . Questa concezione dell' al di là si intreccia con la dottrina orfico-HYPERLINK
"http://www.geocities.com/diego_fusaro_2000/pitago.html" pitagorica della metempsicosi , che può portare le
anime vissute in modo malvagio a reincarnarsi in corpi di animali , con cicli complessi , che nel " Fedro
106
Assaggi di Filosofia
Platone
"vengono presentati come concludentisi , in ogni caso , con un ritorno alle origini divine dopo 10000 anni , e
3000 per i filosofi che hanno saputo vivere la loro vita per tre volte consecutive in dimensione dell' amore
filosofico . Ma lasciando questo quadro dell' immaginario che Platone stesso ci ha detto di intendere non già vero
nei particolari , ma solo nel " suo significato di fondo " , traiamo le conclusioni su questo punto . Il pensiero
essenziale dell' etica così come nella politica di Platone sta in questo . Ciascuno deve cercare di fare ordine nel
disordine delle passioni del proprio animo , così come deve cercare di portare ordine nel disordine che si trova
nella società e nello Stato . Fare questo significa " portare unità nella molteplicità e mediare le varie scissioni con
la giusta misura in tutti i sensi " . Questo Platone ci dice in varie maniere sia nella " Repubblica " , sia anche
nelle " Leggi " . E fare questo significa operare come il Demiurgo quando ha prodotto il mondo , trasformando l'
originario caos nel cosmo , legando i molti con l' uno e l' uno coi molti . La " imitazione di dio " , che Platone a
più riprese indica come fine supremo dell' etica così come della politica , consiste appunto nell' agire come ha
agito dio , producendo il mondo , il quale altro non é che cosmo e ordine.
Antitesi:
Nel 1869 Friedrich Nietzsche fu chiamato a insegnare filologia all’Università di Basilea. Negli anni 1871-1872,
1873-1874 e 1876 tenne corsi su Platone. Nietzsche aveva l’abitudine di preparare le proprie lezioni
tracciandone lo schema o scrivendole per intero: la pagina che segue proviene dagli appunti per il corso del
1876, e ci sembra una sintesi molto chiara ed efficace della dottrina platonica dell’anima. Naturalmente
Nietzsche non è un espositore neutrale del pensiero platonico: egli ha grande ammirazione per la filosofia di
Platone e ancora di più per l’uomo Platone (nella Introduzione delle lezioni all’università di Basilea egli scrive:
“La teoria delle Idee è qualcosa di stupefacente [...]. L’uomo è ancora più interessante dei suoi libri”); ma non
può fare a meno di mettere in evidenza come nel platonismo la realtà delle Idee e l’affermazione
dell’immortalità dell’anima tolgano ogni valore al “mondo empirico” in cui viviamo, e portino a considerare il
corpo come “prigione” (a questo proposito si veda, ad esempio, Cratilo, 400 c, dove il corpo è definito séma –
“tomba” – dell’anima). Le parole greche usate da Nietzsche significano: “le cose che sono”, “enti” (ónta);
“identico” (íson); “bene” (agathón); “conoscenza”, “scienza” (epistéme); “ricordo”, “reminiscenza” (anámnesis).
Maya nell’antico peniero indiano rappresenta l’illusione, la manifestazione illusoria che copre come un velo la
realtà. La testimonianza di Filolao (filosofo pitagorico contemporaneo di Platone) richiamata da Nietzsche è
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Assaggi di Filosofia
Platone
riportata nei Frammenti dei presocratici di Diels e Kranz (ffr.44 B 14-15, 22), dove fra l’altro si legge: “Il
pitagorico [Filolao] dice così: “Anche gli antichi teologi e gli antichi vati testimoniano che per espiare qualche
colpa l’anima è unita al corpo e in questo sepolta””; “Euxiteo pitagorico [...] diceva [...] che tutte le anime sono
legate al corpo e alla vita di quaggiù per espiare” (fr. 14).
L'anima quindi, secondo Nietzsche, è solo un'immagine metaforica e semplicistica della ricchissima varietà di
desideri, inclinazioni e sensazioni che attraversano il corpo in ogni istante: questa rivendicazione della natura
terrestre dell'uomo è implicita nell'accettazione totale della vita che è propria dello spirito dionisiaco e
dell'immagine dell'oltreuomo. La Terra non è più l'esilio e il deserto dell'uomo, ma la sua dimora gioiosa.
Smentita dell’antitesi:
Ma il primo argomento a favore dell'immortalità dell'anima è quello dei contrari: il divenire avviene sempre
come passaggio da un termine al suo opposto; ma per questo stesso principio dal termine raggiunto si deve
tornare al primo e quindi il processo dev'essere ciclico. Noi vediamo, per esempio che dalla veglia si passa al
sonno e viceversa: se infatti dal sonno non si tornasse alla veglia, tutti gli esseri assumerebbero uno stato
uniforme di sonno. Ora possiamo applicare lo stesso ragionamento ai contrari vita e morte: oltre al passaggio
dalla vita alla morte ci dev'essere anche il passaggio inverso, secondo la legge generale. Al contrario, la natura
assumerebbe uno stato uniforme di morte. Così i vivi, rinascendo, si generano dai morti: dunque è necessario che
le anime, dopo la morte dei corpi, non cessino di vivere, ma continuino, pronte per una nuova vita. Un secondo
argomento è quello della reminiscenza: conoscere, per Platone è ricordare le idee intuite in un'esistenza anteriore
e da ciò deriva che l'anima vive numerose vite, ovvero che è immortale. La tesi di Platone è fondata su due
prove:
1) Se si interroga abilmente qualcuno su questioni d'una disciplina da lui non studiata, egli saprà dare risposte
giuste e risolvere quelle questioni (cfr. “Menone”); ciò dimostra che egli sapeva già ciò su cui sa dare risposte.
2) Noi, nel vedere gli oggetti sensibili, corriamo con la mente al loro modello ideale; questo vuol dire che noi
abbiamo già una conoscenza dei modelli ideali, poiché altrimenti, non potremo pensarli. Quest'ultima prova è
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Assaggi di Filosofia
Platone
fondata su una delle leggi dell'associazione delle idee: quella della somiglianza, secondo cui una
rappresentazione o un fatto psichico in genere tende a far risorgere nel nostro spirito i fatti psichici simili, di cui
nel passato abbiamo avuto esperienza. Egli vuol dimostrare che, siccome noi, percependo gli oggetti sensibili,
somiglianti alle idee (cioè sono loro" imitazioni"), corriamo con la mente alle idee stesse, dobbiamo aver già
conosciuto tali idee, e ora non facciamo che ricordarle, in seguito alla percezione degli oggetti sensibili, che ce le
rievocano, appunto in forza della legge di associazione per somiglianza. D'altra parte con questo argomento si è
dimostrato solo che l'anima vive già prima del nostro corpo: se noi leghiamo il primo e il secondo argomento,
però, riusciamo a persuaderci dell'immortalità dell'anima. Infatti se l'anima esiste prima della nostra nascita, e,
alla nostra nascita, entra nel corpo, e poi, alla nostra morte, si separa dal corpo, è necessario che continui ad
esistere, affinché possa rigenerarsi. Un terzo argomento è quello della somiglianza che mira a dimostrare la
somiglianza dell'anima alle idee. Queste sono immutabili mentre le cose sensibili sono mutabili: le prime sono
invisibili, in quanto si possono apprendere solo con l'aiuto del pensiero, le ultime visibili: il rapporto fra l'anima
e il corpo è di comandante con il comandante con il comandato. La somiglianza dell'anima alle idee immutabili
ed eterne, fa dell'anima un qualcosa di immortale, invisibile, puro e divino (dal momento che il comandare è
proprio del dio).
BIBLIOGRAFIA
-Platone: "Il Fedone" a cura di Gaetano Capone Braga - La Nuova Italia.
-Platone: "Fedone (o sull'anima)" traduzione a cura di Andrea Tagliapietra - Universale Economica Feltrinelli - I
Classici.
-Nicola Abbagnano/ Giovanni Fornero :"Protagonisti e testi della filosofia" vol. 1° - Paravia.
-Augusto Camera/Renato Fabietti :" Oriente e Grecia" vol. 1° Zanichelli.
-Raffaele Cantarella :" Letteratura Greca - Società Editrice Dante Alighieri.
-E.P. Lamanna : "Nuovo sommario di filosofia" vol. 1° F. Le Monnier - Firenze.
-Ludovico Geymonat : "Storia del pensiero filosofico e scientifico" vol. 1° (L'antichità e il Medioevo) - Garzanti.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Ma quei miseri spaghetti non ci bastavano , così dovemmo inventarci qualcos’altro. Svuotammo il
congelatore di tutti i suoi prodotti surgelati , ovvero patatine, crocchette, filetti di pesce, e tutto ciò che
trovavamo , li mettemmo nel forno e appena cotti,riprendemmo a mangiare .Il discorso non si sapeva più
che piega avesse preso , oramai parlare di tutto ci veniva così naturale che non riuscivamo a smettere .E tra le
tante cose da dire , non potevamo non parlare dell’amore.
Alla ricerca dell'essere compiuto
Di Aristidea Cavaliere
INTRODUZIONE
Platone nacque ad Atene nel 427 a.C da famiglia aristocratica, discepolo di Socrate e fedele ai suoi insegnamenti
nel pieno della sua vita elebora una propria dottrina, detta anche "teoria delle idee", nella quale affronta tra i vari
temi anche quello dell'amore.
Il mito degli androgini: l'incompletezza dell'essere.
"Dunque al desiderio e alla ricerca dell'intero si dà nome amore"1.
Secondo Platone l'amore è insufficienza, figlio di Penia (Povertà)e Poros (Abbondanza) ci viene descritto come
un demone, dalla natura intermedia tra quella umana e quella divina che aspira a possedere la sapienza (solo gli
dei a tutti gli effetti sono sapienti) e dunque è anche filosofo. La conclusione di amore come mancanza si evince
però dal mito degli "androgini", detto anche "mito di Aristofane" in quanto Platone si da voce attraverso lo stesso
nello spiegare la sua concezione di amore. Gli esseri umani delle origini appartenevano a tre generi: il maschio,
la femmina e l'androgino, provvisto di entrambi gli organi riproduttivi e infatti "i sessi erano tre, in quanto il
maschio ebbe origine dal sole, la femmina dalla terra, e il terzo sesso, che aveva elementi in comune con gli
altri due, dalla luna, che partecipa appunto della natura del sole e della terra..". Gli uomini, desiderosi di salire
alla sede degli dei fecero arrabbiare Zeus, invidioso della perfezione, della forza e della felicità che li
caratterizzava e cosi decise di dividerli in due, cosi come spiega Gramellini : "Zeus ebbe un'idea-"Io credodisse- che abbiamo un mezzo per far si che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla
propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso li taglierò in due e in questo modo il loro numero sarà
più grande e ciascuna delle due parti sarà più debole..ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno
stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due.."
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Assaggi di Filosofia
Platone
Da allora l'androgino vaga in cerca della sua metà del sesso opposto, e la stessa cosa fanno il maschio e la
femmina "dimezzati" che trovano pace solo nel riunirsi alla metà mancante e identica a loro. "L'energia divina
che muove la danza di tutte queste metà si chiama amore ed è uguale per tutti, etero e omosessuali" dice
Gramellini in Buongiorno, La Stampa, 26 giugno 2011. Platone afferma anche che l'amore è bisogno, desiderio
di acquistare e conservare ciò che non si ha2 ed è, come dimostra l'istinto della procreazione, desiderio di vincere
la morte lasciando dopo di noi esseri che ci assomigliano3. L'androgino è proprio questo: un essere con quattro
mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Con quattro
orecchie, due organi per la generazione, si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che
volevano e come spiega Gramellini: "Quando si mettevano a correre, facevano un pò come gli acrobati che
gettano in aria le gambe e fan le capriole; avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la
ruota".
La separazione era ancora più dolorosa del fatto in sè in quanto Zeus dopo aver tagliato uno, chiedeva ad Apollo
di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli
occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Gramellini afferma che: " Quando gli uomini primitivi furono tagliati, ciascuna delle due parti desiderava
ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un
solo essere. E cosi morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E
quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva
addosso- sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna,
sia che ne incontrasse una di genere maschile. E cosi la specie si stava estinguendo".
Zeus, mosso da pietà, spostò gli organi della generazione sul davanti, mentre fino ad allora gli uomini li avevano
sulla parte esterna e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Cosi se
un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe cosi riprodotta; ma
se un maschio avesse incontrato un altro maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si
sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo cosi ai bisogni della loro esistenza.
112
Assaggi di Filosofia
Platone
Non si tratta dunque solo di "gioie" d'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia l'unica
ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. La loro anima evidentemente
cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Dice Platone: " Se, mentre
sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse "che cosa volete
l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere
una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte?
Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che
uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete
più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?" A
queste parole nessuno di loro dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa
semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con
l'altra anima".
Epicuro: la completezza dell'essere
Il filosofo Epicuro, nato a Samo da genitori ateniesi nel 341 a.C, nella sua dottrina trattò il tema del piacere e
dell'autosufficienza dell'uomo. Egli, a differenza di Platone, afferma che l'amore fisico è connaturale all'uomo,
mentre l'eros va abolito: è passionale e crea nell'uomo un male interiore e siccome il piacere coincide con
l'assenza di dolori identifica in questo sentimento assenza di piacere e dunque di felicità. L'amicizia rimane il
migliore dei sentimenti perchè è distante dalla politica e dall'amore; quest'utimo non garantisce serenità in
quanto non si può conservare libero da sentimenti che procurano dolore come gelosia o il dolore del distacco o la
paura di non essere riamati. L'uomo deve essere libero nel perseguimento del piacere e della felicità in cui esso si
riflette; questo è possibile perchè, secondo Epicuro, l'uomo può trovare serenità ma ha bisogno di se stesso,
dunque non necessita di città, istituzioni, ricchezze e dei, quest'ultimi infatti secondo il filosofo non si occupano
del mondo e delle cose umane. Se si attribuisce alle divinità il governo del mondo questi vengono privati della
beatitudine in quanto nel mondo è presente il male, ma questa è una condizione propriamente divina. L'uomo è
dunque perfettamente autarchico, basta a se stesso: "E riteniamo un grande bene anche l'autarchia, non con lo
scopo di fare uso del poco in tutti i casi, ma con lo scopo di accontentarci del poco nel caso in cui non abbiamo
il molto, convinti autenticamente che con il massimo piacere godono del lusso quelli che minimamente ne hanno
bisogno, e che tutto ciò che è naturale è facile da procurare, ciò che invece è vano è difficile da procurare.[...]
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Assaggi di Filosofia
Platone
l'abituarsi nei modi di vivere semplici e non dispendiosi rende l'uomo deciso di fronte ai bisogni necessari della
vita[...] e ci rende impavidi di fronte alla sorte" 4 . Un'autosufficienza legata necessariamente al piacere che va
perseguito, poiché esso è sempre bene, da ricercare in ogni situazione e circostanza, ma che deve essere
controllato e non deve divenire da posseduto possessore.
L'amore è la completezza dell'essere
Evidentemente sin da quei tempi lontani è innato in noi uomini il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per
riformare l'unità persa e facendo di due esseri un'unico: solo cosi potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque
ciascuno di noi è frazione dell'essere originario completo, ogni persona ha un suo essere complementare, perché
tagliato in due "come le sogliole". La continua ricerca è proprio per questa ragione: non due ma un'anima sola.
Platone afferma che: " Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore" 5.
Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera del 21 agosto 2009 scrive: " La sacerdotessa Diotima dice che
quello che non possediamo vogliamo possederlo per sempre. Un accento sulla morte. L'uomo rifiuta la morte.
Vuole il Bene, e la Bellezza, per sempre. Come è possibile? è possibile rientrando nel tutto che ci ha
generati[...]perché producendo un altro essere si produce immortalità. Essa è necessario che si desideri assieme
al bene, se è vero che eros è rivolto al bene, a possederlo per sempre". Da questo discorso deriva
necessariamente che eros sia eros anche di immortalità.
La mia tesi è quindi che l'uomo non può bastare a se stesso, ma ha bisogno di qualcun altro che lo completi, la
ricerca di questo completamento è identificabile nella vita stessa e "l'altro" nell'anima gemella.
Note
1.
Platone, Simposio,192e-193a, trad. it. Franco Ferrari
2.
Platone,Simposio, 200a ss
3.
Platone,Simposio, 208a-b
4. Epicuro, Lettera a Meneceo, 130-131
5. Platone, Simposio
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Assaggi di Filosofia
Platone
Bibliografia

Platone, Simposio

Gramellini, Platone, Il mito degli androgini, Buongiorno, La Stampa, 26 giugno 2011

Epicuro, L'autarchia

G. Montefoschi, L'amore è tutto ciò che ci manca. Parola di Platone, Corriere della Sera del 21 agosto
2009
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Assaggi di Filosofia
Platone
Platone cristiano:
Reinterpretazione medievale dell’amore
di Francesca De Falco
I cristiani nell’impero romano dovettero confrontarsi con la filosofia platonica in un ambiente pieno di
pregiudizi e pronto a misure repressive nei loro confronti. Essi potevano ottenere diritto di cittadinanza
solo con un’ ottima condotta, dimostrando lealtà politica e la consapevolezza delle loro convinzioni.
Era perciò vitale misurarsi col mondo romano sul terreno della cultura; dunque adottare il linguaggio,
le dottrine e i metodi del platonismo contemporaneo. Infatti quando, a partire dalla metà del II secolo, i
cristiani iniziarono il confronto esplicito con la cultura greco-romana, il platonismo costituiva
l’orizzonte teorico entro il quale si strutturava gran parte dell’attività filosofica, letteraria e scientifica
degli intellettuali.
Da qui la cultura, fortemente influenzata dal Cristianesimo, attraversando il lungo corso del medioevo è
passata da un’interpretazione allegorica, che all’epoca si applicava sia ai testi sacri che non, ad un
completo travisamento di concetti.
In questo saggio ci occuperemo, infatti, di sottolineare gli errori giunti fino a noi, rispolverando le idee
originali di Platone.
Amore platonico
Amore platonico è un modo usuale di definire una forma di amore sublimata, che tuttavia non esclude
la dimensione sessuale e passionale. Infatti Platone considera l'attrazione fra i corpi il primo dei vari
livelli di "amore platonico", benché egli aggiunga che questo livello vada abbandonato per giungere a
quelli superiori (A. per l'anima,per le leggi e le istituzioni, per le scienze, assoluto). Questa formula in
realtà scaturisce da un contesto filosofico in cui l'amore, inteso come moto dell'animo e non come
forma di relazione, viene interpretato come impulso al trascendimento della realtà sensibile, del mondo
delle apparenze, capace di muovere la conoscenza verso l'assoluto, attuando cioè un processo di
indiamento, come illustrato ad esempio nel pensiero di Giordano Bruno.
La principale differenza tra l'amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al giorno d'oggi abbiamo
in mente un amore biunivoco, dove i due amanti si amano reciprocamente. Ai tempi di Platone era
univoco: uno amava e l'altro si faceva amare. Talvolta ci poteva essere un amore biunivoco, che
Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre tra gli occhi secondo cui poteva
venirsi a creare una situazione di "specchio": In realtà l'amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso
perchè vede riflessa la propria bellezza.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Platone ci parla dell'amore(in Greco "eros",che designa l'amore passionale ed irrazionale,diverso da
"agapè",l'amore per il dio) nel “FEDRO” nel quale, in realtà, gli argomenti trattati sono due: l’ eros e
la retorica. Quella di Platone,oltre ad essere un'epoca di passaggio tra oralità e scrittura, è anche
un'epoca in cui ci si chiede come si fanno ad educare i cittadini e Platone ritiene che sia necessario
insegnare la filosofia. Il protagonista è Socrate ,che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di
Platone sebbene man mano che l'autore matura tenda a sfumare, il quale si imbatte in Fedro, un suo
discepolo, che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti. I due si siedono al riparo dal sole e
Fedro mostra a Socrate un'orazione di Lisia, uno dei più grandi oratori greci. E’ un'orazione riguardante
l'amore a carattere "sofistico", si cercano cioè di dimostrare cose paradossali con l’uso della retorica:
Lisia cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama partendo dal presupposto che
l'amore sia una "follia" e che concedersi a chi ama è una stoltezza poiché si avrebbe un amore troppo
intenso che, se mai dovesse sciogliersi, farebbe soffrire terribilmente l'innamorato-amante e poi,
passato l'ardore iniziale, si torna in sè e ci si rimprovera delle cose fatte continuando a soffrire. Con una
persona non amata è chiaro che ci si comporterebbe in tutt'altro modo: più che altro si penserebbe ad
essere felici. Socrate a sua volta conferma la tesi di Lisia e poi parla dell’amore come "demone"(1). Ora
capire se l’argomento del “Fedro”sia l’amore o la retorica è superfluo, fatto sta che nel "SIMPOSIO"
esamina meglio il ruolo dell’amore.
Durante i simposi veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di scegliere un argomento
di cui trattare al banchetto. Si sceglie di parlare dell'amore e fra chi dice che Eros è la divinità più
giovane e più bella,chi dice che è la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto,chi sostiene che sia
una forza cosmica che domina la natura,chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti
di eternarsi procreando, c'è chi è del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare
perfino la guerra (facendo riferimento all'episodio mitico secondo il quale Ares,il dio della
guerra,sarebbe innamorato di Afrodite) e Aristofane che narra una storia semiseria: si tratta di un mito,
quello degli androgini, secondo il quale gli uomini un tempo erano sferici e doppi.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Questi esseri si sentivano forti e perfetti così peccarono di tracotanza e gli dei per punirli li tagliarono a
metà e per ricucirli fecero loro un nodo (l'ombelico) sulla schiena e lo posizionarono sulla pancia
perchè si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso. Da quel momento
questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l'altra metà e la cercavano disperatamente. Quando la
trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare morendo così di fame. Perciò
gli dei crearono l'atto sessuale che consentiva loro di trovare un appagamento da questa unione.
Socrate conclude citando un mito riguardante i festeggiamenti divini per la nascita di Afrodite: tra le
varie divinità ci sono anche Poros (astuzia,ricchezza) e Penia (povertà) che, ormai ubriachi per
l'eccessivo bere, si uniscono concependo Eros,che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori: è
ignorante,povero e brutto a causa di Penia, ma sa cavarsela sempre grazie a Poros. Non è bello, ma sa
andare a caccia della bellezza, svolge le mansioni dell'amante e non dell'amato ed è privo anche di
bontà poiché chi è non è bello fuori non è buono dentro.
Tutto ciò è un riferimento alla filosofia, infatti, per Platone vi è un livello intermedio tra il sapere e
l'essere ignoranti. La posizione intermedia non è un male perchè è uno stimolo per arrivare in cima alla
vetta della sua scala gerarchica del sapere e della bellezza: chi si trova nella posizione più bassa sa di
non potersi elevare e neanche ci prova, chi si trova in quella più alta non si deve impegnare perchè è
già nella posizione ottimale. Così chi si impegna e lavora è chi si trova in una zona intermedia (i
filosofi,che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere)
Inoltre la sacerdotessa afferma che Eros non è un dio ma piuttosto una semi-divinità: non è un dio ma
neanche un mortale, nasce e muore di continuo volendo dimostrare che non si può mai possedere
totalmente l'amore, quindi la sapienza.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Nel medioevo, tuttavia, questo viene perso e la bellezza e il sommo bene non sono che sinonimi di
Dio.
(2)
Nel periodo della Scolastica, detta anche scuola aristotelico-tomistica, il pensiero di Platone viene
travisato passando prima tra le mani dei padri della chiesa come sant Agostino.
Questi non avevano come fine ultimo il conoscere le opere e gli autori classici, bensì quello di
avvicinarsi a Dio per assicurarsi una salvezza.
Ovviamente però la chiesa si nutriva di alcuni preconcetti e basi (come ad esempio preservare la
verginità fino al matrimonio) per le quali ancor oggi parlare di amore platonico non significa parlare di
ciò che si è detto prima ma bensì di una forma d'amore che non si manifesta con il contatto carnale e
fisico, ma è spirituale, fatto di gesti, emozioni. Questa forma d'amore, abbastanza bizzarra oggi,
considerando il modo in cui il corpo viene esibito e mercificato a discapito della mente, è stata a lungo
celebrata dai poeti e considerato come un amore puro e perfetto. Basti pensare ad autori come Dante.
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Assaggi di Filosofia
Platone
(3)
Per questi infatti l’amore è un mezzo per raggiungere il divino ma che però allo stesso tempo va tenuto
a distanza in quanto si potrebbe cadere nell’errore di Petrarca: lodare eccessivamente l’oggetto d’amore
distraendosi dal fine ultimo (Dio). Ci spieghiamo così l’omissione dell’amore carnale visto come
distrazione.
«Il primo bacio non viene baciato dalle labbra bensì dagli occhi», sono le parole di Sarah Bernhardt,
una delle più grandi attrici del XIX secolo, in merito all’amore platonico. Rappresenta bene l’idea
ormai comune di questo tipo di amore, sentito come un amore lontano dai nostri giorni e volto solo ad
un’ elevazione spirituale, un amore puro e perfetto.
Si nota, infatti, come sia diventata una vera e propria convinzione questo tipo di definizione anche in
base ad alcuni aforismi di grandi autori:
<<Dulcinea non sa né leggere né scrivere, e in tutta la sua vita non ha mai visto la mia scrittura, né
alcuna lettera mia, perché il mio ed il suo amore on sempre stati platonici, senza mai andar oltre degli
onesti sguardi. E anche questi, cosí di tanto in tanto, che potrei veracemente giurare che in dodici anni
che son trascorsi dacché l’amo piú della luce di questi occhi, che la terra consumerà, non l’avrò vista in
tutto quattro volte, e di queste quattro può darsi che lei non se ne sia accorta nemmeno una che la
guardavo>>
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15
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Assaggi di Filosofia
Platone
<<Il vantato amor platonico (sì sublimemente espresso nel Fedro) non è che pederastia. Tutti i
sentimenti nobili che l'amore inspirava ai greci, tutto il sentimentale loro in amore, sia nel fatto sia
negli scritti, non appartiene ad altro che alla pederastia.>>
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1817/32 (postumo 1898/1900)
<<L'amore platonico è il più travagliato.>>
Michail Lermontov, Un eroe del nostro tempo, 1840
<<L'amore platonico è il sentimento che unisce un uomo e una donna, che pur desiderandosi,
rinunziano volontariamente all'intreccio dei corpi, maritando le anime. Fin dove arrivi quest'amore, fino
a quando possa vivere, io non so.>>Paolo Mantegazza, Le estasi umane, 1887.
Quindi possiamo dedurre che noi moderni, per effetto dei secoli precedenti, cadiamo nell’errore di
considerare questo tipo di amore come un amore irraggiungibile, lontano dal corpo, ma come vediamo
non è così, anzi, prima di arrivare alla mente e alle sue facoltà superiori , per così dire, è necessario
farlo passare per il corpo. Infatti l’eros, inteso come amore fisico e carnale è uno stimolo per Platone
ma un divieto per la Chiesa e il Medioevo.
NOTE
1) Spirito interposto fra il mondo del divino e quello dell'esperienza sensibile, partecipe e dispensatore
di facoltà soprannaturali o ispiratore di passioni imperiture.
2) L’origine della Y è individuabile nella lettera semitica waw. La Y (ypsilon) rappresentava l’ultima
lettera dell’alfabeto greco arcaico. In alcuni casi, veniva anche chiamata: «la lettera pitagorica»
(litteraPythagorica). Secondo la leggenda, sarebbe stato infatti lo stesso filosofo a integrarla nella
cultura greca.
Ciò che più conta, però, è il significato che i pitagorici attribuirono alla nuova lettera. Isidoro di
Siviglia, Dottore della Chiesa vissuto del VII secolo, ci dice che la gamba della Y rappresenta la prima
fase incerta della vita di una persona, non ancora dedita né a vizio né a virtù:
Y
litteram
PythagorasSamius
ad
cuiusvirgulasubteriorprimamaetatemsignificat,
exemplum
vitae
incertamquippe
necvitiisnecvirtutibusdedit.
121
humanaeprimusformavit;
et
quaeadhuc
se
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Platone
La biforcazione simboleggia invece la fase adolescenziale. A questo punto la persona si trova davanti
due strade diverse. Può scegliere la più difficile, quella della virtù, rappresentata dalla ramificazione
destra. Oppure la più facile, rappresentata da quella sinistra.
Biviumautem, quodsuperest, ab adolescentia incipit: cuiusdextra pars ardua est, sed ad
beatamvitamtendens: sinistra facilior, sed ad labeminteritumquededucens.
La strada della virtù, pur essendo la più ardua, saprà infine ricompensare l’individuo, accogliendolo in
una quieta sede excipiuntur, o sede di pace. Quella sinistra del vizio, invece, condurrà la persona alla
sciagura. La scelta è fra conoscenza e ignoranza, controllo di se stessi ed eccesso, Vita
Contemplativa e Vita Activa.
Ancora oggi è possibile identificare questo significato nella rappresentazione grafica della Y. Il trattino
destro è più stretto di quello sinistro, a dimostrazione del presupposto che la via della virtù è sempre
più difficile da intraprendere di quella del vizio.
3) Quadro datato 1884, “Dante e Beatrice”, Henry Holiday.
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Platone
IL SANT’AGOSTINO PLATONICO
DALLA “TEORIA DELLE IDEE” ALLE “CONFESSIONI”
Di Diletta Bergamo
1.La Chiesa e Platone
Il filosofo greco Platone ha influenzato in modo determinante la cultura occidentale. Anche il
cristianesimo trova le sue radici nelle dottrine filosofiche platoniche.
Alcuni teologi hanno manipolato e plasmato concetti platonici per costruire i fondamenti del
cristianesimo. Un ruolo fondamentale in questa operazione hanno avuto i padri della chiesa.
I padri della Chiesa sono teologi che vogliono approfondire i temi del cristianesimo e approfondirli in
modo più sistematico, utilizzando anche concetti tratti dalla filosofia. C'è una Patristica latina: massimo
esponente Sant'Agostino e una Patristica orientale.
Dal IV secolo fino alla fine del XII tutti i maggiori teologi e filosofi cristiani hanno articolato le loro
idee utilizzando come sfondo il platonismo: si parla quindi di platonismo cristiano. Nel periodo tra il
XII e il XIV secolo, invece, il cristianesimo è pensato su un'intelaiatura filosofica aristotelica.
2.Agostino: mediatore tra fede e ragione
Agostino fu il più grande pensatore cristiano ad attuare una matura sintesi tra fede, filosofia e vita,
ritenendo che la fede avrebbe tratto luce e ricchezza dalla ragione e che la ragione a sua volta sarebbe
stata stimolata maggiormente dalla fede. In questa ricerca accanita della fede, l’intelligenza dischiude
gli orizzonti del pensiero e si accoglie questa luce che viene da Dio. Non appena si arriva a conoscere
la verità di Dio si resterà allibiti: il sapere che parte dalla fede. Insomma nacque così il filosofare nella
fede o la filosofia cristiana. Non è una forma di fideismo cieco, per Agostino la fede non sostituisce
l’intelligenza e non la elimina, ma la stimola e la promuove e da canto suo l’intelligenza non elimina la
fede ma la rafforza e la chiarifica “Credo ut intelligam, intelligo ut credam”, (credo per pensare, penso
per credere).
Il conoscere quindi tende alla verità e la verità s’identifica con Dio, ciò fa capire che la maggior parte
delle dimostrazioni d’Agostino sull’esistenza di Dio sono dimostrazioni dell’esistenza di una verità
somma e suprema. Egli non accetta del tutto la gnoseologia platonica, ne rifiuta la reminiscenza e la
sostituisce con l’illuminazione: Dio come nella creazione ci fa partecipi dell’essere, così ci fa partecipi
della verità; essendo Lui stesso la fonte della verità. Agostino diceva che nel momento stesso in cui si
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Assaggi di Filosofia
Platone
pretende di negare la verità la si afferma “si fallor, sum” (se dubito, proprio per poter dubitare, esisto, e
se esisto sono certo di pensare). Per lui la sensazione non è un’affezione che l’anima subisce, poiché gli
oggetti sensoriali agiscono sui sensi e ciò non sfugge all’anima, che agisce traendo non dall’esterno ma
dall’interno la rappresentazione di quel oggetto che è la sensazione. Quindi nella sensazione il corpo è
passivo mentre l’anima è attiva. Tutto ciò è solo il primo grado della conoscenza. L’anima grazie alla
ragione le giudica sulla base di criteri che contengono un “plus” rispetto agli oggetti corporei: mutevoli
e imperfetti per il corpo, immutabili e perfetti per l’anima. Tutti questi criteri di conoscenza derivano
da qualcosa che è al di sopra della nostra mente: la Verità. L’intelletto quindi giudica grazie alla verità
da cui è giudicato.
La verità è la misura di tutte le cose e lo stesso intelletto è misurato in base ad essa. La verità può
essere colta col puro intelletto ed è costituita dalla fede, la suprema realtà intelligibile.
Dunque, Sant’Agostino in merito alla conoscenza della verità respinge la dottrina della reminiscenza
sostituendola o meglio ripensandola e trasformandola in quella dell’illuminazione: la verità di Dio è la
luce che illumina la mente umana nell’atto della conoscenza permettendole di cogliere le Idee intere
come verità eterne e intelligibili presenti nella stessa mente divina.
3.Teoria dell’illuminazione
Illuminazione, (teoria della illuminazione), la dottrina per cui la conoscenza è possibile solo in quanto
l'intelletto divino illumina quello umano. Di origine platonica (Fedro 74b, 75; Menone 81 sgg.)
l'illuminazione e connessa alla dottrina dell'anamnesi, secondo la quale apprendere è ricordare ciò che
l'anima ha conosciuto in un periodo anteriore alla vita terrena, venne pienamente sviluppata da
sant'Agostino. Come Platone, Agostino sostiene che la conoscenza è possibile perché l'uomo è in
possesso di criteri assoluti che, non potendo derivare dai dati relativi e mutevoli della sensibilità, sono
indotti nello spirito da un'illuminazione divina; ma, a differenza di Platone, egli afferma che
l'illuminazione non rende presenti all'intelletto le idee (per cui conoscere sarebbe ricordare tali idee, che
unificano il molteplice dell'esperienza), bensì i criteri (le verità astratte, come i numeri, e le regole di
condotta morale assolute) che guidano il procedere della conoscenza (De libero arbitrio, II). Tali verità
però non sono note soltanto a chi è illuminato dalla grazia, ma sono comuni a tutti gli uomini dotati di
intelletto: esse concernono infatti le conoscenze naturali, non le verità di fede, alle quali si giunge
invece solo per il tramite della grazia. Questa concezione sarà ripresa da tutta la tradizione
platonicoagostiniana medievale.
4.Miti e parabole
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Platone
4.1. Mito della caverna e teoria dell’illuminazione
Affinché non sembri forzato e fuorviante un breve raffronto tra Agostino e Platone, è bene sottolineare
che è lo stesso Padre della chiesa ad indicarci di guardare al pensatore greco, il cui mito della caverna
Agostino ha sinteticamente rielaborato all'interno dei “Soliloquia”.
Pur essendo consapevoli del discrimine che separa i due filosofi (la rivelazione), tuttavia non ci sembra
azzardato affermare che l'elemento che li accomuna è la trascendentalità del sole intelligibile spiegata
attraverso l'analogia con il meccanismo della vista. In entrambi la sorgente luminosa è luce per
l'intelletto dell'uomo, è colei che dà l'intelligentia. In entrambi la frontalità dello sguardo è segno di
insufficienza rispetto alla potenzialità di cui è capace. I prigionieri della caverna riescono solo a
guardare dinnanzi a sé, dal momento che le catene impediscono di girare la testa. Lo stesso sguardo
frontale caratterizza, in Agostino, quanti non operano unaconversio interiore dello sguardo. Finché non
si gira la testa e lo sguardo non è in grado di vedere se stesso (il che significa, non è in grado di
pensarsi), l'unica vita concessa all'uomo è l'esteriorità. Non a caso uno dei primi atti che compie il
prigioniero appena le catene sono sciolte è quello di periágein ton auxéna, di girare la testa. Lo sguardo
a trecentosessanta gradi in Platone e lo sguardo interiore di Agostino sono la prima tappa nella ricerca
della fonte della massima visibilità. L'occhio che si libera dalla frontalità è l'occhio della mente che
opera una epistrophé, un cambiamento direzionale verso quella luce di cui partecipano gli stessi
prigionieri nella caverna. Essi infatti vivono nella luce pur non sapendolo. Che altro significano infatti
quell'ingresso aperto alla luce e quel fuoco che brilla nel carcere, se non una fondazione dell'uomo
platonico nella luce? Proprio come l'uomo di Agostino che vive, si muove ed è nella luce, anche l'uomo
di Platone si trova in rapporto con la luce. Una luce che è presente, in qualche modo, anche nella
caverna. Certo, dietro i prigionieri. Ma per quante siano le tenebre e le catene che li sprofondano
nell'ignoranza «l'ingresso» della caverna non verrà mai precluso alla luce. Come in Agostino: l'uomo
può avere lo sguardo guasto, frontale, esteriore, e tuttavia rimane comunque toccato dalla luce. E
l'ingresso di cui parla l'Ateniese pare simboleggiare la condizione della natura umana. D'altra parte, se
non si fosse fondati nella luce e se non si partecipasse di qualche raggio luminoso, come ci si potrebbe
girare per intraprendere il cammino di ricerca verso la condizione che permette di vedere tutto?
Qui però incominciano alcune difficoltà. Chi orienta nel cammino verso la fonte della massima
intelligibilità? Come abbiamo analizzato, per Agostino è un precettore interiore, anche se nel testo della
rielaborazione del mito fa riferimento, contraddicendosi, a maestri in carne ed ossa. Per Platone si
tratta di un maestro esterno che ridiscende nella caverna per liberare gli altri, ma non è escluso che
ognuno di noi possa essere maestro a se stesso. Non che questo implichi la non necessità di un sapiente
che ci orienti in ogni caso nella salita, ma potrebbe affiancare all'interpretazione che prevede qualcuno
che ci liberi dalle catene, quella secondo cui chi libera potrebbe essere lo stesso sguardo dell'uomo in
qualche modo costretto da se stesso. In questo caso il movimento partirebbe dall'uomo stesso.
L'elemento fondamentale però presente in entrambi è che nessun maestro esterno può immettere
125
Assaggi di Filosofia
Platone
nell'uomo la vista. Essa c'è già come possibilità di rivolgersi alla fonte della luce. Platone lo dice senza
fraintendimenti:
«proprio di questo dunque, vi sarebbe un'arte, di questa conversione dell'anima, in che modo possa
essere più facilmente ed efficacemente rivoltata, non già dell'infondervi il vedere, ma del procacciare
questo come con chi abbia sì tale facoltà ma non sia voltato dalla parte giusta, né veda là dove
dovrebbe».
Nessun maestro pertanto può arrogarsi il diritto di infondere lo sguardo intelligibile che
potenzialmente è già presente nell'uomo.
4.2. L’analogia tra la Trinità e l’anima umana
Il problema della Trinità è uno dei più complessi, ma anche uno dei più affascinanti tra quelli che
Agostino ha affrontato. La ragione umana, avendo dei limiti, non potrà mai comprendere perfettamente
come Dio possa essere, allo stesso tempo, Uno e Trino. Tuttavia, è possibile intuire, in parte, la
soluzione di questo problema. Agostino affronta la questione, in particolare, nelle Confessioni e nel
trattato La Trinità. Per cercare di spiegare, in modo intuitivo, il mistero dell’esistenza di Dio come Uno
e Trino, Agostino individua un’analogia tra la Trinità e l’anima umana tripartita di Platone.
Nell’anima umana, infatti, o per meglio dire nella mens, riluce l’immagine stessa della Trinità divina,
perché è suddivisa in tre facoltà:
Memoria: essa in primo luogo ricorda in modo attuale tutte le realtà temporali – passate, presenti,
future –. In tal modo, l’anima conserva in sé un’immagine dell’eternità, in cui non esiste un passato ed
un futuro, ma solo un indivisibile presente che abbraccia tutti i tempi. Essa, poi, conserva in sé i
principi semplici, quali il punto, l’unità, l’istante, senza i quali non è possibile pensare, né ricordare le
nozioni più complesse che hanno origine da essi. In forza della sua seconda operazione, appare chiaro
che la memoria non è informata solo dalla realtà esterna per mezzo di immagini sensibili, ma possiede
anche dei principi semplici che un principio ad essa superiore ha infuso in lei. Inoltre conserva in sé,
come eternamente validi e indimenticabili, anche gli assiomi delle scienze, tanto è vero che, appena ne
sente parlare, subito li approva e dà il proprio assenso, come se percepisse qualcosa di innato. Ciò
appare chiaro quando sottoponiamo a qualcuno affermazioni del tipo «di ogni cosa si deve o affermare
o negare che esista» o «il tutto è maggiore della sua parte». In tal modo, le operazioni della memoria
manifestano che l’anima è immagine e similitudine di Dio in quanto dimostrano che l’anima condivide
con Dio la sua eternità.
Intelletto: esso ha il compito di comprendere il significato dei termini, delle proposizioni e delle
deduzioni. Comprendere un termine significa comprenderne innanzitutto la definizione, ma una
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Assaggi di Filosofia
Platone
definizione si dà facendo riferimento a termini più generali i quali, a loro volta, vengono definiti
ricorrendo a termini ancora più generali fino a giungere a quei concetti supremi senza i quali è
impossibile comprendere ciò che deriva da essi e che sono, per questo motivo, innati. Ad ogni termine
corrisponde un ente e, più il termine è generale, più l’ente è generale e si avvicina a quell’ente in sé,
ente totalmente puro, senza il quale non si può conoscere alcuna sostanza particolare. Ma l’intelletto ha
innata la nozione di ente in sé, perfetto e immutabile e, tramite l’esperienza, conosce che un
determinato ente è manchevole e imperfetto proprio perché ha in sé la nozione di ente perfetto.
L’intelletto, inoltre, comprende il significato delle proposizioni quando sa con certezza che sono vere
ed esprimono una realtà immutabile. Ma, essendo soggetto al mutamento, esso non è in grado di
ricavare da sé questa certezza, che è frutto perciò dell’immutabile luce divina che lo illumina.
Infine, l’intelletto afferra il significato di una deduzione quando vede che la conclusione deriva
necessariamente dalle premesse. L’intelletto afferra sempre la necessità di questo rapporto: se
consideriamo ad esempio la frase «Se un uomo corre, allora si muove», tale frase resta sempre vera sia
che l’uomo corra veramente, sia che si tratti di un’immagine creata dalla mente. Infatti non è
importante che esista un uomo che corra veramente; l’importante è che, se esiste un uomo che corre, è
necessario che se corre deve muoversi. La realtà di questa deduzione esiste, dunque, a prescindere dal
suo verificarsi, perché la necessità della sua realtà deriva da Dio stesso, il quale ha voluto le cose in un
certo modo. Appare evidente, dunque, che il nostro intelletto è congiunto con la stessa Verità eterna.
Volontà: il suo operare si esplica nella valutazione, nel giudizio e nel desiderio. La valutazione consiste
nel ricercare che cosa sia meglio tra una cosa e un’altra. Il meglio non può essere definito se non in
riferimento all’ottimo, ma non posso dire che una cosa sia migliore di un’altra perché assomiglia di più
all’ottimo se non so che cosa sia ottimo. In tutti coloro che compiono una valutazione è quindi impressa
la nozione di Sommo Bene.
A sua volta, un giudizio sicuro circa le cose soggette a valutazione si ha grazie ad una legge. D’altra
parte, nessuno giudica con certezza basandosi su una legge se non è certo che quella legge sia giusta e
non debba essere a sua volta giudicata. Per cui l’anima che giudica con certezza attinge a leggi
ingiudicabili ad essa superiori. Esse le sono superiori perché create da Dio e, quindi, l’anima giudica
attraverso le stesse leggi divine.
Si ha ,poi, il desiderio soprattutto di ciò che attira; ma ciò che più attira è ciò che maggiormente
amiamo, ossia lo stato di felicità perfetta. Ora, non si possiede questo stato di felicità se non si perviene
al Sommo Bene. Dunque il desiderio dell’uomo non appetisce nulla se non il Sommo Bene, ciò che
conduce ad esso o ciò che ha somiglianza con esso.
Si può notare, dunque, quanto l’anima sia vicina a Dio dato che la memoria, con il suo operare, ci
conduce alla Eternità del Padre, l’intelletto alla Verità del Figlio e la volontà alla Somma Bontà dello
Spirito Santo. Infatti, come il Padre Eterno genera il Figlio, il Verbo incarnato disceso sulla terra per
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Assaggi di Filosofia
Platone
rivelare la Verità del Padre per opera dello Spirito Santo che rappresenta la volontà di realizzare ciò che
il Padre ha pensato (ciò che è Sommo Bene), così la memoria che è eterna genera l’intelletto che rivela
e rende comprensibili le immagini della memoria, ed entrambe, attraverso la volontà, sono dirette verso
il Sommo Bene. Inoltre, come le facoltà dell’anima sono tre, sebbene l’anima sia unica dal punto di
vista dell’essenza, così le persone divine sono tre, sebbene sia unica l’essenza di Dio.
5.Bibliografia
Merlan Philip, Dal platonismo al neoplatonismo, Vita e Pensiero, Milano 1994
Etienne Gilson, Le metamorfosi della "Città di Dio" , Siena, Catagalli, 2010.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Platone
Filosofo o sofista?
“La caratterizzazione più sicura della tradizione filosofica europea è che essa consiste in una serie di note a
margine su Platone”.
E’ così che ricorda Platone il grande filosofo del XX secolo Alfred North Whitehead e probabilmente è così che
tutti dovremmo ricordarlo dal momento che non possiamo non tenere conto del fatto che il platonismo abbia
influenzato tutta la filosofia dei secoli successivi; “Tutta la filosofia dopo Platone, e sino ai giorni nostri, anche
quando è contraria alle posizioni di Platone, vi fa, sia pure indirettamente, riferimento.” [1] In effetti è
impossibile non notare che le domande platoniche saranno motivo ricorrente nella filosofia, in particolare quella
occidentale. Tutti insomma conosciamo, in modo più diretto o almeno per sentito dire, Platone eppure è
innegabile che tutti, comunque, ce ne siamo fatti un’idea diversa e non solo in termini di approvazione o meno
per quanto riguarda le sue dottrine, ma anche riguardo la tipologia di queste e l’ambito in cui è opportuno
collocarle. Platone, con il suo pensiero, segna certamente una svolta nel mondo della filosofia, ma come
potremmo definire il suo pensiero? Soprattutto, quali sono i fini del pensiero platonico? Cosa lo differenzia, con
le sue dottrine e il modo in cui le afferma, da un sofista?
Gli interrogativi che ci si potrebbe porre sulla figura di Platone sono decisamente molti, non a caso è stato, nel
corso della storia e tutt’oggi, uno dei personaggi maggiormente discussi, analizzati e criticati. Proprio per questo
ci troviamo di fronte a molteplici interpretazioni non solo della sua stessa figura, ma anche delle sue dottrine e,
di conseguenza, del suo pensiero.
C’è chi vede in Platone l’incarnazione della figura del filosofo più diffusa ai giorni d’oggi: l’uomo saggio e
cogitabondo che osserva dettagliatamente la realtà non tanto per comprendere tutto quello che accade intorno a
lui, ma per riuscire a guardare oltre, i massimi sistemi, ciò che muove il mondo che lo circonda e che,
successivamente, insegni alla comunità ciò che ha appreso e come lo ha appreso.
Per capire meglio come la figura di Platone corrisponda perfettamente a quella del filosofo sopra descritta, sarà
certamente necessario analizzare le sue dottrine in luce di una più chiara idea di chi sia propriamente un filosofo;
proviamo a darne una definizione. Generalmente si intende per filosofo colui che “si dedica alla filosofia, la
studia, la insegna”[2] oppure anche “chi guarda all’esistenza con un certo distacco”[3], quindi da un altro punto
di vista, che gli consenta di avere una visione più realistica ed ampia dell’esistenza stessa.
Ora veniamo alle dottrine; le più note, nonché le più importanti di tutta la tradizione filosofica platonica sono:



La teoria delle idee e del sommo bene visto come “l’idea delle idee”
Lo stato ideale
Le dottrine riguardo la comunicazione (scrittura e oralità)
129
Assaggi di Filosofia

Platone
L’ amore e la bellezza
Ciò che dimostra l’essere propriamente filosofo di Platone sta, oltre che nel contenuto delle sue dottrine,
nell’approccio con cui si dedica a queste. Nell’esposizione e nell’argomentazione delle sue dottrine, per quanto
profondamente differenti da un punto di vista tematico, c’è una costante che si identifica proprio nell’approccio
alla loro trattazione. Tutte infatti rappresentano il raggiungimento di qualcosa destinata a rimanere, con ogni
probabilità, un’idea, o, per meglio dire, un’utopia. E’
proprio questo il fine primario del platonismo e, se vogliamo, ciò che più lo avvicina al maestro Socrate: partire
da una domanda che spinga a una costante ricerca tesa verso l’assoluto per avvicinarsi alla verità, con una “dotta
ignoranza”, ovvero rimanendo pur sempre nella consapevolezza che questa non potrà mai essere posseduta fino
in fondo. Questo si identifica perfettamente con la filosofia.
Il filosofo tuttavia, come abbiamo precedentemente affermato, non è solo colui che si dedica alle problematiche
e alle loro risoluzioni con un determinato approccio, ma anche, o soprattutto, colui che sa come trasmettere ciò
che impara e il modo in cui riesce ad impararle, capace quindi di insegnare propriamente la filosofia. Per fare
questo è necessaria la comunicazione e, indubbiamente, che questa sia efficace.
Ebbene, Platone è filosofo anche riguardo questo aspetto; infatti, oltre all’elaborazione di vere e proprie dottrine
riguardo la comunicazione che lo hanno portato alla conclusione che l’oralità sia l’unica forma comunicativa
effettivamente efficace in quanto qualcosa può essere pienamente compreso solo se se ne discute direttamente
con un interlocutore, capace di rispondere a delle domande e di fornire chiarimenti, cose che non sono possibili
se si apprende da un testo scritto. Non si può, tuttavia, sfuggire alla necessità della scrittura per trasmettere e
lasciare in eredità alla comunità il proprio pensiero: è così che Platone arriva alla scelta di scrivere in forma
dialogica, che è la forma scritta più vicina all’oralità. Platone dà quindi primaria importanza alla comunicazione
ritenendola uno dei principali doveri del filosofo ( ne è una dimostrazione il mito della caverna).
Dunque possiamo affermare che la descrizione dei tratti essenziali della figura di Platone e di conseguenza del
suo pensiero sia in linea con quella del filosofo.
Infatti “La prima lezione di Platone è che la filosofia, a differenza di ogni altra forma di credenza rivelata, la si
fa dialogando e confrontando le idee: Platone non è un sofista, nel senso che ritenga che la verità sia relativa
alla situazione e ai problemi di chi cerca di convincere gli altri, e il suo dialogo mira a trarre dall’animo
dell’interlocutore quello che forse non aveva capito ma che doveva sapere fin dall’inizio.” [4]
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Assaggi di Filosofia
Platone
Non manca, tuttavia, chi la pensa in modo diametralmente opposto e identifica Platone come un vero e proprio
sofista che vuole far prevalere la propria opinione contrapponendola a quella di altri. C’è da dire infatti che lo
stesso Platone a volte ponga l’accento sul desiderio di fare valere la propria opinione, per esempio quando
utilizza il mito.
Come può Platone dimostrare tutto quello che afferma nei suoi miti? Non è forse un modo di voler affermare
un’opinione personale su quelle altrui quello di utilizzare spesso il mito come forma comunicativa, in quanto per
scrivere un mito è necessario relativizzare alcune verità che potrebbero essere considerate oggettive? Dopotutto
anche Platone pensa che la verità non possa essere raggiunta. E nella forma dialogica? Non è forse anche il
dialogo una contrapposizione tra due o più differenti opinioni? Non può anche il dialogo diventare un mero
esercizio di dialettica e retorica? Non è proprio il dialogo che mette in discussione teorie che molti potevano
considerare verità assolute?
Infatti la sofistica è caratterizzata “dal dominio dell’opinione, dalla convinzione che la verità non possa essere
raggiunta”. Infondo questo non è distante da ciò che afferma Platone e potrebbe esserne una testimonianza il
mito della biga alata: per quanto ci si sforzi, alla fine non si riuscirà mai a raggiungere la verità a cui tanto si
aspira proprio in quanto ogni uomo è in possesso di un animo concupiscibile; ci sarà sempre il cavallo nero,
ovvero qualcosa, un desiderio, comodità, abitudine, che allontanerà l’uomo dalla verità assoluta.
C’è dell’altro: secondo alcuni, tra cui anche Aristotele, il dualismo platonico non fa altro addirittura che
allontanare ulteriormente dalla verità e dalla realtà. “Insomma, per Aristotele, la metafisica di Platone non
sarebbe null’altro che un “raddoppiamento” della realtà (anzi più che un raddoppiamento perché “le forme
sono ancor più numerose degli individui sensibili”), inutile e pericoloso per il fatto che induce a sottovalutare la
realtà e la possibilità stessa di conoscerla”[5], e ancora, “I Platonici, afferma Aristotele, non si rendono conto di
agire sulla falsariga dei matematici, in quanto rendono astratti gli enti fisici che peraltro sono meno suscettibili
di astrazione dei dati matematici”.[6]
Questa visione della figura di Platone, tuttavia, può essere facilmente confutata; basta prendere attentamente in
analisi le sue dottrine.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Come precedentemente affermato, la costante nelle dottrine platoniche è l’ideale di ricerca intrinseco in esse, lo
stesso ideale che si trova alla base della ricerca filosofica. Le dottrine platoniche potrebbero essere definite
metafora della filosofia, in quanto in ognuna di esse è previsto un percorso perfettamente articolato, suddiviso in
tappe e scandito da obiettivi da raggiungere. Un percorso che tenda al sommo bene, all’idea delle idee, verità
assoluta. Per Platone l’esistenza stessa potrebbe essere interpretata come metafora della filosofia.
L’utopia platonica e il raggiungimento della perfezione ideale non allontanano affatto l’uomo dalla realtà, anzi,
lo spronano a cercarne una più vicina possibile alla verità assoluta e allo stesso tempo ad essere consapevole che
può soltanto avvicinarsi a questa senza mai raggiungerla; questo fa sì che ogni uomo sia pienamente consapevole
di sé stesso e anche dei suoi limiti, perché solo nella consapevolezza di questi l’uomo può accingersi a superarli
impegnandosi nella ricerca della virtù.
Per quanto riguarda la trattazione e l’affermazione delle proprie opinioni e teorie va fatto un chiarimento su un
punto certamente fondamentale che segna un’altra differenza sostanziale tra Platone e i sofisti: il metodo di
confutazione. Platone infatti, al contrario dei sofisti, confuta le opinioni altrui non contrapponendo un’altra
opinione, ma dimostrando l’autocontraddittorietà dell’opinione che ha intenzione di confutare; tra l’altro è
proprio con il metodo della dimostrazione dell’autocontraddittorietà che Platone stesso smonta proprio la
sofistica: “Come si fa a dimostrare la falsità dell’opinione di un altro? Il modo più banale è quello di
contrapporgli un’altra opinione, invece il metodo di Socrate e di Platone è quello di dimostrare
l’autocontraddittorietà di ciò che afferma l’avversario (sofista), perché se enuncio semplicemente un’altra
affermazione mi metto già dalla sua parte, cioè riconosco implicitamente che ci sono tante opinioni. Platone
smonta la sofistica non col contrapporre all’errore della sofistica una sua verità; egli analizza le affermazioni
dei sofisti e mostra che sono autocontraddittorie, cioè si distruggono da sé: questo è il metodo giusto per
confutare.”[7]
E’ bene, infine, prendere in considerazione tra critiche di origine platonica alla sofistica. Platone ne critica le tesi
fondamentali- trattando di conseguenza la filosofia in maniera praticamente opposta- che sono: lo scetticismo, il
relativismo e il soggettivismo.
I sofisti ritengono che nessuno sappia niente e quest’affermazione può essere facilmente smentita: se qualcuno è
in grado di dire che nessuno sa niente significa che sa che c’è il non sapere, allora di conseguenza è falso che ci
sia ignoranza assoluta; c’è dunque qualcosa che si sa e questo basta per “sconfiggere” lo scetticismo.
Platone ragiona in modo simile per il relativismo: se qualcuno sostiene che tutto sia relativo, allora anche
l’affermazione che tutto è relativo è relativa. Anche il relativismo, come lo scetticismo, è autocontraddittorio.
Platone riesce a dimostrare che anche il soggettivismo è, in realtà, falso: “Protagora, Gorgia e tutti i sofisti
conversavano di continuo e cercavano di convincere con le loro argomentazioni, quindi, mentre sostenevano il
soggettivismo, cioè l’individualismo, facevano però ricorso alla comunicazione e quindi ammettevano
l’intersoggettività” [8]; per quanto riguarda la comunicazione abbiamo precedentemente dimostrato
l’impostazione filosofica (e non sofistica) del modo di comunicare platonico.
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Assaggi di Filosofia
Platone
Alla luce dell’analisi appena conclusa e delle conclusioni tratte possiamo quindi affermare che la figura di
Platone non è affine a quella dei sofisti, ma le sue caratteristiche fanno indubbiamente di lui un filosofo.
Possiamo concludere dicendo che “Platone è figura di porata storica mondiale, e la sua filosofia è una di quelle
creazioni [….] che dal primo loro sorgere hanno avuto la più significativa influenza su tutte le età successive,
sull’educazione e sullo svolgimento dello spirito. Infatti ciò che vi è di caratteristico nella filosofia platonica è la
sua direzione verso il mondo intellettuale, l’elevazione della coscienza al regno dello spirito [….] per lui, infatti,
l’assoluto è nel pensiero, e ogni realtà è nel pensiero”.[9]
Note:
U. Eco; Storia della filososfia 1. Dall’antichità al medioevo, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ediz. 2014, editori
Laterza, pag. 98
[1]
[2]
Diozionario italiano online
[3]
Treccani online
U. Eco; Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevo, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ediz 2014, editori
Laterza, pag. 98
[4]
[5]
Platone vol. 1, a cura di R. Radice, grandangolo, pag.138
[6]
Idem
[7]
A. Gargano, I sofisti, Socrate, Platone, pag. 8
[8]
Idem
[9]
G. W. F. Hegel; Platone vol. 1, a cura di R. Radice, grandangolo, pag 137
Bibliografia:
1. Storia della filososfia 1. Dall’antichità a medioevo, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ediz. 2014,
editori Laterza
133
Assaggi di Filosofia
2.
3.
4.
5.
Platone
Dizionario italiano online, www.dizionario-italiano.it
Treccani online, www.treccani.it
Platone vol. 1, a cura di R. Radice, grandangolo
I sofisti, Socrate, Platone, A. Gargano
134
Assaggi di Filosofia
Platone
Platone: filosofo irrilevante o grande pensatore?
Di Federica Santoro
Chi almeno una volta non ha sentito anche solo nominare il filosofo Platone? Quasi nessuno.
Evidentemente questo non è un caso, evidentemente quest'uomo deve aver detto o fatto qualcosa di
grande nella sua vita per essere così conosciuto. Eppure c'è chi è pronto a mettere in dubbio la sua
importanza di filosofo, la sua rilevanza come tale. Noi, quindi, siamo qui per difenderla e ribadirla.
Innanzitutto, partiamo dal presupposto che spesso si sente dire che Platone è privo di originalità o che
egli non è un filosofo a se stante. Ovviamente tutto ciò è detto a proposito del suo rapporto con il
maestro Socrate. Molti, infatti, credono che Platone abbia solamente ripreso e rielaborato le dottrine del
maestro, e riservando, dunque, alla propria carriera filosofica nulla che si possa definire una sua teoria.
Sicuramente non possiamo negare che per Platone, Socrate sia stato un punto di riferimento
indispensabile, ma da questo a dire che Platone sia una cosa unica con Socrate o che parlare di Platone
sarebbe come fare lo stesso di Socrate ce ne passa.
Possiamo già trovare una prima differenza nel metodo di insegnamento. Sappiamo che Socrate
intendeva la filosofia come il compiere un esame incessante, una ricerca di se stessi e della verità e
riteneva che l'unico modo per ottenere ciò fosse il ragionamento espresso con l'oralità.
Socrate non ha mai scritto niente appunto perché, secondo la sua concezione, lo scritto comunicasse
semplicemente una dottrina e non stimolasse quindi la ricerca. Platone, pur dimostrando la sua
approvazione al concetto socratico a proposito dell’ importanza dell’ oralità, alla fine non lo rispetta
perché prende comunque la decisione di mettere per iscritto i suoi pensieri utilizzando la forma del
dialogo, avendo,in questo modo, la sicurezza che i suoi scritti sarebbero stati perfettamente tramandati.
Una differenza molto più profonda e importante riguarda il concetto di verità. Socrate, infatti,
s'interessava a stimolare nell'uomo la ricerca della verità, soprattutto a chi, superbamente, ritenesse di
essere già sapiente in ogni ambito. E proprio con i saccenti, Socrate adottava la tecnica dell' ironia,
ponendo una serie di domande all'interlocutore, mettendolo in difficoltà nel dare le risposte, fino a
renderlo cosciente della propria ignoranza al punto da stimolare in lui quella voglia di ricercare
incessantemente se stessi e la propria verità.
La ricerca della verità, secondo Socrate, consiste essenzialmente in un lavoro che l'uomo deve fare con
se stesso mentre Platone le conferisce un valore più trascendente.
Egli crede che la verità risieda nell'Iperuranio cioè nel mondo delle idee.
135
La teoria delle idee
Assaggi di Filosofia
Platone
rappresenta la fase più importante della carriera filosofica di Platone, con essa il filosofo si distacca
definitivamente dal maestro elaborando un pensiero originale, appartenente esclusivamente a lui.
Ma andiamo per gradi. Che cosa sono le idee nella concezione platonica?
Platone, avendo dato una sua definizione di scienza, cioè di una realtà perfetta, eterna e immutabile,
afferma che l'oggetto di queste sono le idee anch'esse perfette e immutabili. Inoltre, il filosofo distingue
due tipi di idee:
- idee valori, cioè quelle che fanno riferimento ai principi etici, estetici e politici (Bene, Bellezza,
Giustizia ecc...)
- idee matematiche, corrispondenti alle entità della geometria e dell'aritmetica.
C'è da dire poi che Platone gerarchizza le idee. Le idee valori sono le più importanti, e al vertice
persiste l'idea del Bene che è il sommo valore e l'idea in cui si immedesimano tutte le altre.
Le idee di Platone trovano varie analogie con l'essere perfetto ed eterno di Parmenide, anche se vi sono
due differenze fra le teorie dei due filosofi:
- Platone ammette la molteplicità, infatti, dice che le idee sono varie, mentre per Parmenide l'essere è
unico
- Al contrario di Parmenide, Platone sostiene lo stretto legame tra le idee (perfette) e le cose (mutabili).
Platone afferma che le idee sono sia criterio di giudizio e sia di causa delle cose (ad esempio, noi
consideriamo qualcosa bello secondo l'idea di Bellezza).
Ultimo punto: come accede l'uomo alle idee? Platone elabora il seguente pensiero: l'anima umana ha in
realtà vissuto in precedenza nell'Iperuranio, prima di incarnarsi in un corpo, trovandosi così a stretto
contatto con le idee. Una volta lasciato il mondo delle idee, l’ anima conserva sfocati ricordi della sua
esperienza nell’ Iperuranio . Per questo motivo Platone afferma che conoscere è " ricordare ".
Dobbiamo, infine, aggiungere che esponendo la teoria delle idee, Platone si è mostrato coerente a un
altro suo pensiero: l'opposizione al relativismo sofistico. Platone era fermamente convinto che per
assicurare tranquillità e ordine nella società ci fosse bisogno di una realtà universale sulla quale nessun
uomo potesse dibattere o mostrarsi contrariato. Questo era un pensiero totalmente avverso a quello dei
sofisti, i quali ritenevano che dovesse essere l'uomo a misurare la realtà e non il contrario. In questo
modo, però, ottenevano soltanto una società piena di caos poichè ogni uomo esprimeva la propria
opinione e la stessa verità era molteplice.
Superata la questione Socrate, affrontiamo adesso un'altra pesante critica, questa volta da parte del
filosofo Nietzsche. Questo era un ammiratore della cultura greca secondo la quale esisteva un
equilibrio tra "spirito apollineo" (razionalità, logica, ordine ecc...) e " spirito dionisiaco" (esuberanza,
136
Assaggi di Filosofia
Platone
libertà da vincoli, accettazione dell'insensatezza della vita ecc...). Secondo il filosofo ,con Socrate c'è
stata una deviazione verso una forma esasperata dello spirito apollineo con la pretesa di conoscere tutto
tramite la logica e la razionalità, la condanna del corpo e la volontà di dare a tutti i costi un senso alla
vita, la quale, secondo Nietzsche, invece, non ne ha. Platone è condannato ancora aspramente, in
quanto egli ha concepito il mondo delle idee, ha sovrapposto al mondo sensibile un mondo ideale,
svalutando così il primo.
Nietzsche respinge soprattutto l'affermazione platonica per cui il corpo è il carcere dell'anima. Il fatto
che il mondo ideale è superiore al mondo sensibile implica che l'anima è superiore al corpo, che
l'aspirazione dell'uomo deve essere quella di liberarsi del corpo per entrare più direttamente in contatto
con l'idea. Nietzsche critica duramente la poca importanza del corpo a favore dell'anima e sostiene che
il rifiuto di esso, la priorità assegnata all’anima, all'ideale, al trascendente, a ciò che sta al di là del
sensibile, è un fattore che dal platonismo ritroviamo nel cristianesimo. Il cristianesimo è, secondo
Nietzsche, una sorta di manifestazione del platonismo: la svalutazione del mondo sensibile in Platone
ha generato una filiazione molto più concreta, che è il cristianesimo.
Come Platone aveva affermato che il corpo è il carcere dell'anima, così il cristianesimo predica con
molta più energia che bisogna vivere di rinunce, evitare i piaceri corporei, puntare alla salvezza
dell'anima. Nietzsche, quindi, giudica la morale della società cristiana da lui considerata inventata e
contro la natura dell'uomo.
A questo punto, la domanda è una sola: a prescindere dalle credenze religiose e non, riteniamo possa
essere condivisibile dai più che non ci sia nulla di più angoscioso che vivere una vita pensando che
questa non abbia un senso. Infatti, se noi perseverassimo nel pessimismo e non sperassimo in un futuro
ultraterreno, che motivo c'è di vivere? Dunque, in ogni caso, Platone ne esce vincente!
Bibliografia
- "Alla ricerca della filosofia" di Nicola Abbagnano
- Antonio Gargano: “saggio su Friedrich Nietzsche” ( 1844-1900)
137
Assaggi di Filosofia
Platone
L’utilità dell’inutile sapere
Di Clara Fabricatore
Introduzione
Ai giorni nostri, la filosofia, insieme ai saperi umanistici nella loro totalità, è spesso messa in discussione ed è
ritenuta inutile sotto ogni aspetto, semplicemente perché non produce profitto e benefici pratici. Ma, non ci si
rende conto che l’attuale crisi, prima di essere economica e finanziaria, è culturale, poiché si sopravvaluta una
società, che considera la cultura, l’educazione, le discipline umanistiche superflue e di cui si può fare a meno, in
quanto subordinate alla logica del profitto. Molto probabilmente, tutto ciò dipende da un semplice errore di
valutazione, dal momento che si ignora che “il ruolo della filosofia è proprio quello di rilevare agli uomini
l’utilità dell’inutile o, se si vuole, di insegnare loro a distinguere tra i due sensi della parola utile”40. Tale
errore, però, è inevitabile alla luce di una società, soggiogata dal superfluo, che compie moltissime azioni inutili
e possiede un’idea completamente deformata dell’ utilità. Spesso, quindi, al giorno d’oggi si tralascia o, più che
altro, non si vuole proprio accettare che “esistono saperifine a se stessi che- proprio per la loro natura gratuita e
disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale- possono avere un ruolo fondamentale nella
138
Assaggi di Filosofia
Platone
coltivazione dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità. All’interno di questo contesto,
considero utile tutto ciò che ci aiuta a diventare migliori” 41 , come sostiene Nuccio Ordine.
Può sembrare strano, ma questa questione così attuale dell’utilità del sapere filosofico, in un certo qual modo, era
già aperta nell’antichità tra Platone e Aristotele: da una parte si riteneva che la filosofia fosse fondamentalmente
utile per la vita associata, servendo a coloro che detenevano il potere per ben governare, dall’altra, invece,
veniva considerava inutile, in quanto conoscenza pura e disinteressata. Ed essendo tale argomento così attuale e
all’ordine del giorno, si è cercato di comprendere le diverse interpretazione sull’in-utilità della filosofia,
analizzando in primis Platone e Aristotele.
Può davvero la filosofia essere utile per la politica?
Platone sostiene che la filosofia abbia sostanzialmente un’utilità a livello socio - politico, dal momento che,
resosi conto con la morte del suo amato maestro della degradata società nella quale viveva, ritenne che la
filosofia fosse la sola via che potesse condurre l’uomo singolo e la comunità verso la giustizia . Dunque, il suo
principale interesse fu politico- formativo, come si evince dai suoi scritti, nei quali non si riscontra, come
spesso si pensa, un esame delle istituzioni statali o una ricerca di determinate leggi, bensì si ritrova il tema
dell’educazione alla vita politica e, quindi, alla filosofia. Fin da subito si comprende quanto all’interno del
pensiero platonico sia fondamentale la politica, con la quale la filosofia è molto legata, basti pensare che sia
stata proprio la ricerca di una comunità in cui l’uomo potesse vivere in pace e giustizia con i suoi simili che l’ha
spinto a filosofare. Platone, come si evince dal “Politico”, sostiene che essa sia “quella tecnica regia la quale,
assumendo il comportamento degli uomini valorosi e quello degli uomini equilibrati, li conduce a una vita
comune, in concordia e in amicizia e, realizzando il più sontuoso e il migliore di tutti i tessuti, avvolge tutti gli
altri, schiavi e liberi, che vivono negli stati, li tiene insieme in questo intreccio, e governa e dirige, senza
trascurare assolutamente nulla di quanto occorre perché la città sia, per quanto possibile, felice”42. Bisogna,
inoltre, tenere in considerazione che egli la ritenesse “capace di far trionfare ciò che è giusto attraverso il
coordinamento e il governo di tutte le attività che si svolgono nella città"43 , poiché era “principio ordinatore” e
139
Assaggi di Filosofia
Platone
“misura della misura”. Questo inscindibile e forte legame, che si delinea tra politica e filosofia, dipende dal
fatto che la politica viene ritenuta essere la scienza del Bene, che è “quella conoscenza suprema in riferimento
alla quale le cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli”44 , ed è la filosofia ad essere l’unico sapere in
grado di “sciogliersi dalle catene” dell’ignoranza e di cogliere il Supremo Valore. In tal modo, il filosofo
diviene il politico per eccellenza, unico in grado di governare la città, di conoscere pienamente la legge, il Bene
e di comprendere adeguatamente l’essenza della comunità, ossia il fatto che essa “nasce perché ciascuno di noi
non basta a se stesso, ma ha molti bisogni”45. Ma, ciò che rende veramente capace di governare il filosofo è il
suo amore disinteressato per il sapere e per la ragione nella sua totalità, tanto da essere capace di determinare
la verità senza essere minimamente influenzato. Di qui la tesi che :“Se i filosofi non governano le città o se quelli
che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la
filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente
all’uno e all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali delle città e
anche quelli del genere umano”46. Però, Nuccio Ordine in uno dei suoi molteplici interventi ha sostenuto che in
Platone sussista una forte contraddizione proprio nella sua concezione di filosofo, cioè“tra il filosofo
interessato alla pura teoresi e il filosofo impegnato nella vita politica” . Tale contraddizione è possibile
comprenderla solo analizzando e mettendo a confronto alcuni passi del “Teeteto”, opera composta durante la sua
vecchiaia, con altri della “Repubblica”, scritta tra l’età giovanile e la maturità. Infatti, si nota che nel primo
Socrate traccia una distinzione ben delineata tra “schiavi” e “uomini liberi” , cioè tra “quelli che fin da giovani
si aggirano nei tribunali nei luoghi simili, in confronto con coloro che sono stati allevati nella filosofia e in
questo tipo di studio, rischiano di apparire come degli schiavi in confronto con uomini liberi”47, che non si
riscontra più in opere successive, come appunto la “Repubblica”, nella quale
vengono, invece, delineate
solamente le varie figure di governanti- filosofi. La riflessione di Ordine può e deve essere tenuta in
considerazione, ma è molto discutibile e non può essere considerata del tutto fondata.
Comunque, la rifondazione della politica alla luce del sapere di Platone si basa sulla convinzione, espressa in
particolare nella “VII Lettera”, che “solo la retta filosofia consente di distinguere ciò che è giusto sia nella vita
pubblica che in quella privata”48. Egli arrivò a queste riflessioni solo dopo aver osservato la critica situazione
politica dell’Atene del suo tempo, rispetto alla quale si pose in antitesi. Fin dal primo momento si mostrò molto
140
Assaggi di Filosofia
Platone
ostile nei confronti della democrazia e di tutti quei uomini politici, che avevano attuato delle riforme in senso
democratico e che secondo lui avevano favorito la crisi. Si deve, però, tener conto che questo suo severo giudizio
sulla forma di governo ateniese e stesso la sua riforma politica sono il frutto di un complesso periodo
caratterizzato da un clima di instabilità e dal forte scontro tra gli aristoie il demos. Inoltre, riteneva che proprio
questa crisi etico- politica, di cui ne risentiva costantemente, dipendesse in primo luogo da una crisi di tipo
intellettuale e che ci fosse l’improrogabile necessità di una riforma globale. Quest’ultima sarebbe stata
efficace solo attraverso i filosofi e non solo con il semplice cambiamento delle forme governative. Anche in tal
caso si nota quanto la filosofia platonica fosse finalizzata alla politica e a questa fosse estremamente
collegata. Tutto ciò così come viene postulato con grande maestria da Platone, viene in seguito smontato da
Aristotele, il quale fissa lo scopo della filosofia nella conoscenza disinteressata del reale e vede il filosofo
come un sapiente o per certi versi uno scienziato-professore, tutto dedito alla ricerca e all’insegnamento.
I due capisaldi della riflessione filosofica occidentale, prima ancora di distinguersi per le dottrine specifiche, si
differenziano, quindi, tra loro per la diversa concezione generale degli scopi e della struttura del sapere, in
quanto, come si è potuto notare da questa prima analisi, Platone a differenza di Aristotele crede fermamente
nella finalità politica della conoscenza e vede la figura del filosofo come il miglior reggitore e legislatore, che
la città possa avere. Queste differenze, che si fanno a creare tra i due, dipendono da molteplici fattori, in primis
dal venir meno dell’interesse verso la materia politica del filosofo di Stagira. Quest’ultimo, vivendo in un
particolare periodo per polis, la quale era devastata da una profonda crisi, che ormai aveva raggiunto il culmine,
si sentiva pienamente cittadino greco e non era più coinvolto nelle questione del governo, ma era inglobato in un
più vasto organismo sociale. Così, fu inevitabile che egli andasse a ridefinire il ruolo della conoscenza filosofica,
che non era più orientata e subordinataalla dimensione politica, ma veniva identificata con la conoscenza
disinteressata della realtà in tutti i suoi multiformi aspetti. Aristotele chiarisce tutte queste questioni, che, al di là
di tutto, sono fondamentali per la piena comprensione del suo pensiero, in alcune tra le più celebri e importanti
pagine della “Metafisica”. Egli comincia questa straordinaria opera così: “ Infatti gli uomini hanno iniziato a
filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. Mentre da principio restavano meravigliati di fronte
alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori:
per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti
la generazione dell’universo intero. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere;
141
Assaggi di Filosofia
Platone
ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un
insieme di cose che destano meraviglia.”49
Ciò significa che la “meraviglia” è la causa prima del filosofare e che gli uomini hanno cominciato a fare
filosofia per liberarsi dall'ignoranza. Il loro scopo era quello di conoscere la verità su se stessi e sulla natura,
senza aver di mira una precisa utilità pratica, ma, ponendosi domande rigorose e cercando di elaborare teorie in
grado di rispondervi, agivano esclusivamente per soddisfare la loro sete di sapere. Proprio lo stupore per quei
“fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto”50 li ha spinti ad intraprendere
l’incessante ricerca. Inoltre, pensa che “se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire
all'ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di sapere e non per qualche bisogno
pratico.”51Dunque, la sua concezione filosofica è puramente fine a sé stessa e tende a risolversi nella vita
di pura contemplazione, in opposizione agli interessi connessi al vivere quotidiano e materiale. La filosofia è
l’unica scienza libera “perché essa sola ha il fine in sé stessa”52 ed è definita da Aristotele “divina”, perché
“l’uomo non vive di quella vita come uomo, ma in quanto un certo che di divino è presente in lui.”53 Da questa
“divinitas”degli esseri umani dipende in parte il carattere libero della filosofia aristotelica, che così rifiuta di
essere schiava dell’utile. Infatti, “è chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine senza mirare ad alcun
bisogno che ad essa sia estraneo, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per un altro,
così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé.”54
Dunque, la dedizione alla filosofia è sintomo di una vita libera, che è caratterizzata dall’agire indipendente dai
bisogni o dalla realizzazione di fini materiali. In tal modo, la ricerca filosofica si configura come l’attività per
eccellenza dell’uomo libero, il quale non può e non deve rinunciare ad essa, come Aristotele sottolineò nella
sua opera giovanile, il “Protreptico”: ”Se si deve filosofare, si deve filosofare, e se non si deve filosofare, si
deve filosofare: in ogni caso dunque si deve filosofare. Se, infatti, la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a
filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come
mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della
filosofia.”55
142
Assaggi di Filosofia
Platone
Platone e Aristotele hanno, quindi, presentato, due riflessioni estremamente differenti, ma, delle quali non è
possibile stabilire quale sia la più “giusta”, dal momento che tutte e due sono perfettamente condividibili e
inseribili all’interno di determinate situazioni politico-culturali. La seguente riflessione potrebbe risultare banale
o, comunque, marginale all’interno di due filosofie così complesse, ma non è affatto così. Solo, tenendole
entrambe in considerazione, si potrà comprendere quanto il sapere filosofico sia allo stesso tempo utile ed
inutile. Ma, in tal caso, il ritenere la filosofia inutile non è una spetto negativo o, comunque, l’errore di una
società deformata dal superfluo, ma significa che si è giunti a comprendere che soltanto ciò che è inutile e senza
scopo, soltanto ciò che è assurdo può renderci liberi e spezzare le catene che ci imprigionano, proprio come
sosteneva Albert Camus.
Note
1. da Pierre Hadot, Exerciesspirituels et philosophie antique
2. da Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, Manifesto, pag. 7-8, ed. Bompiani, 2013
3. da Platone, Politico,311 b-c,a cura di G. Giorgini, ed. Bur, 2005
4. da Platone, Politico, 304 a, a cura di G. Giorgini, ed. Bur, 2005
5. da Platone, Repubblica, VI, 505 a, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990
6. da Platone, Repubblica, II, 369 b, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990
7. da Platone, Repubblica, V, 473 d, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990
8. da Platone, Teeteto, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971
9. da Platone, VII Lettera, 326 a,
10. da Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, 12, trad. di Antonio Russo, ed. Laterza, 1992
11. Ibidem
12. Ibidem
13. Ibidem
14. Ibidem
15. Ibidem
16. Aristotele, Propetico,
Bibliografia
143
Assaggi di Filosofia

Platone
N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol.
1A, ed. Paravia, 2012

Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, Manifesto, ed. Bompiani, 2013

Platone, Politico,a cura di G. Giorgini, ed. Bur, 2005

Platone, Repubblica, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990

Platone, Teeteto, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971

Aristotele, Metafisica, trad. di Antonio Russo, ed. Laterza, 1992
144
Assaggi di Filosofia
Platone
Ovviamente c’era chi pensava proprio a tutto, ci trovammo davanti ad una deliziosa torta . Così per
chiudere in bellezza questa splendida serata passata a mangiare , bere, ridere e scherzare. Il tempo volò,
si fece quasi l’una ed era ora di andare . Ci salutammo calorosamente con la promessa di ritrovarci a
chiacchierare una di queste sere. Paradossalmente fu quasi una fortuna non uscire quel fatidico sabato
sera
145
Assaggi di Filosofia
Platone
Indice

Introduzione
2

La visione politica di Platone,
3
di Andrea Pascale

Platone: la giustizia per uno Stato ideale,
11
di Antonio Lucerino

Lo stato ideale di Platone è veramente perfetto,
16
di Edoardo Quarantelli

Platone: teorico dello Stato totalitario? Il rapporto del
filosofo con gli studiosi Novecento,
22
di Matteo Biccari

Utopia: illusione o modello a cui aspirare?,
27
di Maria Teresa Casiello

Utopia di una società perfettamente tripartita,
33
di Laura Campanella

Lo Stato utopistico o utopico di Platone?,
37
di Raffaella Cardellicchio

I filosofi non devono governare,
42
di Myriam Buonfino

L’uomo può realizzare un buon governo ?,
48
di Giovanna Olivieri

Uomo si nasce o si diventa? Innatismo e ambientalismo
dalla filosofia platonica alla psicologia del ‘900,
53
di Federica D’Alterio

Su cosa di fonda la conoscenza: Innatismo ed empirismo,
58
di Alessandra Buonaiuto

L’innatismo Platonico,
62
di Valeria Speranza

Come condizionano la conoscenza le idee innate? ,
di Sara La Torraca
146
69
Assaggi di Filosofia

Platone
Platone e la seconda navigazione,
76
di Daniil D’Alessio

Platone tra eros e retorica. Il rapporto tra corpo
econoscenza ,
82
di Lorenza Pesacane

Il contrasto tra oralità e scrittura!,
91
di Marino Bianco

Oltre i sentieri interrotti,
98
di Matteo Russo

Platone e l’immortalità dell’anima,
104
di Massimo Di Genua

Alla ricerca dell'essere compiuto,
110
di Aristidea Cavaliere

Platone cristiano: Reinterpretazione medievale
dell’amore,
116
di Francesca De Falco

Il Sant’Agostino Platonico. Dalla “Teoria della Idee” alle
“Confessioni”,
123
di Diletta Bergamo

Platone. Filosofo o sofista?,
129
di Francesca Frangipani

Platone: filosofo irrilevante o grande pensatore?,
135
di Federica Santoro

L’utilità dell’inutile sapere,
138
di Clara Fabricatore
147