Platone e la difesa dell’oralità
Uno scrittore
di “dialoghi”
Il mito di Theuth
I timori
di Platone
Da una tecnologia cognitiva
a un’altra
Il problema
di fondo: mente
o strumenti
tecnologici?
L’introduzione della scrittura nella società antica non fu accolta con unanime approvazione, ma presso alcuni intellettuali suscitò perplessità riguardo al suo valore per la trasmissione del sapere. Tra le voci dei pensatori “perplessi” spicca quella del filosofo greco
Platone (427-347 a.C.), allievo di Socrate, la cui riflessione si colloca nel momento di
transizione culturale in cui la scrittura comincia ad essere praticata piu diffusamente
(V-IV secolo a.C.). Le opere di Platone rappresentano in maniera particolarmente efficace questo stadio intermedio, perché, pur essendo scritte, assumono la forma del dialogo tra più interlocutori.
In un passo del dialogo intitolato Fedro il filosofo narra il mito egizio del dio Theuth,
il quale, recatosi dal re egiziano Thamus per mostrargli le arti da donare al suo popolo,
presenta la scrittura come uno strumento capace di rendere gli uomini più sapienti e
più capaci di ricordare. La replica del re è però molto dura: la diffusione della scrittura
otterrà proprio l’effetto contrario a quello auspicato, cioè l’indebolimento della memoria. Mettendo le cose per scritto, infatti, si fa affidamento sul testo e non si è più indotti
a esercitare la memoria per conservare i ricordi: quindi non si accresce effettivamente il
sapere. Inoltre – osserva Thamus – come i dipinti, gli scritti non rispondono alle domande che vengono loro poste, ma restano muti, cioè si sottraggono a quello scambio
dialettico tipico dell’oralità, su cui si basano l’insegnamento e la possibilità di acquisire
nuova conoscenza.
Perché questa posizione? Perché questa difesa dell’oralità? All’epoca di Platone, la grande
rivoluzione culturale provocata dall’avvento della scrittura si stava ormai compiendo. Il
filosofo, quindi, era certamente consapevole dell’inesorabile mutamento che l’indebolimento della trasmissione orale stava comportando e, come accade ogni volta che appare una nuova tecnologia cognitiva, avvertiva che era minacciato un assetto culturale
ormai consolidato.
La coscienza di dover perdere qualcosa di profondo, che investe la propria mente e la
propria cultura, genera spesso timore: si pensi, in tempi più recenti, alle grida di allarme
lanciate da molti intellettuali in seguito all’avvento del computer e delle nuove tecnologie informatiche, che sembravano dover sancire la “morte” del libro stampato. In realtà,
come più volte è stato sottolineato, le nuove tecnologie cognitive non si sostituiscono
mai completamente alle precedenti, e perlopiù si assiste a processi di integrazione: tendenzialmente, un nuovo medium non sancisce la scomparsa di un altro, ma può favorirne una riorganizzazione delle funzioni. Anche dopo l’invenzione della stampa molte
opere, sebbene fossero state poste per scritto, rimasero comunque legate alla recitazione
in pubblico, diventando, almeno fino al XVIII secolo, il fulcro di nuove forme di aggregazione sociale.
È indubbio, tuttavia, che le osservazioni di Platone sollevino un problema fondamentale, mettendo in risalto lo stretto rapporto che lega la mente umana agli strumenti
di cui si avvale: quando la mente affida a un supporto esterno un determinato carico
di informazioni, parallelamente esercita la corrispondente funzione interna in misura
minore. È il caso, ad esempio, dell’utilizzo delle macchinette calcolatrici in sostituzione del calcolo mentale o scritto “per esteso”: se la mente si “alleggerisce” dell’onere
del calcolo, affindandolo alla calcolatrice, anche l’esercizio della memoria ne risulterà
attenuato.
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E. Clemente - R. Danieli, Antropologia, Paravia