Introduzione Verso il 1200 a.C., primavera, nell’ottavo giorno del ciclo, Wu Ding, sovrano della dinastia Shang, sta nel tempio regale degli antenati, intorno a lui vasi sacrificali di bronzo riccamente ornati, colmi di carne, cereali e vino di miglio per gli spiriti degli antenati. Uno di loro deve essere adirato, perché Wu Ding ha un terribile mal di denti. Un sacerdote dell’oracolo, accovacciato presso un fuoco, prende dall’altare un piastrone ventrale di carapace di tartaruga ben levigato, lo fruga con una bacchetta arroventata ed esclama: «È il padre Jia!»… «Crac!»: ecco che nel carapace si apre una lunga crepa. Davanti agli sguardi attenti della famiglia regale, il sacerdote fa bruciare un altro carapace: «È il padre Geng!»… «Crac!», un’altra crepa. Wu Ding ordina di sacrificare una pecora e un cane; ora tiene nelle mani insanguinate i due carapaci e cerca nelle loro crepe una risposta alla sua domanda su quale tra gli spiriti degli antenati sia la causa del suo mal di denti. Verso il 510 a.C., Confucio è nella sala. Quando suo figlio, Li, gli passa accanto velocemente, «Hai studiato le odi?», gli domanda. «Non ancora», è la risposta. «Se non studi le odi, – lo richiama Confucio, – non avrai nulla da dire»: e Li torna indietro, a studiare le odi. Il giorno seguente, suo figlio sta di nuovo per passargli accanto, ma Confucio lo ferma: «Hai studiato i riti?» «Non ancora», gli risponde quello. «Se non studi le antiche norme rituali, – lo richiama Confucio, – non avrai nulla con cui consolidarti». Di nuovo, Li torna indietro, a studiare i riti. 873 d.C., nell’ottavo giorno del quarto mese. Collocato su una portantina riccamente addobbata, l’osso di un dito di Buddha viene trasferito solennemente nella capitale dei Tang. L’aria è colma di incenso e dell’assordante canto dei monaci, migliaia di fedeli si accalcano ai bordi delle strade per salutare la santissima reliquia. L’impe- xvi Introduzione ratore stesso, con gli occhi gonfi di lacrime, le rende omaggio. Il popolo accorre da ogni lato: uomini e donne, poveri e ricchi, giovani e vecchi. Hanno digiunato per essere partecipi della grazia di Buddha, e ora danno pieno sfogo al loro entusiasmo. Le loro grida fanno tremare la terra. Molti strisciano sui gomiti e sulle ginocchia per rendere onore a Buddha, un soldato in un gesto di sconsiderata devozione si mozza un braccio, alcuni monaci si incendiano il cuoio capelluto. Una valanga di estatici si riversa nella città, finché l’osso raggiunge il palazzo, dove viene posto su un cuscino adorno di frange e precedentemente intiepidito. 1852, anno del Ratto, nel nono giorno dell’ottavo mese. 10 000 uomini, giovani e non piú giovani, sono giunti a Nanjing per sostenere l’esame provinciale. Hanno studiato per questo esame dal loro quarto anno di vita. Hanno imparato i principî della scrittura cinese, il Testo dei mille caratteri e altri abbecedari, e infine hanno appreso a memoria i Quattro libri e i Cinque scritti canonici, testi lunghi quasi mezzo milione di caratteri. Hanno già dietro di sé almeno tre esami, ma ora li attende quello piú difficile: tra di loro, soltanto uno su venti lo supererà. Verso l’una di notte, tre colpi di cannone segnalano l’inizio delle prove: i candidati, provvisti di inchiostro di china, pennelli, viveri e coperte, entrano nella sede degli esami, dove per tre volte dovranno trascorrere tre giorni e due notti in celle singole, tutte ventilate. Rigidamente sorvegliati e controllati, dovranno rispondere alle domande sugli scritti canonici e scrivere temi su questioni amministrative e argomenti politici. I fortunati che supereranno questo esame avranno la prospettiva di un impiego pubblico di basso livello, o quella di sostenere l’esame di grado superiore nella capitale. Giovedí 18 agosto 1966. Alle cinque di mattina, Mao Zedong in uniforme verde entra nella piazza della Pace Celeste. L’inno L’Oriente è rosso risuona sulla piazza, nella quale si affollano piú di un milione di persone: giovani, scolari e studenti universitari, che da tutto il paese sono giunti a Beijing, su treni stracolmi, per vedere il loro idolo. Tengono in alto il Libretto Rosso dei pensieri di Mao, che recitano a memoria; molti di loro portano orgogliosamente al braccio la fascia delle Guardie Rosse, che li segnala come le avanguardie della Grande Rivoluzione culturale proletaria. Un mare di bandiere rosse copre la piazza. «Lunga vita al glorioso Partito comunista cinese!», «Lunga vita al grande presidente Mao! 10 000 anni! 10 000 anni! 10 000 anni!», è il grido che risuona da centinaia di migliaia di gole, mentre Introduzione xvii Mao fa il suo bagno di folla. Nessuno di quei giovani dimenticherà questa esperienza. Qualcuno, piú fortunato, ha catturato uno sguardo dell’amato condottiero, e chi è addirittura riuscito a toccarlo non si laverà piú le mani per settimane. Cinque scene tratte dalla storia della Cina. Cinque scene che mostrano quanto siano state diverse, lungo tre millenni, le esperienze dei Cinesi. Piú volte, nel corso della loro storia, i Cinesi sono stati estranei a se stessi. Confucio non conosceva piú i riti degli Shang, e se vi avesse assistito ne avrebbe avuto orrore. Interi mondi, poi, separavano i Cinesi del ix secolo d.C. dalla civiltà di Confucio: si sosteneva che i saggi del mondo antico erano caduti nell’oblio da ormai mille anni, e che perfino la loro lingua era divenuta incomprensibile. A loro volta, gli eruditi libreschi della tarda età imperiale avrebbero senz’altro condannato la sregolata baraonda della processione buddhista; essi cercavano la salvezza negli esami «confuciani»: esami che però Confucio stesso non sarebbe mai stato in grado di superare. Infine, alcuni intellettuali del xx secolo trascinano al macello tutta quanta la vecchia società, e le Guardie Rosse si mettono in marcia per estirpare definitivamente tutte le antiche consuetudini. A che scopo, questi accenni? Che la storia tratti del mutamento delle cose, è un’ovvietà. La coscienza storica non è altro che la visione della fondamentale incostanza di tutte le forme. Soltanto in Cina pare che le cose debbano andare diversamente. Il vecchio luogo comune della «Cina eterna» è ancora in voga, sotto diverse figure: le dottrine del confucianesimo e del daoismo, quella scrittura enigmatica, l’astuzia degli «stratagemmi» e molti altri contrassegni della «civiltà cinese» sembrano avere una dignità intramontabile, quasi non avessero una storia. Le narrazioni per il popolo – soprattutto quelle scritte da cinesi – contribuiscono a questa trasfigurazione, ma anche gli storici di fama richiamano l’attenzione sul carattere costante e continuo della civiltà cinese. Paradossalmente, questa prospettiva astorica sembra essere un effetto della storiografia. La storiografia, e non soltanto quella cinese, ha la funzione di compensare la fastidiosa incostanza del mondo costruendo delle continuità. Col suo telescopio, essa riduce e poi avvicina considerevolmente eventi disparati, costruendo tra essi un legame significativo. In tal modo, essa attribuisce al suo oggetto una coerenza che non gli è propria, o, per dirla piú recisamente: in tal modo, essa produce il suo oggetto. Da 2000 anni, la storiografia cinese tramanda l’immagine di una xviii Introduzione civiltà elevata e omogenea che si è sviluppata nella cornice di un potente impero unitario. Le storie dell’epoca imperiale narravano come i sovrani si alternassero nel ciclo delle ascese e dei tramonti delle dinastie, e anche come i confini qui e là si spostassero, ma l’unità della tradizione restasse ben salda. Le storie nazionali del xx e del xxi secolo narrano la storia della Cina come quella dell’ascesa del popolo cinese, del suo ritrovarsi nello stato nazionale. E questa storia dovrebbe abbracciare 5000 anni! I Cinesi già nel III millennio a.C. avrebbero fondato, lungo il medio corso del Fiume Giallo, alcuni stati propri, le «tre dinastie»: Xia, Shang, Zhou, e da quel punto avrebbero gradatamente esteso la loro influenza su quasi un intero continente, in contrapposizione con altri popoli, designati come «minoranze». In tal modo, ciò che era omogeneo si sarebbe unito, e la nazione cinese sarebbe diventata ciò che era già sempre stata. Ma qual è il motivo di questa immagine storica monolitica? Perché insistere sull’unità e sulla costanza? Se la storia reagisce al problema delle soluzioni di continuità descrivendo per l’appunto continuità, si può supporre che lo faccia con tanto maggior forza quanto piú il problema si aggrava. In altri termini, alla base del racconto dell’unità e continuità potrebbe esserci un’esperienza di instabilità e discontinuità fortemente e intimamente sentite. Se la storia produce essa stessa il proprio oggetto, questo significa che non la storia nazionale sfociò nello stato nazionale, ma, al contrario, soltanto l’autocomprensione della Cina come stato nazionale rese necessaria una storia che legittimasse questa identità appena scoperta. La «Cina» e i «Cinesi» sono creature della storiografia. Il sostantivo cinese che indica la Cina, Zhongguo, era in origine un plurale: indicava gli «stati di mezzo» della pianura della Cina settentrionale. Piú tardi, divenne un singolare: il «regno di mezzo», il territorio dell’insediamento dei Cinesi. Nel xvii e fino al xix secolo Zhongguo assunse infine un significato che oltrepassava di molto la regione originaria cinese, e indicava un impero plurinazionale. Solo cosí divenne plausibile nominare in blocco come «Cinesi» i diversi gruppi etnici, religiosi e regionali che prima si erano definiti come autonomi. La cosa migliore è quindi intendere «Cina» come un singolare collettivo, che lega in un solo concetto diversità molteplici: tanti luoghi separati in un solo spazio, tanti modelli diversi di comportamento in una sola civiltà, tante persone diverse in quanto individui in una sola nazione, tanti dialetti locali in una sola lingua colta e, non da ultimo, tanti eventi disparati in una sola storia. La presente esposizione non si propone di smascherare tali autode- Introduzione xix scrizioni in quanto costruzioni artificiose, ma di considerarle invece seriamente, come una parte della storia. Esse (questa è la tesi del libro) ci indicano il problema fondamentale della storia cinese: l’ordinamento di una società eterogenea. Ad ogni incremento delle opzioni sociali la società cinese reagí con nuovi modelli di ordinamento che potessero venire a capo di queste complessità, ad ogni nuova contingenza con strategie che addomesticassero le ambivalenze. I racconti di unità sono una risposta all’empirica molteplicità, gli scongiuri in nome della continuità servono a compensare l’esperienza della discontinuità, le immagini univoche del mondo sono una reazione alle ambivalenze della realtà. La reazione di difesa indica sempre con sicurezza quale sia l’infezione. I nessi tra le forme di civiltà e i problemi di fondo di una società sempre piú complessa formano il motivo conduttore di questo volume. Questa storia della Cina parte dal fatto che la civiltà, in Cina, all’inizio non fu caratterizzata dall’unitarietà, ma dalla molteplicità, ovvero, esprimendoci con maggior enfasi: che non solo la civiltà cinese unisce elementi diversi, ma soltanto questa molteplicità ha reso possibile il sorgere di una civiltà «cinese». Il re Wu Ding, della dinastia Shang, non aveva nessuna nozione di Cina. Gli Shang erano soltanto una tra le tante culture a carattere regionale che nel Neolitico e nell’età del Bronzo si erano stabilite e formate l’una accanto all’altra: mondi in sé, che seguivano usi e costumi propri. Soltanto quando, verso il ix secolo a.C., si formò una regolare comunicazione tra élite, divenne pensabile un legame che si estendesse a intere famiglie e regioni. La «Cina» è quindi sorta in seguito ai contatti e alle mescolanze tra gruppi diversi, e la «civiltà cinese» si è formata come soluzione al problema della necessità di adattamento reciproco di forme di vita diverse. Nella misura in cui la società cinese si stratificava e si differenziava, sviluppò forme di civiltà per appianare queste differenze: norme rituali, burocrazia, morale, ma anche autocrazia, corruzione, totalitarismo, e molte altre. Soltanto in quanto tali forme di civiltà non siano descritte come sviluppi di uno stesso carattere ereditario «originario cinese», ma come risposte a reali problemi storici di relazione, esse possono venire confrontate. Non solo la Cina, infatti, dovette sforzarsi per dare un ordine a una società eterogenea. I problemi della Cina, e in parte anche le sue soluzioni, trovano paralleli in Europa, in America, ma anche nel resto dell’Asia. Di piú ancora: molti elementi della civiltà cinese ebbero origine solo dal contatto con i popoli confinanti dell’Asia, o con gli stati dell’Occidente. La ricerca degli ultimi decenni ha demo- xx Introduzione lito a poco a poco il racconto del progressivo diffondersi di una civiltà autoctona capace di trarre ogni forza da se stessa, e alla cui forza di irradiazione i «barbari» si sottomettevano di buon grado. Per interi millenni, la Cina si trovò «tra uguali», circondata da popoli confinanti i cui stati spesso erano molto piú grandi e potenti, e le cui culture non erano inferiori a quella cinese. Questi popoli influenzarono fortemente la civiltà «cinese». Non la forza nazionale e un isolamento autosufficiente caratterizzarono la storia della Cina, ma il costante influsso del mondo circostante. E però, anche in Cina, il mutamento sociale ebbe sempre luogo all’interno della società. La Cina non ha mai accolto gli influssi dall’esterno lasciandoli intatti (allo stesso modo in cui essa non ha mai semplicemente «sinizzato» i suoi vicini), ma li ha sempre adattati ai propri rapporti interni trasformandoli in modo creativo. Il buddhismo fece il proprio ingresso in Cina quando riuscí a mescolarsi alle dottrine daoiste; i gesuiti illustrarono il cristianesimo, allo scopo di diffonderlo, utilizzando concetti cinesi; il socialismo assunse «caratteristiche cinesi»; e l’interpretazione cinese della modernità può essere compresa soltanto se non si parte semplicemente dal modello occidentale, ma ci si riferisce a multiple modernities. Conseguentemente, non si può parlare fino all’età moderna di una civiltà «cinese», e neppure di una nazione, cioè di una comunità solidale al di sopra delle classi, della quale ognuno fosse partecipe. Le possibilità di comunicazione erano troppo limitate nello spazio, prima della diffusione della stampa, e troppo acute le differenze tra città e campagna, élite e popolo. Per millenni in Cina una piccola élite, che costituiva al massimo il 10% della popolazione, dominò su una massa anonima e analfabeta. Questa élite, che si tenne accuratamente separata dall’ambiente circostante grazie a mura, costumi, abbigliamento, endogamia e un linguaggio letterario esoterico, diede l’impronta alla società e la rappresentò come un intero: stabilí le regole del dibattito, fece politica, amministrò la giustizia, creò l’arte e la letteratura. Il substrato di questa cultura elevata fu una molteplicità di culture locali. Il popolo semplice viveva in comunità molto isolate, praticava culti locali, parlava i dialetti del posto e conservava usi e costumi propri. Queste culture locali avevano soltanto contatti sporadici, sia tra di loro sia con quella superiore delle élite: anche quando ripresero, adattandoli a sé, alcuni elementi della cultura elevata, questi in fondo furono sempre sentiti come estranei. Forse si può spiegare cosí perché tanti funzionari locali venissero divinizzati, nelle regioni che Introduzione xxi erano state loro assegnate: essi, come tutte le loro benedizioni e punizioni, erano letteralmente venuti da un altro mondo. La presente storia della Cina tratta di questi dèi. Essa narra come sorse la società elitaria e come si trasformò costantemente a contatto con la natura, con i popoli confinanti e con gli strati inferiori del proprio popolo, arricchendosi e ampliandosi fino a divenire una società nazionale e infine mondiale. Questo processo non dovrà essere descritto come la formazione coerente di un’unica cultura, ma piuttosto come una serie di interpretazioni e trasformazioni sempre diverse, dalle quali ogni volta risultò qualcosa di innovativo. La storia della Cina appare come una serie di tentativi ambiziosi, ma infine vani, da parte delle élite, di sottomettere le molteplici culture della Cina in un ordinamento unitario: dal progetto centralizzatore dei Qin, rapidamente fallito, fino alle misure spaventosamente efficaci della Repubblica popolare cinese. Anche il racconto della civiltà cinese unitaria, che oggi viene propagandato con un successo senza precedenti, fa parte di queste misure. E però sotto l’intonaco monocromo della storia nazionale appare un mosaico variopinto, in molti punti interrotto, percorso da crepe e sottili sfumature. Al posto della continuità, appaiono allo sguardo dello storico molteplicità, mutamento e discontinuità. La storia della Cina non impressiona per la sua grandezza monumentale e compiutezza, ma affascina piuttosto per la sua policromia e i suoi contrasti. 1. Lo spazio. Oggi, il territorio della Repubblica popolare cinese comprende 9,6 milioni di km², poco meno dell’Europa dall’Atlantico agli Urali: una regione vasta e multiforme come un intero continente. Lungo i circa 5000 km che vanno dal Pamir all’Oceano Pacifico, e i 3500 dalla Siberia meridionale fino ai Tropici, in Cina si può incontrare quasi ogni tipo di paesaggio e di clima: da quello tropicale della costa minacciata dai tifoni, a quello continentale della steppa subpolare; dalle coste rocciose del meridione, ricche di isole, fino alle spiagge sabbiose del nord; dal bassopiano fluviale all’arido deserto, alle cime ghiacciate dell’Himalaya. In Cina ci sono tanto la montagna piú alta del mondo, l’Everest, con i suoi 8848 m, quanto uno dei punti piú bassi, la depressione di Turfan, a 154 m sotto il livello del mare. Il paesaggio, in tutta la sua diversità, ha segnato profondamente la società cinese, e viceversa: bonificando paludi, scavando canali, 400 mm annui di precipitazioni (isoieta) Grande Muraglia frontiera attuale M I I n d i a H M AN A I ssione IA Depre GAR A L A Y A rfan del Tu Indocina T i b e t Bac Tu del T ino PA M arim I R TA rkest a no KL rien AM tale AK TIANSHAN ZUN T E A GO BI Bacino del Sichuan ME D TI M ONNL I N G QI ALTOPIANO DELLO YUNNAN Kokonor DES DEL RT O M o n g o l i a Zhujiang Lago Dongting Huanghe Huanghe ’AN I X ING Ya ng zi PIANURA SETTENTRIONALE MAR CINESE MERIDIONALE Lago Boyang Delta dello Yangzi MAR CINESE ORIENTALE MAR GIALLO M ON T M ia ur ci an L D LTO E L L PIA OE NO SS E L DI L O O CO YA RS NG O ZI A U i R R ua A O H K K Ta iw a n A Introduzione xxiii terrazzando colline e conquistando nuovi terreni fertili, contendendo alla natura in una lotta millenaria i suoi tesori, i Cinesi hanno trasformato radicalmente il loro ambiente naturale. Se nella storia della Cina c’è una costante che si sottrae ai mutamenti delle epoche, essa è rappresentata dai monti. Formatisi molto prima dell’uomo, fin dall’inizio essi hanno posto una barriera alle sue forme di vita. Gli ottomila dell’Himalaya e del Karakorum, il Pamir, il Tianshan e la catena dell’Altai dividono l’Asia orientale da quella meridionale e centrale e dalla Siberia occidentale. A est di queste poderose catene montuose, la regione scende su tre ampi gradini che le donano un profilo caratteristico. L’altopiano del Tibet-Qinghai, sopra i 4000 m, forma il «tetto del mondo». A nord e a est, il bacino del Tarim, l’altopiano mongolo, l’altopiano del loess della Cina settentrionale, il bacino del Sichuan e l’altopiano dello Yunnan formano un secondo gradino, tra i 1000 e i 2000 m. Infine, le pianure e le colline orientali e meridionali, il cuore della Cina, dall’altissima densità di popolazione, costituiscono il terzo gradino, sotto i 500 m di altezza. La civiltà cinese nacque e si diffuse in quest’ultima regione di pianure e colline, fertile e favorita dal clima. Vi scorrono lo Huanghe («Fiume Giallo») e lo Yangzi, le arterie del mondo cinese. Entrambi scaturiscono dalle montagne del Qinghai e attraversano da ovest a est la regione centrale cinese, accompagnati dal digradare dei rilievi. Lo spartiacque tra lo Huanghe e lo Yangzi, che al tempo stesso è la piú importante barriera tra nord e sud, è formato dalla catena dei monti Qinling, alti fino a 4000 m. Distesa su circa 33° di latitudine da ovest a est, essa agisce come un confine climatico che divide la Cina in due metà radicalmente diverse: separa infatti i venti siberiani, che nei mesi invernali portano aria fredda e secca dal nord, dai monsoni caldi e umidi del sud, che portano abbondanti precipitazioni estive. Le nette differenze climatiche tra nord e sud hanno fatto sí che, lungo i grandi fiumi del nord e del sud, sorgessero regioni culturalmente diversissime, contraddistinte da economie, forme di vita e mentalità differenti. Nella Cina settentrionale, con le sue estese superfici coltivabili, domina un clima continentale secco, caratterizzato da estati calde e inverni polverosi e tremendamente freddi. Le precipitazioni, attorno ai 50-60 cm annui, avvengono soprattutto nei mesi estivi, e il periodo vegetativo dura solo sei mesi. Sul terreno di loess, giallo e 1. La Cina fisica. xxiv Introduzione fertile, del quale il vento dell’ultima era glaciale ha ricoperto la Cina settentrionale formandone strati anche di 200 m, vengono coltivati principalmente frumento e miglio, con un’agricoltura «a secco». La coltivazione nella Cina settentrionale, infatti, è un’impresa precaria. Da un lato, le precipitazioni irregolari provocano quasi ogni anno periodi di siccità, dall’altro le devastanti inondazioni del Fiume Giallo distruggono interi raccolti. Gli alti argini, talora piú alti delle mura delle città, testimoniano la millenaria lotta dei contadini del nord della Cina contro le calamità naturali. Da sempre la «buona terra» pretende da loro un lavoro durissimo, in cambio di una sussistenza misera. Le cose vanno in modo completamente diverso al sud, al di là della catena Qinling e del fiume Huai. Qui il monsone, che d’estate porta aria calda e umida da sud-est, garantisce precipitazioni abbondanti e regolari da 100 a 120 cm, e lo Yangzi offre abbondanti e sicuri rifornimenti idrici. Il concorso di questi due fattori rende il bassopiano dello Yangzi, con i suoi terreni di terra rossa e di arenaria, il territorio piú fertile della Cina. Qui si vedono soprattutto risaie, con il miglio come seconda coltivazione. Il periodo vegetativo, che dura nove mesi, rende possibili due raccolti all’anno. Il sud è il granaio della Cina, e da millenni è il suo baricentro demografico: la maggior parte dell’attuale miliardo e trecento milioni di Cinesi vive ancor sempre al sud. «Al sud la barca, al nord il cavallo», si dice in Cina. Mentre le vaste e aride pianure del nord non offrono ostacoli al movimento di uomini e di beni, al sud le comunicazioni sono sempre state molto piú difficili. La regione infatti è attraversata da colline e fiumi, che rendono particolarmente difficoltoso procedere per vie di terra. Da un lato, sono stati la causa, per lungo tempo, della divisione tra il sud e il nord: a lungo lo Yangzi segnò il confine ultimo della civiltà cinese. Dall’altro, rendono il sud fortemente frammentato, dividendolo in molte regioni nettamente separate. Alcune di queste restarono a tal punto isolate da poter essere considerate come macroregioni autonome. Il bacino del Sichuan, isolato da imponenti catene montuose, solo tardi fu acquisito dai Cinesi, e nel corso della storia ha continuamente rivendicato la propria autonomia politica. La zona costiera sud-orientale del Fujian fu isolata dall’influenza culturale cinese dai monti Wuyi, proprio come il sud-ovest lo fu dai monti coperti di giungle del Guizhou e dello Yunnan. Queste delimitazioni topografiche e culturali si ripercuotono ovunque, nella storia. Non è un caso che già le culture dell’età della Pietra si siano formate diversamente al nord e al sud, e che le grandi unificazioni politiche siano sempre partite dalle grandi pianure del nord, Introduzione xxv e non dal frastagliato sud, e che il Sichuan durante la guerra tra Cina e Giappone sia stato l’ultimo bastione del Guomindang, e che Deng Xiaoping nel 1992 abbia esortato alla liberalizzazione economica a Guangzhou, non a Beijing. Molti aspetti della storia cinese si possono comprendere soltanto se si hanno presenti le grandi differenze territoriali tra regione e regione. Ma i contrasti all’interno della regione centrale della Cina hanno poco peso rispetto a quelli nei confronti delle regioni circostanti e piú elevate dell’Asia centrale: rispetto ai monti e agli altipiani del Tibet e della Mongolia, e agli aridi bacini del Xinjiang. Questi territori, come il bassopiano della Manciuria, furono integrati nell’impero dei Qing soltanto nel xviii secolo, e ancora oggi hanno lo statuto di regioni autonome. Essi sono chiaramente separati dalla Cina vera e propria da confini naturali: dal confine montuoso cinese-tibetano a ovest, dalla catena del Xing’an a est e, significativamente, da una barriera eretta dall’uomo, la Grande Muraglia, che dal Gansu fino al golfo di Bohai segna i confini della Cina settentrionale. E però la linea di confine decisiva della civiltà cinese è assolutamente invisibile: è il confine climatico dell’agricoltura a pioggia, che percorre un lungo arco dalla Manciuria, lungo la Grande Muraglia, fino al Qinghai e al Tibet. È la linea divisoria tra terreno arabile e terreno da pascolo. A nord e a ovest di questa linea ogni anno cadono meno di 400 mm di precipitazioni, il che rende quasi impossibile l’agricoltura. Là ci sono le estese foreste della Manciuria, patria dell’ultima dinastia imperiale, la Mongolia con le sue vaste steppe e il deserto del Gobi, il Turkestan orientale, la cui area è di 1 600 000 km², oggi Xinjiang, con la Zungaria, il bacino del Tarim e l’arida regione desertica del Taklamakan. A sud di questi bacini elevati, tagliati fuori da tutte le vie d’acqua, gli aridi altipiani del Qinghai e del Tibet impediscono la diffusione dell’agricoltura. Nel corso del tempo, la differenza tra la regione cinese originaria e questi territori è divenuta uno stereotipo. Di qua, i Cinesi: contadini sedentari, che coltivano pazientemente la loro terra, o cittadini raffinati che vivono in case ben costruite, commerciano stando molto attenti ai loro profitti e trovano il loro miglior compimento nell’arte, nella poesia, nella filosofia. Di là, invece, i «barbari»: anonimi e impetuosi, allevatori seminomadi di pecore e cavalli, sopra di loro null’altro che il cielo, intorno a loro l’infinita vastità della steppa; cavalieri instancabili, la cui vita è fatta di caccia e di guerra. Le loro lingue, il turco, il mongolo, il mancese (unica eccezione, il tibetano), non sono neppure apparentate al cinese, anzi per lungo tempo essi non hanno xxvi Introduzione neppure conosciuto la scrittura. Qui non si tratta solo della differenza tra la coltivazione del riso e quella del miglio, ma del contrasto tra due modi di vita totalmente diversi. Per millenni, gli abitanti «barbari» delle steppe rappresentarono l’antitesi della civiltà cinese; erano l’Altro, rispetto al quale l’ego cinese prendeva le distanze e segnava i confini. Proprio cosí fu definita la società cinese. Di fronte all’evidente contrasto rispetto ai popoli delle steppe, diventava plausibile rappresentare la «Cina», nonostante tutte le sue differenze interne, come un’unità. E però, proprio come l’unità interiore della Cina non resiste a un’indagine piú attenta, anche la sua delimitazione nei confronti dell’esterno non è convincente. Guardando piú attentamente, si vede che i contorni delle linee divisorie non sono affatto netti come appaiono in un primo momento. Infatti, da sempre i sovrani cinesi hanno favorito una politica di legami matrimoniali con i popoli stranieri; i Xiongnu nella piú imponente opera storica cinese vengono descritti come lontani parenti dei Cinesi; le grandi dinastie Zhou, Qin e Tang ebbero le loro radici all’ovest, fuori della regione cinese originaria; molti «barbari» si comportarono in modo piú cinese dei Cinesi; e innanzitutto non pochi fra loro – Tuoba, Khitan, Jurchen, Mongoli, Manciú e altri ancora – per gran parte degli ultimi 2000 anni hanno avuto il dominio non solo sulla stessa Cina, ma anche molto piú in là. L’impero raggiunse infatti le sue massime estensioni territoriali sotto tali dinastie, che per prime crearono i presupposti della grandezza della Cina odierna. La delimitazione netta della Cina rispetto all’esterno è un mito tanto quanto la sua mancanza di confini all’interno. Il cosiddetto «impero unitario» cinese non fu mai unitario, né dal punto di vista etnico né da quello culturale. Mongoli, popolazioni di ceppo turco e tai, e numerosi altri ancora, e perfino Indoeuropei, da sempre vissero frammisti alla popolazione «cinese». Portarono guerra e perdite irreparabili, ma anche stimoli e arricchimenti per la civiltà «cinese». 2. Il tempo. Quando si parla di lunghezza, unitarietà e continuità della storia cinese, non può mancare il riferimento alla tavola delle dinastie. Essa è la prima fonte di legittimazione di questo quadro storico monolitico. Con imperiosa evidenza ci mette infatti davanti agli occhi come una dinastia cinese immancabilmente succedette a un’altra, conser- Tavola cronologica delle dinastie. Xia? ? - xvii sec. a.C.? Shang xvii?-xi sec. a.C. Zhou xi sec. - 256 a.C. Zhou Occidentali (xi sec. - 771 a.C.) Chunqiu (722-481 a.C.) Zhanguo (453-221 a.C.) Qin 221-206 a.C. Han 202 a.C. - 220 d.C. Han Occidentali (202 a.C. - 9 d.C.) Xin (9-23) Han Orientali (25-220) Tre Regni 220-280 Wei (220-265) Shu (221-263) Wu (222-280) Jin 265-420 Jin Occidentali (265-317) Jin Orientali (317-420) Dinastie settentrionali 420-589 Sedici Regni dei Cinque barbari (304-439) e meridionali Wei Settentrionali (Tuoba, 386-534) Liu-Song (420-479) Qi Meridionali (479-502) Liang (502-557) Wei Orientali (534-550) Wei Occidentali (535-557) Chen (557-589) Qi Settentrionali (550-577) Zhou Settentrionali (557-581) Sui 581-618 Tang 618-907 Cinque Dinastie 907-960 Liang Posteriori (907-923) Tang Posteriori (923-936) Jin Posteriori (936-947) Han Posteriori (947-951) Zhou Posteriori (951-960) Song 960-1279 Song Settentrionali (960-1126) Liao (Khitan, 916-1125) Xi Xia (Tanguti, 1038-1227) Jin (Jurchen, 1115-1234) Song Meridionali (1127-1279) Yuan (Mongoli) 1271-1368 Ming 1368-1644 Qing (Manciú) 1635-1912 Repubblica cinese 1912-oggi Repubblica popolare cinese 1949-oggi sul continente (1912-1949) a Taiwan (1949-oggi) xxviii Introduzione vando l’unità dell’impero. Le liste dei sovrani e le colonne di numeri che passano sopra ogni rivolgimento economico, sociale e culturale impressionano per la loro compiutezza. E però uno sguardo piú ravvicinato mostra le crepe e i punti di rottura di questo quadro storico, discontinuità che vengono nascoste dall’uniformità della lista. Già dopo le prime due dinastie, la cui storia nei dettagli è ancora molto oscura, la storia della Cina viene registrata cosí: le dinastie dei Zhou, degli Han e dei Jin si dividono in «occidentali» e «orientali», poi si legge degli «Stati Combattenti», dei «Tre Regni», delle «dinastie meridionali e settentrionali», delle «Cinque Dinastie», e perfino dei «Dieci regni» che hanno retto la Cina. Ben lontana dall’essere un continuo impero unitario, la Cina per molti secoli della sua storia fu politicamente divisa. Soltanto nei 1700 anni scarsi che vanno dalla fine degli Han (220) fino alla caduta dei Qing (1912), la Cina fu frazionata in stati diversi per circa 750 anni. Fu possibile sostenere la teoria della successione delle dinastie soltanto con un cavillo sofistico: la tesi per cui, di volta in volta, soltanto una delle dinastie in concorrenza rappresentasse la «linea giusta» (zhengtong). Ma anche le piú grandi e potenti dinastie non dominarono quasi mai interamente la regione centrale «cinese». Gli Han dapprima dovettero cedere i loro territori orientali a una serie di re con tanto di titolo, e piú tardi i grandi proprietari terrieri esercitarono il potere nelle province; i Tang, dopo 150 anni, perdettero il controllo su vasti territori, nei quali i generali dominarono autonomamente; l’impero Song fin dall’inizio fu diviso in settentrionale e meridionale; e fino alla tarda età imperiale tutto il sud fu popolato solo a tratti lungo le coste e i fiumi: soltanto nell’epoca Song furono acquisiti il Fujian e lo Hunan, mentre il Guizhou e lo Yunnan lo furono addirittura soltanto nell’epoca Qing. Anche questa storia della Cina non potrà fare a meno di parlare delle dinastie («dei Song», o «dei Ming») come se rappresentassero l’intera Cina. Ma questo non è che un espediente adatto a semplificare legami molto complessi, come lo è parlare di «Cina». Le dinastie, però, non saranno impiegate come elementi strutturali primari. Piuttosto, i nove capitoli di questo libro sono determinati dal nesso già ricordato tra i mutamenti strutturali della società cinese e i modelli di ordinamento che si accompagnano ad essi. Il libro inizia (primo capitolo) con la preistoria, durante la quale si formarono comunità segmentarie, limitate localmente, ordinate mediante l’impiego della violenza. All’inizio del I millennio a.C. sorse (secondo capitolo) una società nobiliare stratificata, che trascendeva i Introduzione xxix gruppi locali e di parentela: per i suoi rapporti con gli stranieri, vennero introdotte delle norme di comportamento. Quando questa società nobiliare, alla fine del I millennio a.C., si dissolse (terzo capitolo), la differenza tra centro e periferia divenne l’elemento decisivo della struttura sociale; ad essa corrispose lo sviluppo di una burocrazia con funzione di mediatrice tra l’uno e l’altra. Quando (quarto capitolo) la direzione dal centro cominciò a cedere di fronte alla crescente importanza dei legami familiari e confessionali, la religione divenne fattore di ordine e integrazione. In una società che, a partire dall’viii secolo, fu caratterizzata dal regionalismo e da un’elevata mobilità sociale, la morale (quinto capitolo) operò allora come elemento di integrazione. Quando poi (sesto capitolo) la mobilità sociale crebbe tanto da minacciare una dissoluzione dell’ordine in ceti, il dispotismo serví come mezzo estremo per stabilizzare la società. A partire dal xix secolo (settimo capitolo), divenne evidente il passaggio a una società differenziata in modo funzionale, per la quale la partecipazione e l’autodefinizione in quanto nazione offrirono adeguati modelli di ordinamento. Nel xx secolo (ottavo capitolo), la crescente integrazione degli strati inferiori portò a una società di massa, che fu tenuta a freno con i mezzi del totalitarismo. Da quando, nel xxi secolo (nono capitolo), la Cina è divenuta parte della società mondiale, un nazionalismo virulento provvede alla coesione sociale. Questa divisione interna della storia non fa iniziare la «Cina» con gli Shang o i Zhou, ma con la stratificazione sociale nel ix secolo a.C.; pone una cesura nell’epoca Zhou, e nega invece quella epocale della fondazione dell’impero. Di piú: essa taglia a metà le grandi dinastie degli Han e dei Tang, fa iniziare una nuova fase verso la fine del xviii secolo (all’apogeo dei Qing) e non concede neppure alla «liberazione» del 1949 lo statuto di una cesura storica. Questa prospettiva può irritare i sinologi, ed è esattamente quello che si propone: vuole dissolvere le continuità indiscusse e dirigere lo sguardo verso nessi che vengono nascosti con troppa leggerezza dalle suddivisioni usuali. 3. Le fonti. Tanto la regione è priva di unità e la sua storia è variegata, altrettanto eterogenee sono le fonti a disposizione. Fino al xx secolo inoltrato, la storia della Cina venne scritta quasi esclusivamente sulla base della letteratura tramandata. Innanzitutto, i Cinque scritti canonici: il Classico dei mutamenti (Yijing), il Classico dei documenti (Shujing), xxx Introduzione il Classico delle odi (Shijing), gli Annali delle primavere e degli autunni (Chunqiu) e le Memorie sui riti (Liji), cosí come le venticinque storie dinastiche, erano considerati le basi fidate e normative di ogni esposizione storica. Come fonti in senso proprio, però, esse non hanno mai avuto valore: non le opere storiche, che naturalmente riferiscono gli eventi da una prospettiva piú tarda; ma neppure le antiche opere canoniche e filosofiche, che, in generale, non sono state scritte dalla persona alla quale vengono attribuite, e non sono neppure giunte a noi nella loro forma originaria. Per la vita di Confucio non abbiamo neppure una fonte contemporanea: aneddoti come quello visto sopra compaiono solo in esposizioni molto piú tarde, e non è affatto certo che siano autentici. I testi che abbiamo oggi a disposizione si basano su edizioni che hanno alle spalle piú di un millennio di tradizione orale e scritta, con tutto ciò che questo comporta: passi corrotti a causa di negligenze, cambiamenti «a fin di bene» e uniformazioni ortodosse. Il fatto che i sinologi si basassero su questa letteratura era dovuto principalmente alla mancanza di fonti primarie. Innumerevoli testi, immagini, edifici e altre fonti sono andati perduti nel corso della storia cinese. Al massimo un quarto della letteratura piú antica è arrivato fino a noi, e anche dopo, piú di una volta, molti scritti sono stati le vittime sacrificali di guerre, incendi e distruzioni pianificate. Piú volte le biblioteche imperiali furono ridotte in cenere, o qualche artista distrusse interamente la propria opera, e molti fascicoli di atti amministrativi conclusi vennero regolarmente eliminati. A tutto questo si aggiungono le perdite che sempre la tradizione manoscritta comporta: in età antecedenti alla diffusione della stampa, alcuni testi che non erano stati copiati andarono irrimediabilmente perduti. Soltanto nel xx secolo divennero disponibili fonti primarie in maggiore quantità, e con esse il quadro storico monolitico iniziò a vacillare. I ritrovamenti dei manoscritti di Dunhuang testimoniarono la vita poliglotta e multiculturale di una città all’interno di un’oasi; le antiche iscrizioni su ossi o su bronzi forniscono informazioni completamente ignote alla tradizione (ad esempio, sulle cerimonie oracolari degli Shang); i documenti redatti dai funzionari dell’epoca Qing ci danno quadri molto dettagliati dell’amministrazione di uno stato multietnico; i manoscritti sepolcrali delle epoche Zhanguo e Han permettono di constatare l’esistenza di una dovizia di dottrine «eterodosse» nella tarda antichità; l’apertura, infine, di molti archivi rende oggi possibile studiare la storia moderna al di là della propaganda ufficiale. In contrasto con la letteratura tramandata, questi testi – purché non siano falsi – testimoniano immediatamente gli eventi. Certo non of- Introduzione xxxi frono un quadro generale coerente, ma si limitano piuttosto a fornire sguardi particolari su accadimenti complessi. Offrono in tal modo una prospettiva diversa, che mette a fuoco non tanto l’unità quanto la molteplicità della storia, e mostrano quanto il quadro storico tramandato sia prospetticamente riduttivo e deviato. Nessuna storia della Cina può concedersi di ignorare le fonti recentemente scoperte; al contempo, non può nemmeno rifiutare la tradizione. Le nuove fonti evidenziano non soltanto il soggettivismo della letteratura tradizionale, ma anche la sua caratteristica visione prospettica. Una storia della Cina deve tener conto di questa prospettiva fondamentale. Non può limitarsi a enumerare dei fatti, che si tratterebbe di ricostruire «come sono davvero avvenuti». I fatti sono pur sempre descrizioni, talora fredde e sobrie, talora invece fantasiose e appassionate. Se nella Cina d’oggi vengono innalzate statue a Zheng He e al Duca di Zhou, se l’immagine di Qin Gui viene presa a sputi e Confucio è aspramente criticato, tutto questo prova con quanta vivacità ancora oggi i Cinesi si rappresentino la loro storia. Una storia della Cina deve spiegare come tali descrizioni siano sorte, come siano mutate e come siano divenute ciò che sono oggi. Non può dare semplicemente per presupposta una rappresentazione della «Cina», né quella moderna né un’altra precedente, ma deve spiegare come questa autodescrizione sia nata, come si sia giunti al fatto che la Cina oggi intenda se stessa come una grande nazione con 5000 anni di splendida storia, e come infine questa autodescrizione possa sgretolarsi. La nostra visione della storia cinese tende al rivolgimento. Le pagine che seguono tengono conto di questa condizione, lasciando la parola a entrambe le narrazioni, quella tradizionale, che corrisponde a ciò che ogni cinese sa della sua storia, e quella critico-scientifica. Se qualcosa si può apprendere dalla nuova molteplicità e contraddittorietà delle fonti, è che la storia della Cina non si lascia ridurre a una sola esposizione cogente. 4. Sull’impianto del volume. Nessuna narrazione che proceda in modo lineare può essere all’altezza della complessità della storia nelle sue dimensioni temporali, spaziali e sociali. Pertanto, l’esposizione cronologica di questo volume viene integrata da brevi riassunti all’inizio di ogni capitolo, che avvicinano ai nessi principali, da tavole cronologiche, che elencano le date piú importanti, da cartine geografiche, tese a evidenziare i rap- xxxii Introduzione porti spaziali, e da piú ampi excursus volti a illustrare singoli temi in modo compiuto, abbracciando piú epoche. Le indicazioni bibliografiche relative ai singoli capitoli e agli excursus si trovano in fondo al volume. Ulteriori indicazioni bibliografiche e sulle fonti sono disponibili nella pagina web www.aai.uni-hamburg. de/china/Personal/Vogelsang.html, dove si possono trovare anche informazioni piú dettagliate su alcune citazioni per le quali qui vengono forniti soltanto l’autore, il titolo dell’opera e il numero del capitolo. Tutte le traduzioni dal cinese, in assenza di altre indicazioni, sono dell’autore; in genere non si tratta di traduzioni filologicamente rigorose, ma di parafrasi adattate alle esigenze dell’esposizione. I nomi cinesi sono un problema molto spinoso. Di regola, dei nomi antichi, viene indicata la pronuncia colta moderna, non quella antica o media ricostruita. Invece di usare i toponimi storici, che spesso sono mutati, si usano per lo piú i nomi moderni delle località: ad esempio Sichuan invece di Shu, Guangzhou invece di Panyu. In deroga a quanto detto, Shaan­xi (a sud-ovest del Fiume Giallo) viene scritto cosí per distinguerlo da Shanxi (a nord-est del Fiume Giallo). Per le persone, viene sempre usato il nome piú corrente: può trattarsi di nomi di consuetudine, come Sima Qian, o di nomi personali, come Tao Yuanming, o d’arte (Su Dongpo), di pronunce dialettali (Sun Yat-sen) o di forme latinizzate (Confucio), e, nel caso degli imperatori, di nomi postumi (imperatore Wen), di nomi templari (Taizong) o anche di nomi dell’era (Kangxi). Per gli imperatori non vengono indicate le date di nascita e di morte, ma la durata del loro impero, e sempre a partire dal primo anno pieno di governo (quindi, normalmente, dall’anno successivo all’ascesa al trono), con il quale iniziava anche un nuovo nome di regno. Si è adottata, per i termini cinesi, la trascrizione detta Hnyu pinyin; anche i passi delle citazioni sono stati adattati a tale trascrizione.