Il positivismo ottocentesco in filosofia

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Il positivismo ottocentesco in filosofia
Il positivismo e la nozione di progresso
Il positivismo deriva l’idea di progresso dalla cultura illuminista, che tuttavia si muoveva in un ambito diverso, dal punto di vista sia culturale sia politico.
Gli illuministi sono dei riformatori, guidati da una grande fiducia nelle capacità della ragione e nella bontà della natura umana, una volta purificata dalle scorie di una
cultura che l’ha corrotta. Essi combattono contro l’oscurantismo della superstizione e dell’ignoranza alla luce della loro visione dell’uomo, della divinità – suprema e razionale potenza creatrice del mondo – e della natura su cui regna l’uomo
con la sua piena liberta. L’illuminismo combatte la religione tradizionale, nelle
sue diverse confessioni ormai diffuse tanto in Europa quanto in America dopo gli
eventi della Riforma, e intende eliminare l’influenza delle Chiese, viste come istituzioni oscurantiste.
I positivisti operano all’interno di una società fortemente laicizzata, in cui i problemi della fede non hanno più la stessa importanza: essi registrano come un dato di
fatto, e non come un progetto per l’avvenire, il sorgere di una società nuova, fondata
su principi che cominciano a chiamare positivi nel senso di concreti, razionalmente
fondati sulla chiara conoscenza e interpretazione dei fatti. Il positivismo non combatte, come aveva fatto l’illuminismo, contro un nemico che considera potente, ma
porta a chiarezza concettuale un movimento storico ormai vincente nella società e
nella cultura.
Altrettanto differente è la posizione riguardo al potere politico.
Gli illuministi hanno operato all’interno di una società politica dominata dalla
nobiltà del vecchio regime e si sono adattati a divenire consiglieri del principe per
ottenere gli strumenti politici e amministrativi necessari al loro progetto di trasformazione della società. Tipico del Settecento è il dispotismo illuminato, che ha provato – senza ottenere risultati decisivi – a realizzare le riforme dall’alto, senza scardinare l’impianto della società.
I positivisti, invece, operano in un mondo che ha subito radicali trasformazioni, dopo la Rivoluzione del 1789 e i moti del 1830 e del 1848. Le idee liberali hanno vinto, la cultura democratica s’impone in forme nuove presso larghe masse di lavoratori, ma anche presso una certa fascia della borghesia (si pensi al partito radicale inglese o al movimento democratico mazziniano, attivo soprattutto in Italia, ma con
ampie aperture europee). La borghesia ha già compiuto la sua rivoluzione e ha preso
il potere politico in diversi Paesi europei, sicché la cultura positivista opera da una
posizione di forza: il suo problema non è l’elaborazione di teorie per la radicale trasformazione del mondo, ma la definizione dei modelli per la gestione ordinata della
società borghese, strutturalmente caratterizzata da rapide trasformazioni rese necessarie dalla continua evoluzione delle sue strutture economiche.
Il positivismo e la nozione di “scienza”
Ciascuna scienza, sia pure nell’ambito di alcuni principi metodologici comuni, tende ad
acquisire un metodo proprio. Questa specializzazione – anch’essa forma del più generale fenomeno della divisione del lavoro che tende ad acutizzarsi nell’età industriale –
comporta una serie di problemi.
Innanzitutto si pone l’esigenza di stabilire rapporti organici tra le varie discipline.
L’oggetto di ciascuna di esse, per quanto ben identificato, è pur sempre la frazione di un
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intero, cioè la natura. La conoscenza scientifica della natura può essere ottenuta nella
sua completezza solo attraverso il concorso di tutte le scienze. Per questo motivo i positivisti hanno fatto diversi tentativi di classificazione delle scienze, cioè di strutturazione
organica dei loro rapporti nell’ambito dell’unità che è loro sottesa. Il problema è reso
più complesso dal fatto che nessuna disciplina ha un ruolo guida (benché il modello
fisico-matematico da un lato e quello delle scienze biologiche dall’altro tendano a prevalere) e che è necessario assicurare a ciascuna la propria autonomia.
Vi è poi la necessità di definire lo statuto disciplinare della filosofia. Col positivismo
le materie tradizionalmente trattate dalla filosofia tendono a divenire oggetto specifico
di discipline diverse (le scienze della natura, il diritto, la storiografia, la sociologia,
l’estetica). In nome dell’abbandono della cultura astratta e dell’affermazione del concreto, di ciò che si chiama “positivo”, la metafisica e tutte le materie a essa connesse vengono relegate nel campo della realtà di cui l’uomo non può avere conoscenze certe, e
come tali abbandonate. Manca quindi alla filosofia una propria identità disciplinare rispetto alle altre scienze, le mancano un oggetto e un metodo specifici.
I positivisti non abbandonano però la filosofia come un residuo del passato, superato
dall’evoluzione della ricerca scientifica. Essa può ancora svolgere un compito essenziale per l’unità del sapere, ponendosi come disciplina che studia la metodologia delle
scienze.
In generale la cultura positivista ha negato che la conoscenza dell’uomo possa estendersi oltre l’ambito dei fatti, cioè delle informazioni che provengono dal mondo esterno attraverso le sensazioni. Anzi, tipiche del positivismo sono l’enfatizzazione del ruolo dei
fatti ai fini della conoscenza e una grande fiducia nella possibilità di ottenere conoscenze sicure restando entro i limiti delle informazioni controllabili empiricamente.
La rigorosa osservazione dei dati della realtà – soprattutto nel loro aspetto quantitativo, essenziale per la loro descrizione in termini matematici – non è però affatto agevole.
Si compiono sforzi notevoli per creare opportuni strumenti di misura e di rilevazione
dei dati, per quanto riguarda sia le scienze della natura sia le scienze umane.
Il positivismo si è opposto a ogni forma di conoscenza metafisica e, più esattamente,
a ogni forma di sapere che non possa essere empiricamente controllabile. La filosofia
speculativa interpreta il mondo dell’esperienza umana come la manifestazione di essenze che sfuggono alla conoscenza sensibile. Il positivismo non nega affatto che vi sia un
mondo inconoscibile, nega piuttosto che abbia senso filosofico e scientifico l’indagine
su di esso.
Queste tesi vanno estese dal campo delle scienze della natura a quello delle scienze
dell’uomo. Il positivismo, ad esempio, attribuisce grande importanza alla ricerca storica
condotta con criteri rigorosi, soprattutto nel settore della documentazione e del controllo
delle fonti. Così, accanto alle tradizionali scienze umane, nascono discipline nuove, come la sociologia o la psicologia scientifica, che si ripromettono di costruire un sapere
rigoroso su dati che riguardano il comportamento dell’uomo e quella particolarissima
realtà che è la sfera della vita interiore.
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Critica filosofica
Le Scienze in Europa dal 1800 al 1830
Uno degli aspetti fondamentali della cultura europea lungo tutto il corso dell’Ottocento
è stato il rapidissimo susseguirsi di scoperte scientifiche, molte delle quali hanno avuto
ricadute tecnologiche in tempi brevi. Stefano Poggi, docente di Storia della filosofia
presso l’Università di Firenze, nel brano che segue fa il punto su questo tema per i primi
decenni del secolo, nel contesto di uno studio sul positivismo europeo.
«Tra il 1800 e il 1830 circa, si verifica in Europa un grande sviluppo della ricerca
scientifica. La sperimentazione si estende a settori sino ad allora affrontati in modo sostanzialmente solo osservativo; si aprono prospettive di ricerca che portano ad affrontare su nuove basi il problema della gerarchia delle scienze; le interazioni tra la ricerca scientifica e gli sviluppi della tecnica si fanno assai accentuate, con conseguenze di
grande rilievo sul piano economico, sociale, politico. [...]
[Nella Francia napoleonica] il governo è direttamente coinvolto nella organizzazione del lavoro scientifico, così come era già avvenuto alla fine dell’ancien regime. Il
processo dello sviluppo scientifico non si realizza solo in eventi “interni”: esso, anzi,
esercita una cospicua azione “di ritorno” sulla vita culturale e politica, sulla stessa
struttura della società. Tutta particolare l’importanza delle nuove istituzioni scientifiche francesi, in molti casi nate dalla riorganizzazione di quelle dell’ancien regime, intrapresa già dai governi rivoluzionari.
Nascono così “scuole” destinate a fornire una cultura scientifica ampia e aggiornata
ai tecnici necessari al funzionamento della macchina statale. Viene pero anche soddisfatta l’esigenza di assicurare le sedi e gli strumenti per lo sviluppo della ricerca scientifica come tale. Il primo decennio del secolo XIX vede così, dopo che già negli anni
della Rivoluzione era stato creato il Conservatoire national des arts et des métiers, la
fondazione della Ecole polytechnique e del Musée national de l’histoire naturelle, nei
quali sono all’opera, come prestigiosi insegnanti e ricercatori, i più importanti scienziati francesi. [...]
[In Germania] la riorganizzazione dell’università di Berlino è promossa direttamente
dal governo prussiano. Anche se non in modo omogeneo – a causa appunto della frammentazione politica della Germania del tempo – si avvia una “politica culturale” indirizzata a porre le basi di una sistematica integrazione tra l’attività di insegnamento e
quella di ricerca all’interno delle istituzioni universitarie. [...]
L’inizio degli anni ’30 vede mutamenti di rilievo nella vita scientifica non solo
dell’Inghilterra. Già nel corso degli anni ’20, sotto la presidenza di Humphry Davy, si
avvia un processo di riorganizzazione della Royal Society che porta, in primo luogo, a
una nuova composizione del consiglio della società, nella quale la maggioranza viene a
essere rappresentata dagli scienziati. Tale processo è quasi contemporaneo alle riforme
che interessano anche le accademie di Parigi e di Berlino.
Queste riforme si caratterizzano per il riconoscimento alle classi scientifiche di una
importanza maggiore di quella che era fino ad allora andata alle classi storiche e filologiche e per la decisione di dare maggiore frequenza e pubblicità alle sedute. Ma, al di
là di quanto accade sul piano della organizzazione delle accademie, va posto in evidenza che la diffusione di una ricerca scientifica, della quale sono sempre più chiare e dirette le applicazioni porta con sé – con il nascere di vere e proprie nuove figure professionali –l’esigenza del confronto, dello scambio di idee, della coordinazione tra gli
“addetti ai lavori”. Si ha quindi la costituzione di una serie di associazioni il cui scopo
essenziale è quello della promozione dei vari aspetti della ricerca scientifica. [...]
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La ricerca scientifica si organizza in laboratori, si articola in nuovi settori disciplinari nell’ambito dell’organizzazione universitaria, stringe rapporti via via più stretti
con l’intera struttura della società. La ricerca da un lato promuove e asseconda il progresso tecnico-industriale, da un altro favorisce la diffusione delle conoscenze scientifiche presso il pubblico colto, in primo luogo presso l’emergente borghesia. Ma in ogni
caso la nascita di “associazioni per il progresso delle scienze” costituisce il documento
forse più tangibile d’un processo di interazione tra lo sviluppo scientifico e l’intera
struttura sociale che comincia a caratterizzare l’intera Europa.
La costituzione di tali associazioni avviene, infatti, nei termini di una sostanziale
contrapposizione nei confronti delle accademie e, in parte, delle stesse università. Essa
è perciò destinata a influenzare in profondità la vita di queste ultime nel momento in cui
sollecita lo sviluppo di forme di sapere scientifico in cui ha gran parte l’attenzione per
il piano pratico-applicativo. La crescita dell’indagine scientifica è molto spesso frutto
del lavoro di studiosi che hanno ormai fatto della scienza una professione dai caratteri
sempre più specialistici e sono convinti dell’esistenza e dell’importanza del progresso
scientifico. Il rapporto scienza-società assume i caratteri destinati a essere tipici – nel
bene e nel male – nel mondo contemporaneo.
I tratti distintivi di tale rapporto sono fondamentalmente due. Da un lato, cresce la
partecipazione di vari strati sociali alla promozione e alla diffusione del sapere scientifico: ne discende un profondo mutamento delle concezioni generali del mondo e, più in
generale, della nozione di conoscenza. Da un altro lato, si manifesta una forte tendenza
alla specializzazione della ricerca scientifica. Essa interferisce con la dinamica di espansione e di contemporanea lotta per l’egemonia tipica dello sviluppo delle scienze:
per coloro che stanno diventando dei “professionisti della scienza” si presentano con
crescente gravita problemi di comunicazione tra il livello della ricerca “pura” e “avanzata” è quello della sua applicazione, del suo concretizzarsi come tecnica. La trasformazione della “immagine del mondo” prodotta dalla conoscenza scientifica si rivela in
contrasto – quando non in vera e propria contrapposizione – con il perdurare d’una
aspirazione (tipica d’altronde dei settori scientifici con ambizioni di egemonia)
all’unità sistematica del sapere che presenta caratteri inequivocabilmente filosofici.»
[Poggi, Introduzione al positivismo]
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Le “regole” del positivismo
Leszek Kolakowski è uno studioso polacco, poi emigrato negli Stati Uniti, che ha studiato a fondo la filosofia dell’Ottocento concentrandosi sul positivismo (nell’opera da
cui traiamo questo passo, La filosofia del positivismo) e sul marxismo (soprattutto in
Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo), cioè sulle correnti più attente alle trasformazioni sociali del periodo. Ci sembra proporre la lettura di questa pagina, perché vi
sono messi a fuoco alcuni elementi concettuali abitualmente non sottolineati, che possono efficacemente aiutare a comprendere l’impianto teorico che guidò i pensatori del
periodo positivista.
«Il positivismo è un determinato atteggiamento filosofico nei confronti della conoscenza umana; questo atteggiamento, per sé, non implica nessuna pregiudiziale affermazione sul modo come gli uomini acquisiscano il sapere, né in senso psicologico né in
senso storico. Il positivismo è piuttosto un complesso di regole e di criteri di giudizio
che si riferiscono alla conoscenza umana: ci dice quale genere di contenuti, impliciti
nelle nostre affermazioni riguardo al mondo, merita di essere chiamato sapere, formula
le norme che permettono di distinguere fra ciò che può essere oggetto di una possibile
domanda e ciò su cui non è più possibile interrogarsi ragionevolmente. Si tratta quindi
di un atteggiamento normativo che regola l’uso di termini come “conoscenza”, “scien-
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za”, “informazione”; in conseguenza le regole positivistiche distinguono fra controversie filosofiche e scientifiche che val la pena di svolgere e di approfondire, e questioni
che non hanno nessuna possibilità di giungere a una soluzione e quindi non meritano
alcuna considerazione.
Ed ecco ora le più importanti regole a cui ci si deve attenere, secondo la dottrina positivistica, per separare, diciamo così, il grano dalla pula di tutti i giudizi sul mondo
che di solito vengono formulati, di individuare subito, cioè, i problemi che meritano una
discussione e di rifiutare invece quelli formulati in maniera sbagliata o contenenti concetti fallaci.
1. Regola del fenomenismo.
Si può formulare brevemente così: non esiste nessuna differenza reale fra “essenza”
e “apparenza”. Molte dottrine metafisiche tradizionali erano basate sul presupposto che
i diversi fenomeni percepiti e percepibili fossero manifestazioni di una realtà che non si
rivela immediatamente alla conoscenza dei sensi. Questa supposizione giustifica l’uso
di termini come “sostanza”, “forma sostanziale”, “qualità occulta” e simili. Il positivismo, invece, raccomanda di eliminare dal conoscere umano queste distinzioni in quanto
portano all’errore. Abbiamo diritto di registrare solo ciò che si manifesta effettivamente all’esperienza; ogni supposizione su esistenze nascoste di cui le forme empiriche di
esistenza non sarebbero che manifestazioni, è assolutamente inattendibile. Nelle questioni che esulano dall’ambito dell’esperienza ogni controversia ha un carattere puramente verbale. [...]
Esempi classici di entità che i positivisti considerano come ingiustificati “corpi estranei” in quanto al di la di ogni possibile esperienza, sono i concetti di “materia” e di
“spirito”. Se per “materia” s’intende qualcosa di diverso dall’insieme delle qualità empiricamente percepite, e se essa deve essere qualcosa la cui presenza non serve a spiegarci i fenomeni osservati meglio di quanto non possiamo fare senza ricorrere a tale
concetto, allora non c’è motivo di costruirlo; analogamente, se la parola “anima” deve
indicare un oggetto che si differenzia dall’insieme delle proprietà descrivibili della vita
psichica dell’uomo, non è altro che una costruzione superflua, dato che nessuno è in
grado di dire in che cosa si distinguerebbe un mondo senza “anima” da un mondo con
“anima”. [...]
2. Regola del nominalismo.
[...] Con la regola del nominalismo, come con quella precedente, si rifiuta l’ipotesi
che un qualsiasi sapere formulato in termini generali abbia nella realtà altre corrispondenze che non siano singoli oggetti concreti. [...] Dal punto di vista della critica
nominalistica ogni sapere astratto è una specie di notazione abbreviata e classificatoria
di dati dell’esperienza e non ha una funzione conoscitiva autonoma nel senso che proprio come conoscenza astratta ci possa dare accesso a un qualsiasi settore della realtà
precluso all’esperienza. Tutte le entità universali, le creazioni astratte di cui l’antica
metafisica riempiva il mondo, sono fantasticherie nate dall’aver attribuito esistenza a
qualcosa che al di fuori della parola stessa non ha alcuna esistenza. Per usare il linguaggio delle antiche controversie: “l’universale” è solo una proprietà delle costruzioni linguistiche, o, secondo alcune interpretazioni, degli atti mentali collegati con le operazioni inerenti a queste costruzioni; ma nel mondo dell’esperienza, che è poi il mondo
semplicemente, non vi è niente di “universale”.
3. La concezione fenomenistica è nominalistica del sapere ha anche un’altra conseguenza significativa che enunciamo al terzo posto: si tratta della regola che nega validità di conoscenza ai giudizi di valore e alle espressioni normative.
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Nell’esperienza cioè non esistono qualità di avvenimenti, oggetti o comportamenti
umani che si possano designare come “nobile”, “ignobile”, “buono”, “cattivo”, “bello”,
“brutto” ecc. Né esiste esperienza che possa costringerci ad accettare, con l’appoggio
di una qualsiasi operazione logica, delle affermazioni contenenti imposizioni o proibizioni, le quali cioè dicono che qualcosa si deve o non si deve fare. [...] Non è ammissibile pensare che qualsiasi affermazione di valore che noi accettiamo in sé – e non in rapporto a qualcos’altro – debba essere giustificata per mezzo di dati dell’esperienza. Che
per esempio la vita umana sia un valore assoluto insostituibile è un principio che non
può essere giustificato in nessun modo; lo si può accettare o rifiutare, ma in ambedue i
casi si deve ammettere l’arbitrarietà della scelta.
La regola fenomenistica ci suggerisce di rifiutare l’ipotesi che i valori siano qualità
oggettive, accessibili all’unico tipo di conoscenza che merita questo nome, mentre la
regola nominalistica ci suggerisce di rinunciare alla convinzione che, al di fuori del
mondo visibile, vi sia un mondo di valori autonomi di cui i nostri giudizi sarebbero i
misteriosi correlati. Abbiamo perciò pieno diritto di formulare giudizi di valore sul
mondo umano, ma non di supporre che abbiano una giustificazione scientifica o che
possano essere fondati su qualcosa di diverso dal nostro arbitrio.
4. Al quarto posto, fra le idee fondamentali della filosofia positivistica, mettiamo la
convinzione della fondamentale unità dei metodi di conoscenza.
Questo principio, ancor più dei precedenti, ammette diverse interpretazioni: ciò non
toglie che questa idea sia costantemente presente nelle dottrine positivistiche. Nella sua
forma più generale si tratta della convinzione che i metodi di appropriazione di un sapere valido per tutti i settori dell’esperienza siano fondamentalmente identici, e che anche le più importanti fasi di elaborazione dell’esperienza attraverso la riflessione teoretica siano identiche. L’ipotesi che le peculiarità qualitative delle singole scienze siano
qualcosa di più che semplice testimonianza di un determinato stadio storico raggiunto
dalla scienza, non ha alcun fondamento; al contrario, è giustificata la speranza che un
ulteriore progresso porti alla graduale eliminazione delle differenze e persino, come
molti hanno pensato, alla riduzione di tutte le scienze a una sola disciplina sintetica.
Si è spesso immaginato che la fisica sarebbe diventata questa unica vera scienza
perché, fra le discipline empiriche, era quella che aveva elaborato i metodi di descrizione più esatti e perché con le sue spiegazioni comprende i fenomeni e le proprietà più
generali del mondo naturale, cioè quelli senza i quali nessun altro fenomeno ha luogo.
Questa ipotesi di riduzione di tutto il sapere umano alle proprietà fisiche, della traduzione di tutte le tesi scientifiche in affermazioni riguardanti rapporti fisici riscontrabili
in natura e della fondamentale riducibilità di qualsiasi termine ai termini della fisica,
non è solo il risultato delle regole positivistiche sopra elencate, ma deriva anche da altri presupposti; la fede nella fondamentale unità dei metodi di conoscenza può inoltre
essere specificata anche in altri modi. Tuttavia, proprio quest’interpretazione ha trovato una diffusione abbastanza ampia nella storia del positivismo.
Intorno a queste quattro regole che abbiamo sommariamente enunciato la filosofia
positivistica ha costruito una vasta problematica che comprende tutti i settori della conoscenza umana. [...]
Il positivismo, in tutta la sua storia, ha sempre diretto in particolare gli strali della
sua polemica contro le affermazioni metafisiche di ogni genere, contro quel tipo di riflessione cioè che non era in grado di giustificare i propri risultati sulla base di dati
empirici, o formulava i suoi giudizi in modo tale che i dati empirici non potessero mai
contraddirli. [...]
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Il positivismo, perciò, critica tanto le concezioni religiose del mondo quanto la metafisica del materialismo, ed è costantemente alla ricerca di una posizione che sia del tutto libera da presupposti metafisici di qualsiasi genere; tale posizione si limita di proposito alle regole che, in modo più o meno esplicito, vengono già osservate nella pratica
della ricerca scientifica in cui secondo i positivisti i principi metafisici sono inservibili,
e in cui si studiano invece i nessi fra i vari fenomeni senza cercare di penetrare nella
loro “natura” nascosta o di stabilire se il mondo “in sé”, completamente staccato dalla
situazione conoscitiva in cui ci si presenta, possieda proprietà diverse da quelle accessibili all’esperienza.» [L. Kolakowski, La filosofia del positivismo]2
1 S. Poggi, Introduzione al positivismo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 13-21.
2 L. Kolakowski, La filosofia del positivismo, trad. it. di N. Paoli, Laterza, Bari 1966, pp. 411.