Introduzione. La capacità di aspirare come ponte tra quotidiano e

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Introduzione. La capacità
di aspirare come ponte
tra quotidiano e futuro
di Ota de Leonardis e Marco Deriu
1. Premessa
The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition1, questo articolo
di Arjun Appadurai ha costituito il testo di base, una sorta di pretesto in senso etimologico, per gli scambi e le elaborazioni che conÁuiscono in questo volume. La
“capacità di aspirare” di cui questo saggio tratta ne costituisce perciò il Àlo conduttore, il tema, la questione da cui i contributi qui raccolti in vario modo partono o con cui dialogano: con l’obiettivo comune di indagare “il futuro nel quotidiano”, come il titolo del volume per l’appunto promette. Sciogliendo questa formula
ellittica – quasi un ossimoro – diamo conto qui di questo Àlo conduttore, a introduzione del volume: illumineremo le intersezioni tra diversi livelli della realtà sociale e tra prospettive diverse, che questa formula sollecita, e di cui i saggi raccolti nel volume offrono un ricco spaccato.
In questo saggio Appadurai mette a tema la capacità di aspirare come chiave per interrogarsi sul ruolo del futuro nell’elaborazione culturale. Il suo obiettivo è, da un lato, mostrare la rilevanza delle aspirazioni nello studio della cultura,
e dall’altro rintracciarne il radicamento sociale nelle pratiche concrete che impegnano gli attori sociali in progetti di cambiamento delle loro condizioni di vita.
Protagonisti del racconto di Appadurai sono i poveri degli slum di Mumbai che,
con il supporto di reti di attivisti, si organizzano e si mobilitano per affrontare i
loro problemi abitativi – primo fra tutti quello dei gabinetti e del sistema fognario
in genere, che non ci sono e di cui hanno deciso di dotarsi. Politics of shit è il modo in cui Appadurai qualiÀca questa mobilitazione, un esempio concreto di quella
deep democracy, la democrazia situata e praticata nella vita quotidiana, che Appadurai stesso ha messo in luce in un altro lavoro sullo stesso caso2. L’analisi di
In M. Walton, V. Rao (eds.), Culture and Public Action: A Cross-Disciplinary Dialogue on
Development Policy, Palo Alto, Stanford University Press, 2004. Ora tradotto in italiano, insieme
a un suo altro saggio in: A. Appadurai, Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, et al./edizioni, 2011, prefazione di O. De Leonardis.
2 A. Appadurai, «Democrazia Profonda» è il titolo della versione italiana inclusa in A. Appadurai, Le aspirazioni nutrono la democrazia, cit.
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il futuro nel quotidiano
questo caso mostra bene come le aspirazioni prendano forma e forza dentro i processi in cui i poveri perseguono obiettivi concreti, facendo l’esperienza del possibile, e rappresentandola e rappresentandosi come una possibilità reale.
Facendoci dunque guidare dal tema della capacità di aspirare che Appadurai ha argomentato, abbiamo messo a fuoco tre snodi importanti nella discussione
sulle forme sociali di preÀgurazione del futuro là dove esse si esprimono e si alimentano, nella concretezza quotidiana della vita sociale delle persone.
Anzitutto, esprimere e coltivare aspirazioni è prettamente una capacità culturale. Ovvero essa chiama in causa la partecipazione delle persone alle rappresentazioni sociali che danno forma e signiÀcato alla società e al suo futuro. Le aspirazioni partecipano della costituzione culturale o, più propriamente, simbolica della
società, e precisamente dei modi di rappresentarne il futuro, le conÀgurazioni del
possibile e del desiderabile. Del resto, a sollecitarci in questa direzione è un antropologo. Ma la questione qui è che si tratta, d’altro canto, di una “capacità”, che come tale si dispiega in quanto sia praticata: questo solleva interrogativi circa le condizioni sociali nelle quali le aspirazioni si formano e si esprimono e perciò chiama
in causa la materialità quotidiana della vita sociale delle persone, i vincoli normativi, le risorse e le possibilità di preÀgurarsi un futuro. La capacità di aspirare degli
abitanti degli slum di Mumbai, attorno a cui Appadurai ragiona, è praticata e coltivata attraverso il cambiamento delle loro condizioni materiali di vita. Attorno alle
aspirazioni si intrecciano dunque la dimensione culturale e quella strutturale della
costruzione della società. Questo è il primo snodo.
Ma la capacità di aspirare, mostra Appadurai, è distribuita in modo diseguale.
Si tratta infatti di una capacità di “navigare” tra le norme sociali, e di appoggiarvisi per perseguire i propri progetti di vita, che chiama in causa le diseguaglianze
nella dotazione di risorse materiali, sociali e cognitive. La povertà, mostra Appadurai, è anche deprivazione delle possibilità di esprimere e coltivare aspirazioni. La diseguaglianza su questo terreno apre piste di ricerca molto ricche sul tema delle diseguaglianze sociali più in generale. E sul tema del potere. Questo è il
secondo snodo, la pensabilità del futuro, il vocabolario del possibile su cui molto insiste Appadurai, costituisce un terreno cruciale di riscatto dalla deprivazione
sociale: là dove si misura il riconoscimento sociale delle persone; là dove il riconoscimento è parametro di giustizia.
Il terzo snodo, inÀne: la capacità di aspirare implica che le aspirazioni possano
essere espresse. Come di nuovo Appadurai sottolinea, occorre la “capacità di voce” perché le aspirazioni prendano forma e siano rappresentate sulla scena pubblica. La voice è quel modo di esprimersi degli individui nei confronti del collettivo
che, nella ben nota tipologia di Albert Hirschman, si caratterizza come speciÀcamente politico, e come proprio di un collettivo politico. Tanto la protesta come le
aspirazioni sono materia politica; ma ciò che le aspirazioni mettono speciÀcamente in gioco nella voce, nella presa di parola, è la dimensione politica della conÀgurazione del futuro. E, di più, convocano questa dimensione politica sul terre-
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no concreto dei contesti e delle pratiche, nella vita quotidiana di persone in carne e
ossa, come Appadurai ci sollecita a fare con l’esempio degli abitanti degli slums di
Mumbai, e della loro capacità “politica” di rappresentarsi, e di far “risalire in generalità” le loro aspirazioni. Anche questo è, per l’appunto, il futuro nel quotidiano.
2. Aspirazioni. Un lavoro sugli intrecci
Mettendo a tema la capacità di aspirare come una capacità, un’attitudine culturale, Appadurai vuole da un lato mostrare come e perché «la cultura conta»3 nel
gioco collettivo della preÀgurazione del futuro: quest’ultima non può esser ridotta
a terreno di esercizio della rational choice; e viceversa vuole recuperare agli studi culturali la dimensione del futuro, ridarle forza a contrappeso dell’importanza
conferita in questi studi alle tematiche dell’heritage, delle tradizioni, delle sedimentazioni del passato, a proposito per esempio di identità.
Per Appadurai la cultura è sempre un dialogo tra aspirazioni e tradizioni già
sedimentate, come del resto mostrano i saggi raccolti nel suo Modernity at large
(Appadurai 1996; 2001). In questo senso come aveva notato con acutezza un altro antropologo, Marshall Sahlins (1992, p. 193), la stessa “tradizione” «non è una
propaggine senza vita del passato; al contrario, è proprio il modo in cui la gente si
rapporta a circostanze di cui non è responsabile e che sfuggono al suo controllo,
siano esse opera della natura o dell’uomo. La tradizione, quindi, si è modiÀcata
nel passato e, [...], continuerà a modiÀcarsi»; in quanto strumento di orientamento nel cambiamento sociale essa è immersa nelle pratiche, che la reinterpretano e
la cambiano. Fin qui Sahlins. Ma da una prospettiva sociologica sappiamo quanto sia densa e articolata questa tematica: il corpus di ricerche ed elaborazioni teoriche che si è formato negli studi sociologici sul tempo, sulle conÀgurazioni dei
rapporti tra passato, presente e futuro, sulla memoria, costituiscono un importante background per lavorare sugli intrecci tra rielaborazioni del passato e preÀgurazioni del futuro. E se si guarda da questa prospettiva alle società contemporanee si rileva che, come ricorda in questo volume Carmen Leccardi – che peraltro
ne è una studiosa rappresentativa – l’accelerazione del tempo che vi si dispiega e i
risvolti di presentiÀcazione si accompagnano altrettanto a uno schiacciamento del
passato sul presente. Il suo contributo, così come quello di altri, ricorda che questi
intrecci tra rielaborazione del passato e preÀgurazioni del futuro entrano appunto in gioco nella costruzione di quei «ponti che i soggetti costruiscono tra il presente e il futuro» che, come osserva Paolo Jedlowski (in questo volume) sono appunto le aspirazioni.
3 Cosi Paolo Jedlowski, in questo volume, sintetizza il pensiero di Appadurai. Ma qui, dato il
contesto argomentativo assumiamo quest’espressione per parafrasare il noto statement di Douglas
North, «la storia conta».
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il futuro nel quotidiano
Dunque anche quelle dimensioni culturali che attengono al passato, alla memoria, vanno prese in conto nella costruzione simbolica del futuro, e nella formulazione di aspirazioni – più di quanto, sostiene Jedlowski, Appadurai non faccia.
Quest’ultimo tuttavia nello spostare l’attenzione sul futuro è mosso, come accennavamo, dall’intenzione strategica di contrastare l’egemonia culturale sul futuro esercitata dal frame del mercato e dell’economia, e dai vocabolari della rational choice in termini di interessi, preferenze, intenzioni, calcolo ecc.: quel “nuovo
spirito del capitalismo” che, come mostra Vando Borghi (in questo volume) sottrae alle persone la partecipazione alla conÀgurazione del futuro. Come osserva
Robert Castel, la “grande trasformazione” che esso sta imprimendo nelle nostre
società incide «profondamente nel modo in cui possiamo rappresentarci l’avvenire e avere presa su di esso» così che forse si può dire, con le parole di Paul Valery,
«il corpo sociale va perdendo il suo domani»4.
Un indebolimento della capacità di aspirare si registra in effetti anche – o forse soprattutto – nel cuore delle società più ricche e sviluppate, come ricorda nel
suo intervento Marco Deriu. Posti di fronte agli effetti perversi e ai disastri prodotti dalla stessa potentia tecnologica e Ànanziaria i cittadini delle società opulente sembrano infatti oscillare continuamente tra una cinica rassegnazione all’esistente e una fede indiscutibile nelle soluzioni tecnocratiche.
Non solo gli interessi, ma altrettanto le passioni, come direbbe Hirschman, sono implicate nella capacità di aspirare, e altrettanto l’immaginazione, i processi
sociali di costruzione di immaginari, come mostrano molti dei saggi qui raccolti: per esempio quello di Enzo Colombo, a proposito dell’immaginario della differenza; o quello di Vincenza Pellegrino che lavora sulle conÀgurazioni immaginarie del futuro dei napoletani alle prese con i riÀuti.
E soprattutto, la capacità di aspirare sollecita a indagare lo spazio del possibile. Possibile, possibilità, possibilità reale, speranze plausibili ecc., sono espressioni frequenti nel testo di Appadurai, e qualiÀcano il terreno di espressione delle
aspirazioni. La capacità di aspirare ha a che fare con la possibilità di immaginare e di esplorare, con i margini per aprire delle possibilità e quindi esplorarle ed
esperirle. Là dove si esprime la capacità di aspirare, dice Appadurai, si costruisce
un ancoraggio all’immaginazione. Un’immaginazione ancorata offre la possibilità di contrastare la potenza del dominio, per esempio, di un immaginario pubblicitario, di sfuggire al fascino della rappresentazione dominante, di un immaginario sequestrato dal sistema di mercato.
Dunque le aspirazioni appartengono al livello dei processi culturali nei quali
si rappresenta socialmente il tempo, e s’immagina il futuro. Però Appadurai, lavo4 R. Castel, La Montée des incertitudes. Travail, protection, statut de l’individu, Paris, Seuil,
2009, p. 11. Ma si veda anche il suo saggio introduttivo in R. Castel, C. Martin, dir., Changement
et pensées du changement, Paris, La Découverte, 2012. Ci permettiamo di rinviare in proposito
anche al contributo in quel volume di O. De Leonardis «Le sillon que l’on creuse. En explorant une
grande transformation», in Castel, Martin, op. cit. pp. 42-60.
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rando sul caso dei poveri di Mumbai, insiste sul risvolto in qualche modo complementare: le aspirazioni si esprimono a ridosso della materialità concreta dell’esistenza umana, là dove è in questione il domani di persone in carne e ossa, e si
misurano con vincoli materiali, con norme, con strutture. La costituzione simbolica della società cui esse partecipano non manca – lo sappiamo bene, come
sociologi – di radicamenti nella materialità concreta e situata della sua organizzazione sociale, in cui si rappresenta e si ricostituisce di continuo. Gli attori sociali a ridosso dei quali Appadurai ragiona danno forma alle loro aspirazioni nel
mentre che sono impegnati a cambiare le loro condizioni materiali di esistenza,
e per di più sul terreno dei bisogni e delle urgenze più immediate, dove il corpo
è direttamente implicato; questo terreno costituisce l’ancoraggio da cui essi danno espressione pubblica alle loro aspirazioni, le rappresentano – e si rappresentano. Nelle aspirazioni, nella possibilità di coltivare e perseguire delle aspirazioni,
s’intrecciano la materialità dei bisogni da affrontare in pratica, e l’immaginazione, la preÀgurazione del futuro, da rappresentare. Ma questi intrecci si danno come esperienza collettiva, comune: le aspirazioni, mostra Appadurai, sono intrinsecamente collettive – non rispondono semplicemente al bisogno del singolo di
un tetto sulla testa, e di mangiare oggi e anche domani – nel senso che attingono
a, e attualizzano un, sottofondo di riferimenti più ampi di idee etiche e metaÀsiche su cos’è la buona vita, la salute, la felicità ecc., alimentandosi di tematizzazioni, messe alla prova, discussioni, argomentazioni e narrazioni in proposito.
Conosciamo – è un’acquisizione di tutte le prospettive di ricerca che in vario modo prendono in conto la vita quotidiana – l’importanza di lavorare su questi intrecci, “tra cultura e struttura” per dirla in breve, e altrettanto conosciamo
le difÀcoltà concettuali che sempre insorgono in questo tipo di ricerca. Ma ci pare che a fronte di queste difÀcoltà il suggerimento di Appadurai conforti l’orientamento, che costituisce un tratto di fondo comune dei partecipanti a questo volume, a posizionarsi come ricercatori a ridosso degli attori sociali e delle pratiche in
cui sono impegnati; a qualiÀcare queste pratiche non semplicemente come il luogo della consuetudine irriÁessa – oltre dunque l’impostazione di Bourdieu, con
cui Giuliana Mandich si misura in questo volume – ma come uno spazio di riÁessività; e ad assumere quella che Nicola Negri, in questo volume, chiama una prospettiva “contestualista”. Il suggerimento di Appadurai è preciso: la capacità di
aspirare è per l’appunto una capacità. Il richiamo al cosiddetto “approccio delle
capacità” di Amartya Sen è esplicito e pertinente. Diversi contributi nel volume
rilevano questo dialogo a distanza con Sen, e ne discutono le implicazioni sotto
vari aspetti, come vedremo. Ma qui è interessante evidenziare il fatto che, chiamando in causa le capacità, Appadurai suggerisce di lavorare sulle aspirazioni
nella cornice dell’agency dei soggetti, ancorandole alle possibilità di azione. Questa è una chiave sviluppata in particolare da Lavinia Bifulco, in questo volume.
Se le aspirazioni sono materia di capacità, “struttura” e “cultura” vi si connettono nel punto in cui le persone sono coinvolte in pratica nel produrre cambiamento
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il futuro nel quotidiano
sociale, nel «fare e rifare mondi», per richiamare un’espressione efÀcace di Nelson Goodman.
3. Rappresentazioni e riconoscimento: il nodo della diseguaglianza
Il secondo snodo che abbiamo individuato è nel modo in cui Appadurai utilizza la capacità di aspirare per ragionare su povertà e diseguaglianza, a partire dalla considerazione che essa è evidentemente distribuita in modo diseguale. Su questo l’autore offre un contributo molto importante alla discussione sulle politiche
di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale.
I passaggi importanti su questo terreno sono a nostro parere due. Anzitutto,
povertà e diseguaglianza sono lette attraverso il prisma delle capacità. Le diseguaglianze si annidano nelle possibilità di agire, di mettere in atto e coltivare delle capacità – che Sen, ricordiamolo, intende come «libertà di perseguire la vita che una persona ha ragione di apprezzare» (ribadito in Sen 2009, p. XII). E la
povertà si qualiÀca come deprivazione di queste capacità. Che cosa accade se si
convoca la capacità di aspirare in questa cornice? Accade che l’asse dell’attenzione sulle condizioni di vita si sposta là dove esse liberano, o viceversa impediscono, il dispiegarsi delle aspirazioni, e – ha ragione Jedlowski, in questo volume, a
sottolinearlo – il dispiegarsi della soggettività.
Nell’aspirare è in gioco una «capacità navigazionale», come dice Appadurai,
l’essere in grado di muoversi nella mappa complessa del tessuto normativo della
società per dar corpo alle aspirazioni. Sviluppando le implicazioni di questa nozione, Enrica Morlicchio (in questo volume) si confronta con diversi approcci alla
questione della povertà, per mostrare come proprio sul terreno di questa capacità culturale i poveri trovano le basi per affrontare la loro situazione. Nel navigare
stanno le condizioni per fare quel lavoro di coltivazione delle possibilità, per sperimentarsi, sperimentare ed esperire, che sono consustanziali alla costruzione di
aspirazioni. E viceversa non si riesce ad avere aspirazioni quando queste condizioni non si danno. Lo svuotamento delle prospettive sul futuro che vive il disoccupato di cui parla Mandich richiamandolo da Bourdieu (in questo volume) parla appunto della perdita di queste condizioni. Si può dire la stessa cosa in un altro
modo. Si può dire che attraverso la capacità di aspirare, attraverso questa chiave
di lettura, Appadurai ci aiuta a rileggere questioni classiche in materia di welfare e politiche sociali (e abitative!), questioni di risorse, di entitlements e diritti, di
accesso e inclusione: collegandole – via aspirazioni – con il discorso del cambiamento. La capacità navigazionale legge la diseguaglianza delle condizioni di vita
nei termini di una diseguale possibilità di nominare il futuro, ovvero di partecipare al discorso collettivo sulla società che vogliamo. Esclusione, diseguaglianze,
ingiustizie si misurano sul metro di questo potere di nominare, sulle possibilità di
preÀgurare (desiderare, progettare, praticare e costruire) il futuro. Un futuro realistico, beninteso: le aspirazioni non sono sogni.
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XVII
Ë su questo registro della preÀgurazione del futuro che si manifestano le asimmetrie di potere e le deprivazioni oggi, nel “nuovo spirito del capitalismo”, di cui
danno conto diversi contributi nel volume. Vando Borghi (ma si veda anche Borghi 2011) ne dà conto a proposito delle insicurezze che la precarizzazione del lavoro e l’«individualizzazione senza capacitazione» instaurano, indebolendo quella possibilità di stare nella storia che è proprio della capacità di aspirare. Marita
Rampazi e Carmen Leccardi, attingendo alle loro ricerche sul tempo dei giovani,
mostrano come questi ultimi si confrontino con la perdita e la svalutazione dei riferimenti temporali della lunga durata, con le logiche della presentiÀcazione, che
rendono difÀcile il proiettarsi nel e il progettare il futuro. E, ancora, Enzo Colombo considera l’orizzonte che si chiude nell’immaginario del rapporto con l’Altro dominato dalla paura. Da ultimo, Vincenza Pellegrino dà conto della conÀgurazione claustrofobica del futuro che trasmettono gli intervistati che condividono
un’impotenza collettiva verso i problemi ambientali – sanitari in primo luogo –
che la crisi dei riÀuti ha portato allo scoperto. Anche in questi ambiti dunque si
possono riconoscere dinamiche di deprivazione che si esprimono nel «fallimento
della capacità di aspirare», per riprendere in proposito Morlicchio.
Ma a questo punto s’innesca un secondo passaggio. Le aspirazioni, così qualiÀcate, implicano riconoscimento sociale. Esse devono poter essere rappresentate; e nel rappresentarsi esprimere un riconoscimento e vedersi riconosciute. Deprivazioni, esclusione, diseguaglianze incidono sulla possibilità di esprimere una
soggettività, di proiettarsi, e di essere riconosciuti. Nella discussione che, in materia di welfare e giustizia sociale, oppone la prospettiva della redistribuzione alla prospettiva del riconoscimento, Appadurai in questo testo si schiera con decisione dal lato del riconoscimento5. O più precisamente, lavorando su condizioni
e forme (terms) del riconoscimento, Appadurai stabilisce un nesso, una interdipendenza tra redistribuzione e riconoscimento precisamente attorno alla capacità
di aspirare per come l’abbiamo qualiÀcata Àn qui, seguendo appunto Appadurai.
Ne danno conto con precisione in questo volume sia Negri sia Morlicchio. L’interazione dinamica tra queste due forme di inclusione sociale che s’intravede con
questa chiave di lettura – tra cui il suo carattere “situato” e aperto – potrebbe dare
qualche suggerimento anche per le nostre società, in materia di politiche sociali,
come ancora Negri sottolinea. In ogni caso il riconoscimento è componente ineludibile di processi redistributivi, là ove questi redistribuiscano non soltanto beni,
ma possibilità di “navigare”, per riprendere la metafora, ovvero supportino il dispiegarsi di capacità.
Qui Appadurai si riferisce a C. Taylor, Multiculturalism and the “Politics of Recognition”,
Princeton, Princeton University Press, 1992 (trad. it. Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano, Anabasi, 1992; poi ripubblicato in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo.
Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2008). A questo, ma anche alla teoria del riconoscimento di Axel Honneth, si richiamano diversi contributi nel volume (Negri e Morlicchio in particolare).
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XVIII
il futuro nel quotidiano
Nella capacità di aspirare si vede bene che, nel rappresentare le aspirazioni come possibilità reale sta una condizione essenziale per il riconoscimento, per riconoscersi ed essere riconosciuti. Non c’è riscatto per gli abitanti degli slum senza il
passaggio alla rappresentazione di sé, come collettività, in un cambiamento prodotto nella loro vita in comune che ha pretesa di valere più in generale. I toilet festivals di Mumbai sono un esempio di una rappresentazione pubblica di ciò che
la capacità di aspirare può produrre, in materia di riscatto sociale. Che, come accade in questo caso, si possano rappresentare aspirazioni e renderle riconoscibili
e riconosciute sulla scena pubblica è parte intrinseca di questo riscatto. In termini di teoria della giustizia, il riconoscimento qualiÀcato attraverso la capacità di
aspirare conÀgura qualcosa come un diritto alla speranza, o forse corrisponde alla prospettiva normativa di una società che coltiva quello che Ernst Bloch chiamava «il principio speranza».
4. La voce delle aspirazioni. La dimensione politica
Nei modi di rappresentare e rappresentarsi e di ottenere riconoscimento sociale degli abitanti degli slum di Mumbai è ben evidente il registro politico. Essi
acquistano visibilità sulla scena pubblica, rappresentandosi alla città ed essendone riconosciuti come abitanti, come cittadini; essi rappresentano i risultati della loro azione collettiva come pertinenti alle politiche della città, suscettibili di
fornire indicazioni in materia; i loro toilet festivals, per tornare a questo esempio, esibiscono uno spirito “carnevalesco”, come osserva Appadurai, all’insegna
dell’ironia e dell’auto-ironia, con la quale i protagonisti si riposizionano e si rideÀniscono, esprimendo forse anche una capacità di critica politica6; e comunque in queste rappresentazioni vengono coinvolte, anche, autorità pubbliche a diversi livelli.
Ë la loro capacità di voce che è in gioco qui, il loro prender parola. La voce è
un medium cruciale per dar corpo alle aspirazioni, come Appadurai mette in evidenza. E non c’è riconoscimento se non per il tramite della presa di parola, come
mostra lucidamente Nicola Negri in questo volume.
Appadurai richiama da Albert Hirschman (Hirschman 1970; 2002) la voice
come quella facoltà di azione degli individui nei confronti dei collettivi, nel loro
carattere politico, e in genere nella sfera politica. La cifra della voice è, in Hirschman, la protesta politica, ma nella rielaborazione di Appadurai essa acquista il signiÀcato più ampio di presa di parola in pubblico, e – di nuovo – si conÀgura co6 Sul rapporto tra ironia e critica sta lavorando Laurent Thévenot. Si veda in proposito L. Thévenot, A. Berelowitch, «De L’ironie à la critique. La complicité de l’implicite et ses limites», Proposition pour deux ans d’une série de journées franco-russe à Moscou, Mosca, octobre 2010.
introduzione
XIX
me una capacità, “la capacità di voce” per l’appunto7. La “voce” è quella capacità,
politica, di esprimersi dentro il mondo, dentro il mondo dove ci sono i valori dominanti, per dire, per discutere, per protestare e soprattutto per partecipare. In altre parole c’è un rapporto tra l’avere delle aspirazioni e la possibilità di esprimerle, la capacità di prender parola per metterle a tema in pubblico, per rivendicarle.
E d’altro canto laddove non c’è spazio per l’espressione delle aspirazioni, le aspirazioni non emergono, non prendono forma neanche agli occhi della stessa persona interessata.
Rispetto alla centralità che ha acquisito, anche in Italia, la parola d’ordine della partecipazione nelle politiche pubbliche (e anche nelle politiche sociali), qui –
nel legame così stabilito tra capacità di aspirare e capacità di voce – si potrebbe
riconoscere, come suggerisce Lavinia Bifulco (in questo volume), una chiave importante per indagare le differenti forme che essa assume nelle arene di policy e
per andare a cercare in modo un po’ più Àne le condizioni nelle quali si dia effettivamente partecipazione.
Perché si dispieghi la capacità di aspirare e questa dispieghi il suo potenziale
emancipativo, occorre, dice Appadurai (2004),
to strengthen the capacity of the poor to exercise “voice,” to debate, contest, and oppose vital directions for collective social life as they wish, not only because this is
virtually a deÀnition of inclusion and participation in any democracy. But there is a
stronger reason for strengthening the capacity for voice among the poor. It is the only
way in which the poor might Ànd locally plausible ways to alter what I am calling the
terms of recognition in any particular cultural regime.
Ë attraverso la voce che le persone operano quella rielaborazione culturale che
cambia appunto i termini del riconoscimento. Di una rielaborazione culturale si
tratta: ciò che cambia sono i quadri culturali del rapporto con il futuro, i modi di
preÀgurarlo, delineando nuove direzioni per la vita sociale. Ma si potrebbe aggiungere che cambia altrettanto anche il rapporto con il passato. Pensando per
esempio alla progettualità che esprimono i giovani su cui lavora Marita Rampazi (in questo volume), confrontandosi con i vincoli che dicevamo, potremmo riconoscere che il loro impegno nella rideÀnizione di un orizzonte di senso passa per
una rielaborazione dei termini di riferimento per rapportarsi al passato. E questa rielaborazione culturale si addensa attorno all’espressione di un impegno nel
mondo e verso sé stessi, un orizzonte di senso appunto, che Rampazi stessa qua7
C’è qui di nuovo in Appadurai un rinvio all’approccio delle capabilities e a Sen. Sulla centralità della capability for voice in questo approccio v. L. Bifulco e C. Mozzana, «La dimensione sociale delle capacità: fattori di conversione, istituzioni e azione pubblica», Rassegna Italiana di Sociologia, 3, 2011, pp. 399-416. Sulle valenze politiche di questa capacità e sulle implicazioni in
termini di democrazia si veda O. De Leonardis, S. Negrelli, R. Salais (eds.), Democracy and Capability for Voice. Welfare, Work, and Public Deliberation in Europe, Bruxelles, Peter Lang, 2012.
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il futuro nel quotidiano
liÀca come “rispetto”, attingendo a Sennett. Potremmo anche aggiungere: rispetto verso l’écoumène (Berque 2000), verso la straordinaria ricchezza di differenze che in essa si dispiega, nella quale si esprime un orientamento al futuro, e una
prospettiva per pensarlo e per costruirlo. Così per esempio, nel suo contributo,
Deriu richiama la necessità di ancorare più saldamente le nostre aspirazioni al futuro attraverso un ampliamento delle nostre coordinate spaziali, temporali e umane: A Big Here, a Wide Us, a Long Now8.
Ebbene, l’elaborazione e la rappresentazione di questo diverso rapporto con il
futuro – di questa cosmologia, se vogliamo – esprime capacità di aspirare nel suo
signiÀcato politico, come campo di possibilità da perseguire – insieme, collettivamente. Esso è politico non tanto negli obiettivi da perseguire quanto piuttosto nei
percorsi che apre.
La capacità di voce si esercita, e per l’appunto si rafforza, nella traduzione dei
propri wants, delle proprie aspirazioni in pretese generalizzabili, in quella traduzione cioè che le fa “risalire in generalità”. Ma anche su questo piano Appadurai
è attento a situare culturalmente questa capacità. Considerare questa capacità di
parola e di protesta, prima che una virtù democratica, una attitudine culturale signiÀca riconoscere una competenza su un repertorio di strumenti metaforici, retorici, organizzativi, rituali e simbolici che trovano la loro efÀcacia all’interno di
una cultura speciÀca, di un contesto speciÀco. Come ancora Appadurai evidenzia, «quando queste leve funzionano, esse cambiano i terms del riconoscimento, e
dunque il framework culturale stesso».
Attraverso la voce, così contestualizzata, non si creano soltanto le condizioni
del riconoscimento, ma più al fondo cambiano, per l’appunto, i termini in cui esso avviene, la sua cornice culturale. Qui entra di nuovo in gioco il ruolo dell’immaginazione, o più precisamente della simbolizzazione. La voce, la presa di parola in pubblico, è infatti impegnata sul terreno simbolico della rielaborazione del
vocabolario, dei cambiamenti di signiÀcato, delle rideÀnizioni di persone e situazioni. E questo è per l’appunto un impegno – nel senso del francese engagement –
sul terreno propriamente politico del potere di “nominare”.
Vale la pena di aggiungere che tra i requisiti per dispiegare la capacità di voce
in questi termini, Appadurai evidenzia, nell’analizzare il suo caso, l’importanza
dell’attrezzarsi a praticare la “pazienza”. Con essa si mantiene aperto l’orizzonte,
si sfugge alla tenaglia tra urgenza e impotenza e si rideÀniscono i problemi fuori dal gioco del contingente che è così tipico del nuovo spirito del capitalismo, con
la sua logica per progetti a corto termine. La pazienza invece è il dare alle cose
che si costruiscono, e in cui si incarna e si concretizza un’aspirazione, il tempo di
diventare dei simboli, il tempo per una traduzione dal materiale al simbolico, che
8 Sulla capacità di preÀgurare il futuro, facendo i conti sia con il rischio della catastrofe che
con il desiderio di un «dolce avvenire» si veda l’introduzione di Marco Deriu in A. Bosi, M. Deriu,
V. Pellegrino (a cura di), Il dolce avvenire, Reggio Emilia, Diabasis, 2009.
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