2. STUDIARE LA GLOBALIZZAZIONE CON L’ANTROPOLOGIA DI A. APPADURAI. 2.0. Necessaria una breve introduzione. Soffermiamoci su alcuni luoghi più frequenti che sono emersi nei contributi documentati (con riferimento all’intervista a Gianfranco Pasquino) e nella recente letteratura sulla globalizzazione (J. Curran-M. Gurevitch, Mass media and Society, 1996; M. Castells, La nascita della società in rete, 1996; Id., Il potere delle identità, 1997; Z. Bauman, Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone, 1998; A. Giddens, Europe In The Global Age, 2007) a) la globalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione dell’economia hanno sottratto alle istituzioni statali e ai governi non solo il controllo sull’economia, ma anche il principale strumento di contrattazione con i cittadini, vale a dire una prospettiva di sviluppo modernizzante. solo per fare un esempio: un vestito acquistato in un negozio (e non vi dico il vestito!!!! perché intanto non l’ho comprato!!! ma è servito solo per fare una indagine) in Italia e lo stesso vestito a Sydney (Australia) (con internet e-bay) è stato prodotto in una fabbrica romena (Europa), che ha lavorato tessuti di cotone al Mali (Africa). Il design del vestito è opera di uno studio di Parigi (Europa), mentre alcuni macchinari della fabbrica sono stati progettati a Boston (Stati Uniti) e costruiti a San Paolo (Brasile). La campagna pubblicitaria destinata a lanciare la collezione di cui il vestito è parte è stata messa a punto a New-York (Stati Uniti) e realizzata da un fotografo tedesco con modelle italiane in una suggestiva location esotica, l'arcipelago di Capo Verde (Africa). Provate adesso a immaginare, e non sarà certo difficile a farlo, che cosa comporta questo (in termini di profitto) alle multinazionali della manifattura, dell’agro-alimentare, dell’industria automobilistica e infine a quella della telefonia. b) l’emergere di una tecnologia mediatica diffusa su scala planetaria ha messo in circolazione immagini e ideologie provenienti da molteplici e contraddittori centri di produzione dell’immaginario, togliendo allo stato il sostanziale monopolio dell’immaginazione dei propri cittadini. Lo stato-nazione moderno era nato proprio come istituzione in grado non solo di riprodurre il sistema di riproduzione, ma anche i rapporti di produzione (il sistema delle classi sociali) e persino i luoghi deputati alla trasmissione dei valori dominanti (la scuola). Andrebbe certamente condotto uno studio attento e sistematico sul modo in cui il soggetto postmoderno questo soggetto spesso definito in crisi, senza certezze, in bilico, ma comunque esistente e operante - fa parte di una società che è dominata in campo mediatico da reality show, programmi come L'isola dei famosi, Il Grande Fratello, La pupa e il secchione, Amici e da You-tube, Facebook, Second life. Oggi si parla, sempre più spesso, di “soapizzazione dell'anima” e si definisce la tv “tv spazzatura”. Prima di entrare nel merito del giudizio, bisognerebbe, però, provare a domandarsi com'è che funzionano i reality e i talk-show, perché hanno presa sulla gente e cosa fa sì che oggi tv e internet siano complici nella costruzione di immaginari “virtuareali” considerati di secondo e terz'ordine. L'antropologo Piero Vereni, nel suo Identità catodiche (2008), sostiene che i mass media, e in particolare la televisione, hanno introdotto una nuova forma di capitale, denominata “capitale mediatico”, che rende disponibile l'assimilazione di forme di identità molteplici. c) le mutate condizioni dello spostamento degli esseri umani sul pianeta (il passaggio dalle migrazioni alle diaspore in movimento negli etnorami) hanno de-territorializzato le nazioni, che ora sempre meno coincidono con le entità territoriali che pretendono di rappresentarne la forma politica. Le azioni intraprese sono ambivalenti e contraddittorie, producendo alla fine una destabilizzazione e l’emergere preoccupante delle “etnicità”. Quanti di noi hanno compiuto una ricognizione sulla consistenza quantitativa (ovvero per numero) e qualitativa (ovvero per paese di provenienza e anche per età) degli immigrati in Italia, in Europa, negli Stati Uniti? Una ricognizione che si può facilmente fare servendosi degli “osservatori” nazionali e internazionali. Uno fra tutti la Caritas, poi l’OCSE, poi il sito della Comunità Europea. Queste tre premesse sembrano indicare appunto la modernità in polvere. Tutti i grandi miti nati e sviluppatesi intorno a questa nozione centrale (l’idea stessa della scuola) sono irrimediabilmente messi in discussione. Lo stato-nazione adesso è percepito adesso come semplice custode e/o gendarme della territorialità. Ma cresce di pari tempo l’insoddisfazione e la disaffezione dalle istituzioni statali. Di pari tempo si assiste alla nascita e alla diffusione di tanti piccoli stati-nazione, spesso poco più di un lembo di terra. Dai 51 stati membri del 1945 all’ONU si è passati a 55 (1946), 57 (1947), 58 (1948), 59 (1949), 60 (1950), 76 (1955), 80 (1956), 82 (1957), 99 (1960), 104 (1961), 110 (1962), 113 (1963) 115 (1964), 117 (1965), 122 (1966), 123 (1967), 126 (1968), 127 (1970), 132 (1971), 135 (1973), 138 (1974), 144 (1975), 147 (1976), 149 (1977), 151 (1978), 152 (1979), 154 (1980), 157 (1981), 158 (1983), 159 (1984), 166 (1991), 179 (1992), 184 (1993), 185 (1994), 188 (1999), 189 (2000), 191 (2002), 192 (2006), 193 (2011), 251 (2014) stati membri. Questa crescita della rappresentanza è indice dell’esplosione delle etnicità che è da considerare come la risposta alle politiche uniformanti dello stato, a volte come reazione, a volte proprio come assecondamento di quelle politiche 2.1. Leggere Appadurai. Al centro della riflessione di Appadurai non vi è solo l’Europa, e solo tangenzialmente gli Stati Uniti, dove pure l’antropologo ha maturato la propria carriera accademica fino a diventare uno dei massimi esponenti dei cultural studies. In questo senso il libro riserva al lettore un esercizio di decentramento non scontato: il riferimento all’India, oltre a essere esteriore laddove fornisce i casi concreti a sostegno dell’interpretazione, si coglie nella peculiare visione del mondo e di persona che li sottende, soprattutto quando si tratta del rapporto tra politica e violenza. E se questo esercizio fosse oggi imprescindibile al nostro pensiero? Si inserisce l’antropologia, quella disciplina sociale che pur modificando nel tempo i propri paradigmi, si è sempre interessata anzitutto «del lento movimento del quotidiano», lasciando però finora la pertinenza della riflessione sul futuro alle scienze economiche, naturali, alla statistica, e dunque a tecniche previsionali il cui impianto è astratto dalle concrete capacità umane di ripresa, di resistenza e di critica. Ecco quindi la necessità di sottrarre il pensiero sul futuro all’«etica della probabilità», «quei modi di pensare, sentire e agire che sfociano in ciò che Ian Hacking ha chiamato «la valanga dei numeri» e che in genere sono collegati alla crescita del capitalismo dell’azzardo. Appadurai evita di dare vita a un paradigma teorico forte e onnicomprensivo, ma è capace di mettere a punto concetti («flussi», «produzione di località») che aprono nuovi sentieri nelle complesse foreste di significati che ci avvolgono. Il futuro post-nazionale nasce dalla scommessa di rilanciare una teoria e una pratica della modernizzazione mettendo a nudo le debolezze di quella modernizzazione connessa al progetto imperialistico che ha confuso l’universalismo con l’imposizione delle proprie traiettorie storiche. Dentro il sistema dei flussi di Appadurai la lezione del materialismo marxista viene esposta ai suoi limiti. Non che dovessimo aspettare gli –orami per andare oltre il determinismo economicistico, ma la teorizzazione dei flussi e delle loro disgiunture ci sottrare dagli schemi esplicativi preconfezionati. La disgiuntura ci costringe a collocare spesso gli ideorami e i mediorami al cuore dei nostri modelli (e anche dei modelli di consumo) strappandoli definitivamente dal limbo delle sovrastrutture1. Appadurai è molto attento alle forme di produzione culturale (così come è attento alle varie realtà territoriali emergenti) e pertanto non è affatto un sostenitore della tesi dell’omologazione culturale ma nemmeno predilige l’immagine del mosaico. Il suo lavoro ci costringe a riflettere criticamente sulla quantità di differenza culturale che esiste nel mondo ma anche sulle «gobbe» e gli «ostacoli» * e ci spinge a ragionare sulla natura complessa di questa relazione. La globalizzazione non ha annullato le diversità culturali, come si era paventato, e non ha indebolito le diseguaglianze2. *Per fare un esempio: solo il 70% della popolazione del mondo detiene un computer ed è in grado di connettersi e oltre più della metà di questa percentuale è situata nei paesi industrializzati. Gli esseri umani oggi «producono località», ovvero costruiscono società e culture posizionate localmente, ma a partire da dialoghi, conflitti e negoziazioni con quei format politici e mediatici che viaggiano senza sosta sulle reti globali3. Mentre nel campo della politica, dell’economia, della tecnologia, della scienza e della medicina, dei beni di consumo sembra indiscutibile un livello di condivisione che si sta sviluppando una sorta di cultura globale, in altri settori che riguardano l’umana avventura: la vita sociale, la religione, l’identità, le differenze e le diaspore tendono ad aumentare, ad acuirsi, anziché diminuire. Appadurai, Modernità in polvere, cit., “Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale”, pp. 39-88. Ivi, “Etnorami globali: appunti e questioni per un’antropologia transnazionale”, pp. 67-87 3 Ivi, “La produzione della località”. 1 2 Riflessioni/sollecitazioni/esercitazioni. Anche in questa sezione invito ad approfondire (e ad accogliere) alcune tematiche che sentite particolarmente più vicine alla vostra percezione sulla globalizzazione. 1) Considerato che al centro della riflessione di Appadurai non vi è solo l’Europa, e solo tangenzialmente gli Stati Uniti, si può fare una mappa storico-geografica dei luoghi, degli eventi, delle persone (leader politici e non) e dei gruppi (etnie, comunità) che segnano la storia della globalizzazione. 2) Sempre nella prospettiva dell’integrazione didattica, consiglio la visione di uno di questi filmdocumentari: Inside Job, 2010. Too Big to Fail, 2011 The flaw, 2011 Il teorema della crisi, 2014. La storia vera di Martin Armstrong in un documentario che retrospettivamente guarda a ciò che è successo. Armstrong è un economista che da anni è in possesso di un modello finanziario a suo dire in grado di prevedere gli scenari economici. Per questo motivo è stato soggetto a persecuzione e maltrattamenti da parte dello stato americano (si è sempre rifiutato di consegnarlo). Incarcerato, mantenuto a lungo in galera in attesa di processo, è stato vittima di un’odissea infinita solo perché sapeva prevedere quel che sarebbe successo. Si concentra sui tre mesi tra agosto e ottobre del 2008 facendo ordine negli eventi della crisi e cercando di adottare tutti i diversi punti di vista necessari.