1. La globalizzazione “vista da lontano e da vicino” Otar Iosseliani e Arian Appadurai. 1.0. Uno sguardo da lontano e da vicino. In un remoto villaggio africano nel sud del Senegal, in mezzo alla foresta, dove, quietamente tiranne, spadroneggiano le donne, dove i ragazzi guadano il fiume sulla groppa di coccodrilli mansueti, un uomo vive felicemente con la propria moglie fino a quando, improvvisamente, una mattina, la moglie sparisce. È scappata oppure è stata rapita? Il piccolo uomo si mette alla ricerca di lei. Cammina, cammina, cammina … deve indossare un indumento ogni qualvolta attraversa un territorio: una tunica in terra di cattolici, un fez in terra di musulmani, un imama in terra di sciiti, dei bermuda e occhiali da sole in un villaggio turistico. Se il nostro piccolo eroe avesse proseguito il cammino, avrebbe dovuto prendere la tessera di un sindacato o di un partito, munirsi di un porto d’armi, prendere i sacramenti ... I templi, i mercati, i camion, i reclami pubblicitari si susseguono rapidamente mano a mano che il nostro eroe cammina. Saremmo tentati di parafrasare Hegel: la “globalizzazione” irradiatesi per l’intero ecumene ha bruciato tutte le tappe della fenomenologia dello spirito. Allo spirito non è permesso indugiare in ciascuna fase né tanto meno maturare e acquisire pacificamente un nuovo elemento, fosse pure un frammento, per raggiungere la pienezza, la maturità. Otar Iosseliani, regista migrante, nel film Un incendio visto da lontano (1989) sembra fare il punto sull'occidentalizzazione in atto attraverso la messa in scena della progressiva alterazione della vita quotidiana di una comunità di aborigeni per il passaggio continuo di camion che trasportano grandi tronchi d’alberi tagliati per far posto a una strada rompendo equilibri che, attraverso la perpetua ripetizione di usi e riti tribali, duravano da secoli. In quest'Eden matriarcale, Iosseliani muove la macchina da presa con la discrezione tipica di chi si sforza in ogni modo di voler registrare testimonianze di vite vissute senza essere invasivo (ponendosi alla stessa stregua di Levy-Strauss o di Geertz) senza in alcun modo voler contaminare con agenti estranei il rapporto simbiotico che l'uomo ha saputo costruirsi con gli elementi della natura e genera con il contrasto tra onirismo e realismo l'antitesi tra l'eterna beatitudine rappresentata dalle immagini mitiche del villaggio e l'inizio del buio con gl'incipienti segni della modernizzazione coatta in arrivo. A voler andare più nel profondo genera anche l'antitesi tra una storia che nella sua trasmissibilità orale ha avuto la capacità di durare per secoli e quella che crea cesure continue attraverso quei progressi della tecnica che si vogliono imporre o, se si preferisce, condividere. Sono i camion l'elemento che rompe l'atmosfera simbolica del villaggio e catapulta l'indagine di Iosseliani nella realtà. I camion dei bianchi (trasportati dai neri) rappresentano l'elemento venuto a condurre la vita del villaggio nel solco di quella storia scritta sempre dai più forti, a cacciare gli aborigeni fuori dal loro milieu naturale e a trasformarli in macchiette spendibili dall'ecologismo da salotto, ad agenti del folclore cittadino. Infatti, il nostro piccolo eroe ritrova la moglie, tutta messa per bene e vestita di tutta messa, che vende oggetti etnici (copie) a turisti distratti. É d’obbligo il riferimento a Dove sognano le formiche verdi di Werner Herzog (1984) dato l'assonanza evidente nell'arrivo dei "civilizzatori" venuti a distruggere arbitrariamente realtà etniche autosufficienti, segnando la fine di culture e popoli a cui non è stato chiesto neanche il permesso prima di incendiare le loro case. Il lettore potrebbe giustamente pensare che quanto è stato scritto sia stato dettato da un sentimento di simpatia con la vita degli aborigeni avversando ogni forma di occidentalizzazione (così tanto di moda) colpevole di aver rotto quell’unità tra natura e soggetto che soggiace nella vita tribale del villaggio. Abbiamo voluto soltanto richiamare la particolare esperienza estetica vissuta con l’opera di Iosseliani perché essa solleva numerosi punti di domanda sulle nostre modalità di approccio con l’Altro/Altri da noi. 1.1. L’Altro da noi … esiste? Ma siamo certi che l’Altro/Altri è “totalmente” Altro/i da noi? In un contesto multiculturale che coinvolge l’intero ecumene, segnato dalla dinamica dei vari flussi, i prestiti, gli incontri, i conflitti e le contaminazioni tra persone, popoli e culture si moltiplicano rapidamente pertanto più che mai oggi si rivela improponibile la concezione chiusa dei sistemi culturali, i quali invece si nutrono di ibridazioni e di scambi. La dimensione che viviamo è quella del mosaico e del métissage. Abitiamo tutti in una terra di frontiera o meglio sarebbe il caso che dovremmo abituarci a vivere in una terra di frontiera1. La 1 Rispetto ad una linea di confine che si deve per forza restare o di qua o di là, in una terra di frontiera ci si trova più spesso nel mezzo, senza poter dire se si è più da una parte o dall’altra, sentendoci anzi un poco qui e un poco là. Questa “globalizzazione” ha messo in discussione non soltanto la funzione (moderna) degli stato-nazione2, la sovranità delle economie nazionali, delle politiche sul lavoro e sull’educazione, ma anche i paradigmi interpretativi elaborati dalle scienze comportamentali, mettendo in risalto i limiti di ogni approccio riduzionista per comprendere i processi culturali in atto nella direzione di costruire e realizzare nuove forme di convivenza in un ordine «post-nazionale» (come direbbe lo stesso Appadurai)3. È emersa l’anima pedagogica … come era prevedibile! Infatti, si deve pensare criticamente a modelli, progetti e strategie efficaci che mirano alla formazione integrale del nuovo uomo. Questo spiega l’inserimento dell’educazione estetica in grado di valorizzare l’esperienza estetica nel processo formativo della persona. Una educazione estetica che non può fare a meno dell’arte, ma tuttavia non si esaurisce in essa. Ha senso stupirsi di fronte ad un’opera d’arte, anzi alla vita delle forme4 (pittura, scultura, architettura, cinema)? Esercitare il nostro giudizio estetico come un diritto di salvaguardare la bellezza l’ambiente di fronte agli abusi e ai soprusi quotidiani (in specie della politica)? 1.2. L’approccio pedagogico-interdisciplinare. Il tema di una formazione integrale della persona richiede un approccio metodologico di tipo pedagogico-interdisciplinare. Si tratta di spaziare in più campi del sapere, da quello antropologico e pedagogico, dei “cultural studies”5 e dei “media education”6, per costruire una visione d'insieme nuova, ampia, flessibile che tenga conto della complessità dell'argomento e che riesca a produrre (come speriamo che accada) risultati originali o almeno da suscitare riflessioni ulteriori. Riflessioni/sollecitazioni/esercitazioni. In questa sezione si consiglia la visione e/o lettura di opere che permettono di ‘familiarizzare’ con le tematiche che vengono affrontate. Sulla globalizzazione si possono vedere, oltre al film citato Un incendio visto da lontano, le seguenti testimonianze: 1.Life and debt (2001) di Stephanie Black film-documentario. 2.The last farmer (2012) di Giuliano Girelli documentario. 3.Gli effetti della globalizzazione nell’educazione? Vedere questo documentario: Cambiare i paradigmi dell’educazione di Key Robinson (anche in youtube) Sarebbe gradito ricevere dei “riscontri” con brevi anche lapidarie considerazioni su quanto si è osservato. Inoltre sarebbe interessante accogliere da parte Vostra ulteriori testimonianze tratte da libri e film. nuova consapevolezza, che dovrebbe essere promossa e favorita, è il testimone che si dovrebbe raccogliere dall’antropologia transazionale alla quale fa rifermento lo stesso Appadurai (1996), Modernità in polvere, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2012. Non a caso, nel suo testo, si fa riferimento soprattutto a U. Hannerz, di cui ricordiamo il saggio “Flussi, confini e ibridi. Parole chiave dell’antropologia transazionale” in «aut aut», 1997, n. 312, pp. 46-71; poi G. Anzaldúa, Terre di frontiera/La frontera (1987), tr. it., Palomar, Bari, 2000; J. Clifford, “Meditazione su Fort Ross” (1997), in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino, 1997. Nell’antropologia transazionale si inserisce il filone di ricerche dei border studies e si rimanda a P. Zaccaria, Borders studies, in M. Cometa (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma, 2004, pp. 86-96. 2 Appadurai, Modernità in polvere, “Il patriottismo e i suoi futuri”, pp. 203-228. 3 Ivi, “Il patriottismo e i suoi futuri” 4 L'estetica, scrive Valéry, è una «grande ed anche irresistibile tentazione» che nasce dal fatto che «quasi tutti gli esseri che sentono vivamente le arti fanno un po' più che sentirle; non possono sfuggire al bisogno di approfondire la loro gioia»: P. Valéry, Introduction à la méthode de Leonard, Paris, Gallimard, 1962, p. 102. Non deve pertanto sorprendere, alla luce di queste brevi considerazioni, che il programma proposto contempli H. Focillon, Vita delle forme e J. Hilmann, Politica della bellezza. Il primo si colloca come teoria estetica (assolutamente originale!) e il secondo come teoria della conoscenza sensibile e come teoria culturale ma che a conti fatti, l’una e l’altra opera, ampliano il significato della bellezza. 5 Vedi nota 1. 6 Per i non addetti ai lavori, la pedagogia dei media è quel settore specifico che si occupa di problematiche educative connesse all'uso dei media in differenti contesti formativi. Antonio Calvani (2008), l'Ecologia dei media, parla di educazione nei, ai, con i media. In quest'ambito si colloca la cosiddetta Media Education i cui “primordi” possono essere fatti risalire alla “Scuola di Francoforte”.