Il problema dell`infinito nella fenomenologia di Husserl

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Carola Barbero
IL PROBLEMA DELL’INFINITO NELLA FENOMENOLOGIA DI HUSSERL
La fenomenologia di Husserl potrebbe essere interpretata come una serie discontinua di svolte
e ripensamenti1 : dallo psicologismo ancora di stampo brentaniano della Filosofia
dell’aritmetica (1891), Husserl sarebbe passato in un secondo momento al realismo logicista
delle Ricerche logiche (1900-1901), in seguito rovesciato dall’idealismo del primo libro delle
Idee (1913) che sarebbe poi stato a sua volta definitivamente superato dalla riscoperta
dell’intersoggettività e del mondo delle Meditazioni cartesiane (1929-31) e de La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1935-36). Allora Husserl dovrebbe essere
considerato, a seconda delle occasioni, uno psicologista, un logicista, un idealista e un
esistenzialista. Se questa linea interpretativa fosse corretta, Husserl non potrebbe essere
definito altrimenti che come un filosofo del suo tempo, mero riflesso di quella confusione,
tipica degli inizi del Novecento, inerente a molti campi del sapere.
Nonostante questa interpretazione possa apparire abbastanza coerente e convincente, non
sembra tuttavia sufficiente a spiegare il procedere di un pensiero per oltre quarant’anni.
Perché Husserl non si è mai fermato con decisione a nessuno stadio della sua riflessione? Che
cosa pensava di trovare cambiando ripetutamente campo d’indagine? Non si può seriamente
pensare che egli avesse semplicemente mutato d’opinione, la ragione dei cambiamenti deve
risiedere altrove. Dove? Forse nell’unità di senso di un cammino aperto alla realizzazione di
un compito, che consiste nel tentare di realizzare la filosofia als strenge Wissenschaft. A ben
guardare infatti, nella fenomenologia scorre l’unità di un problema, dalla Filosofia
dell’aritmetica a L’origine della geometria, quello riguardante il rapporto tra ideale e reale,
tra logica ed esperienza, tra trascendentale ed empirico, quindi un interrogativo concernente il
nostro modo di conoscere il mondo e di attribuire ad esso un senso. Portando i termini in
questione ad un più elevato livello di generalità, si potrebbe dire che la problematica
husserliana si incentri sul rapporto sussistente tra l’origine del senso e il senso dell’origine,
sulla linea sottile che collega archeologia e teleologia, invocando la necessità di una
comprensione unitaria.
E’ infatti stata proprio la continua ricerca di un termine medio, di uno schema capace di porre
in comunicazione sensibilità e intelletto, che ha guidato il procedere di Husserl dallo
psicologismo degli anni giovanili sino alla fenomenologia trascendentale del pensiero maturo.
Un idealismo o un empirismo rigidamente intesi, cioè non aventi reciproci rapporti di
implicazione, non hanno infatti ai suoi occhi ragione di sussistere, la loro importanza risiede
invece in ciò che essi possono avere in comune, quindi ciò che fa sì che il mondo possa avere
un senso e che il senso sia a sua volta un senso del mondo. Come può l’ideale applicarsi
all’empirico? O meglio, come può il mondo venire compreso dalle categorie dell’intelletto?
Nella Critica della ragion pura, e precisamente nel capitolo sullo schematismo, Kant aveva
già affrontato esattamente lo stesso problema, e la sua risposta era stata: «una applicazione
della categoria ai fenomeni sarà possibile per mezzo della determinazione trascendentale del
tempo, determinazione che, in quanto schema dei concetti dell’intelletto, fa da mediatrice
nella sussunzione dei fenomeni sotto la categoria» (KrV, B 178/ A 139). L’elaborazione
1
Derrida sottolinea come, a tale proposito, si potrebbe pensare ad « una serie discontinua di colpi di Stato, a una
successione di momenti assoluti in cui i momenti precedenti sarebbero superati e abbandonati» (1953-54: 68).
Tuttavia lo stesso Derrida spiega, nel corso della trattazione, come una interpretazione di questo tipo della
fenomenologia di Husserl non possa poi condurre ad una effettiva comprensione di essa, sfociando piuttosto in
un frazionamento e in una giustapposizione costruttivista, secondo i quali le varie tappe, intelligibili in sé, si
rivelerebbero nel complesso chiuse e opache, nascondendo così l’unità di un movimento di pensiero.
1
dell’esperienza attraverso i concetti puri dell’intelletto era quindi resa possibile dalla funzione
mediatrice dello schema (che, sottolineava esplicitamente Kant, doveva essere inteso non
come immagine, bensì come regola): lo schema definiva infatti il modo di essere di una
categoria nel tempo, rendendo così possibile la sintesi del fenomeno e del concetto.
Husserl riprende a suo modo la problematica kantiana 2 - che deve peraltro essere affrontata da
qualsiasi filosofia che si proponga di prendere in esame il tema della conoscenza - dando però
ad essa un risvolto complessivo del tutto differente. Al fine di mediare tra l’empirico e
l’ideale, Husserl infatti non inserisce uno schema, bensì un’Idea 3 .
Non si può fare a meno di avvertire in un primo momento qualche confusione: ma Kant non
aveva forse rigorosamente distinto ragione ed intelletto, con le rispettive sfere di competenza?
Le idee non si erano rivelate come un’esigenza inestirpabile soltanto della prima? Non era
inoltre solo l’intelletto che aveva la possibilità di conoscere, assolutamente non attraverso le
idee, bensì esclusivamente attraverso le categorie? Una prima risposta a tutti questi
interrogativi, pur non eliminando la confusione, potrebbe essere: è perché Husserl non
distingue tra ragione ed intelletto che può legittimamente introdurre le idee già ad un livello
conoscitivo. Questa precisazione è chiaramente importante, tuttavia è doveroso osservare che
il motivo per cui Husserl parla di idee è in realtà più profondo. Non è solo una questione di
linguaggio. Husserl infatti non pensa che l’idea abbia le stesse caratteristiche dello schema,
ma solo che essa abbia una funzione ad esso analoga. La funzione è ovviamente quella di
porre in connessione due ambiti radicalmente distinti, ma è il modo in cui ciò avviene che
muta radicalmente a seconda che si tratti dello schema o dell’idea. Infatti se lo schema
stabilisce una perfetta corrispondenza tra le categorie e gli oggetti dell’esperienza, l’idea, pur
istituendo una connessione tra i due ambiti, non si può dire assolutamente che fissi una
corrispondenza completa. Ideale e reale sono per Husserl infinitamente (proprio come l’idea)
lontani e mai nessuno schema potrà essere inserito affinché l’uno si specchi nell’altro. La
fenomenologia può utilizzare il termine idea nell’ambito conoscitivo senza cadere in pesanti
contraddizioni, proprio perché ne sfrutta l’essenziale duplicità: l’idea di infinito in senso
kantiano può infatti implicare sia un progresso (oppure un regresso) all’infinito, sia un
progresso indefinito (KrV, B 540-541/ A 512-513), a seconda che sia dato il tutto e debbano
essere ricercati tutti i singoli elementi componenti (all’infinito), oppure che siano dati ogni
volta alcuni elementi, e il tutto sia comunque sempre ancora a venire. Ebbene per Husserl, se
l’ideale di per sé stesso considerato ha tutte le caratteristiche dell’idea intesa come tutto,
l’ideale nei suoi rapporti con l’empirico deve essere considerato come un «indeterminato»
(idea come indefinito), che sempre si arricchisce delle realizzazioni particolari, senza tuttavia
mai concludersi una volta per tutte: la corrispondenza tra i due è in questo secondo caso una
idea, mai compiuta, della perfetta coincidenza tra empirico e trascendentale, tra fatto ed
essenza.
Questa duplicità dell’idea in senso kantiano si riscontra in diversi luoghi della filosofia
husserliana, ed ogni volta si ha l’impressione che essa venga introdotta per impedire una
chiusura, un sistema che si pretenda definitivo, un cammino che non abbia più ragione di
proseguire. L’idea nella sua accezione indefinita e indeterminata, viene tuttavia inserita da
Husserl all’interno del sistema sempre «di nascosto», «di soppiatto», mai in maniera chiara ed
evidente, con la specifica funzione di eliminare delle difficoltà altrimenti insormontabili e
salvare così la fenomenologia. Infatti l’idea viene sempre inizialmente presentata
2
Il fatto che Husserl riprenda la problematica kantiana non implica che vi sia una continuità tra Kant, il
neokantismo e Husserl, ma soltanto che vi sia una innegabile influenza di Kant sulla fenomenologia per quanto
riguarda l’impostazione del problema conoscitivo: l’influenza esercitata non si risolve necessariamente in linea
di continuità.
3
Tale idea, come si avrà modo di argomentare ampiamente più oltre, è da intendersi nell’accezione kantiana,
esattamente quale è stata esposta in tutte le sue forme nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion
pura (KrV, B 366-369 e 670-732/ A 310-338 e 642-704).
2
esclusivamente nel suo risvolto infinito, come quel tutto al quale l’uomo può attingere per
dare un senso al mondo e alla storia, ma che comunque non ha bisogno dell’uomo per essere
vera o per essere reale. Un sistema di questo tipo però comincia poi (in un secondo momento)
sempre e inevitabilmente a cedere, e l’idealità così considerata (Husserl parla a questo
proposito di idealità dello specifico) a perdere la sua maestosità; al fine di risolvere una
situazione di questo tipo, le soluzioni possibili sono allora soltanto due: da un lato si può
dichiarare l’illusorietà dell’ideale stesso, cadendo così in una forma di fenomenismo senza
leggi, dall’altro si può invece dichiarare la funzione regolativa di tale ideale che, pur non
essendo mai dato come un tutto, ha tuttavia sempre il compito di stimolare il procedere delle
nostre ricerche. E’ questa seconda possibilità che viene fatta propria da Husserl. Ogni volta,
nel cuore di un sistema che si pretendeva fisso e determinato in tutti i suoi aspetti, si manifesta
l’apertura indefinita dell’idea.
L’idea definisce la fenomenologia come vera e propria scienza delle possibilità: infatti essa
indica quell’indefinito oltrepassamento di un orizzonte, sempre approssimato, ma mai
completamente raggiunto, che deve fungere da stimolo e da regola del nostro procedere, non
potendosi comunque mai offrire come un tutto dato. L’orizzonticità dell’idea non può infatti
venire intuita se non attraverso la sua negazione: è per una necessità essenziale che l’origine
costitutiva di ogni oggetto non può mai definirsi essa stessa come un oggetto, lasciarsi
fermare da una intuizione ad essa adeguata. L’importanza di questo concetto di orizzonte
risiede infatti nel suo estendere all’infinito il lavoro dell’obiettivazione, nell’aprire la
coscienza verso l’infinito, comunque e sempre indefinito, del suo oggetto. E’ proprio in
questo senso che l’idea si caratterizza come un compito (Aufgabe): ogni singola e parzia le
concretizzazione nel reale, contribuisce veramente alla costituzione dell’ideale, che pur non
essendo mai raggiunto nella sua pienezza (anzi, proprio perché non viene mai raggiunto nella
sua pienezza), si caratterizza tuttavia sempre come la mèta di ogni sforzo.
Ciò nonostante, l’orizzonte si può propriamente definire come «dato» alla nostra intuizione:
in maniera evidente, anche se inadeguata. Questa osservazione è di primaria importanza,
perché implica una soddisfacente risposta (se non addirittura, soluzione) al classico problema
riguardante la potenzialità o l’attualità dell’infinito: per Husserl l’infinito si dà, e quindi è
attuale, però la sua attualità non è assolutamente assimilabile alla attualità del finito 4 . Un
infinito di questo tipo, in relazione con il finito (poiché anch’esso si dà) pur mantenendosi da
esso distinto (il suo modo di darsi non è infatti uguale al modo di darsi del finito), può quindi
ben a ragione costituire quel trait d’union tra empirico e trascendentale del quale Husserl è
stato alla ricerca sin dalle sue prime analisi.
Il principio di tutti i princìpi della fenomenologia, secondo il quale ogni essere ha il suo
particolare modo di essere (ogni Dasein ha il suo Sosein) conformemente alla sua essenza,
permette di comprendere che cosa significhi affermare che l’infinito dell’idea si offre,
secondo Husserl, in maniera evidente ma inadeguata: è la cosa stessa che determina i modi
della sua manifestazione e l’infinito non si manifesta nel finito altrimenti che nella sua
potenzialità (si manifesta: quindi è evidente, ma nella sua potenzialità: allora è inadeguato).
Inserendo l’infinito nella propria trattazione quale momento implicito oscuramente
presupposto da ogni datità, Husserl lo sottrae all’ambiguità, creando così le condizioni per
valutarne la funzione e la portata operativa.
Tuttavia occorre precisare che, se davvero ogni essere ha il suo specifico modo di essere,
allora l’evidenza si dovrà caratterizzare necessariamente come relativa, non vi sarà quindi più
un unico tipo di evidenza, come spesso si era sostenuto (basti anche solo pensare all’univocità
4
L’attualità del finito infatti oltre ad essere evidente, dovrebbe anche essere adeguata. Tuttavia le Lezioni sulla
sintesi passiva (1920-26) argomenteranno come anche la percezione di un singolo oggetto comporti in realtà già
una struttura ideale: questo ampliamento renderà ovviamente ancora più indeterminati i confini stessi della
fenomenologia come scienza.
3
dell’essere di Brentano), quale l’evidenza apodittica, bensì una molteplicità di evidenze
assertorie per le quali l’apoditticità non rappresenterà altro che un’idea, cioè il fine ultimo al
quale esse costantemente tenderanno. Le conseguenze derivanti da questa nuova concezione
sono chiaramente notevoli: ad esempio, la netta distinzione tra verità di ragione e verità di
fatto, proposta da Husserl nei Prolegomeni ad una logica pura delle Ricerche logiche, non
potrà più essere rigidamente mantenuta, ma dovrà piuttosto essere intesa come una reciproca
implicazione: allora si potrà legittimamente dire che la verità di ragione abita il cuore della
verità di fatto, come la mèta è già sempre presente nello sforzo che ad essa tende.
L’idea in senso kantiano riesce molto bene ad esprimere il modo di datità proprio dell’infinito
che, in quanto attualità del potenziale, si offre in realtà solo attraverso la sua negazione, ma
tuttavia si dà e, soprattutto, solo così si può dare: pretendere un’attualità dell’infinito simile a
quella del finito, sarebbe come voler quadrare un cerchio: è impossibile un infinito attuale
come il finito, per l’ottima ragione che, se lo fosse, non si tratterebbe più di infinito, bensì di
finito. L’idea intesa come inscindibile nesso tra infinito e indefinito, permette di cogliere il
potenziale in quanto tale e dargli un senso che non sia illusorio.
Husserl presenta tale idea in quattro forme differenti, al fine di riuscire a salvare la
fenomenologia al tempo stesso da un vuoto idealismo formale e da uno schietto empirismo:
nelle Ricerche logiche essa è introdotta quale idea di un divenire infinito della logica, in Idee I
come idea della totalità infinita delle esperienze temporali, in Esperienza e giudizio essa è
l’idea di un mondo come suolo infinito di tutte le esperienze possibili ed infine nelle
Meditazioni cartesiane e ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale,
l’idea si caratterizza come teleologia intenzionale. Il ruolo preciso di tale idea all’interno della
fenomenologia non è mai stato tematizzato da Husserl, e questo per una ragione essenziale:
non è possibile tematizzare ciò che non è mai di per sé stesso un tema, ma è possibile
descrivere soltanto il suo procedere, il suo divenire. L’idea di infinito è infatti un concetto
operatore 5 , cioè ha un senso nella misura in cui svolge una funzione (in questo caso
regolativa) e non di per sé stessa. Questo implica che la negatività dell’infinito husserliano
inteso come infinito non-compimento (che è però sempre contemporaneamente un indefinito
compimento) includa la positività di un compito: l’idea di infinito racchiude infatti una
positività assiologica e teleologica che definisce i contorni di un’etica del pensiero 6 .
L’idea affida all’uomo un compito da svolgere nella storia: esso consiste nel portare l’ideale
nel reale, realizzando così l’unità del sensibile e dell’intelligibile, dando al mondo la forma
del senso e al senso il contenuto del mondo. Vi è una notevole forza implicita in un idealismo
di questo tipo, derivante dal fatto che esso non possa propriamente mai dirsi compiuto: esso è
una tensione, uno slancio che non conoscerà mai di per sé stesso quel fine che già sempre lo
guida. A tutto questo non servirebbe obiettare che l’idea nel mondo non ha mai avuto luogo
nella sua interezza, e che quindi non si può propriamente mai parlare di realizzazione
dell’ideale nel reale: così come si dice che sia «un controsenso (ex pumice aquam, come Kant
citava), voler giustificare o refutare idee mediante fatti» (1911: 90), così è assurdo negare una
realizzazione parziale dell’idea solo perché è parziale: l’idea infatti (proprio in quanto
5
Ci si richiama alla distinzione proposta da Fink in una conferenza del 1959 dal titolo «Les concepts opératoires
dans la phénoménologie de Husserl». Secondo Fink all’interno della fenomenologia si possono distinguere due
serie distinte di concetti: i concetti tematici, che sono autonomi ed hanno un significato loro proprio, e i concetti
operatori, che hanno un senso solo nella misura in cui svolgono una funzione e non di per sé stessi; stabilire il
ruolo giocato dai concetti operatori all’interno della fenomenologia è a suo avviso un compito molto difficile, dal
momento che «Husserl non si è posto il problema di un “linguaggio trascendentale”» (1959: 229).
6
In questa direzione dovrebbe essere integrata la critica di Gurvitch (1930: 60) alla fenomenologia: se infatti è
giusto insistere, come egli fa, sul carattere negativo dell’infinito husserliano, del tutto estraneo a qualsiasi forma
di infinito assoluto, è del pari opportuno sottolineare la forte positività implicita in questa concezione, secondo la
quale essendo per l’appunto l’infinito un compito per l’uomo, esso è fonte di norme e di valori, che sono
elementi guida del procedere umano nell’ambito pratico e in quello conoscitivo.
4
infinita) non potrà mai darsi altrimenti che così, e la costante incompiutezza delle sue
realizzazioni, anziché essere l’emblema di un fallimento, è segno di una manifestazione e di
una conquista. Questa tensione verso un polo infinito è ciò che caratterizza propriamente la
coscienza del filosofo 7 . Ogni singolo risult ato, proprio nel suo essere particolare, costituirà un
indice verso l’infinito: ecco che così è forse dato comprendere il significato della parte in
rapporto a quel tutto verso il quale essa costantemente tende, senza che esso possa mai venire
raggiunto, tuttavia come se (als ob) esso potesse esserlo. La filosofia come scienza rigorosa
(1911: in particolare 85-113) è a questo riguardo illuminante: se l’idea di scienza di per sé
medesima deve essere concepita come sovratemporale e come non limitata da alcuna
relazione con lo spirito di un certo tempo, essa in rapporto a noi non è altro che una serie di
Weltanschauungen sempre legate ad un individuo in un tempo e in un luogo ben precisi.
Allora le realizzazioni delle filosofie della Weltanschauung, avvicinandosi asintoticamente
all’infinito dell’idea della scienza, segneranno l’unità di un percorso 8 . La filosofia als strenge
Wissenschaft è quel punto indefinitamente lontano che guida e sorregge i nostri sforzi.
E’ questa quell’etica del pensiero alla quale si accennava più sopra: l’uomo (il filosofo) è
responsabile della realizzazione dell’idea nel mondo. Contro ogni sorta di dogmatismo che si
accontenta di risultati parziali giudicandoli definitivi, il filosofo deve dimostrarsi capace di
quella che Kant definiva una fede problematica (cioè una fede razionale che riconosce la
possibilità di quel tutto prospettato dall’idea, proprio perché essa rafforza e stimola il
progredire pratico-conoscitivo dell’uomo), la fede derivante dall’entusiasmo per la grandezza
di uno scopo e per nulla impaurita dall’entità degli sforzi richiesti per conseguirlo. «La
scienza di ciò che è radicale, deve essere radicale anche nel suo modo di procedere, sotto ogni
riguardo» (1911: 112).
Questa può essere considerata una, fra le tante problematiche, che hanno guidato il cammino
filosofico di Husserl per oltre quarant’anni: la fenomenologia come costante ricerca della
possibilità di una realizzazione dell’idea (di una logica pura, di un unitario flusso temporale,
di un mondo e di un telos della storia) nel mondo dei fatti.
Prima di esplicitare i luoghi (le opere verranno esaminate in ordine cronologico) e le
specifiche funzioni dell’idea di infinito all’interno dell’orizzonte fenomenologico, è
fondamentale fare una precisazione. Tale idea compare per la prima volta, anche se non
ancora nella sua accezione kantiana, in una fase della filosofia husserliana che non è ancora
propriamente fenomenologica, cioè quella risalente alla Filosofia dell’aritmetica (1891).
L’idea di infinito e le sue problematiche implicazioni possono infatti essere considerate il
ragionevole motivo per il quale il secondo volume di tale opera, prospettato dal progetto
iniziale, non venne mai compiuto.
1. L’infinito come momento figurale
La Filosofia dell’aritmetica, scritta sotto la diretta influenza di Brentano, è esplicitamente
volta ad una caratterizzazione psicologica del concetto di numero, come infatti già indica il
7
«Idealiter ogni uomo che tende a uno scopo (strebend) è “filosofo” in senso letterale» (1911: 98): è filosofo in
quanto aspira all’infinito, tende all’infinito, ricerca l’infinito, ma soprattutto lo realizza: altrimenti questa
tensione sarebbe sterile e il compito solo una illusione. Infatti non solo il reale ha bisogno dell’ideale per avere
un senso e uno scopo, ma anche l’ideale ha bisogno del reale per venire alla luce: che cosa sarebbe l’idealità
delle forme geometriche se non fosse stata creata (sì, «creata» e non semplicemente «scoperta», come poteva
volere Kant) da Talete? L’ideale caratterizzandosi contemporaneamente come l’archeologia e la teleologia del
reale, non può ovviamente avere un senso indipendentemente da esso.
8
La duplicità dell’idea in senso kantiano, se ben compresa, permette quindi di chiarire quelle ambiguità che in
un primo momento potevano apparire insuperabili: per esempio, l’affermazione secondo la quale «Le
Weltanschauungen possono lottare» ma che «solo la scienza può decidere e la sua decisione porta il marchio
dell’eternità» (1911: 107), non significa altro che l’idea, di per sé vera ed eterna, è incompleta e temporale nelle
sue realizzazioni particolari.
5
sottotitolo Psychologische und logische Untersuchungen, è un tentativo di fondare
soggettivamente la matematica e in senso implicito anche la logica. Secondo una
fondamentale teoria empiristica che Husserl riprende dal suo maestro (ma che si ritrova anche
in altri autori, per esempio in J.S. Mill), l’origine del concetto di numero deve essere ricercata
nei fenomeni concreti di molteplicità. Nel senso della Urteilslehre di Brentano, tutte le
costruzioni logiche devono potersi spiegare con le operazioni della negazione e della
congiunzione. Nel caso specifico della matematica alla negazione corrisponde l’astrazione,
grazie alla quale non si tiene conto (si astrae, appunto) delle determinazioni particolari degli
elementi costitutivi della molteplicità in esame. Se poi si spinge fino al limite la negazione
delle particolarità che li caratterizzano come questo o quell’elemento specifico, allora si
ottiene una serie di elementi completamente indeterminati: la serie degli Etwas überhaupt. Al
carattere di insieme che gli elementi conservano nonostante l’astrazione corrisponde poi la
congiunzione, che è l’operazione (soggettiva) esprimentesi con l’und. Quindi la formula più
generale della molteplicità si può esprimere con «Etwas und Etwas und…».
Quindi da un punto di vista strettamente empiristico, per spiegare l’origine del concetto di
numero, sono sufficienti una sottrazione e un’addizione. Come già sosteneva Euclide, il
numero è l’unità di una molteplicità, e qui la molteplicità viene determinata dal concorrere di
due fattori che sono gli elementi (precedentemente sottoposti ad adeguata astrazione) e la
relazione collettiva che riunisce questi elementi in un insieme. Secondo l’interpretazione
empiristica è fondamentale concepire la relazione collettiva come esterna rispetto agli
elementi stessi: ecco perché l’analisi del concetto di molteplicità rinvia all’atto psicolo gico
della collezione (così il concetto di numero rimanda all’atto del numerare). Dal punto di vista
oggettivo il concetto di molteplicità è quindi determinato numericamente dagli elementi,
privati astrattivamente di ogni contenuto reale; dal punto di vista soggettivo invece, la
molteplicità si caratterizza come numerica mediante l'atto della collezione intesa come
enumerazione.
Questa teoria ha chiaramente come modello le operazioni che è possibile fare, ad esempio,
con un pallottoliere, secondo cui qualsiasi numero è il risultato derivante dalla somma delle
unità che lo compongono (infatti secondo questa teoria risulta problematica la spiegazione
dell’unità e dello zero). Anche il caso di molteplicità indefinite può essere spiegato con questo
procedimento: basta aggiungere alla collezione degli elementi una reiterazione (o
ecceterazione) uniforme e porre una regola fissa che ne segua il procedimento. Tale infinito
sarebbe ovviamente meramente potenziale, poiché verrebbe calcolato e definito a partire dagli
elementi dati e perciò finiti e non di per sé stesso.
Fino a qui la posizione di Husserl pare concordare pienamente con le idee di Brentano.
Tuttavia un distacco, anche se non radicale, dal maestro, era già avvenuto nel momento in cui
egli aveva deciso, peraltro già nelle prime pagine della Filosofia dell’aritmetica, di
distinguere il fenomeno dal significato, identificantisi senza residui nella teoria brentaniana.
Secondo l’autore occorre distinguere il fenomeno dal significato, poiché il fenomeno è sì la
base per il significato, ma non è identico ad esso. Questa distinzione diviene di fondamentale
importanza proprio nel momento in cui l’analisi psicologica del concetto di numero comincia
ad avere delle difficoltà nella risoluzione dei problemi. Per esempio la teoria di Brentano non
è in grado di fornire una spiegazione esaustiva riguardo alle cosiddette «molteplicità
momentanee»: come è possibile che una molteplicità indefinitamente numerosa si percepisca
con un solo colpo d’occhio (per esempio il cielo stellato)? In questo caso il concetto di
molteplicità non è stato raggiunto con l’atto del contare e con l’aggiunta della ecceterazione
uniforme, di conseguenza il significato non può coincidere con il fenomeno: c’è una
percezione, ma non c’è ancora il significato esatto ad essa corrispondente.
Questo particolare caso delle molteplicità momentanee è ciò che Husserl chiama momento
figurativo (figurales Moment): «momento» perché è una parte non indipendente di una
6
totalità, conseguibile solo per astrazione (come spiegherà poi ampiamente la terza Ricerca
logica), e «figurativo» o «figurale» perché le relazioni possono costituire un contenuto
descrivibile di per sé stesso. Con tale concezione Husserl nega fermamente l’ipotesi
elementaristica di stampo brentaniano: la totalità si impone infatti come qualcosa di
originario che non può legittimamente venire ridotto ai singoli elementi, ma che tuttavia non
può neppure fare a meno di essi, non essendone indipendente. Husserl prende così
contemporaneamente le distanze sia da autori quali Stumpf e Von Ehrenfehls - che, pur
introducendo il concetto di fusione al fine di evidenziare la singolarità del tutto rispetto alle
parti, non rinunciano definitivamente alla concezione elementaristica di stampo empiristico sia da posizioni tipo quella gestaltista - secondo la quale la forma figurale può stare da sola
accanto ad altri elementi, come un qualsiasi altro momento indipendente. Infatti il cielo
stellato (l’esempio utilizzato da Husserl per spiegare le caratteristiche del momento figurale)
non è né riducibile ai suoi elementi, né tantomeno separabile da essi: infatti esso è un
momento quasi 9 -qualitativo (als ob qualitativ).
Quindi l’associazionismo del pallottoliere non è più sufficiente e deve necessariamente
ampliarsi a sche mi di carattere più strutturalistico: anche la collezione numerica delle unità
infatti contiene un momento unitario che si può apprendere per intuizione. «Fui alla fine
costretto» scrive Husserl «a rinviare completamente le mie ricerche di filosofia della
matematica, fino al momento in cui non fossi riuscito a penetrare con sicura chiarezza
all’interno dei problemi fondamentali della teoria della conoscenza e nella comprensione
critica della logica come scienza» (1900: 5). Husserl non compie così la stesura del secondo
volume, contemplato dal programma iniziale, lasciando incompleta la sua Filosofia
dell’aritmetica.
2. L’idea della logica pura
Dopo sei anni di riflessione, Husserl decide di affrontare la questione rimasta irrisolta con lo
psicologismo, pubblicando i Prolegomeni alla logica pura (che sono un’ampia introduzione
alle successive sei Ricerche logiche), che si propongono di dimostrare l’assoluta irriducibilità
delle oggettività logiche a qualsivoglia processo di tipo psicologico. A tal fine viene
esaminata a fondo la controversia riguardante la questione se la logica, in quanto in qualche
modo connessa con atti mentali, si debba o meno considerare come una parte della psicologia.
Appoggiandosi alla distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto, Husserl
afferma che il regno dei fatti non può essere il terreno della verità, così come la psicologia
non può fornire le leggi della logica. La netta distinzione tra ideale e reale quindi non va
smussata, ma va riconosciuta e rispettata. Questa è precisamente la ragione per la quale
l’interpretazione psicologistica non è attendibile: essa confonde la genesi psicologica dei
giudizi logici con i fondamenti degli stessi, insomma non distingue tra inizio e origine.
Husserl si schiera quindi dalla parte dei logicisti (tra i quali nomina Leibniz, Kant, Herbart e
Lotze), nonostante anche le loro teorie necessitino ancora di molte modifiche. Una domanda
che sorge spontanea a proposito di questo problema è: come può Husserl non ripetere Kant?
Questa sembra una domanda del tutto legittima, soprattutto se si tiene conto del fatto che qui
Husserl è molto preoccupato di salvare il soggetto nel suo essere e nel suo divenire empirico e
al tempo stesso di mantenere l’assoluta obiettività e purezza delle essenze. Un problema
analogo si era presentato a suo tempo a Kant che, per mediare tra una logica fissa e pura e il
9
Bisogna ricordare che il quasi tedesco di cui qui è questione (als ob), va inteso alla latina qua-si, come se:
infatti piuttosto che di approssimazione, ha il significato di analogia. L’analogia va intesa come una relazione tra
i piani diversi di due termini essenzialmente eterogenei. In questo caso, in particolare, Husserl definisce il
momento figurale come quasi-qualitativo poiché vuole sottolineare come l’infinito da esso implicato non sia
meramente potenziale come quello di stampo aristotelico, bensì attuale, come l’infinito qualitativo di Hegel, o
meglio qua-si: l’infinito husserliano è attuale, però la sua attualità (da intendersi come attualità del potenziale)
non è assolutamente assimilabile all’attualità riscontrabile nel finito.
7
mondo empirico degli oggetti, aveva inserito lo schema che, figlio dell’immaginazione
trascendentale, la radice comune di sensibilità ed intelletto, riusciva a mediare tra i due
contendenti senza far torto a nessuno e anzi soddisfacendoli entrambi: lo schema determinava
la forma a priori dell’intuizione in generale, cioè il tempo, poi con questa determinazione si
potevano applicare i princìpi dell’intelletto a qualsiasi oggetto d’esperienza. Husserl non
inserisce nessuno schema per uscire dal dilemma 10 , bensì un’idea.
Già nell’ampia introduzione alle Ricerche logiche, Husserl ha spiegato che la ragione per la
quale egli vuole risalire alla logica pur a è che essa si caratterizza come la custode della verità
e il fondamento di tutte le scienze. Ma come è possibile raggiungere la logica nella sua
purezza, non ancora intaccata da quella normatività che si caratterizza soltanto come sua
vocazione? Occorre fare le opportune distinzioni e quindi togliere dal campo della logica tutto
ciò che non le è strettamente essenziale. Proprio questa è la funzione delle «distinzioni
essenziali» presentate in apertura della prima Ricerca logica (su Espressione e significato),
volte a distinguere l’espressione dall’indice (la distinzione tra indice ed espressione riflette
quella tra verità di ragione e verità di fatto dei Prolegomeni), quindi ciò che ha in sé stesso il
proprio significato da ciò che invece rimanda costitutivamente ad altro e non ha valenza
significativa di per sé stesso; per questo motivo vengono esclusi dall’espressione, in quanto
elementi indicativi, i gesti, le espressioni dal punto di vista meramente fisico (come suoni o
lettere), i vissuti psichici che possono venire comunicati a livello informativo e gli atti
riempitivi (che possono riempire intuitivamente la pura forma significante). L’unica sfera di
pura significazione non già implicata in una funzione indicativa, viene individuata da Husserl
nella «sfera psichica isolata», dove nessun rimando ha più luogo e la purezza del significato
regna incontaminata.
Per assicurare l’assoluta idealità e quindi indipendenza dall’empirico, Husserl si premura di
sottolineare che il significato non ha alcun nesso necessario con l’oggetto e che anzi, la totale
mancanza dell’oggetto non è assolutamente in grado di precludere o limitare la comprensione
del significato. Insomma non bisogna confondere Bedeutung con Gegenstand, la
Gegenstandlosigkeit non è mai infatti al tempo stesso una Bedeutunglosigkeit: un nome come
«montagna d’oro» ha un chiaro significato che comprendiamo nella sua interezza, pur non
essendoci un oggetto ad esso corrispondente 11 . Il significato è ideale, infatti quando per
esempio ci poniamo il problema di capire il giusto significato di una espressione, non
intendiamo per espressione quello che abbiamo udito o letto qui e ora, ma l’espressione in sé,
l’espressione «in specie»; se io chiedo il significato dell’espressione «le tre altezze di un
triangolo si intersecano in un punto» (è questo l’esempio portato da Husserl) non voglio
ovviamente sapere (perlomeno in una situazione normale, cioè se non penso che mi si stia
ingannando o altro) che cosa intendesse il soggetto che lo ha detto e quali fossero i suoi
vissuti psichici, invece mi interessa conoscere l’autentico significato di quell’enunciato,
indipendentemente da tutto il resto, significato che rimane identico anche se io lo ripeto, lo
scrivo e poi domani qualcun altro lo legge. Anche se quell’espressione è stata pronunciata da
10
«Il dilemma era soprattutto confusione», rileva Derrida 1953-54, insistendo molto sulla ossessione di Husserl
per qualsivoglia tipo di genesi, ossessione che lo porta conseguentemente a considerare in maniera troppo
limitata sia la logica che la psicologia e che non gli permette di uscire da un rigido formalismo logicista. La
soluzione è secondo Derrida - come paiono d’altronde testimoniare le ultime opere di Husserl, che l’autore
francese adotta come chiave di lettura - offerta dal concetto di genesi originaria, una genesi che si insinua nel
campo puro della logica Questa genesi si può effettivamente trovare ne L’origine della geometria: gli oggetti
geometrici non preesistono all’atto soggettivo che li inventa, la loro origine è storica e il loro statuto è ideale: il
senso diviene e il divenire è già un senso.
11
E’ proprio basandosi su questa non-identificabilità che Husserl critica le posizioni di Sigwart e Erdmann,
condividendo invece quella di Marty : «Se il significato viene identificato, come abbiamo visto or ora, con
l’oggettualità dell’espressione, un nome come montagna d’oro sarebbe privo di significato. Ma qui si distingue
generalmente l’assenza dell’oggetto dall’assenza di significato» (1901: 320).
8
un soggetto in un momento ben preciso, non è ad esso che rinvia il significato, nonostante non
sia che per mezzo di esso che quel significato è venuto alla luce (1901: 310). Ovviamente i
miei vissuti, che sono qui adesso, possono anche scomparire, ma non il significato, che
rimane sempre identico a sé stesso. I giudizi possono essere molti, di persone diverse in tempi
diversi, ma ciò che essi vogliono dire, ciò che significano è sempre lo stesso: «le tre altezze di
un triangolo si intersecano in un punto». Il significato è quindi unità nella e nonostante la
molteplicità.
La distinzione tra contenuto espresso in senso soggettivo ed oggettivo si rivela inoltre di
fondamentale importanza per comprendere la fluttuazione dei significati nel permanere
dell’unità ideale di significato. Infatti le espressioni significative non sono secondo Husserl
tutte di un medesimo tipo, ma si distinguono in obiettive, occasionali e plurivoche. Le
espressioni obiettive, tutte le espressioni teoretiche ad esempio, sono quelle per le quali le
circostanze del discorso e il soggetto sono irrilevanti e l’univocità non può venire
compromessa; invece le espressioni plurivoche sono quelle che hanno più di un significato
che viene però fissato convenzionalmente in tutte le sue accezioni; infine vi sono le
espressioni occasionali, il cui significato varia a seconda della persona che parla e delle
circostanze nelle quali si trova. L’esempio prescelto per chiarire quest’ultimo caso è la parola
«io»: se per esempio si legge questa parola senza essere a conoscenza di chi l’ha scritta, non si
può propriamente dire di avere capito il significato della parola in questione. Infatti questa
parola, oltre ad avere una funzione indicativa (di rimando), nel senso che indica che il
soggetto sta indicando sé medesimo, ebbene oltre a questo significato generale che vale
ovviamente per tutti gli «io», ha anche un significato in senso più proprio, di che cosa si
intende qui e ora con questa parola. Quindi «io», se viene letto o udito da solo, manca del suo
più autentico significato e, a meno che non venga riempito intuitivamente, la comprensione di
esso sarà solo generale.
Come molto chiaramente sottolinea Derrida ne La voce e il fenomeno (1967: 134), con la
definizione delle espressio ni occasionali, l’indicazione prima scartata rientra potentemente nel
cuore dell’espressione, dichiarando illusoria la pienezza prima raggiunta con le cosiddette
distinzioni essenziali. Ma questa differenza sussistente tra le espressioni obiettive e quelle
occasionali, come bisogna intenderla? Come se ci fossero dei significati ideali, fissi e perfetti
che nessun soggetto potrà mai intaccare e dei significati che variano a seconda delle
circostanze e delle persone? No, dice Husserl, «una simile concezione è priva di validità»
(1901: 357). Idealmente infatti ogni espressione soggettiva si può sostituire con una
espressione oggettiva, lasciando intatta l’intenzione che anima il suo significato più proprio.
Tuttavia questa sostituibilità è solo ideale e forse non avrà propriamente mai luogo. Allora
perché parlarne? «In realtà è chiaro che quando affermiamo che ogni espressione soggettiva
potrebbe essere sostituita da una espressione oggettiva in fondo non vogliamo dire altro se
non che la ragione oggettiva non ha limiti» (1901: 358).
Questa è precisamente la funzione dell’idea in senso kantiano, che pur non delineando una
totalità, ha il compito di non porre limiti e di spingere verso la ricerca di sempre nuovi
elementi: l’idea indica verso un orizzonte indeterminatamente lontano che nessuno sforzo
umano potrà mai comprendere nella sua interezza. E’ soltanto per non porre limiti alla ragione
oggettiva che Husserl dice che questa sostituibilità è possibile. Questa argomentazione può
risultare complicata, ma a ben guardare non lo è, basti tenere a mente che sono due i tavoli sui
quali si gioca e non uno solo. Da un lato vi è un insieme di unità ideali fissamente
determinate, rigide, e questi sono i significati considerati di per sé stessi, indipendentemente
da quals iasi espressione che li porti alla luce e da qualsiasi soggetto che li porti nel mondo.
Dall’altro lato c’è invece l’insieme dei significati obiettivi al quale noi cerchiamo
costantemente di avvicinarci, ricadendo tuttavia di continuo nell’equivocità: qui tutte le
espressioni o quasi sono occasionali e l’univocità è indefinitamente lontana. E’ proprio
9
facendo riferimento a questa duplicità che si può ritrovare all’interno della trattazione
husserliana la distinzione tra infinito e indefinito sulla quale si era soffermato Kant: per la
logica considerata nella sua pura idealità si può parlare infatti di progressus in infinitum,
poiché essendo data la totalità dell’idea, l’unità ideale del significato, occorre solo trovare
sempre nuovi significati, nuovi per no i, poiché tale idea è di per sé stessa un sistema fisso e
rigido di significati; invece per la logica considerata nella seconda accezione si parla di
progressus in indefinitum, perché è necessario cercare sempre e continuamente di sostituire le
espressioni occasionali e soggettive con quelle obiettive, cercare di far sì che la logica pura
funga per noi da regola, affinché la nostra ricerca continui a procedere, come se (als ob)
esistesse un tutto fisso e ideale da raggiungere. Dal momento che la struttura pura della logica
è in ogni caso - per noi - un’idea, anche tutti i risultati delle distinzioni essenziali non
potranno essere considerati effettivi, tutto quel sistema non sarà quindi altro che una struttura
teleologica, ancora a venire.
Pare opportuno rilevare tuttavia che c’è un punto in cui questa duplicità dei piani non
funziona, o perlomeno funziona male: è quello relativo alla extra-essenzialità degli atti
riempienti rispetto alla idealità del significato. Infatti, posto che il significato basti a sé stesso
per essere obiettivo e ideale, senza avere bisogno d’altro, come si potrà comprendere una
frase quale: «Se manca la “possibilità” o la “verità”, l’intenzione dell’enunciato potrà essere
realizzata “solo simbolicamente”; essa non può attingere la pienezza che costituisce il suo
valore conoscitivo dall’intuizione e dalle funzioni categoriali che si esercitano alla sua base.
Allora le manca, come si suol dire, un significato “vero”, “diretto”» (1901: 311)? In altri
termini, le espressioni, per essere vere ed autentiche, devono almeno possedere l’apertura
verso l’intuizione riempiente, non devono precludersi a priori la via verso gli oggetti. Il
significato veicolato dall’espressione raggiunge la propria pienezza solo se è significato di
qualche cosa che c’è, o che comunque potrà esserci in una possibile esperienza. Quindi anche
l’idealità ha bisogno del rimando ad un esistente per essere veramente tale. Non si infrange
forse così l’assoluta distinzione tra verità di fatto e verità di ragione che sin dai Prolegomeni
ci si era proposti di chiarire nella loro assoluta eterogeneità? La significatività ideale
dell’espressione non era forse quella caratterizzata dalla dimostrazione (Beweis), essendo
propriamente solo dell’indicazione la struttura di rimando (Hinweis), inteso come rimando ad
un esistente? Se l’evidenza della dimostrazione deriva dalla non-evidenza dell’indicazione 12 ,
dal fatto che io possa poi indicare il significato ideale in un qui e ora almeno possibili, allora
in che senso Hinweis e Beweis «debbono tuttavia essere tenuti ben distinti l’uno dall’altro»
(1901: 293)? Il formalismo della logica husserliana viene ora alla luce in tutta la sua
ambiguità: in fondo, ciò che regge la forma senza renderla vuota, è una specie di
intuizionismo velato, secondo il quale la forma è sempre la forma di una espressione rivolta
verso un oggetto 13 .
Un altro aspetto sul quale è importante soffermarsi è quello riguardante l’apertura che
Husserl considera come una caratteristica fondamentale del proprio sistema logico: da quale
12
Come sottolinea Ferraris, la rigida distinzione tra indice ed espressione non può che risultare problematica,
infatti «se l’atto di indicare il questo è condizione così del tavolo come della tabula, è ben arduo rivendicare una
priorità della espressione sulla indicazione (a meno che non se ne faccia una priorità di puro principio)» (1997:
300): proprio nella coscienza, che si caratterizza come l’origine pura del significato, non si può non rilevare il
primato dell’indicazione che si era invano cercato di scartare nelle cosiddette distinzioni essenziali. Ferraris
assimila quindi la condanna husserliana dell’indicazione, in quanto empirica e non apodittica, alla condanna
platonica della scrittura: in entrambi i casi infatti «ciò che condanna o reprime (la coscienza contro la scrittura) è
a sua volta scrittorio, ossia dello stesso ordine di ciò che viene condannato (la mente come tabula rasa)» (1997:
300-301). In quanto aggregato di tracce, cioè in quanto frutto di una scrittura interna, la coscienza non può
propriamente dirsi distinta dall’indicazione, almeno non più di quanto essa si caratterizzi come realmente da essa
costituita: insomma la coscienza che condanna l’indicazione è a sua volta di natura indicativa.
13
Questo argomento riceverà gli opportuni approfondimenti in Logica formale e trascendentale (1929) e in
Esperienza e giudizio (1938).
10
prospettiva deve essere guardata la logica per non essere un sistema chiuso? Ovviamente non
da quella della logica ideale, bensì da quella della logica normativa, che ammette un sistema,
sì, formale, ma comunque aperto (qui si fonda la critica husserliana nei confronti della Logica
di Kant). Infatti la logica pura è un tutto chiuso al quale sono indifferenti le espressioni
individuali che possono eventualmente portarla alla luce; in questa accezione i significati sono
unità ideali e rigide (1901: 357) e la novità rispetto alla tradizione è pressoché irrilevante.
Invece secondo il punto di vista adottato da Husserl, la logica pura non è data, ma è la risorsa
e il fine della logica normativa, per darci modo di credere che l’oggettività della ragione non
ha limiti e che la nostra missione non è impossibile. Non dimentichiamo che l’essenza del
linguaggio è nel carattere d’atto che dona il senso, l’aspetto essenziale è l’intenzionalità, come
si sottolineerà nella quinta Ricerca logica; ad ogni diverso modo di rappresentare un oggetto
corrisponde una diversa intenzione: non c’è significato che non sia significato intenzionato
(1901: 173-175). Sono questi significati che mirano all’obiettività, che tendono a sostituire i
significati soggettivi e occasionali in oggettivi e ideali. I singoli atti formano in questo caso il
significato idealmente unitario, come se (l’als ob delle idee kantiane) fossero costitutivi,
anche se la loro funzione è prettamente regolativa. Nella prima accezione invece, non si
trattava tanto di «formare» il significato ideale, quanto piuttosto di «coglierlo». Questa
distinzione, o meglio alternativa, tra cogliere e formare, si ritroverà ne L’origine della
geometria, e sarà alla base della diversità della concezione di Husserl rispetto a quella di
Kant: secondo quest’ultimo, come si legge nella Critica della ragion pura, il primo geometra
ha sì scoperto delle oggettualità ideali, e il suo gesto è indubbiamente stato notevole, però ciò
che egli ha svelato c’era già prima di lui, non c’è nessuna produzione degli oggetti geometrici,
ma solo ricezione della loro precostituita idealità, e il gesto dello scopritore originario è solo
servito affinché questa potesse entrare nel mondo e diventare disponibile per la collettività.
Invece per Husserl, gli oggetti geometrici e la scienza conseguente non preesistono all’atto
soggettivo, essi sorgono, vengono creati da atti assolutamente soggettivi e instaurativi:
l’origine dell’idealità è perciò assolutamente storica (su questo, Derrida 1962). Quella che in
questa tarda opera è l’alternativa tra «creare» e «svelare» o «scoprire», si può ritrovare nelle
Ricerche logiche nella distinzione tra «formare» e «cogliere». Se la logica è un ideale in senso
normativo, ogni mia singola espressione significante contribuirà, con i caratteri d’atto che la
costituiscono, alla costituzione della logica pura dei significati: in questo senso la logica è un
compito e la sua completezza sempre all’orizzonte. Se la logica è un ideale in senso specifico,
tutto quello che si potrà fare sarà di trovare nuovi e molti significati, ma questo sarà in realtà
indifferente al sistema che di per sé stesso è compiuto e ideale.
Riguardo al rapporto sussistente tra logica pura e logica normativa 14 , la domanda che
occorrerebbe porsi è forse quella relativa a quel «nulla» (ce rien) di cui parla Derrida in
«Genesi e struttura» e la fenomenologia (1967: 213), nulla che impedendo alle parallele di
ricongiungersi apre lo spazio di una questione trascendentale.
3. La corrente infinita dei vissuti
Del 1913 sono le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, che
costituiscono un insieme positivo di considerazioni metodologiche e di analisi della struttura
generale della coscienza pura, da considerarsi quali momenti preliminari ed essenziali di una
ricerca propriamente fenomenologica.
La prima sezione di questa imponente «introduzione generale alla fenomenologia» ripropone,
anche se con termini lievemente mutati, quella differenza che si era rivelata di importanza
14
A questo riguardo, illuminanti le osservazioni di De Monticelli e Di Francesco in Lingua degli angeli e lingua
dei bruti (Teoria, 1989), che analizzano parallelamente l’ideografia d i Frege, intesa come lingua totalmente priva
di fattori di occasionalità, e il proposito di Russell di calare nella realtà il linguaggio puramente sintattico dei
Principia Mathematica.
11
fondamentale nelle Ricerche logiche, cioè quella tra verità di fatto e verità di ragione, che qui
compare nuovamente nella contrapposizione tra scienze di dati di fatto e scienze di essenze.
Se le scienze di Tatsachen hanno per oggetto fenomeni e soggetti reali situati in un mondo
spazio-temporale, le scienze del secondo tipo trattano di fenomeni irreali e di un soggetto
trascendentale. Questa è precisamente la ragione per la quale non è più ammissibile
confondere la psicologia e la fenomenologia: la fenomenologia è infatti «tanto poco
psicologia, quanto la geometria è scienza naturale» (1913: 8). In maniera più generale si può
dire che la scienza naturale si occupi dei dati di fatto, infatti essa sorge - ha inizio, non origine
- con l’esperienza e nell’esperienza permane.
Il mondo reale fa parte della nostra esistenza, senza che si debba fare nessuno sforzo. Noi ci
possiamo mettere in relazione con degli altri mondi, per esempio con il mondo aritmetico: ma
questo particolare tipo di mondo, per diventare un mondo «per noi», esige che ci si ponga da
un punto di vista speciale, che è per l’appunto quello aritmetico, invece il mondo reale non
richiede alcun mutamento della nostra posizione, e questo avviene perché esso è il mondo
verso il quale si dirige naturalmente il nostro pensiero. Tale mondo naturale è composto di
dati di fatto, che sono esseri individuali e, in quanto tali, casuali, cioè contingenti. Però il
senso di questa contingenza tipica della fatticità viene limitato dal proprio riferirsi ad una
necessità: ogni essere contingente ha infatti un’essenza, un quid, che è ciò che si trova
nell’essere proprio di ogni individuo. Ebbene, se questo quid viene messo «in idea», si avrà,
anziché una intuizione empirica, una intuizione d’essenza (o eidetica), che è una intuizione
originalmente offerente in grado di afferrare, per così dire, l’essenza in carne ed ossa.
Probabilmente Husserl è stato messo sulla via dell’intuizione eidetica proprio dalla scoperta di
quei momenti figurali dei quali aveva trattato nella Filosofia dell’aritmetica. Che cos’è infatti
il procedimento della Wesensschau, con la quale si coglie l’invariante delle infinite varianti,
se non la generalizzazione e la formalizzazione del caso già visto in quel suo primo lavoro?
Là si trattava di risolvere il problema aperto dalla apprensione istantanea di un insieme
illimitatamente numeroso, e la risposta individuava nel momento sintetizzatore di ogni
molteplice, un terzo elemento capace di mediare tra la semplice intuizione singolare e la
rappresentazione simbolica del plurale. Anche l’essenza può venire colta descrittivamente in
virtù del momento figurale e delle sue proprietà schematiche: infatti in Husserl l’essenza non
è di per sé stessa un concetto descrittivo, bensì operativo, essa è ciò che permette di pensare il
dato empirico sub specie universalis, cioè sussunto al concetto. L’essenza (Wesen)
husserliana ha quindi la stessa funzione dello schema kantiano, con la sola differenza che
pone nell’empirico, anziché nel formale, il punto di partenza: infatti anziché chiedersi «come
può una categoria applicarsi al mondo dell’esperienza?», si domanda «come può il mondo
empirico avere un senso?». L’intuizione eidetica, che nelle Ricerche logiche portava il nome
di intuizione categoriale, è l’astrazione idealizzatrice che permette che, invece del momento
non indipendente, si presenti alla coscienza l’idea di esso, l’universale. L’atto di intuizione 15
eidetica deve infatti essere presupposto affinché possa esserci data una intuizione
dell’universale, della specie in quanto tale (1913: 32-33). Ma attenzione, il fatto che le
essenze non vengano colte nel mondo e con l’atteggiamento naturale, non autorizza a pensare
che esse siano vuote fantasie: in quanto originalmente offerente, l’intuizione d’essenza è
analoga alla percezione sensibile e non alla immaginazione. Infatti il «principio di tutti i
princìpi» recita così: «ogni visione originalmente offerente è sorgente legittima di
15
La Wesensschau è in realtà una quasi (als ob)-intuizione e questo significa che essa non è né identica, né
lontanamente paragonabile ad una intuizione vera e propria, ma solo analoga: cioè identica esclusivamente
riguardo alla funzione. Come hanno già spiegato le Ricerche logiche, e come risulterà poi chiaro dal seguito
della trattazione, l’intuizione dell’universale è di un tipo molto particolare, che non può mai dirsi propriamente
«riempita», quanto piuttosto sempre «anelata». Occorre non dimenticare mai che per quanto riguarda la specie
noi conosciamo solo il lato normativo, mai quello puro, che funge invece da regola.
12
conoscenza, tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne ed ossa) è
da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (1913: 50-51). In
questo principio fondamentale della fenomenologia si avverte innanzitutto il netto distacco di
Husserl da Brentano, palesemente causato dall’ammissione dell’essenziale equivocità
dell’essere. L’essere si dice in molti modi perché è sempre relativo al modo
trascendentalmente soggettivo del suo darsi (ogni Dasein ha il suo Sosein). Solo un ingenuo
pregiudizio naturalistico può portare a credere che la semplice intuizione sensibile sia l’unico
modo di datità e che, correlativamente, gli unici esseri siano quelli reali. Anche il categoriale
(cioè l’essere ideale, l’ eidos) può dirsi dato, anche se in un suo modo proprio. Se quindi
l’essere è essenzialmente equivoco, cioè relativo al modo del suo darsi, bisogna concludere
che è impossibile indicare un ente privilegiato: in corrispondenza di diversi modi di datità
avremo diversi tipi di evidenza. Ma come è possibile ottenere o avere tale intuizione eidetica?
«Io sono consapevole di un mondo, che si estende infinitamente nello spazio e che è ed è stato
soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa innanzitutto che io
trovo il mondo immediatamente e visivamente davanti a me, che lo esperisco» (1913: 57).
Questa è la tesi fondamentale dell’atteggiamento naturale. Ebbene, con l’epoché - che è
propriamente ciò che rende possibile l’intuizione eidetica - anziché rimanere in questo
atteggiamento, lo si muta radicalmente.
Già Descartes con il dubbio radicale ave va a suo modo neutralizzato il mondo ma, dice
Husserl, bisogna distinguere rigorosamente la posizione cartesiana da quella adottata dalla
fenomenologia: infatti se Descartes dubita dell’obiettività della conoscenza al fine di riuscire
in un secondo momento a giustificarla, la fenomenologia rinuncia a porre questo problema
innanzitutto per potersi piazzare in una sfera che lo preceda. Quindi l’interesse prioritario di
Husserl non va al dubbio di per sé stesso, quanto piuttosto al tentativo di dubitare. «Che cosa
rimane se l’intero mondo, compresi noi uomini, viene escluso, neutralizzato?» (1913: 68). Il
punto è proprio questo: che cosa rimane? Ciò che resta dopo l’epoché, che non può essere
messo tra parentesi, è un «residuo fenomenologico»16 quale l’io puro, anche chiamato
coscienza trascendentale.
L’io puro si caratterizza secondo Husserl come una corrente di vissuti (Erlebnisstrom), che si
estende oltre la sfera delle semplici cogitationes, poiché non può mai consistere di pure
attualità. Occorre ancora precisare che ogni attuale cogito è caratterizzato da una dimensione
intenzionale, esso è cioè coscienza «di» qualcosa; questo tuttavia non implica che tutti i
vissuti siano intenzionali, basti pensare ai dati della sensazione, che sono vissuti reali ma non
intenzionali 17 . Husserl porta quindi l’attenzione sulla distinzione, all’interno dell’insieme dei
vissuti intenzionali, tra atti immanenti e atti trascendenti. Gli Erlebnisse intenzionali
immanenti sono quelli che intenzionano oggetti che appartengono alla medesima corrente alla
quale appartengono gli atti stessi, quelli trascendenti sono invece rivolti ad essenze o vissuti
ad essi esterni. La caratteristica più rilevante che distingue l’essere fenomenico dall’essere
immanente è una certa inadeguatezza: infatti per quanto si possano fare progressi
nell’esperienza, essa rimarrà sempre per principio indeterminata, anche se sempre, ma mai
completamente, determinabile. Quindi ogni esperienza si caratterizza come orizzonte e, in
quanto tale, non può dirsi propriamente finita. Se il trascendente non può offrirsi che
16
Derrida osserva a questo proposito che la nozione stessa di residuo fenomenologico è indice del fatto che la
fenomenologia non abbia «ancora superato radicalmente il dibattito dei filosofi classici, dell’empirismo e del
criticismo» (1953-54: 168). Infatti o la coscienza è – in quanto residuo – assimilabile alle altre regioni
ontologiche, e allora si resta intrappolati in un empirismo psicologista; oppure la coscienza è pura, quindi né
concreta, né temporale: ma così l’io sarebbe esclusivamente formale e di conseguenza incapace di caratterizzarsi
come l’origine del divenire delle rappresentazioni.
17
Invece, come si vedrà più oltre, il noema si caratterizzerà come un vissuto intenzionale e non reale: hyle e
noema sono quelle «materie informi e forme senza materia» che Husserl si astiene qui dall’indagare perché non
ancora in possesso degli strumenti metodologici necessari.
13
parzialmente e inadeguatamente, l’immanente è assoluto e privo di qualsiasi adombramento.
Ovviamente anche un vissuto non è mai percepito nella sua interezza come una unità, infatti
esso si caratterizza come un flusso e, in quanto tale, può essere percepito solo in quanto
percorso, e percorrendo un tratto necessariamente si perdono quelli retrostanti. Ma questa
specie di imperfezione (che non bisogna però mai concepire come tale) non è assolutamente
assimilabile agli adombramenti infiniti della percezione trascendente. Gli Erlebnisse infatti
sono percepibili grazie alla riflessione, tramite la quale il vissuto diventa oggetto di sé stesso,
garantendo così la propria esistenza.
Così la riduzione trascendentale mette tra parentesi ogni posizione di trascendenza: per poter
scoprire il giusto significato della correlazione della coscienza con il mondo, occorre che il
mondo presupposto venga destituito di valore.
L’epoché sospende la urtante attualità del presente rendendola inattuale, cioè riducendola a
mera possibilità; a pensarci bene è paradossale, ma non è contraddittorio 18 che la conoscenza
dell’attuale sia in sé stessa un’esperienza inattuale: così come esiste un’attualità dell’inattuale
(come datità dell’idea in senso kantiano o come attualità dell’infinito nel senso di Bolzano e
Cantor), esiste anche una inattualità dell’attuale, che sarebbe una conoscenza intesa come
discorso sull’esperienza. Inoltre la Urteilsenthaltung, non solo non toglie nulla a ciò che ha
neutralizzato, ma vi aggiunge anche un nuovo senso 19 : dopo la riduzione infatti l’ente è posto
solo come noema, cioè come puro correlato della noesi, come il «senso» dell’essere
considerato nel «come» del suo modo di datità. L’epoché ha quindi trasformato in tematico
ciò che prima non era che operativo, facendo sì che da una condizione anonima e passiva la
neutralizzazione passasse ad una condizione esplicita e costitutiva: la riduzione trascendentale
ha eliminato il mondo, riuscendo così a scoprire il senso, la struttura dell’esperienza.
Quando tutto viene sospeso rimane l’io puro 20 , che si caratterizza come una trascendenza
nell’immanenza, quindi diverso sia da una semplice forma, sia dalla coscienza empirica.
L’unità dell’io puro che rimane identico nella e nonostante la molteplicità dei vissuti che lo
costituiscono come flusso, è simile all’unità di una cascata: è vero che la cascata è sempre
una, nonostante le gocce che la compongono siano tantissime; però sarebbe possibile, anche
solo immaginare, la cascata senza l’acqua? No, perché la cascata senza l’acqua non sarebbe
più nulla: ebbene, lo stesso vale per l’io puro: lo si definisce come uno ed identico, ma la
molteplicità caotica degli Erlebnisse è già tutta presente.
E’ indispensabile a questo punto fare una precisazione: la sfera degli Erlebnisse è
caratterizzata da una sorta di duplicità, per la quale in ogni vissuto bisogna distinguere un lato
orientato soggettivamente e un lato orientato oggettivamente: il primo si orienta verso la pura
18
Bolzano ne I paradossi dell’infinito del 1851, sostiene che il concetto di paradossalità va mantenuto distinto da
quello di contraddittorietà: per esempio i paradossi dell’infinito non sono assolutamente contraddittori. Mentre
infatti è assurdo e contraddittorio definire un numero finito come uguale alla sua metà, per quanto riguarda
l’infinito, è paradossale, ma non contraddittorio, asserire che una totalità possa essere equipotente ad una parte di
sé stessa. Lo stesso può dirsi del modo di datità dell’infinito: infatti l’infinito essendo attuale nella sua
potenzialità, sarà chiaramente caratterizzato da un modo di datità diverso rispetto a quello del finito.
19
Mettere tra parentesi non per eliminare, ma per arricchire: come dimenticare le grandi scoperte rese possibili
dalla «messa tra parentesi» dell’assioma delle parallele? La sospensione del V postulato di Euclide ha infatti
arricchito notevolmente la geometria portando da un lato alla scoperta delle geometrie non-euclidee (così come
la neutralizzazione del mondo nella fenomenologia non toglie nulla in realtà, ma crea i presupposti affinché
qualcosa di nuovo possa essere raggiunto) e, dall’altro, a prendere coscienza del carattere empirico della
geometria euclidea (dopo l’epoché ogni oggetto ricondotto al suo noema acquista la giusta rilevanza, quella
relativa alla sua struttura eidetica).
20
Il reines Ich husserliano ha avuto in un primo periodo (anche definito «formalistico») forti analogie con l’Ich
denke kantiano e, in un secondo periodo («trascendentale»), con il cogito cartesiano. Infatti se all’epoca delle
Ricerche logiche l’io non viene tematizzato che dall’esterno, come forma o struttura categoriale, quindi come ciò
che permane identico nel flusso di coscienza, in seguito, in Idee I, l’io puro viene già caratterizzato come ciò che
più tardi si chiamerà Ich-pol, cioè come un polo di trascendenza immanente da cui sorge ogni Erlebnis e a cui
infine ritorna.
14
soggettività (noesi), il secondo tratta invece ciò che inerisce alla costituzione dell’oggettività
per la soggettività (noema). Vi è tuttavia una caratteristica comune a tutti i vissuti: il tempo
fenomenologico (che può legittimamente essere definito come il problema più complesso di
tutte queste Idee). Allora l’io puro è temporale - anche se il tempo di cui qui è questione non è
assimilabile al tempo oggettivo e spazializzato - o meglio, l’io puro si rivela costituito nella
sua essenza da un io temporale. Le analisi riguardo agli enigmi di questa coscienza temporale
non possono tuttavia essere contenute in Idee (lo studio della coscienza temporale esigerebbe
il mutamento delle analisi, da statiche in genetiche, cambiamento che l’autore non reputa
opportuno nell’ambito della trattazione in corso), infatti Husserl stesso rimanda in nota ad un
ciclo di Lezioni sulla coscienza interna del tempo tenute a Gottinga nel 1905 21 e poi
pubblicate da Heidegger nel 1928.
In quelle Vorlesungen, ciò che la fenomenologia si impone è di descrivere il tempo così come
esso si presenta alla coscienza nella sua Selbstgegebenheit, evitando quindi
contemporaneamente di interpretarlo a partire dal senso atemporale delle categorie utilizzate
per descriverlo e, in secondo luogo, di caratterizzarlo mediante categorie che a loro volta
implichino un qualche riferimento al tempo. Husserl tenta di caratterizzare il tempo in
rapporto alla percezione: la percezione vera e propria si ha solo del presente, che presenta
(gegenwärtigt) l’oggetto in modo proprio, nella sua fresca datità; diverso è invece il discorso
per il passato: la rimemorazione ri-presenta (vergegenwärtigt) l’oggetto, che però è presente
solo come modificazione della sua datità originaria; anche il futuro, come il passato, non può
darci l’oggetto in eigener Person, infatti esso si caratterizza come l’anticipazione
(Vorerinnerung) della percezione. Secondo Husserl - e qui si avverte il più netto distacco nei
confronti delle teorie brentaniane - l’adesso presente (jetzt) non può tuttavia ve nire spiegato
come semplice identità a sé, poiché esso si inserisce all’interno di una complessa struttura
temporale: il presente ha senso solo all’interno di una struttura di rimandi. Per questa ragione,
la coscienza temporale dovrebbe essere descritta no n tanto come un flusso, bensì come una
catena (Kette: Husserl definisce in nota la coscienza come una «catena fluente»), che forse è
una immagine più adatta al fine di porre in evidenza la razionalità sussistente all’interno
dell’io temporale. Infatti all’impressione (jetzt) si associa continuamente il ricordo primario o
ritenzione (Erinnerung als Retention), che salva l’impressione alterandola nella forma della
quasi-presenza. Oltre al ricordo primario vi è anche il ricordo secondario 22
(Wiedererinnerung) o rimemorazione, che si caratterizza come una vera e propria riproduzione di oggetti temporali. Nelle Vorlesungen del 1905 Husserl si sofferma quasi
prevalentemente sul rapporto sussistente tra ritenzione e rimemorazione, e l’immagine che
egli propone per spiegare la struttura temporale è una cometa, il cui nucleo è costituito
dall’ora sempre attuale e la cui coda è formata dagli ora ormai passati (1928: 66). Poi, nei
Bernauer Zeitmanuskripte del 1917, la seconda grande esposizione di Husserl riguardo al
tema della temporalità, il nesso di impressione e protenzione si apre al futuro offerto dalla
protenzione: senza il futuro il nesso temporale si limiterebbe infatti a defluire. Se la
protenzione corrisponde alla ritenzione, l’attesa corrisponde alla rimemorazione: ritenzione e
protenzione sono infatti due quasi-percezioni e il loro nesso con l’impressione presente è
necessario, invece rimemorazione e attesa sono libere. Allora risulta chiaro come il presente
21
Anche se già nella terza Ricerca logica («Teoria delle parti e del tutto») si possono trovare le radici della
problematica sul tempo, proprio nelle osservazioni relative al carattere non-indipendente dei momenti del tempo.
22
Non si deve pensare che il ricordo primario sia una riproduzione e che il ricordo secondario sia semplicemente
la riproduzione di una riproduzione, infatti se ciò che io ho ritenzionalmente nella coscienza è assolutamente
certo ed evidente, nella riproduzione implicata dal ricordo secondario sono possibili errori, esattamente per lo
stesso motivo per il quale il ricordo secondario è libero e quello primario no: infatti l’appena-stato della
ritenzione è necessario (l’impressione non può non venire registrata), invece il già-stato della rimemorazione e
della ripresentazione, avendo sempre una validità relativa, rientra nella sfera della possibilità, dell’errore e quindi
della libertà.
15
sia sì l’inizio dell’esperienza, ma non l’origine di essa: il punto sorgente è infatti una finzione,
esattamente come l’io puro, poiché entrambi si basano su qualcosa di totalmente altro che, per
la sua stessa essenza, non può ricevere una descrizione adeguata. Da che cosa è resa possibile
l’evidenza del presente? Il presente è reso possibile da quello strano nesso sussistente tra
ritenzione e protenzione, che costituiscono propriamente quella hyle 23 - cioè quella
componente reale ma non intenzionale - senza la quale la coscienza non potrebbe mai
esercitare la propria attività intenzionale. E’ doveroso sottolineare che vi è una precedenza
della ritenzione sulla protenzione, ma questa precedenza non è di ordine temporale, bensì
trascendentale: nessuna protenzione sarebbe infatti possibile, se non vi fosse una linea
ritenzionale (che è la possibilità stessa dell’iscrizione, è la traccia dell’esperienza); tuttavia è
del pari opportuno rilevare che è soltanto grazie alla protenzione che si realizza la direzione
all’oggetto, la tensione verso di esso.
Il presente dell’impressione si caratterizza quindi come un nucleo di addensamento: in questo
presente infatti non vi è uno sgorgare originario (urquellen), ma uno sgorgare per
accumulazione (verquellen): il presente esteso deriva dall’addensarsi di presente
impressio nale, passato ritenzionale e futuro protenzionale. L’attualità del presente non è un
dato, bensì un processo, infatti il Bewusstseinstrom non ha in sé stesso né inizio né fine.
Presente, passato e futuro si inseguono e si intrecciano in un continuum costante che prende il
nome di tempo. Il nucleo temporale dell’io puro è un continuum, è infinito. Il fatto che
Husserl abbia utilizzato proprio questo termine, può fare riflettere, dal momento che la
nozione di «continuo» ha un significato ben preciso nel linguaggio matematico. Infatti,
proprio rifacendosi alle sue valenze nell’ambito matematico, Husserl dice che continuo è un
insieme infinito di punti tale che ciascuno di questi punti è a sua volta definito da un un
insieme infinito di punti24 : in altri termini, continuo è un infinito alla seconda potenza.
Ebbene, anche il flusso di coscienza presenta caratteristiche analoghe: esso è infatti infinito da
parte a parte, e infiniti sono anche gli Erlebnisse che lo compongono. Ma allora se, come più
sopra si era detto, l’io può cogliere sé stesso mediante la riflessione, ciò significa che l’io può
cogliere ed afferrare l’infinito? «Ma per principio l’intera connessione non è e non può essere
data in un unico sguardo. Tuttavia in certo modo, ma ben diverso, è anche essa intuitivamente
afferrabile, e precisamente nel modo della “illimitatezza progressiva” delle visioni immanenti,
cioè procedendo dall’Erlebnis fissato a nuovi Erlebnisse del suo orizzonte» (1913: 184).
Come già aveva recitato il principio di tutti i princìpi, ogni essere ha il suo specifico modo di
offrirsi in maniere corrispondente alla sua essenza: la corrente dei vissuti viene allora sì
afferrata come unità, ma nello stesso modo in cui si può cogliere come unità una idea in senso
kantiano, cioè in una accezione tanto ampia da corrispondere alla sua infinità.
Sarebbe legittimo domandarsi perché Husserl scriva che la totalità infinita può essere intuita e
non si limiti invece ad affermare che essa può essere pensata (come aveva fatto Kant nella
Dialettica). Il motivo è abbastanza semplice: egli parla di intuizione poiché ciò a cui mira è
l’evidenza, che è poi l’equivalente fenomenologico di verità adeguata alla datità della cosa.
L’evidenza si intuisce, non si pensa; infatti solo una intuizione, immediata anche se
23
Ritenzione e protenzione infatti, in quanto non (-più, -ancora) intenzionali costituiscono la hyle, che Husserl in
Ideen aveva introdotto accanto alla morphé, cioè a quel vissuto intenzionale ma non reale, identificantesi con il
noema (che si caratterizza come l’oggettività dell’oggetto per il soggetto). Hyle e morphé, in quanto materie
informi e forme senza materia, costituiscono il più grande problema della fenomenologia (riflettendo così quello
ben più profondo sussistente tra intuizione e intenzione), che non si dimostrerà mai capace di comprendere la
ragione per la quale materia e forma possano sussistere l’una separatamente dall’altra.
24
Questa definizione è in realtà appropriata per il termine denso e non tanto per il termine continuo, che è invece
caratterizzato dal fatto di non avere buchi. Probabilmente l’assimilazione tra infinito e continuo, porta Husserl a
non tenere conto di ulteriori distinzioni e a generalizzare laddove la matematica tenderebbe invece a distinguere
rigorosamente. La definizione impropria di continuo qui riportata vuole proprio essere indice di questo più
generale atteggiamento husserliano.
16
inadeguata, può salvaguardare la purezza dell’io temporale. Per essere puro l’io deve, tramite
la riflessione, essere capace di intuire sé stesso: anche se l’intuizione è di qualcosa che non c’è
mai completamente. La corrente dei vissuti, non potendo mai essere data in un solo sguardo,
non è tanto una totalità infinita di connessioni, che implicherebbe un tutto chiuso e assoluto,
quanto piuttosto un insieme indefinito di questa totalità di connessioni: però la questione si fa
più complicata nel momento in cui Husserl non definisce questo indefinito come un valore
limite, intrinsecamente inaccessibile, ma si impegna nel renderlo immanente, intuibile in
«carne ed ossa». Anziché fare, kantianamente, dell’infinito un pretesto per confermare
l’essenziale finitudine delle nostre coscienze, egli riempie l’indefinito di un contenuto
concreto: l’intuizione dell’indefinito è infatti l’intuizione del possibile infinito degli
Erlebnisse. «Caratteristica dell’ideazione che intuisce una “idea” kantiana (caratteristica che
peraltro non ne diminuisce l’intuitività), è appunto che l’adeguata determinazione del suo
contenuto, in questo caso della corrente di Erlebnisse, sia irraggiungibile» (1913: 184). Come
idea si ha la perfetta datità, come continuum di vissuti con diverse infinità: questo flusso, in
sé, non può venire concepito in una unità, cioè in un atto finito, altrimenti ciò a cui si
arriverebbe sarebbe una infinità finita; è invece ammissibile l’idea di questo continuum, che è
l’idea corrispondente al modo di datità del suo oggetto. L’idea di un continuum infinito di
Erlebnisse non è essa stessa un’infinità: l’idea che abbiamo dell’infinito è finita, essa è ciò
che guida il nostro procedere e che stimola il nostro cammino, è una promessa di percezione
della totalità dei vissuti, non ancora (e mai lo sarà completamente) la sua realizzazione. E’
paradossale che un’idea in sé finita punti verso quell’infinito, che per noi non sarà mai altro
che un indefinito, riuscendo addirittura a farcelo intuire: è paradossale, ma non
contraddittorio.
Proprio in chiusura delle Idee, Husserl si premura di rammentare che questo tipo di datità, per
così dire imperfetta (anche se sarebbe meglio dire inadeguata), racchiude nel suo nucleo una
«regola» (come dimenticare la funzione regolativa delle idee kantiane?), uno stimolo verso la
possibilità ideale del suo perfezionamento: anche se intuita - o meglio, proprio perché intuita l’idea va oltre sé stessa, confermandosi al tempo stesso come un limite e come il suo costante
oltrepassamento.
4. Il mondo come orizzonte
Nel semestre invernale 1919-1920, Husserl tiene a Friburgo un corso di logica genetica, volto
ad indagare le strutture prime, antepredicative, dalle quali la logica ha origine. Tale indagine
potrà dirsi propriamente conclusa solo vent’anni dopo, con la pubblicazione 25 , nel 1938, di
Esperienza e giudizio. Le analisi svolte in quest’ultima opera sono molto diverse rispetto a
quelle già incontrate, ad esempio, nelle Ricerche logiche, dove la logica pura illuminava
staticamente, dall’alto della sua assolutezza, la logica normativa; infatti, come già spiega il
titolo, ciò di cui qui è questione è proprio il passaggio, il movimento che dall’esperienza va al
giudizio e viceversa. Tra la logica e il mondo si stabilisce un nesso, un nesso genetico.
In primo luogo Husserl si propone di mettere in evidenza l’essenza del giudizio predicativo,
per poi giungere, in un secondo momento, ad esplicitarne i fondamenti. Ma tra tutte le forme
di giudizio, ve ne è una che funga da fondamento di tutte le altre? Sì, infatti sin dai tempi di
Aristotele, il giudizio copulativo, la cui forma è «S è P», è stato considerato lo schema
fondamentale del giudizio. Ebbene, visto che il problema che ci si pone non riguarda l’ inizio
della logica (che risponde alla domanda: come comincia la logica?), bensì la sua origine (da
dove proviene la legittimità della logica?), bisogna approfondire lo studio del nesso
25
Esperienza e giudizio non ha mai ricevuto una forma definitiva da parte dell’autore medesimo, infatti
l’elaborazione definitiva si deve a Ludwig Langrebe, al tempo assistente di Husserl, su contenuti e proposte però
rigorosamente provenienti dal maestro, il quale un anno prima della morte diede il consenso per la
pubblicazione.
17
copulativo, per individuarne l’essenza e l’origine. E’ importante insistere su questo
«approfondire», infatti no n vi è altro modo di raggiungere l’originario se non dal costituito.
Anche il serio studioso di logica si occupa a suo modo di un problema di origine, però
l’origine da lui ricercata è origine formale, conditio sine qua non; infatti egli è interessato alle
leggi di formazione dei giudizi, che non includono altro che le condizioni negative della verità
possibile. Però anche quando le regole formali venissero rispettate, ciò non significherebbe
ancora avere raggiunto la verità: infatti se l’attività conoscitiva vuole raggiungere il suo
scopo, alle condizioni formali si debbono aggiungere «i caratteri soggettivi dell’intelligibilità,
dell’evidenza, e le condizioni soggettive per raggiungerla» (1938: 16). Da un lato vi è quindi
la questione formale dei giudizi e dall’altro vi è invece la questione delle condizioni
soggettive 26 per accedere all’evidenza. Il soggetto che formula giudizi è mosso dalla propria
tendenza alla conoscenza, che è naturalmente rivolta verso ciò che è, verso ciò che esiste.
Quindi la conoscenza si dirige verso l’esistente e tende a racchiudere in giudizi ciò che esso è
e il modo in cui è: ovviamente l’oggetto esistente deve essere già dato prima, in modo da
poter poi divenire in un secondo momento oggetto del giudicare. Gli oggetti devono essere
dati come «evidenti» affinché sia possibile la conoscenza ad essi relativa. Tuttavia nella datità
evidente degli oggetti non è ancora inclusa nessuna forma predicativa: è questa quell’evidenza
originaria che deve essere presente affinché la logica abbia un senso. E’ quindi a partire da un
esistente evidente dato nella sfera antepredicativa che può e deve essere descritta la genesi del
giudizio 27 .
La teoria fenomenologica della logica considera quindi come sua parte fondamentale,
costitutiva rispetto a tutte le altre, la teoria dell’esperienza antepredicativa, che fornisce i
sostrati primi della stessa evidenza oggettiva. Prima di tutto infatti, prima di dare un nome alle
cose e conoscerle, le cose ci sono e proprio in quanto ci sono producono in noi delle
affezioni 28 , cioè entrano nel nostro campo di esperienza modificandolo: l’affezione infatti
precede sempre l’atto soggettivo del cogliere (non possiamo cogliere se non ciò che ci si dà) e
produrre un’affezione significa propriamente «emergere» da un ambiente che c’è già sempre,
26
Questa potrebbe sembrare una tematica propriamente kantiana: un dirigersi soggettivo verso l’oggetto. Certo
da un punto di vista è così. Infatti nell’ambito fenomenologico l’oggetto è sempre tale per una coscienza, e
qualsiasi realtà diviene oggetto solo in relazione alla coscienza che è per essenza intenzionale, coscienza-di. Però
è anche vero che nella sfera di cui poi sarà questione, cioè quella antepredicativa, il soggetto non potrà dirsi
propriamente attivo: come indica molto chiaramente il titolo di una serie di lezioni tenute da Husserl a Friburgo
dal 1920-1926, le Lezioni sulla sintesi passiva, in questa sfera non si tratta tanto di kantiane sintesi attive, quanto
piuttosto di sintesi passive: quindi anziché rivelare l’operare di una soggettività, essa rivela i dinamismi interni
all’ambito dell’esperienza, le sue autonome forme di organizzazione, precedenti e indipendenti rispetto a quelle
della sfera predicativa. Secondo Husserl, che riprende a questo proposito la critica di Stumpf a Kant, lo spazio
non è quindi soltanto la condizione di possibilità di qualsiasi esperienza, ma ha già un contenuto positivo che
può essere indagato di per sé stesso.
27
In questo senso quindi, la sfera antepredicativa ha già una forma, che però non si identifica con la forma tipica
della sfera predicativa. La grammatica del vedere, del sentire e del toccare, si distingue dalla grammatica del
pensare: «anche se il processo di incorporazione del significato non è in genere osservabile, il costituirsi
dell’oggetto visivo deve necessariamente precedere il suo riconoscimento. Può essere riconosciuto solo in quanto
già esiste» (Kanizsa 1991: 20-21). Insomma conoscenza e sensazione non si identificano. Tuttavia se Husserl
all’inizio della trattazione è ben disposto ad accettare affermazioni di questo tipo, tanto da sostenere che è nella
sfera antepredicativa che il giudizio ha origine, in seguito la sua posizione muterà radicalmente: quando il
rapporto sussistente tra lo strato predicativo e lo strato antepredicativo si inserirà in una dimensione teleologica,
non si potrà potrà più seriamente parlare di una distinzione netta tra i due strati, caratterizzandosi già sempre la
grammatica del «sentire» in vista della grammatica del «pensare», che della prima non sarà altro che il giusto
fine. La continuità tra i due prevarrà, in ultima analisi, su quella separazione che in un primo momento era parsa
del tutto ovvia e legittima.
28
La sintesi passiva fornisce la materia sensibile sulla quale si può poi edificare una apprensione attiva: questo
presuppone che vi sia uno strato comune a tutte le civiltà. Infatti non è la coscienza a costituire il mondo, ma è il
mondo a costituirsi innanzitutto nella coscienza e senza nessuna iniziale partecipazione attiva da parte dell’io,
cioè in una sintesi passiva.
18
producendo così un interesse. «Potremmo anche dire che ogni attività conoscitiva è preceduta
ogni volta da un mondo, come suolo universale» (1938: 28), vi è quindi un livello di doxa
passiva che precede 29 ed è presupposto da qualsiasi attività conoscitiva.
Il mondo si caratterizza quindi come una sorta di «sfondo» sul quale ha poi luogo la nostra
conoscenza degli oggetti: esso è infatti costantemente già dato in una certezza passiva. Però
occorre a questo proposito fare una precisazione, al fine di evitare future confusioni: nel
momento in cui si pone il problema della conoscenza di un oggetto, sono due gli orizzonti che
si rivelano determinanti: quello interno (poiché infinite sono le determinazioni che di tale
oggetto possono essere date) e quello esterno (poiché infiniti sono gli oggetti esterni che lo
determinano e lo caratterizzano, infinito è il mondo sul quale l’oggetto in questione si staglia).
La nostra esperienza è infinita da parte a parte. Forse si potrebbe già tentare una prima
distinzione, per rendere più chiaro il discorso: l’oggetto potrebbe essere infinito e il mondo
indefinito: infatti il modo in cui è infinito l’oggetto consiste nell’infinità delle determinazioni
che di esso possono essere date, a questo proposito sembrerebbe quindi legittimo parlare di
«regresso all’infinito», in quanto è necessario trovare sempre nuovi membri o condizioni
all’insieme dato; nel secondo caso sembrerebbe invece essere in questione il «progresso
indefinito», poiché non vi è alcuna esperienza del mondo che possa dirsi propriamente data e
che possa fare da limite.
Il mondo però non è solo questo e, come si è già avuto modo di rilevare, l’ambiguità o
equivocità dei termini (soprattutto se si tratta di idee) sono più congeniali a Husserl della
banale univocità. Infatti, oltre ad essere lo sfondo di ogni nostra esperienza o la possibilità
infinita di tutte le evidenze, il mondo è anche quel tutto nel quale «esiste» ogni reale, quel
sostrato antepredicativo di cui gli oggetti reali non sono che determinazioni, peraltro non
indispensabili all’essenza del tutto dal quale emergono (la formula scolastica a cui è spesso
stata ridotta la Gestalt, «l’intero è più della somma delle parti», viene utilizzata da Husserl per
spiegare il mondo sotto questo particolare punto di vista, 1938: 130). La duplicità dei piani
del discorso già riscontrata nelle Ricerche logiche è tornata in tutta la sua potenza. Da un lato
il mondo è l’orizzonte di tutti i singoli reali esperibili, dall’altro è l’ insieme di tutti i reali
esperibili: infatti se secondo la prima accezione l’oggetto si può considerare come un prodotto
della nostra attività conoscitiva, che cerca di determinare con sempre maggiore precisione lo
sfondo sul quale tale oggetto si staglia, poiché ogni nuova determinazione contribuisce ad
arricchire il senso di questo mondo; secondo l’altra invece tale oggetto non viene creato o
determinato da noi nella misura in cui lo conosciamo, perché esso non è altro che una
specificazione di quel tutto passivamente già dato che prende il nome di mondo.
Quindi parlando di antepredicativo, occorre chiarire che cosa si intende per ante-: se si
intende «precedenza reale», perciò fondativa, allora si rimanderà a quel piano d’esperienza
autonomo che per la sua stessa essenza ignora la sua destinazione predicativa; se l’ante- fa
invece riferimento ad una anteriorità funzionale, allora si ritroverà il mondo come orizzonte
indeterminato, in cui l’antepredicativo non è autonomo poiché non trova propriamente
realizzazione se non grazie al predicativo che, esplicitandolo e dandogli un senso, a suo modo
lo crea. Ovviamente la logica risulterà diversamente caratterizzata a seconda che abbia il
primo o il secondo tipo di antepredicativo come fondamento.
Poniamo per un attimo che il mondo sia la totalità in cui esiste ogni reale: allora se i termini
della logica elementare sono «S è P», basterà riempire questi vuoti termini di contenuti reali;
la logica non sarebbe quindi altro che una idealizzazione del mondo, «un rivestimento di idee
sopra il mondo dell’intuizione e dell’esperienza immediate» (1938: 41). La logica, e di
conseguenza la scienza, porta alla luce un mondo che c’è già e che non ha assolutamente
29
Se in Kant l’isolamento dell’Estetica trascendentale dall’Analitica vuole essere solo di carattere
metodologico, in Husserl si riscontra una effettiva priorità dell’estetica sulla logica trascendentale. Husserl
distingue - almeno nei propositi iniziali - il «fare esperienza» del mondo dal «conoscere» il mondo.
19
bisogno di lei per essere tale. Ecco perché è importante ridurre, sottoporre al procedimento
implacabile dell’epoché tali idealizzazioni che spengono l’autentica luce della Lebenswelt, al
fine di riattualizzare il senso originario del mondo.
Secondo questa prospettiva l’idea del mondo non si caratterizza più tanto come una mèta
irraggiungibile, quanto piuttosto come un tutto dato, che è poi la base di tutto il resto:
insomma è un punto di partenza. Ma così non si presuppone forse che il mondo abbia già un
«senso», anche se originario, vero e proprio? Però se fosse veramente originario, il senso
sarebbe ancora senso? Se il senso è per definizione frutto di una costruzione extra-essenziale
al mondo, parlare di senso originario non è forse una contraddizione nei termini? Questi
problemi non sono nuovi: li si erano già incontrati in Ideen (terza sez., cap. IV) nel rapporto
sussistente tra Sinn e Bedeutung.
Tuttavia occorre non dimenticare che il mondo non è solo questo «tutto» puro e originario, ma
è anche un orizzonte, un’idea in senso kantiano, della quale non viene però fatto un uso
dialettico se la si intende come un insieme indeterminato di tutti i nostri giudizi possibili, di
tutti i nostri modi di conoscere il mondo. Come conciliare questa sorta di potenzialità, di
indeterminatezza del mondo, con l’attualità e la pienezza prima riscontrate? Non bisogna
assolutamente conciliare, bensì distinguere: l’antepredicativo ha infatti un duplice aspetto che
non deve essere essere ridotto, ma va invece messo in luce in tutta la sua ambiguità. Infatti se
il mondo fosse una possibilità indefinita, un’idea in senso kantiano, non vi sarebbe
propriamente nessun dato da cui partire, ma soltanto un fine a cui tendere: in questo caso
l’essenza dell’antepredicativo non consisterebbe in altro che nel suo essere in vista del
predicativo che solo lo potrebbe realizzare. Da questa prospettiva quindi la logica non può più
essere considerata come un semplice «rivestimento di idee», poiché il mondo non può dirsi
effettivamente tale prima di venire in-formato concettualmente: il mondo come possibilità
diventa reale solo grazie alle attualizzazioni predicative. Infatti se il mondo «è» solo nella
misura in cui ha un senso, non può dirsi propriamente che esso sia fino a che non ne ha
effettivamente uno. Rispetto al caso precedentemente trattato, la direzione della dipendenza
risulta chiaramente invertita: se prima il movimento andava dal predicativo
all’antepredicativo che del primo era il legittimo fondamento, adesso si va
dall’antepredicativo indeterminatamente possibile al predicativo reale che del primo è la
legittima realizzazione (questa ambiguità era già stata riscontrata in Ideen).
Un interrogativo può sorgere spontaneo: che cosa interessa davvero a Husserl nello studio
dell’antepredicativo? Che cosa vuole riuscire a mettere in luce? Ciò a cui Husserl vuole
arrivare è di riuscire ad attribuire all’antepredicativo tutte quelle caratteristiche che si
ritroveranno poi idealizzate, concettualizzate e impoverite nel predicativo; l’antepredicativo
non potrebbe infatti fungere da sostrato inferiore, primo e fondativo rispetto a tutti gli altri, se
non contenesse già tutte le determinazioni. Questa è la ragione per la quale egli introduce la
distinzione tra esperienze schiette e esperienze fondate, stabilendo l’assoluta originarietà delle
prime, nelle quali ci si volge direttamente al percepito, e di conseguenza la derivazione delle
seconde dalle prime, non essendo la riflessione che un dirigersi indirettamente all’oggetto per
mezzo di una variazione della direzione immediata. Insomma, se l’esperienza schietta è volta
alla esperienza del senso, l’esperienza fondata si impegna nel produrre il senso
dell’esperienza. Ma si può davvero avere una esperienza del senso che non sia già il senso di
quell’esperienza? Proviamoci. Già osservando un sostrato, senza individuarlo
predicativamente come un identico questo o quest’altro (cioè escludendo ogni sorta di
idealizzazione), io compio un’operazione, che è un’azione vera e propria e non una semplice
ricezione, è una credenza d’essere, una oggettivazione antepredicativa: viene infatti stabilito
ciò che è percepito qui, ora, da me. La percezione purificata della logica ha il vantaggio di
essere estremamente semplice e di percepire gli oggetti dati come veramente esistenti: è
questo il fondamento che si cercava sin dall’inizio. Vediamo se una esperienza di questo tipo
20
è davvero possibile: io sono qui, ora e vedo questo; ciò mi basta per avere un oggetto
individuale, anche se non individuato tramite specifiche determinazioni, e per percepirlo in
quanto tale. Nella sfera antepredicativa quindi ind ividuare un oggetto del mondo significa in
qualche modo indicarlo, non per altri, perché gli altri sono stati messi tra parentesi, ma solo
per me stesso, infatti percepire un oggetto è come indicarlo perché la percezione
individualizza e l’oggetto esiste per me solo se lo indico. Come ha fatto Husserl ad arrivare a
questo risultato? Si è servito di quelle espressioni che nelle Ricerche logiche venivano
definite «occasionali», in quanto aventi un ineliminabile rimando al contesto. Nella prima
Ricerca logica l’esempio portato da Husserl era la parola «io»: tale termine, precisava
l’autore, contiene un significato generale, che consiste nella sua stessa funzione di rimando, e
poi un significato più proprio, che indica a chi si riferisce effettivamente questa parola; inoltre
si insisteva molto sul fatto che se il significato nel senso più proprio non veniva
intuitivamente riempito, non si poteva parlare di una comprensione effettiva. Ma - e questo è
il trait d’union tra le Ricerche logiche e Esperienza e giudizio - ciò che si caratterizza come
contenuto o riempimento, non necessita costitutivamente di una forma per essere veramente
tale? Torniamo all’esempio precedentemente portato a proposito della logica originaria: una
frase del tipo «io sono qui, ora e vedo questo», dove io, qui e ora sono dati derivanti dalla
percezione sensibile, non è volta, nella sua stessa essenza, ad una idealizzazione che riesca a
strapparla da quella situazione momentanea, garantendole il possesso stabile di una
conoscenza condivisibile e comunicabile? Se così fosse la distinzione netta tra predicativo e
antepredicativo si rivelerebbe illusoria e il mondo non potrebbe mai dirsi propriamente tale
senza di noi, che con i nostri giudizi gli diamo un senso: la logica sarebbe già sempre una
logica del mondo e il mondo non sarebbe comprensibile se non in quanto potenzialmente
informato dalla logica (non si trovava forse già tutto questo in nuce nell’idea - intesa come
compito e non come dato - di una logica pura delle Ricerche logiche?). Il problema consiste
forse nel fatto che l’antepredicativo è già talmente teleologicamente rivolto al predicativo che
il suo senso non è altro che mera protensione al futuro riempimento di senso oggettivo, che
solo la sfera predicativa gli può fornire. Allora Husserl non solo parte dal predicativo per poi
rivolgersi all’antepredicativo, ma anche quest’ultimo non ha propriamente senso se non in
quanto illuminato dal primo: le determinazioni dell’antepredicativo dipendono dal predicativo
al quale esse sono destinate. Ma allora come può l’antepredicativo essere definito un
fondamento, e in quanto tale autonomo, che può essere spiegato di per sé stesso? In quale
misura ha senso parlare di una logica originaria, se poi questa non viene realizzata che nella
logica predicativa? Se l’antepredicativo rimanda a ciò che esso è supposto fondare, allora
forse più che di fondamento primo si dovrebbe parlare di reciproca determinazione di un
piano sull’altro: l’intreccio degli elementi prevale sulla netta distinzione 30 .
Queste conclusioni si basano sul fatto che l’aspetto infinito e quello indefinito dell’idea del
mondo devono essere strettamente connessi affinché il mondo abbia un senso: noi infatti
sappiamo che il sostrato del mondo sul quale poi si erge la sfera della predicatività è
indeterminato nella sua totalità 31 , poiché ciò che si ha sono solo singoli elementi, che si cerca
di continuo di identificare meglio con nuove percezioni, però nonostante questo dobbiamo
30
Anche se Husserl ha ribadito più volte che la sfera antepredicativa è autonoma rispetto a quella predicativa,
non si riesce a vedere come questo sia davvero possibile: si potrebbe pensare che nonostante il primo sia in
funzione del secondo, esso si riveli comunque capace di mantenere la sua autonomia e la sua originaria datità;
tuttavia questa argomentazione non potrebbe comunque spiegare come sia effettivamente possibile esperire
l’antepredicativo in quanto tale, poiché ciò che risulterebbe chiaro sarebbe soltanto che è in quanto inglobato nel
logico che il pre-logico viene esperito. L’autonomia in questione si caratterizzerebbe allora come il frutto di una
dipendenza originaria.
31
Infatti per noi non c’è mai un mondo assoluto, inteso come Welt che esiste come un tutto di per sé stesso, ma
c’è solo sempre un mondo-ambiente, relativo ad uno spazio, ad un tempo, ad un soggetto, sussistente solo come
Umwelt. A questo proposito, fondamentali le osservazioni svolte da Heidegger in Sein und Zeit.
21
agire come se il tutto implicato dall’idea fosse davvero possibile e ad esso si potesse, dopo
infiniti sforzi, arrivare. Purché questo come se non conduca alla «ragione pigra» o alla
«ragione rovesciata», la sua funzione non potrà essere che positiva, stimolando la ricerca e
regolandone il percorso.
Il mondo come totalità infinita non potrà mai essere frutto di alcuna esperienza, a meno che
per «esperienza del mondo» non si intenda quell’esperienza dei singoli corpi che, essendo
costantemente insufficiente, rimanda sempre ad altro da sé: il finito è indice verso l’infinito,
caratterizzandosi come una sua costante, ma sempre insufficiente, determinazione. L’idea del
mondo non può venire «costruita» a partire da sostrati individuali, ma soltanto
indeterminatamente prospettata da questi, e non è neanche l’oggetto di una evidenza semplice,
perché il mondo non è mai «dato», o meglio non è mai dato nello stesso modo in cui sono
date le cose finite (non dimentichiamo che tra finito e infinito, pur sussistendo forti analogie,
vi è una totale incommensurabilità: già Kant si riferiva implicitamente a questa
incommensurabilità dei piani quando sosteneva che l’illusione trascendentale della ragione
consistesse nell’assegnare all’infinito le proprietà appartenenti al finito): l’unità di questa idea
non è né unità individuale né totalità delle parti componenti. Tale idea quindi non si può dire
né ricevuta passivamente dalla sfera dell’antepredicativo (o doxa originaria, che più sopra si
era detta fondativa rispetto alla certezza dell’episteme), né tantomeno costruita da un’attività
logica. Sull’origine di tale idea e sulla sua unità Husserl non dice nulla (perché non si può
propriamente dire nulla, bensì solo sempre cercare di dire qualcosa), ma ribadisce soltanto che
in quanto idea il mondo è un orizzonte aperto per nuove proprietà determinabili, per questo
esso viene definito infinito, perché ammette sempre un plus ultra oltre al già dato. E’ chiaro
che di conseguenza anche il rapporto tra predicativo e antepredicativo va reimpostato: non
ergendosi più su di un terreno fisso e stabile, bensì su di una possibilità aperta, il mondo della
logica si caratterizza come l’idea (lo si era già visto nelle Ricerche logiche che la logica pura
non era altro che un’idea, indispensabile per non limitare il procedere della ragione) di una
idea (il mondo, sempre e mai completamente definito dalle nostre singole esperienze). Allora
anche la conoscenza, intesa come adaequatio dei concetti con il mondo, non è altro che
un’idea, e tale sarà anche la verità, il fine ultimo di ogni conoscere, poiché essa presuppone ed
include una esperienza inferiore che non è mai propriamente data. Coerentemente infatti
Husserl dice che l’evidenza della datità della sfera predicativa non può fare altro che riflettere
l’evidenza dei sostrati che stanno a fondamento, infatti se questi ultimi «non possono mai per
ragione d’essenza pervenire ad una datità adeguata, come accade per tutte le oggettività reali
ove per essenza un’anticipazione appartiene al modo della loro datità, sì che la piena datità
adeguata non è che un’idea all’infinito, allora questa stessa cosa vale anche per gli stati di
cose che si edificano su questi oggetti; anche gli stati di cose sono quindi dati essenzialmente
anticipatoriamente» (1938: 264). Tenendo conto che Husserl definisce «stati di cose»
l’insieme dei giudizi che si riferiscono alle cose, non si può fare a meno di rilevare quanto
indeterminatamente infinita sia, almeno per noi, la logica del mondo (anche perché per noi
non vi sarà mai altro che una logica del mondo, essendo l’idea della logica sempre e mai del
tutto formata dalla nostra esperienza del mondo). Anche la verità partecipa a questo nuovo
modo di essere, non scomparendo ma modificandosi: essa diventa infatti un’idea, mai
completamente adeguata alla cosa o al giudizio di cui è verità, poiché così come la percezione
dell’oggetto continuamente cambia e si accresce, così anche il giudizio vero non contiene mai
la cosa stessa, ma solo il suo senso, nella pienezza indefinita che gli è propria. Insomma,
come le cose e il loro mondo sono un’idea, non tanto infinita quanto piuttosto indefinita per
quanto ci riguarda, così è un’idea anche la totalità del senso che su di essi si fonda.
Se il proposito iniziale era stato quello di rispondere alla domanda «perché il mondo ha un
senso?», ora ci si rende conto che la risposta non può essere una sola e soprattutto non può
essere esaustiva. Per Kant la questione si risolveva grazie allo schema che, mediando tra
22
categorie e mondo, faceva sì che la forma non fosse vuota e la materia avesse già un senso,
ma questo era possibile proprio perché i due ambiti erano distinti (da un punto di vista
metodologico) nettamente, anche se complementari. In Husserl il problema è però più
complicato, perché predicativo e antepredicativo non possono dirsi propriamente due campi
separati e autonomi - né effettivamente, né metodologicamente - essendo piuttosto l’uno il
proseguimento dell’altro: infatti l’intuizione del mondo è già teleologicamente rivolta alla
logica del mondo, e quest’ultima a sua volta non trova fondamento se non sulla prima. Non
essendoci scissione, ciò che qui si cerca non è tanto un termine medio, quanto piuttosto
quell’orizzonte in cui ha luogo la genesi dall’uno all’altro livello, cioè l’idea di infinito che,
nella sua ambiguità, appartiene ad entrambi. Tale id ea di infinito che è poi sempre indefinito,
esplicita molto chiaramente l’essenza di quel continuum sussistente tra logica e mondo, per il
quale il mondo si può considerare archeologicamente logico solo perché è tale anche
teleologicamente: il senso finale dell’attività deve già essere tutto contenuto nella passività
più originaria. La genesi dell’idea e l’idea della genesi si stagliano su un orizzonte infinito. Il
compito che adesso si impone a Husserl, e che coincide con l’ultima fase della sua filosofia,
consiste nell’indagare sull’origine di questa stessa genesi, esplicitandone tutte le implicazioni.
5. La storia e l’idea della filosofia
La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale è il notevole risultato
dell’ultimo sforzo di Husserl e racchiude un insieme di lavori risalenti ad un periodo che
comincia nel 1930 per concludersi nel 1938, con la morte dell’autore. Può suscitare a tutta
prima qualche perplessità il nesso istituito tra la storia e la fenomenologia, tanto da fare
pensare ad una sorta di svolta o conversione, ma presto risulterà chiaro come in fondo non si
tratti che di un serio e concreto approfondimento delle problematiche fenomenologiche stesse.
Che cosa fa sì che Husserl rivolga alla storia la propria attenzione? E’ la coscienza di una crisi
relativa al senso autentico della storia. Tale consapevolezza invita quindi a riaffermare quel
senso, quell’idea di cui si è dimenticata l’importanza.
C’è un’idea filosofica infinita immanente alla storia dell’Europa: è un’idea teleologica 32 .
L’evento è sede dell’avvento del senso: l’ideale «accade» nel reale dandogli un senso, ed è la
storia.
Come appare già da questi brevi cenni, nella trattazione della storia Husserl vuole evitare, con
un solo gesto, tanto una storia empirica, quanto un razionalismo astorico, non accontentandosi
però nemmeno di una conciliazione semplicistica tra genesi e struttura, cioè quella che
consiste nel considerare la struttura come il fine prestabilito della genesi: egli riuscirà nel suo
intento proprio grazie all’idea di infinito, che implica che nella genesi vi sia sì una
predelineazione di senso, ma non una totale coincidenza tra quanto viene predelineato e la
realtà. Tuttavia è opportuno non anticipare le conclusioni e seguire Husserl nella trattazione.
La prima e fondamentale nascita, apertura dell’uomo all’idea di ragione e di filosofia, è
avvenuta - spiega l’autore - nella Grecia del VI secolo (a.C.). L’infinito si è imposto come
32
Questa è l’ultima e la più comp iuta forma che l’idea d’infinito in senso kantiano assume nell’orizzonte
fenomenologico. Già nelle Ricerche logiche, in Idee e in Esperienza e giudizio si è avuto modo di incontrare
questa idea: come idea di un divenire infinito della logica, come idea di un tempo infinito delle evidenze vissute
e come idea di un mondo come orizzonte delle possibilità infinite dell’esperienza; lo statuto di tali idee non
veniva però chiarito a sufficienza e spesso le ambiguità del discorso parevano insuperabili. Il problema della
teleologia quale viene presentato nella Krisis è solidale con l’idea in tutte le sue forme precedentemente
incontrate, e forse risulterà tutto sommato anche più chiara. L’essenza dell’Europa, che particolarizzandola (cioè
distinguendola da tutti gli altri paesi) la rende universale, è l’idea della filosofia come compito infinito. Ma ciò
che davvero sorprende in quest’ultimo lavoro, è che i tratti principali dell’idea della filosofia non possano
propriamente manifestarsi che nella storia: se nelle opere precedenti l’empirico veniva chiamato in causa solo
implicitamente per la manifestazione o la realizzazione del trascendentale, qui viene chiaramente affermato che è
proprio perché la ragione, per la sua realizzazione, si risolve in un compito infinito che essa implica una storia,
una progressività.
23
guida e al tempo stesso come limite del finito, la ragione si è rivelata come una possibilità per
l’uomo che ha il compito di realizzarla nella storia. Il testo principale della Crisi si occupa
però di una nuova nascita dell’uomo europeo: il Rinascimento 33 .
«Innanzitutto occorre ora comprendere quell’essenziale mutamento dell’idea e dei compiti
della filosofia, che avvenne all’inizio dell’epoca moderna al momento della riadozione
dell’idea antica» (1935-36: 51). Il rinnovamento dell’idea antica orienta e stimola lo sviluppo
di tutte le singole scienze, che presto cominciano a trasformarsi. Le due grandi conquiste dello
spirito moderno - che portando a compimento il desiderio innato di totalizzazione, hanno al
tempo stesso alterato l’idea antica di filosofia - sono state la generalizzazione della geometria
euclidea in una mathesis universalis di tipo formale e la matematizzazione della natura. La
prima innovazione si può considerare come un proseguimento della scienza antica, anche se
poi si risolve in un superamento decisivo, da un lato con l’elaborazione di una assiomatica in
grado di circoscrivere il campo chiuso della deduzione, dall’altro con la radicalizzazione
dell’astrazione dal suo oggetto: grazie all’algebra, alla geometria analitica e ad un’analisi
universale ed esclusivamente formale, si giunge infine ad una dottrina delle molteplicità34 ,
che già Leibniz aveva intravisto e assegnato come compito per il futuro. Così si è raggiunto il
campo dell’assoluta esattezza, quello delle «figure limite» della geometria pura, nei confronti
delle quali qualsiasi figura immaginata o percepita non è che una mera approssimazione;
questo regno dell’esattezza è chiuso, razionalmente fondato e di grande utilità per la scienza
universale (1935-36: 52, 72-75).
La seconda grande innovazione dell’epoca moderna porta il nome di Galileo, al quale Husserl
dedica un ricco paragrafo (il nono, recante il titolo «La matematizzazione galileiana della
natura», che si estende per circa trenta pagine di analisi), tanto complicato quanto
interessante. Galileo viene presentato come colui che ha progettato una scienza capace di
considerare la natura come una molteplicità matematica, allo stesso titolo delle figure ideali
(1935-36: 53). Nonostante la sua genialità, dice Husserl, non si può evitare di porre in
evidenza ciò che la sua scoperta ha d’un sol colpo ricoperto (il termine Lebenswelt racchiude
quella totalità di elementi che verranno poi singolarmente esaminati). Galileo è ovviamente
l’erede di un pensiero scientifico già sussistente e consacrato da parte della tradizione, però
nel momento in cui egli lo rifiuta per andare oltre, non si rende conto di avere perso il senso
dell’origine: infatti le operazioni idealizzanti non sentono più alcun legame con quella realtà
di cui non sono che un’astrazione, e l’Umwelt (ambiente) che dovrebbe essere la matrice di
ogni umana produzione, perde di significato, fino a non venire assolutamente più presa in
considerazione. Ma non è tutto. Infatti Galileo, in perfetta coerenza con i suoi assunti iniziali,
giunge anche a sostenere che le qualità percepite degli oggetti non siano altro che illusioni
33
La filosofia moderna viene concepita da Husserl come una lotta tra l’obiettivismo, il cui massimo
rappresentante è Galileo, e il trascendentalismo, che si richiama al dubbio e al cogito di Cartesio. Come si avrà
modo di argomentare più avanti, in questo combattimento si inserisce, ad un certo momento, la fenomenologia
trascendentale, per portare sino alle sue ultime conseguenze la profonda scoperta cartesiana e mettersi così in
condizione di prevalere definitivamente sull’obiettivismo, avviando la crisi verso la sua conclusione.
34
«Nel suo senso pieno e completo, essa non è altro che una logica formale onnilaterale (che dev’essere cioè
promossa all’infinito nella sua totalità propria ed essenziale), una scienza delle forme di senso del “qualcosa in
generale”, costruibili attraverso il pensiero puro nella loro vuota e formale generalità e, su questa base, delle
“molteplicità” da costruire sistematicamente e in sé senza contraddizione, secondo le leggi formali elementari
della non-contraddizione; una scienza cioè dell’universo delle “molteplicità” pensabili in generale» (1935-36:
74). Questi elementi, costituenti quell’analisi puramente formale che prende anche il nome di logistica, sono stati
trattati anche in altre opere di Husserl (non va mai dimenticato il suo grande interesse per il formalismo, spesso
all’origine delle forti ambiguità del suo pensiero): per approfondire il concetto di molteplicità definita si può
rimandare a Idee I (1913: 218 e seguenti), invece per l’idea di una mathesis universalis alla seconda edizione
delle Ricerche logiche (1913) e a Logica formale e trascendentale (1929).
24
soggettive, dal momento che, a suo avviso, la «vera realtà»35 (1935-36: 58-63) è di natura
matematica: è da qui che sorge l’esigenza di esaminare matematicamente la natura.
Husserl non esita a definire «geniale» il superamento dell’ostacolo che divideva le qualità dal
calcolo e dalla misura, tramite la valutazione delle qualità soggettive stesse come indici di
quantità obiettive; egli però non esita del pari a criticare tale matematizzazione, la cui
estensione conduce inevitabilmente ad una sorta di circolo vizioso tra l’anticipazione ipotetica
e la verificazione, circolo dal quale sarebbe possibile uscire solo riconoscendo l’assoluta
autonomia del mondo antepredicativo, la pre-datità degli oggetti e, conseguentemente, la
secondarietà di qualsiasi matematizzazione. Sarà proprio richiamandosi a questi ultimi
elementi che la fenomenologia si schiererà contro l’obiettivismo 36 della scienza naturale
matematica, affermando che esso ha prodotto un vero e proprio «occultamento di senso».
Infatti i successori di Galileo radicalizzano tutte le sue scoperte portandole sino alle loro
ultime conseguenze: la scienza diventa una tecnica che «opera con lettere dell’alfabeto, con
segni di collegamento e di relazione (+,3, = , ecc.) e secondo le regole del giuoco della loro
coordinazione» (1935-36: 75), non tenendo assolutamente più conto di quelli che sono gli
effettivi fondamenti del pensiero. Perdendo la chiave di comprensione delle proprie
operazioni, la scienza si aliena, perdendo così il proprio significato. Questi sono i motivi, che
allora non potevano venire compresi nella loro interezza, per i quali Galileo «è un genio che
scopre e insieme occulta», scopre il mondo come matematica applicata, ma lo occulta
considerandolo come un’opera della coscienza scientifica 37 .
35
Come si è già avuto modo di sottolineare nei capitoli precedenti e come si cercherà di spiegare anche in
questo, per Husserl l’espressione «vera realtà» è già di per sé stessa problematica: che cos’è la «vera realtà»? Se
per verità si intendesse la verità logica, esattamente quella stessa verità della quale era questione nelle Ricerche
logiche e che reggeva la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, allora sarebbe errato parlare di «vera
realtà», poiché così come la verità non potrebbe mai fare parte del mondo, anche il mondo non potrebbe mai
essere vero. Poi tenendo conto che quella stessa verità logica non era altro che un’idea (in senso kantiano) la
situazione si complicherebbe ancora di più. Certo, si potrebbe obiettare che proprio perché la logica è un’idea, il
mondo deve in qualche modo essere vero: infatti se il mondo non desse il proprio contributo con parziali verità,
la logica sarebbe del tutto impossibile. Questa obiezione non toglierebbe nulla comunque al fatto che la verità
logica nella sua interezza non possa mai venire considerata come un dato o una parte del mondo. Invece se per
«verità del mondo» si volesse intendere quella verità della logica originaria della quale Husserl aveva trattato in
Esperienza e giudizio, allora sarebbe sì legittimo affermare che il mondo ha una verità, ma certamente questa
verità non sarebbe quella della matematica. Ogni verità di questo tipo non potrebbe mai infatti essere concepita
come «nel» o «del» mondo, ma sempre conseguente ad esso, in quanto frutto di una categorizzazione comunque
e sempre secondaria. Ecco perché la «vera realtà» di natura matematica di Galileo non potrà mai risultare del
tutto convincente per Husserl: il compito della fenomenologia infatti sarà proprio quello di fondare
trascendentalmente un mondo che non è già di per sé stesso vero.
36
E’ doveroso cercare di comprendere nella sua essenza questa critica, senza lasciarsi fuorviare da conclusioni
affrettate: in sé il passaggio da una matematica che si applica alle cose alla sua logicizzazione formale (che non è
altro che l’applicazione della matematica su sé stessa), che segna l’ultima grande tappa scientifica dell’epoca
moderna, non è sbagliato, anzi è un ampliamento della scoperta iniziale assolutamente legittimo; ciò che però
non è ammissibile è che questo metodo non venga utilizzato coscientemente (per Husserl è fondamentale la
consapevolezza: sarà infatti proprio a partire dalla mancanza di essa che avrà luogo la confusione tra il mondo
vero e ciò che in realtà non è altro che un metodo) e che con il tempo l’autentico orizzonte di senso sia stato
trasformato e degradato.
37
Appare già da questi brevi cenni la singolarità del metodo utilizzato da Husserl per compiere le proprie analisi
storiche, che può essere sintetizzato nel termine tedesco Rückfrage e che Derrida propone di tradurre con
question en retour: la crisi attuale e le cause che l’hanno provocata riportano alla motivazione originaria
(Ursprungmotivation) e autentica, che a sua volta rende comprensibile il disordine presente. Infatti, come
Husserl stesso si premura di sottolineare, essendo originaria la sintesi tra fatticità e origine, tra empirico e
trascendentale, è necessario procedere a «zig-zag» nel metodo regressivo, poiché con una argomentazione a
senso unico si renderebbero possibili pericolosi fraintendimenti: «Veniamo dunque a trovarci in una specie di
circolo. Si può giungere ad una piena comprensione degli inizi, soltanto a partire dalla scienza data nella sua
forma attuale e attraverso la considerazione del suo sviluppo. Ma senza una comprensione degli inizi questo
sviluppo, in quanto sviluppo di senso , è muto. Non ci resta altro: dobbiamo procedere e retrocedere, a “zig-zag”;
25
I notevoli risultati ottenuti dalla scienza galileiana portano presto a pensare che sia possibile
una estensione dei suoi metodi ad altri campi del sapere, per esempio alla psicologia. Sono
presenti tutti i presupposti affinché una estensione di questo tipo possa davvero funzionare: se
la scienza matematica aveva considerato il lato fisico delle cose, astraendo da qualsiasi
coscienza o soggetto, la psicologia si impegna nel costruire un ambito autonomo dello
psichico sul modello del fisico, cosa peraltro possibile, vista l’universalizzabilità del metodo
delle scienze della natura. Tuttavia le difficoltà non tardano a farsi sentire, soprattutto quando
ci si rende conto che una psicologia di questo tipo (cioè di stampo naturalistico) perde
necessariamente di vista unelemento di importanza fondamentale: la soggettività, l’essenza
stessa del soggetto.
Husserl riconduce le prime riflessioni radicali riguardo alla priorità assoluta della coscienza su
tutti gli oggetti a Cartesio che, con il motivo trascendentale, di cui è a giusto titolo considerato
il fondatore, si presenta come l’unico davvero in grado di combattere contro il dogmatismo
naturalistico. Può essere curioso constatare che è proprio con il proposito di rinforzare
ulteriormente l’obiettivismo che Cartesio ha fornito le armi per sconfiggerlo: «egli, nelle sue
Meditazioni - proprio nel proposito di fornire i fondamenti radicali del razionalismo e, eo
ipso, del dualismo - giunse a fondare originariamente alcuni pensieri, che nel loro influsso
storico (come aderendo ad una nascosta teleologia storica) erano chiamati appunto a
dirompere questo razionalismo mediante l’esplicitazione del suo nascosto controsenso:
proprio quei pensieri che dovevano servire a fondare il razionalismo come un’aeterna veritas,
recavano in sé un senso profondamente nascosto38 , il quale, una volta venuto in luce, lo
sradicò completamente» (1935-36: 103). La portata delle prime due Meditazioni è infatti più
vasta di quanto si possa immaginare e più di quanto abbia immaginato anche il loro stesso
autore.
Il dubbio cartesiano dà inizio a qualsivoglia critica nei confronti delle presunta sufficienza
delle evidenze matematiche, fisiche e sensibili. Per primo Cartesio decide di «passare
attraverso l’inferno di una epoché quasi scettica, che non poteva essere scavalcata, e di
raggiungere il portone di entrata al cielo di una filosofia assolutamente razionale per poi
costruirla sistematicamente» (1935-36: 105). L’esito di questa epoché radicale è a tutti noto:
se io sospendo qualsiasi validità d’essere, allora io che opero l’epoché devo per principio
essere escluso dal suo ambito: io che dubito di tutto «sono» necessariamente. Esaminando poi
a dovere questo suolo apodittico infine raggiunto, si vede che la sua essenza è: Ego cogito
cogitata; questo significa che il mondo, perso come quell’in- sé del quale non posso non
dubitare, può venire riaffermato come ciò che io penso, cioè come un elemento costitutivo
delle mie cogitationes: solo in quanto cogitatum del cogito il mondo è indubitabile.
Estendendo fino ai cogitata (o ideae, come le chiama Cartesio) la sfera del cogito esente da
nel giuoco delle prospettive ogni elemento deve contribuire al chiarimento dell’altro» (1935-36: 87). Quindi è
indispensabile questo procedere-retrocedere, perché nel momento in cui giungiamo alla fonte costituente
originaria (sempre ammesso che lo si possa), il costituito c’è già sempre.
38
Questo «senso profondamente nascosto» è particolarmente interessante e racchiude tutte le difficoltà inerenti
alla effettiva storicità della storia in Husserl. Come mai il senso del pensiero dei grandi filosofi (che Husserl
esamina in questa specie di storia della filosofia che è il tema centrale del manoscritto principale della Crisi) è
sempre quello nascosto e mai quello che di essi ha ritenuto e tramandato la tradizione? La posizione particolare
di ogni singolo filosofo non viene forse così sacrificata a quell’unica problematica che Husserl sta affrontando?
Porre tutti gli elementi in un’unica prospettiva, non significa forse voler escludere implicitamente tutte quelle
caratteristiche che mal si prestano ad una lettura unitaria? Sarebbe prematuro tentare di fornire una risposta senza
attendere il seguito della trattazione, tuttavia si può forse già anticipare che la soluzione non va cercata in
direzione di un elemento o dell’altro, quanto piuttosto nella loro reciproca implicazione. La storia del pensiero
potrebbe quindi essere definita come al tempo stesso continua e discontinua, discontinua perché ogni filosofo è
unico e così il suo pensiero, continua perché egli comunque porta avanti, realizza un compito comune, al quale
egli dimostra di partecipare con la razionalità stessa del suo tentativo particolare. Questa soluzione è comunque
soltanto ipotetica ed esige il seguito della trattazione per venire definitivamente scartata o accettata.
26
dubbio, Cartesio ha proposto implicitamente il grande principio dell’intenzionalità, del quale
egli si è servito per collegare qualsiasi conoscenza obiettiva all’evidenza del cogito, anche se
però «in Cartesio non c’è traccia di una vera enunciazione e di una vera trattazione del tema
“intenzionalità”» (1935-36: 111).
Nonostante questi importanti presupposti, Cartesio non è stato in grado di andare oltre le
evidenze nelle quali credeva Galileo: infatti anche per lui la verità della fisica si identifica con
la matematica e l’impresa del cogito nel suo insieme non è altro che l’ennesimo tentativo per
rinforzare l’obiettivismo. Basti pensare che l’ego che rimane quale suolo apodittico dopo
l’epoché, viene definito «res cogitans», quindi è ancora qualcosa: è l’anima; ma il fondatore
del motivo trascendentale non si è reso conto del fatto che l’ego demondanizzato dovesse
essere concepito come qualcosa di totalmente diverso (da qualsivoglia res) e non solo come
diverso dal corpo fisico. Tutti questi elementi (l’ego concepito come una res e il tentativo di
riconfermare la scienza obiettiva) spiegano lo strano destino del cartesianesimo che da un lato
ha dato vita al razionalismo (Malebranche, Spinoza, Leibniz e Wolff), che elimina il motivo
del dubbio e l’epoché, e dall’altro all’empirismo scettico, che conduce sino alle sue ultime
conseguenze l’interpretazione psicologistica del cogito, sbagliandosi così completamente
sulla natura della soggettività fondatrice.
Può destare qualche perplessità la circostanza per la quale Husserl si impegna così a lungo
nell’analizzare i pensieri e le motivazioni di Galileo e Cartesio, senza fare alcun riferimento a
Kant. Inoltre, anche quando decide esplicitamente di trattare di Kant, Husserl lo fa in maniera
pittosto sommaria, senza analizzare a fondo la sua filosofia, quasi come se sapesse già cosa
cercare e dove trovarlo. Come mai a Kant, che viene di solito considerato il filosofo
trascendentale per eccellenza, sono dedicati soltanto tre paragrafi39 (dieci pagine in tutto: a
Galileo ne erano state dedicate addirittura trenta)? Poi perché così tanta reticenza
nell’elogiarlo, quando persino Galileo, lo scienziato all’origine dell’obiettivismo moderno, era
stato definito un «genio»? La Crisi fornisce la spiegazione di questo insolito atteggiamento:
secondo Husserl, Kant non è un pensatore di primaria importanza perché la sua
interpretazione è legata a quella di Hume (che al dire di Kant lo risvegliò dal suo sonno
dogmatico), e nella scepsi humiana si cela un autentico motivo filosofico in grado di
confutare l’obiettivismo; quindi Hume, se rettamente inteso, è chiaramente più prossimo di
Kant alla vera essenza del dubbio cartesiano. Tutte le perplessità iniziali dovrebbero essere
scomparse. Certo, la tradizione ha assimilato Hume ad una sorta di «bancarotta della scienza
obiettiva», ad un comodo scetticismo accademico grazie al quale «egli è diventato il padre di
un fragile positivismo, ancor oggi vivo, che elude gli abissi filosofici oppure li occulta
superficialmente, accontentandosi di una spiegazione psicologistica delle scienze positive e
consolandosi con i loro successi» (1935-36: 116). Ma il vero motivo filosofico di Hume,
nascosto all’interno del suo scetticismo, consiste in una radicalizzazione senza precedenti
dell’epoché cartesiana: se Cartesio aveva deluso le aspettative iniziali indirizzando l’epoché
verso una giustificazione dell’obiettivismo, Hume con il suo scetticismo mette in luce come
ogni conoscenza del mondo sia un «enigma inaudito», realizzando così il dubbio cartesiano
nella sua interezza (1935-36: 117). Era indispensabile una filosofia di questo tipo, una
filosofia assurda, per rendersi conto dell’enigmaticità della conoscenza. Infatti grazie a Hume
è possibile rendersi conto che la vita è operante (leistend) nel senso che produce un senso
d’essere: «l’intero mondo potrebbe essere un cogitatum costituito dalla sintesi universale delle
cogitationes molteplici e fluenti» (1935-36: 118). Questa rinascita, che è al tempo stesso una
radicalizzazione, del problema cartesiano fondamentale, intacca profondamente
quell’obiettivismo che per molto tempo aveva dominato.
39
I paragrafi dei quali è qui questione sono quelli della sezione specificatamente incentrata sulla crisi, recante il
titolo: «L’origine del contrasto moderno tra obiettivismo fisicalistico e soggettivismo trascendentale».
27
E’ quindi questa alta considerazione di Hume e del suo motivo nascosto che sta alla base
dell’opinione di Husserl nei confronti di Kant: il pensiero di Kant infatti è soltanto la risposta
al senso manifesto della filosofia di Hume, che però, come si è visto più sopra, non coincide
con il suo senso più proprio; ecco perché egli non può essere considerato come il vero
successore di Hume, caratterizzandosi piuttosto come uno tra gli esponenti del razionalismo
post-cartesiano, già estraneo al significato più autentico delle Meditazioni. Infatti Kant non si
richiama all’ego, bensì a delle forme e a dei concetti che sono ancora un momento obiettivo
della soggettività: quello che egli cerca di dimostrare con il suo metodo è che «il mondo che
appare intuitivamente deve già essere un prodotto della facoltà dell’“intuizione pura” e della
«ragion pura», di quelle stesse facoltà che si esprimono nel pensiero esplicito della
matematica e della logica» (1935-36: 122). Richiamandosi a questa fondazione soggettiva,
Kant è più preoccupato di giustificare l’obiettività, che non di capire l’operazione stessa,
tramite la quale il soggetto dà un senso (e quindi un essere) al mondo. Insomma a Kant non
interessa poi tanto l’origine del senso, quanto piuttosto il senso stesso, l’origine non essendo
altro ai suoi occhi che un mezzo per raggiungere lo scopo. Nonostante queste mancanze,
Husserl ritiene che Kant sia comunque degno del titolo di filosofo trascendentale, poiché
riconduce la possibilità stessa dell’obiettività alle forme concettuali, le categorie, proponendo
così «una grande filosofia sistematica, scientifica in un modo nuovo, in cui il ritorno
cartesiano alla soggettività della coscienza si ripresenta nella forma di un soggettivismo
trascendentale» (1935-36: 123).
Nell’ambito della secolare lotta tra obiettivismo e soggettivismo, Husserl propone la sua
soluzione (che ai suoi occhi è poi l’unica vera soluzione): la fenomenologia trascendentale.
Innanzitutto è indispensabile chiarire questo motivo trascendentale, ricco di sfumature e di
problematiche implicazioni. Il trascendentalismo husserliano si propone fondamentalmente
come una filosofia nella forma interrogativa, come un pensiero che si realizza nella forma di
una domanda: è infatti grazie ad una Rückfrage che si ritorna all’io, all’ego come fondamento
ultimo (o origine prima, dal momento che il procedere della Rückfrage è a «zig- zag»)
dell’essere e del valore: «la problematica trascendentale si aggira attorno al rapporto di questo
mio io - dell’“Ego” - con ciò che dapprima viene posto come ovvio in ve ce sua: la mia anima;
poi attorno al rapporto di questo io e della sua vita di coscienza con il mondo di cui l’io è
cosciente, e di cui conosce il vero essere, nelle proprie formazioni conoscitive» (1935-36:
125). Come si vedrà più avanti, è proprio perché la sua forma è quella di una domanda, che
questo pensiero può infine coincidere con l’idea stessa della filosofia.
Il motivo trascendentale inoltre si concretizza in quell’operazione (Leistung) della coscienza
che è una donazione di senso e di essere e che può venire effettivamente compresa solo una
volta che l’obiettivismo sia stato definitivamente superato. L’ego trascendentale è infatti in
primo luogo vita (Leben) nel senso forte e pieno del termine, vita come azione e come
percezione: il mondo è questo, che indico, che vedo, che tocco e proprio per questo esso ha un
senso per me. Qualsiasi matematizzazione o logicizzazione di questo terreno antepredicativo
non sarà altro che un «abito ideale, un metodo che deve servire a migliorare mediante
“previsioni scientifiche” in un “progressus in infinitum”, le previsioni grezze, le uniche
possibili nell’ambito di ciò che è realmente esperito ed esperibile nel mondo della vita»
(1935-36: 80). Con espressioni che ricordano «il rivestimento di idee gettato sopra il mondo
dell’intuizione» di Esperienza e giudizio, Husserl ribadisce la secondarietà di qualsiasi attività
scientifica, rispetto al darsi originario del mondo, come mondo che c’è già sempre: è questo
concetto di Lebenswelt, fondato prima nell’ego che nelle sue categorie, che permette di
superare ogni obiettivismo.
L’obiettivismo ha occultato l’idea di ragione dispiegantesi nella storia. Ci si sente autorizzati
ad avanzare un dubbio: come può Husserl proporsi di ritrovare o riscoprire qualcosa che di
per sé non è mai dato? L’idea come può essere al tempo stesso un qualcosa, al punto da poter
28
venire ricoperto dalle scienze 40 e un progetto, uno stimolo, un indice puntato verso un
orizzonte che mai potrà trasformarsi in un dato? L’idea è al tempo stesso un senso
definitivamente costituito e un movimento intenzionale la cui unità si costituisce
indefinitamente attraverso una serie ininterrotta di alienazioni e di prese di coscienza, proprio
perché il telos considerato di per sé stesso (l’idea di per sé medesima è un «tutto») non si
identifica con il telos quale esigenza della nostra ragione (l’idea per noi non sarà mai altro che
un compito). La meravigliosa duplicità dell’idea in senso kantiano, infinita e indefinita al
tempo stesso, permette a Husserl di dare un senso (indefinito) alla stessa esistenza storica
dell’uomo a partire dall’idea di una storia infinita (come teleologia). Se però nelle opere
precedentemente analizzate questa duplicità veniva sentita come pericolosa e si cercava di
porla in evidenza il meno possibile, anzi anche di nasconderla, facendo apparire solamente il
suo lato ideale e positivo, adesso sembra quasi che l’intreccio tra la dimensione verticale e
quella orizzontale sia completamente accettato. Certo questo non implica assolutamente che
tutte le difficoltà e le ambiguità vengano definitivamente chiarite, ma solo che si possano
osservare gli elementi in questione in un modo nuovo, più da vicino. A tal proposito la
tematica trattata non può che essere d’aiuto: se prima si trattava della logica, del tempo e del
mondo, adesso si tratta di noi, uomini della storia, e del nostro contributo alla costituzione del
senso. L’uomo ha un senso 41 in quanto custodisce un’idea, noi però non «sappiamo ancora se
questa Idea possa realizzarsi. Tuttavia, pur sotto questa forma presuntiva e in una universalità
indeterminata e fluida, noi la possediamo; abbiamo dunque l’idea di una filosofia, senza
sapere se e come sia da realizzare. Noi l’assumiamo come una presunzione provvisoria e
l’accettiamo a scopo di ricerca; da essa ci faremo guidare» (1929-31: 44). Come possediamo
questa idea? Il possesso non implica forse già sempre un avere, un tenere, un serbare? Come
si può possedere una tensione? Vivendola. Ma, ci si potrebbe ancora chiedere, si può davvero
vivere un’idea teleologica pura?
In realtà sembra che siano due le tendenze implicate nella concezione husserliana: da un lato
il senso della storia europea trova il suo fondamento in quel soggettivismo trascendentale che
40
Husserl parla di Kleid: un vestito, certo non è un vestito qualsiasi, ma ein Kleid von Ideen, comunque
presuppone ugualmente un tutto ben definito alla sua base. Infatti il compito della fenomenologia trascendentale
consiste nel cercare di togliere questa sovrastruttura che non fa che occultare la vera essenza dell’idea,
riattivando così l’origine prima del senso, dell’essere e della storia.
Tuttavia la posizione husserliana nei confronti della scienza è ambigua: se da un lato, come progetto, essa viene
valorizzata al massimo, essendo la possibilità stessa di una incarnazione dell’idea, dall’altro viene svalorizzata
nella sua precarietà sovrastrutturale: la scienza come progetto ha ancora quello slancio, quella tensione che la
scienza come sistema compiuto ha già perduto. Questa ambiguità nei confronti della scienza non fa in realtà altro
che riflettere l’ambiguità generale riguardante l’atteggiamento della fenomenologia nei confronti della scrittura
(quindi nei confronti del rapporto tra ideale e reale del quale la scrittura non è che l’esplicitazione): «Nell’arco
di pensiero che dalle Logische Untersuchungen conduce sino alla Krisis der Europäischen Wissenschaften,
Husserl non intermette di modulare questa ambiguità. Da una parte, la caduta nell’obiettivismo - la dimenticanza
della funzione delle scienze e del loro significato per l’uomo, insomma il tecnicismo in cui implode l’umanità
europea - si presenta come una forma di scrittura generalizzata, di cattiva ipomnesi dove il senso dell’origine
cade nell’oblio insie me al telos più autentico delle scienze; d’altra parte, la verità vivente, proprio perché
richiede una tradizionalizzazione assoluta che la esenti dalle vicissitudini empiriche dei suoi scopritori, esige il
ricorso a una scrittura, più autentica e vera del tecnicismo galileiano, ma nondimeno sempre legata al ricorso a
indici» (Ferraris 1997: 301). Insomma, la verità che idealizzata viene poi trasposta nel linguaggio al fine di poter
venire trasmessa ad altri, allo stesso tempo si realizza e si espone al pericolo dell’oblio e della distruzione.
41
Ovviamente sempre quello europeo: l’umanità europea è infatti caratterizzata da un telos situato in una
prospettiva infinita che attrae, come un polo catalizzatore, tutti i telos particolari delle singole nazioni noneuropee e che, a differenza della cultura europea (è infatti una questione di cultura se «In un senso spirituale
rientrano nell’Europa i Dominions inglesi, gli Stati Uniti, ecc., ma non gli esquimesi e gli indiani che ci vengono
mostrati nei baracconi delle fiere, o gli zingari vagabondi per l’Europa» 1935-36: 332) non hanno ancora
raggiunto il livello della scienza, della filosofia e quindi sono culture di un tipo antropologico che vivono in un
ambito ancora finito. Ci sono diversi livelli di vicinanza allo scopo ultimo, che sono in qualche modo normativi
(appendice XXVI «Gradi della storicità. Prima storicità» 1935-36: 529-530).
29
Cartesio non era stato capace di comprendere nelle sue implicazioni ultime (a questo
proposito Husserl parla di «ritorno all’Ego» e «via di coscienza»), dall’altro però si parla
anche di uno «Spirito» (Geist) o «Ragione», che diviene nella storia, che fa di essa il luogo
della sua rivelazione. Ma è possibile conciliare, senza cadere in pesanti contraddizioni, una
filosofia radicale dell’ego cogito e una filosofia dello spirito storico? Una filosofia
trascendentale può comprendere una filosofia della storia? Ebbene, l’importanza del tentativo
di Husserl risiede proprio nell’avere cercato di superare questa apparente antinomia. A tale
proposito può rivelarsi molto utile il confronto delle tematiche della Crisi con la quinta
Meditazione cartesiana, la quale si propone esplicitamente di colmare la grande lacuna della
filosofia di Cartesio, cioè la mancanza di una teoria dell’esistenza degli altri.
Alla base della teoria husserliana dell’alterità, sta la distinzione, tanto netta quanto
insuperabile, tra percezione immanente e percezione trascendente: se la prima può essere
oggetto di una riflessione fenomenologica pura, in quanto «effettivamente» compresa, la
seconda implica comunque e sempre uno scarto, una deficienza che nessuna riflessione potrà
mai colmare. Infatti gli altri ego sono sempre esterni, trascendenti rispetto a me, ed io li posso
conoscere (con tutti i dovuti limiti implicati da una conoscenza di questo tipo) solo
costituendoli nel mio ego, ma - e qui risiede l’interesse maggiore di questa teoria - l’altro si
costituisce in me precisamente come altro, estraneo che mi sfugge, che esiste come me e con
il quale io posso entrare in relazione, ma che non sarà mai «me».
Sono proprio queste considerazioni sul rapporto tra inglobante e inglobato che possono
gettare luce sugli enigmi della storia. Nelle Meditazioni cartesiane Husserl propone il
concetto di empatia (Einfühlung) che racchiude in sé il mistero della costituzione dell’altro
all’interno stesso del proprio, dell’inerenza dell’altro in quanto altro alla vita propria dell’ego.
Da un lato è vero che un fenomeno è tale solo per e in una coscienza, tuttavia dall’altro lato è
anche vero che ciò che è nella mia «sfera appartentiva» non si caratterizza affatto come una
modalità di me stesso, come un contenuto della mia coscienza: infatti l’altro si offre a me
sempre in quanto altro. E’ grazie ad una «appresentazione», che è una appercezione per
analogia, che si costituisce in me l’altro («nella mia monade un’altra monade» 1929-31: 135),
che ha fenomenologicamente luogo come modificazione di me stesso (no n esaminiamo in
profondità questa Meditazione, che esigerebbe già di per sé stessa un’analisi autonoma, ma
cerchiamo di ricavare da questi brevi cenni un ausilio per meglio comprendere la
problematica storica). Che cos’è in questione nella conoscenza dell’altro? La costituzione
fenomenologica. Tale costituzione, che si tratti di cose o di persone, ci pone sempre di fronte
al paradosso di una immanenza che è nel contempo apertura verso una trascendenza. Questo
paradosso raggiunge il punto culminante proprio nella costituzione dell’altro, perché in questo
caso l’oggetto intenzionale è un soggetto, esattamente come chi è all’origine dell’intenzione.
Tuttavia non appena ci si rende conto che questa costituzione non è reale, bensì intenzionale,
ogni paradossalità svanisce. Ma non è tutto: l’altro che si costituisce in me come
costitutivamente altro da me, si identifica con un’ idea, sempre approssimata 42 e tuttavia mai
raggiunta, tale però da rivestire una importante funzione regolativa: «nell’esperienza
dell’altro, così com’esso mi si dà direttamente quando io ne approfondisco il contenuto
ontico-noematico (puramente come correlato del mio cogito, la cui struttura particolare
dev’essere ancora mostrata), io non ottengo che una guida trascendentale» (1929-31: 114) 43 .
42
Dal momento che si tratta della tematica dell’alterità, bisognerebbe forse dire «sempre appresentata»; inoltre è
interessante considerare che, come l’appresentazione presuppone sempre un nucleo di presentazione, così anche
l’approssimarsi all’idea presupporrà sempre un nucleo di prossimità: è nello scarto e nella negazione che si
insinua la positività dell’infinito.
43
A questo proposito è doveroso richiamarsi brevemente alla concezione dell’idea di infinito quale è stata
esposta da Lévinas, poiché viene esplicitamente esaminata la funzione dell’alterità per la costituzione dell’Idea.
Anche Lévinas utilizza come punto di partenza per le proprie analisi le Meditazioni metafisiche di Cartesio,
andando però oltre di esse, non seguendo Cartesio nel suo argomentare l’esistenza di Dio a partire da un’idea
30
Questo è stato il grande tentativo husserliano al fine di superare le difficoltà incontrate dalla
nozione di storia in una filosofia del cogito: Husserl pensa di riuscire, proprio laddove Hume
e Cartesio avevano fallito, grazie alla sua concezione di idealismo intenzionale. Questo
idealismo «costituisce» ogni essere estraneo nell’io, ma non riducendolo all’io, bensì
lasciandolo persistere nella sua alterità44 . E’ in questo senso che l’alter ego, che si costituisce
in me pur non essendo un mio contenuto, può fare luce sulla concezione husserliana della
storia: l’idea che esso implica rende infatti possibile giustificare una autentica trascendenza
(che non si risolve mai in una immanenza, ma sempre in una trascendenza nell’immanenza)
della storia sul fondamento del soggettivismo trascendentale. L’idealismo intenzionale riesce
in questo proposito grazie all’idea in senso kantiano che, forte della sua duplicità, pone in
connessione l’io e la storia, infatti come osserva Ricoeur «occorre sottolineare il ruolo
mediatore tra la coscienza e la storia che viene assegnato ad alcune Idee, Idee in senso
kantiano, concepite come dei compiti infiniti, che implicano in effetti un compito senza fine e
quindi una storia» (1949: 282). La storia è quindi il luogo nel quale l’uomo cerca di realizzare
quell’idea di ragione che costantemente lo guida: certo dal punto di vista dell’idea stessa, che
è disposta all’infinito, qualsiasi mondo circostante finito non sarà altro che una sua
finitizzazione (sempre indeterminata in quanto inerente ad un orizzonte) e la sua completa
realizzazione in esso sarà sempre ancora a venire.
Questo significa che il pensiero può produrre soltanto verità relative? L’idea di verità ha un
senso per l’uomo? Sì, perché di fatto l’idea di verità (o di ragione o di filosofia) è il motore
noetico e il correlato noematico della stessa soggettività trascendentale: è l’essenza stessa
dell’intenzionalità. A ben guardare una teleologia è già sempre racchiusa in un idealismo
intenzionale, per il quale il senso originario non è che il suo senso finale: infatti l’intenzione
mira sempre già oltre sé stessa, il suo significato è racchiuso in quella tensione che essa
rappresenta. Grazie alla dimensione intenzionale del cogito trascendentale l’idea diviene
evidente nelle sue realizzazioni parziali, non potendolo però mai essere nel suo contenuto più
proprio che, essendo infinito, si nega per definizione ad ogni intuizione: si può avere una
evidenza determinata semplicemente dell’idea (come attualità del potenziale), ma mai di ciò
(che si avrebbe in noi precedentemente alla conoscenza dell’esistenza di Dio), bensì utilizzando la particolare
struttura dell’idea di infinito per indicare la singolare natura formale della relazione metafisica tra il Medesimo e
l’Altro: l’Altro rompe l’imperialismo del Medesimo affidandogli un compito. La paradossalità dell’idea di
infinito risiede secondo Lévinas nel fatto che il suo ideatum, cioè ciò che con essa si pensa o si ha di mira, vada
costantemente al di là di sé stesso quale atto di un pensiero, quindi pensando l’idea di infinito, il pensiero pensa
sempre di più di quanto potrebbe in realtà pensare. Con l’idea di infinito emerge l’idea stessa della trascendenza,
della vera e propria alterità: «L’infinito è il carattere proprio di un essere trascendente in quanto trascendente,
l’infinito è l’assolutamente altro. Il trascendente è l’unico ideatum di cui possiamo avere in noi solo un’idea;
esso è infinitamente lontano dalla sua idea - cioè esteriore - perché è infinito» (1961: 47). L’idea dell’infinito
scavalca le barriere dell’immanenza, è una «sporgenza dell’essere sul pensiero che pretende di contenerlo»
(1961: 24-25), è un interrogativo sempre in grado di mettere il soggetto in discussione. Tale idea non può venire
tematizzata od oggettivata, poiché così facendo la si ridurrebbe alla presenza dell’Altro nello Stesso, rispetto a
cui essa segna invece un momento di rottura; l’unico termine adatto a descrivere il procedere dell’idea è:
Desiderio. Proprio perché il Desiderio pensa sempre di più di quanto non pensi può «misurare» l’infinità
dell’infinito. Perché Desiderio? Non è forse un termine assimilabile all’amore o al bisogno? No, dice Lévinas,
perché al di là della fame che può essere saziata e dei sensi che possono venire soddisfatti, esiste l’altro (che è
tuttavia sempre l’Altro: la relazione etica lévinassiana è assolutamente asimmetrica, quindi non assimilabile al
rapporto Ich und Du del quale parla Buber), l’assolutamente altro, il Desiderio nei confronti del quale non può
venire placato, non perché deriva da una fame infinita, ma semplicemente perché non chiede alcun nutrimento.
Ecco che l’idea d’infinito si identifica con la coscienza morale, perché nel suo volto l’Altro mi appare come ciò
che mi misura: l’infinito misura il finito, non limitandolo ma mettendo continuamente in questione la sua libertà.
In questo senso il Desiderio dell’infinito ha il rigore dell’esigenza morale.
44
Questa è precisamente la ragione per la quale la critica che Lévinas rivolge alla quinta delle Meditazioni
cartesiane di Husserl non coglie nel segno: Husserl non tenta assolutamente di ridurre l’alter ego alla stessa
coscienza trascendentale dell’ego, l’altro infatti rimane sempre tale e la sua conoscenza (intesa come
comprensione inglobante) è sempre ancora a venire.
31
di cui essa è idea (questo argomento era già stato affrontato da Husserl in Idee I). Ma quale
può essere l’evidenza dell’idea in quanto tale? E’ l’evidenza di una tensione, di un compito,
vuoti però di qualsiasi oggetto determinato.
Adesso risulterà chiara la circostanza per la quale si può a ragione affermare che l’idea
teleologica racchiuda tutte le altre idee in senso kantiano precedentemente incontrate: essa le
comprende tutte poiché si rivela come la loro condizione di possibilità: essa è infatti
l’evidenza stessa della possibilità nella sua infinita apertura. Come polo d’intenzione puro,
l’idea è la possibilità regolatrice (non dimentichiamo che è solo come regola che l’idea può
essere presa in considerazione) dell’apparire e la certezza finita (ecco perché l’idea
semplicemente e non il suo contenuto è evidente) di una determinabilità indefinita. L’idea è
quindi il tramite di un rapporto: senza di essa la fenomenologia si risolverebbe in un
solipsismo e l’obiettività sarebbe impossibile, il cogito non penserebbe il mondo e la storia,
ma penserebbe solo sé stesso e l’intenzionalità si risolverebbe in un gioco senza significato.
A questo punto occorre fare una precisazione: la distinzione tra intenzione ed intuizione,
fondamentale in Kant, è sempre parsa non sussistere (in maniera esplicita) nella filosofia
husserliana, secondo la quale solo un nesso inscindibile tra le due poteva generare qualcosa
come un senso. Basti pensare che, nelle Ricerche logiche, quei termini che risultavano privi di
una intuizione riempiente, si diceva che fossero intenzionati solo «simbolicamente», visto che
il loro riferimento era ad una intuizione determinata nella sua assenza (ma non ad una
intuizione del tutto mancante!). Intenzione ed intuizione erano (o meglio, sembrava no essere)
tutt’uno. Tuttavia, anche ammesso che questo sia vero per le opere anteriori45 , non si può fare
a meno di notare come l’idea teleologica non possa, per la sua stessa essenza, venire inglobata
in questa rigida corrispondenza: la certezza, senza intuizione corrispondente, della
determinabilità infinita dell’oggetto in generale, non è forse una intenzione vuota che fonda e
rende possibile ogni intuizione fenomenologica determinata (e, di conseguenza, anche ogni
intenzione particolare)? E non è così anche forse per tutte le altre forme che l’idea teleologica
assume (come idea di una logica pura, come idea di una corrente infinita dei vissuti e come
idea di un mondo-orizzonte)? L’idea infinita della ragione è pura di qualsiasi intuizione
perché è condizione di possibilità di qualsiasi intuizione, quindi se da un lato segna lo scacco
di qualsiasi rigida corrispondenza tra intuizione ed intenzione, dall’altro essa ne è la più
compiuta realizzazione (purché non la si concepisca come un tutto fisso e dato): l’idea è
infatti la possibilità stessa della coscienza di intenzionare la totalità infinita degli oggetti.
Tuttavia l’idea in senso kantiano non viene mai descritta direttamente o tematizzata da
Husserl in quanto tale, ma solo sempre nei suoi atti finiti, nelle sue intuizioni e nei suoi
oggetti: questo avviene perché l’idea in senso kantiano si caratterizza all’interno della
fenomenologia come un concetto operatore e non come un concetto tematico: l’idea è un
compito (sempre ancora da fare), e non un dato. Da un punto di vista ancora più profondo, si
potrebbe osservare che l’intenzionalità pura non può venire tematizzata dalla fenomenologia
perché essa è proprio ciò a partire da cui la fenomenologia si è instaurata, riconoscendo sé
stessa come lo scopo ultimo di tutta la filosofia. La fenomenologia non può tematizzare l’idea
per l’ottima ragione che non può tematizzare le proprie origini, infatti la sua Endstiftung sarà
sempre indefinitamente differita, mancata nel suo contenuto, anche se sempre evidente nel
suo valore regolatore.
45
A questo proposito si veda la posizione di Ricoeur – secondo cui la fenomenologia di Husserl è la
realizzazione di quella fenomenologia latente e di quella preoccupazione ontologica che avevano animato la
filosofia di Kant (infatti egli sostiene che se Kant «limita e fonda» la fenomenologia, Husserl «la fa») - il quale
scrive: «La chiave del problema è la distinzione, fondamentale in Kant, ma totalmente sconosciuta in Husserl, fra
l’intenzione e l’intuizione: Kant dissocia radicalmente il rapporto a qualche cosa […] e la visione di qualche
cosa. Lo Etwas = X è una intenzione senza intuizione. E’ questa distinzione che sot-tende quella del pensare e
del conoscere; essa ne mantiene non solamente la tensione, ma l’accordo» (1954-55: 57).
32
Dell’idea, così come dell’origine e del fine (non sono forse tutt’uno?), non può esser detto
nulla, poiché essi sono precisamente ciò a partire da cui qualcosa in generale può essere detto.
Questa è la ragione per la quale l’idea ha bisogno di una storia, perché solo la storia le può
fornire quell’evidenza in grado di realizzarla sempre (e solo) parzialmente: così l’idea si
espone e, in un solo gesto, si rivela e si lascia minacciare. L’evento della storia impone
all’avvento del senso la propria finitudine.
Avviene nel VI secolo a.C. : l’idea di ragione si rivela ad alcuni uomini in Grecia. Prima di
domandarsi «perché», è forse opportuno soffermarsi sugli elementi in questione e sul loro
rapporto. Un’idea infinita si manifesta ad un uomo finito. Sarà in grado egli di comprendere
l’infinito? Ovviamente no. Tuttavia l’uomo si può impegnare in una progressiva
esplicitazione di esso, e questo diventerà quel compito capace di dare un senso alla sua
esistenza. Non bisogna però dimenticare che, concretizzandosi in una dimensione finita, l’idea
si altera, si allontana da quella che si definisce come la sua più autentica essenza: ma se così
non fosse, l’idea non sarebbe reale e il mondo non avrebbe un senso. Questo per quanto
riguarda l’inizio. Poi, con il passare del tempo 46 , le scienze, quelle stesse scienze che l’idea
aveva reso possibili, occultano la sua infinità, fino a farla scomparire. E’ la crisi delle scienze
europee. Il filosofo, quale «funzionario dell’umanità», ha in questa situazione (e sempre) il
dovere di essere responsabile, affinché questa crisi abbia fine, e lo può fare illuminando a
ritroso, cioè a partire dai risultati, il senso originario. Il senso autentico dell’atto costituente si
può già decifrare a partire dall’oggetto costituito: questo, più che essere una necessità
esteriore, è il riflesso della natura stessa dell’intenzionalità: il senso originario di ogni atto
intenzionale è infatti il fine al quale esso tende.
Bisogna disfare tutte le sedimentazioni e ridurre la «pericolosa ingenuità» galileiana per
ridestare il vero senso della storia. Ma ci sarà un senso già di per sé stesso costituito sotto
questa molteplicità di strati? Non sembrerebbe davvero possibile poter dare a questa domanda
una risposta affermativa, dal mome nto che il senso della storia si è caratterizzato sin dal
principio come un’idea, e come qualsiasi idea che non sia illusoria, anche questa non sarà
altro che un progetto, una tensione alla quale gli uomini potranno indefinitamente partecipare,
ma mai realizzare o concretizzare nella sua interezza. Ma se è a partire dalle sedimentazioni
stesse che si può risalire al senso originario, allora non avranno anche queste un senso?
Nell’indefinito divenire dell’idea, non avrà forse avuto anche Galileo il suo posto e la sua
funzione? La crisi della quale egli è stato l’iniziatore involontario è stata davvero un errore
oppure è stata semplicemente una necessità della storia 47 ?
Non è un problema di secondaria importanza quello riguardante la funzione attribuita da
Husserl alla questione della crisi, poiché nella sua chiarificazione si stabilisce anche il senso
della teleologia. Se nella storia del senso vi fosse un momento di non-senso, ciò
significherebbe che non tutta la storia è dotata di un senso, che ci sono delle parentesi; ma
questo si potrebbe davvero concepire in una prospettiva teleologica? E’ Husserl stesso a
fornire le indicazioni necessarie affinché non vi sia il rischio di cadere in contraddizioni di
questo tipo: occorre fare una distinzione netta tra la storicità interna e la storicità esterna, in
46
E’ nel tempo che l’idea si realizza: il sovratemporale, che è in realtà l’onnitemporale, si manifesta nel
temporale, esplicitando così il suo essere contemporaneamente dipendente dal tempo e sua condizione. L’idea è
condizione del tempo poiché solo grazie ad essa esso ha un senso e una direzione; ma è anche dipendente dal
tempo perché solo in esso l’idea può avere luogo.
47
La posizione di Husserl non è a questo proposito molto chiara: talvolta presenta la crisi come un accadimento
empirico, quindi contingente ed estraneo alla teleologia della ragione, semplice errore di un uomo che ha poi
condizionato gli eventi futuri; altre volte invece essa è presentata come il frutto di un errore etico-filosofico
radicale, che ha segnato il fallimento di quella missione di responsabilità (ciascuno di noi con il suo operare è
responsabile del divenire dell’idea) che è propria di ogni filosofo; infine si possono trovare alcuni punti, rari, nei
quali la crisi viene presentata da Husserl come una necessità eidetica implicata, come sua «naturale»
conseguenza, dalla sedimentazione stessa del senso.
33
cui è la prima, quale autentico apriori storico, ad essere il legittimo fondamento della seconda.
L’essenza della storia, che è la storicità interna, non potrà mai venire intaccata da nessuna
degradazione «esterna»: l’infinità dell’idea non verrà mai oscurata dalle sue realizzazioni. Il
senso insomma può sì perdere il proprio valore, ma non potrà mai perdere la sua idealità.
Come già nelle Ricerche logiche, Husserl si appoggia qui alla distinzione tra idealità in senso
«specifico» e idealità in senso «normativo», ma - come d’altra parte si era già ampiamente
avuto modo di osservare nel secondo paragrafo del presente lavoro - non sembra che tale
distinzione possa davvero essere rigidamente mantenuta: non è forse stato l’autore stesso a
dire che il telos spirituale dell’umanità europea è un’idea infinita che si caratterizza come un
fine pratico della volontà e che permette così il delinearsi di una fase retta da idee normative?
Non è forse vero inoltre che dopo essersi appellato all’imperativo dell’univocità e avere
condannato l’equivocità quale sede di ogni errore filosofico, egli precisa in nota che «la
conoscenza obiettiva e assolutamente assodata della verità è un’idea infinita» (1935-36: 545,
nota 10)? Allora è chiaro che se la storicità interna riflette il lato infinito dell’idea, la storicità
esterna riflette quello indefinito: la storia di per sé stessa avrà sempre il suo senso puro e
ideale e non ci sarà mai alcun obiettivismo in grado di metterla in discussione; invece la storia
quale la conosciamo noi è un susseguirsi continuo di svelamenti e occultamenti, di momenti
nei quali seriamente ci chiediamo se essa abbia un senso: questo avviene perché la nostra
storia è tale quale noi giorno dopo giorno la realizziamo, noi che cerchiamo indefinitamente
di darle un senso, ma che non le daremo comunque mai il «suo» senso, poiché esso non potrà
mai derivare dal nostro operare.
L’identità del senso, come fondamento dell’univocità e come condizione della riattivazione
del senso originario delle scienze obiettive, sarà allora sempre relativa, indeterminata, in
quanto scaturente da un progetto (che già per la sua stessa definizione è finito) aperto: essa
sarà quel compito che l’uomo dovrà sempre cercare (senza mai poterci riuscire) di realizzare.
Allora l’univocità assoluta è sì inaccessibile, ma come può esserlo un’idea in senso kantiano,
cioè sempre raggiungibile, nei suoi risultati parziali, ma mai nella sua completa infinità. In
questo senso l’idea, come indefinito regola tore, è caratterizzata da una negatività che lascia
alla storia i suoi diritti: la falsificazione dell’infinito attuale in un indefinito (ciò stesso di cui
Hegel criticava Kant e Fichte) permette ad ogni momento della storia di contribuire alla
realizzazio ne dell’idea. E quali saranno invece le caratteristiche dell’idea nella sua infinità?
Quale funzione possiamo noi attribuire al risvolto propriamente infinito dell’idea? L’idea
considerata di per sé stessa non è assimilabile alla storia, bensì alla sua condizione di
possibilità: ma allora come verrà definito l’apriori di una storia che si caratterizza come il
divenire dell’idea? Il merito di Husserl risiede proprio nell’avere individuato un apriori
concreto, che si potesse vivere nel modo dell’orizzonte: l’apriori della storia è quindi quel
sapere originario che racchiude la totalità delle esperienze storiche possibili. Questa nozione
di apriori «converte dunque la condizione di possibilità astratta del criticismo nella
potenzialità infinita concreta che vi era segretamente presupposta; essa fa così coincidere
l’apriorico e il teleologico» (Derrida 1962: 174).
L’intenzionalità pura nella sua essenza, che si realizza come progetto di un senso del mondo,
è la radice stessa della storicità. Contro qualsiasi speranza di un senso unico (da intendersi sia
come unico senso, sia come unica direzione), il nostro compito è quindi quello di procedere a
«zig- zag» in una storia di cui per capire gli inizi, occorre partire dalla storia e dal senso quali
attualmente esperiti, ma nel contempo se non si sono compresi gli inizi, lo sviluppo non verrà
mai inteso quale sviluppo di senso. Forse risiede proprio in questo «zig- zag» (che esplicita
meravigliosamente il nesso infinito-indefinito inerente all’idea) il significato di ciò che prende
il nome di storia.
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