(Enciclopedia Garzanti, le garzantine, Filosofia, 2004

(Enciclopedia Garzanti, le garzantine, Filosofia, 2004)
SCETTICISMO termine (dal gr. sképsis, ricerca, dubbio) con cui si indica, in
generale, l'atteggiamento di chi nega ogni possibilità di conoscere il vero;
storicamente lo scetticismo è una corrente filosofica che sorge e si sviluppa nel
mondo antico (secc. IV a.C.-II d.C.), ed è tradizionalmente suddivisa in tre fasi:
pirronismo, scetticismo dell'Accademia e neoscetticisino.
1) La prima, che risale a Pirrone e a Timone di Fliunte suo discepolo, si colloca tra la
seconda metà del sec. IV e il sec. III a.C.; la seconda si radica nell’Accademia
platonica con Arcesilao di Pitane e Carneade nei secc. III e II a.C., mentre la terza si
estende per il periodo che va dalla fine del sec. I a.C. a tutto il sec. II d.C., e si
distingue a sua volta nel cosiddetto neopirronismo dialettico di Enesidemo e di
Agrippa, e nel neopirronismo empirico di Sesto.
Nel pirronismo la scepsi si determina come negazione dell'esistenza di un significato
assoluto della realtà: le cose sono tutte egualmente incerte e indiscernibili, sì che di
fronte a esse è saggio rimanere senza opinioni e approdare all’aphasìa, cioe alla
sospensione di ogni discorso positivo, e, sul piano pratico. alla ataraxìa o
imperturbabilità, che sole possono dare all'uomo la felicità e con ciò realizzare il fine
ultimo dell’indagine filosofica.
2) Nella seconda fase, quella detta «accademica», lo scetticismo radicalizza le proprie
posizioni: innanzitutto evita di avanzare una propria verità e si limita a esaminare
criticamenie le tesi dei dogmatici (in particolare degli stoici), mettendone in luce
contraddizioni e incertezze; ciò che occorre è porsi in un atteggiamcnto di epoché o
sospensione totale dell'assenso (Cicerone, Lucullo, XVIII, 59; XXI, 67; Sesto
Empirico, Contro i matematici, VII, 156-157), al punto però che lo stesso discorso
scettico non si sottragga alla radicalità del dubbio: noi non possiamo neanche
affermare di sapere di non sapere, sostenevano concordemente Arcesilao (Cicerone,
Varrone, XII, 45) e Carneade (Cicerone, Lucullo, IX, 28). Anche in sede pratica, il
criterio del «ragionevole» di Arcesilao e del «persuasivo» di Carneade si configurano
sì come la guida all'azione, ma senza alcuna pretesa dogmatica: essi non sono ciò che
ci condurrà alla felicità, ma un orientamento alla prassi secondo il riconoscimento di
ciò che è conveniente e opportuno, e secondo la considerazione di un numero
preponderante di ragioni (probabilismo) che suscitano la nostra credenza.
3) Nella terza fase (neoscetticismo o neopirronismo) al centro della speculazione sta
il problema della epoché: con Enesidemo e Agrippa compito principale diviene
quello di formulare in modo organico tutte le «obiezioni» (trópoi) opponibili alle
costruzioni dogmatiche. Ma poiché, anche qui, il significato dei trópoi è quello della
negazione radicale dell’esistenza del vero, la negazione non si pone essa stessa come
criterio dogmatico di verità, bensì solo come negazione che nega, oltre il suo oggetto,
anche se stessa, e non dà valore di verità al proprio negare. Anche Sesto Empirico
interpreta allo stesso modo la tropologia, quando afferma che le espressioni scettiche
«si possono annullare da se stesse, circoscrivendo se stesse con le cose di cui si
dicono: così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma anche se
stesse espellono insieme con gli umori» (Schizzi pirroniani, I, 206).
1
• Lo scetticismo nel pensiero moderno. Mentre lo scetticismo antico conclude
negando la possibilità di qualsiasi verità, in età moderna lo scetticismo si configura
con tratti meno rigidi. Presentandosi piuttosto come affermazione della soggettività
della coscienza. Nel rinascimento - dove l'espressione più significativa dello
scetticismo è rappresentata da Montaigne (Apologia di Raimondo di Sabunda) l'illusione della verità viene ancora una volta dissolta attraverso il rilievo delle
contraddizioni tra percezioni e tra concetti, in cui incorre il soggetto quando voglia
presentarsi come norma unitaria e costante del vero. Ciò che Montaigne contesta al
pensiero moderno è la capacita del sapere umano di cogliere leggi universali del reale
in nome di una pretesa armonia tra l’essere e il pensiero. Ma, di contro al carattere
incerto della conoscenza del mondo esterno, lo scetticismo rinascimentale avverte,
nel campo della morale, il contenuto stabile e positivo dell'autocoscienza, che,
avendo il suo centro di gravità in se stessa, si presenta - in contrapposizione ai
contenuti delle leggi positive, della convenzione e della religione - come espressione
di una legge naturale, nella sua essenza immulabile e identica per tutti. Nel
Settecento, il passaggio dello scetticismo a radicali posizioni soggettivistiche si
compie con la filosofia di Hume. Nel suo pensiero, mediante il ricorso a fattori
extralogici ed extrarazionali, come la credenza e il senso comune, lo scetticismo si
presenta come uno «scetticismo mitigato», che concilia la critica teorica radicale con
l'accettazione di criteri soggettivi del vero, adeguati alle necessità della vita umana.
Appare così abbastanza netta l'opposizione tra scetticismo antico e scetticismo
moderno: mentre quest'ultimo si volge soltanto contro il pensiero razionale e pone
come vero il contenuto della coscienza sensibile, lo scetticismo antico, pur
riducendosi anch'esso ai fatti della coscienza, non dà mai loro l'investitura della
verità. IL RISULTATO DI ENTRAMBI È LA SOGGETTIVITÀ DEL SAPERE,
ma mentre i moderni affermano la sensazione come criterio di verità, gli antichi
dimostrano la soggettività di ogni sapere, mettendo in rilievo la non-verità di tutto
ciò che vuol passare per vero, sia esso sensazione o pensiero. La radicalità del loro
dubitare è dunque «la negatività cosciente e universale; come cosciente, essa
dimostra, come universale, estende a tutto la sua non verità dell'oggettivo» (G.W.F.
Hegel. Lezioni sulla storia della filosofia). Ma proprio in questo atteggiamento
radicale di universale negazione della verità oggettiva, lo scetticismo è da
considerarsi, secondo il giudizio di Hegel, non già come «il più pericoloso [...]
avversario della filosofia», ma come momento positivo di essa, che non nega la
mutevolezza delle cose né si sottrae alla necessità della conoscenza pensante.
2