Marco Sgarbi Cosa significa scrivere una storia della tradizione? Il

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Unanimemente si riconosce il valore di
quei trattati in cui è ribadita l’unità dell’essere vivente, «ma l’assurdo è che, dinanzi a un così diffuso e generalizzato consenso sugli aspetti centrali della dottrina
dell’antico medico, ognuno poi, nel lavoro
di appropriazione critica del suo pensiero,
abbia ippocratizzato a proprio piacimento»
(pp. 312-313).
Resta comunque il fatto che, al di là
delle letture di parte, «per tutto il Settecento la vocazione all’ippocratismo si sposa con le aspirazioni di chi avverte la necessità di una rifondazione teorica, epistemologica e terapeutica della medicina, in
grado di ridotarla di quella unità, coerenza
e certezza che pare perduta di fronte al pullulare di tendenze e teorie profondamente
eterogenee e in reciproco contrasto» (p.
313).
Il rapporto della medicina settecentesca con Ippocrate costituisce forse il più
importante piano di lettura di questo bel libro, ma sicuramente non l’unico, in quanto
esso fornisce tutta una serie di spunti che
vanno ben al di là di quello che abbiamo
scelto. Si potrebbe, per esempio, prendere
come alternativa un taglio che privilegi il
rapporto tra anima e corpo e la conseguente nascita della psicologia scientifica, oppure una lettura concentrata sui testi del
Corpus Hippocraticum che evidenzi la ricchezza di suggerimenti in essi contenuti, o
anche il puro e semplice percorso compiuto dalla medicina del Settecento nel tentativo di chiarire a se stessa e agli altri le
strade da intraprendere. Si tratta insomma
di un libro estremamente ricco, capace di
sollecitare, e di soddisfare, interessi e curiosità diverse.
Marco Sgarbi
Cosa significa scrivere
una storia della tradizione?
Il caso dello scetticismo
M. DE CARO, E. SPINELLI (a cura di),
Scetticismo: Una vicenda filosofica, Carocci,
Roma 2007, 298 pp.
Che cosa significa scrivere una storia della
tradizione? In particolar modo che cosa significa scrivere una storia delle tradizioni
filosofiche? Scrivere la storia di una tradizione ad un primo approccio potrebbe essere simile a scrivere la storia di un’idea.
Una tradizione filosofica, intesa nel senso
di un insieme di dottrine coerenti, è come
un’idea che, pur cambiando le sue espressioni esteriori, rimane sempre la stessa nel
corso della storia. Una storia di una tradizione filosofica sarebbe la storia di tracce
più o meno nascoste, di incontri più o meno mancati di dottrine, di pensieri dotati di
una indiscutibile unità concettuale. Scrivere una storia della tradizione sarebbe ritrovare la transizione continua ed insensibile che collega con graduali passaggi le
dottrine filosofiche a ciò che le precede, al
momento presente e a ciò che le segue. Un
tale tipo di storia della tradizione neutralizza però la specificità e l’originalità del
pensiero dell’autore: esso perde la propria
identità ed è ricondotto all’interno dell’insieme delle dottrine che compongono la
tradizione. Se si pensa alla storia delle due
più grandi tradizioni filosofiche occidentali, il Platonismo e l’Aristotelismo, sono facilmente riconducibili a pochi postulati
che sono così ampi e generici che possono
essere applicati a qualsiasi filosofo della
storia; per esempio la teoria delle idee e
l’opposizione sensibile-intellettuale per il
primo o la multivocità dell’essere e il primato della teoresi sulla prassi per il secondo. La storia di una tradizione diviene così
la storia di una continuità artificiale che
uno storico elabora e crea a sua discrezione. Non è questo sicuramente il miglior
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Note Cronache Recensioni
modo di scrivere una storia di una tradizione. Infatti, scrivere la storia di una tradizione non significa solo riconoscere i tratti
comuni di vari filosofi con un determinato
insieme di teorie ma significa individuare
all’interno della tradizione stessa gli elementi di novità e di originalità che un autore ha portato. Come scrive Tom Rockmore nella sua storia della tradizione kantiana nel XX secolo, non è tanto interessante
trattare gli argomenti che continuano e riprendono l’opera di Kant quanto indagare
quei pensieri che, partendo da presupposti
kantiani, diventano autonomi. Scrivere,
per esempio, una storia dell’aristotelismo
non significa perciò rintracciare dottrine
aristoteliche nei vari autori della storia della filosofia, ma individuare quei pensieri
aristotelici che nella storia diventano indipendenti dal pensiero di Aristotele. La storia di una tradizione non coincide però con
la storia della critica, la quale considera in
modo esclusivamente negativo il contributo della tradizione filosofica. La storia di
una tradizione ha come primo obiettivo
l’indagine del livello di profondità interpretativa con il quale un filosofo ha affrontato la tradizione. Collocare Kant, ad esempio, nella tradizione aristotelica non significa semplicemente individuare se nel pensiero kantiano ci sono delle dottrine aristoteliche ma significa capire in che modo il
filosofo di Königsberg ha ricevuto la tradizione filosofica aristotelica e l’ha rielaborata. In questo senso la storia di una tradizione non può prescindere dalla storia delle
fonti (Quellengeschichte).
A differenza della storia della tradizione platonica e aristotelica, che sono confinate nell’ambito della filosofia, la storia
della tradizione scettica apre gli orizzonti
ad approcci disciplinari anche diversi dalla filosofia, come la letteratura, la religione
e la scienza. Scrivere una storia completa
della tradizione scettica è così un’impresa
pressoché impossibile e necessita una
competenza interdisciplinare ed una capacità di coesione argomentativa che forse
solo Michael Albrecht, nel suo articolo
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Skepsis, Skeptizismus per l’Historisches
Wörterbuch der Philosophie (Schwabe, Basel 1995, vol. 9, pp. 938-974), è riuscito a
raggiungere. Albrecht, tuttavia, per raggiungere la tanto auspicata completezza ed
esaustività, ha scritto la storia della tradizione dello scetticismo in modo dossografico, cioè analizzando tutte le occorrenze
pervenute del concetto nella storia della filosofia. Il risultato dal punto di vista teorico è che lo scetticismo sembra essere una
dottrina monolitica ben stabilita che con
piccole variazioni attraversa tutta la storia
della cultura occidentale. La storia della
tradizione scettica proposta da Mario De
Caro ed Emidio Spinelli in Scetticismo:
Una vicenda filosofica, invece, analizza,
secondo le più moderne metodologie storiografiche, i momenti più significativi della tradizione scettica. Il problema, come
dice Michel Foucault nell’Archéologie du
savoir, non è più quello della tradizione e
della traccia, ma quello della frattura e del
limite, non è più quello del fondamento che
si perpetua, ma quello delle trasformazioni
che valgono come fondazione e rinnovamento delle fondazioni. Il merito principale del libro è quindi la sua fondazione teorica, la scelta di indagare le fratture del
pensiero filosofico dalle quali emergono i
problemi filosofici. La storia della tradizione dello scetticismo di De Caro e Spinelli
diviene così la storia del problema dello
scetticismo. Lo scetticismo pone delle domande alle quali i filosofi nella storia hanno dato la loro risposta. I curatori del volume hanno scelto di investigare in particolare la risposta epistemologica a ciò che loro chiamano la sfida scettica (p. 9). La risposta non è tuttavia una ed univoca, ed è
questo il motivo per il quale nell’introduzione non si parla di scetticismo al singolare ma di «forme dello scetticismo». L’approccio adottato dai curatori è simile a
quello di Robert W. Sharples per la sua storia della tradizione aristotelica in Whose
Aristotle? Whose Aristotelianism? (Ashgate, Aldershot 2001).
I dieci saggi che compongono il volume
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sono divisi in tre sezioni. La prima sezione
indaga lo scetticismo dall’Antichità al Rinascimento con i saggi di Emidio Spinelli,
Alfonso Maierù e Luisa Valente e Gianni
Paganini, la seconda l’età moderna con i
contributi di Paola Rodano, Eugenio Lecaldano e Cinzia Ferrini, mentre l’ultima
parte l’età contemporanea con gli articoli
di Massimo Dell’Utri, Maria Rosaria Egidi,
Annalisa Coliva e Mario De Caro. Il filo
conduttore degli articoli è ciò che i curatori chiamano il «dubbio scettico». Secondo
le linee generali esposte nell’introduzione,
il dubbio scettico è: 1) teoreticamente invalicabile, cioè non pone le condizioni per
il proprio superamento; 2) artificioso; 3) assolutamente radicale, cioè non è propedeutico ad alcuna conoscenza. Se questi sono i
presupposti fondamentali della sfida epistemologica scettica, alcuni autori trattati
nel libro sembrano non possedere tutte
queste caratteristiche. Si pensi in particolar modo a Cartesio e a Kant. Il primo non
soddisfa la prima condizione. Lo scetticismo di Cartesio pone in se stesso le condizioni del proprio superamento nella fondazione metafisica dell’Io. Il secondo, invece,
non soddisfa la terza condizione, perché
Kant concepisce lo scetticismo proprio come un momento propedeutico per una fondazione logico-epistemica dell’Io. A parte
questo piccolo rilievo critico, tutti i saggi
del testo si distinguono per la novità delle
tesi esposte, specialmente l’articolo di Spinelli sullo scetticismo antico e quello di
Maierù-Valente sulle istanze scettiche nel
Medioevo. Gli ultimi quattro articoli, invece, di carattere più teoretico che storico,
colmano una notevole lacuna nella bibliografia italiana degli studi scettici esaminando la filosofia contemporanea analitica
e della mente. Per ultimo, non si può dimenticare il vastissimo apparato bibliografico finale, il più ampio al momento in circolazione, che correda il libro e lo rende un
ottimo strumento di consultazione.
La forza del libro non risiede solo nel
suo forte impegno teorico, ma anche nella
capacità di creare una coesione all’interno
dei vari articoli anche molto diversi fra loro. I curatori hanno sicuramente il grande
merito di aver concepito questo testo, ma
anche l’editore Carocci ha avuto molta lungimiranza nell’appoggiare questo progetto.
Si auspica che l’iniziativa non sia isolata
ma che accanto a Scetticismo vedremo presto sugli scaffali delle nostre librerie anche
monografie dedicate al platonismo e all’aristotelismo.
Marco Sgarbi
Kant costruttivista
e fenomenologo
T. ROCKMORE, In Kant’s Wake: Philosophy
in the Twentieth Century, Blackwell
Publishing, Malden-Oxford-Carlton 2006,
213 pp. e T. ROCKMORE, Kant and Idealism,
Yale University Press, Yale 2007, 286 pp.
Sono varie le prospettive e le interpretazioni attraverso le quali è stato letto il pensiero di Kant nel mondo anglosassone. Si pensi ad esempio all’influente interpretazione
idealistica elaborata da Henry E. Allison in
Kant’s Transcendental Idealism (1981), alla posizione psicologistica di Patricia Kitcher in Kant Transcendental Psychology
(1989), al realismo trascendentale di Kenneth Westphal in Kant’s Trascendental
Proof of Realism (2004), al rappresentazionalismo di Richard Aquila in Representational Mind: A Study of Kant’s Theory of
Knowledge (1983) e alle diverse monografie di Paul Guyer. Tutte queste interpretazioni si distinguono per una spiccata importanza che danno, probabilmente sotto
l’influenza dell’esegesi di Peter F. Strawson, alla teoria epistemologica kantiana;
sono tutti testi che si presentano come un
commento all’estetica e all’analitica trascendentale della Kritik der reinen Vernunft. All’interno di questa linea interpretativa del pensiero kantiano è emersa recentemente, e sta assumendo sempre più
rilevanza, la posizione fenomenologo-costruttivista di Tom Rockmore.
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