Donazione di senso e scoperta di senso

Donazione di senso
e scoperta di senso
di Armando Rigobello
1. Diversi sviluppi della radicalità fenomenologica.
In un articolo dei primi anni del Novecento, il giovane Edmund Husserl
mette in luce con accenti drammatici la sua radicale decisione di impegnarsi
fino in fondo a cercare il senso finale della realtà e della condizione umana:
“In primo luogo dico i compiti generali che debbo risolvere per me, se voglio
potermi chiamare filosofo. Intendo una critica della ragione. Una critica della
ragione logica e della ragione pratica, della ragione valutante. Senza venire in
chiaro a me stesso, almeno in tratti generali, circa il senso, l’essenza, i metodi,
i principali punti di vista di una critica della ragione, senza aver meditato,
progettato, stabilito e fondato uno schizzo generale, non posso vivere in modo
vero e veritiero. I tormenti della mancanza di chiarezza, dell’oscillare del
dubbio li ho goduti a sufficienza. Io debbo giungere ad una solidità interiore.
So che si tratta qui di qualche cosa di alto e di sommo; so che grandi geni vi
sono naufragati. Se volessi paragonarmi a loro dovrei disperarmi in partenza.
Non voglio paragonarmi a loro, ma senza chiarezza non posso vivere. Io voglio,
e debbo, con un lavoro di dedizione, con un approfondimento puramente
oggettivo, avvicinarmi all’alta meta. Lotto per la mia vita e perciò credo di
poter procedere con fiducia. Le più dure difficoltà della vita, l’autodifesa
contro i pericoli della morte, danno una forza insospettata, smisurata. Io non
aspiro a onori e fama, non voglio essere ammirato, non penso agli altri né alla
mia carriera. Solo una cosa mi preoccupa: debbo raggiungere la chiarezza,
se no non posso vivere, non posso sopportare la vita se non credo che ce la
faccio, che davvero posso guardare nella terra promessa, e di persona, e con
lo sguardo limpido”1. La via percorsa in questa decisione senza ritorno è
quella di una pars destruens più radicale del dubbio cartesiano: la riduzione
fenomenologica, la messa tra parentesi di ogni ovvietà, di ogni tradizione ed
evidenza. Ad una filosofia che costruisce sistemi, Husserl contrappone una
preventiva, radicale messa tra parentesi, una messa fuori gioco. Nella piena
maturità del suo impegno speculativo, Husserl perviene con le Meditazioni
cartesiane ad una “riduzione nella riduzione”, nel tentativo di raggiungere il
darsi della più elementare presenza, “un sostrato elementare e coerente” dal
quale ricominciare la ricostruzione.
Il richiamo a questo episodio della vita teoretica di Husserl, ci introduce ad
una considerazione preliminare. Nonostante il radicale sforzo di rifiutare
ogni iniziale presupposto, all’inizio vi è una decisione, un atto cosciente di
volontà (la volontà di porsi agli estremi confini del pensare). Ciò è riconosciuto
anche in due considerazioni che precedono e seguono la fenomenologia
husserliana, nello stesso Cartesio e in Sartre. Cartesio indica in una decisione
morale, e quindi in un atto del pensare, l’origine del suo procedere nel
dubbio metodico; Sartre, in polemica con Levi-Strauss, rivendica il primato
dell’atto consapevole nella decisione di studiare la natura umana con le
stesse modalità con cui si studiano gli altri animali. D’altra parte è Husserl
stesso, per primo e nella forma più radicale e drammatica, ad esprimere, nel
passo ampiamente citato, le motivazioni della sua ricerca, motivazioni che
investono la nozione di senso nella forma più compiuta di senso finale, cioè
di ricerca radicale del senso del mondo e dell’uomo, una ricerca che non sia
fine a se stessa, atteggiamento ludico o vanità intellettuale, ma rivolta ad un
suo necessario compimento.
Il presente studio, pur nelle diverse condizioni soggettive ed oggettive oltre
che di orizzonte storico in cui si svolge, si inscrive liberamente nel progetto
husserliano, in cui riduzione e intenzionalità si intrecciano, ed insieme se
ne differenzia. Ciò avviene soprattutto nella meta finale: la nostra ricerca si
propone una soluzione diversa, intende giungere alle soglie dell’originario
e pervenire in sede filosofica ad un finale compimento. Oltre quelle soglie
la filosofia si arresta al limite sebbene guardi oltre il confine. La riflessione,
a questo punto, si apre sull’esperienza religiosa. In questo ambito tuttavia il
millenario argomentare filosofico può recare ancora un contributo nel porre
in luce come l’ulteriore originario per rispondere ad una radicale domanda
di senso debba sussistere come persona.
Un’altra diversità dalla posizione husserliana nello sviluppo del discorso è
dovuta, come si accennava, al diverso contesto storico, in particolare all’uso
del termine senso. Il termine è andato via via assumendo significati diversi
nell’uso linguistico e in relazione alle nuove prospettive della filosofia
analitica. Diviene pregiudiziale capire se secondo il metodo fenomenologico
1
E. HUSSERL, Persönliche Aufzeichnungen, in “Phil. und phen. Res.”, XVI (1965),
p. 297. La traduzione si trova in G. PEDROLI, La fenomenologia di Husserl, Taylor, Torino 1958, p. 47.
l’esercizio della messa tra parentesi dell’ordinaria prospettiva empirica,
l’epoché, che rende possibile l’andare alle “cose in se stesse”, compia una
“donazione di senso” (Sinngebung) o sia una purificazione dello sguardo che
permette di accedere alla visione delle “cose in se stesse”.
L’approccio fenomenologico alla realtà in se stessa è un atto intenzionale:
l’epoché (la messa fuori gioco del mondo dell’oggettività empirica) rende
possibile l’apparire del plesso delle idee (eide). Potremmo dire che il mondo
platonico delle idee si cala nelle “cose in se stesse”, la loro autenticità appare
se si riesce a porre tra parentesi la visione empirica del reale e a guardare
con sguardo purificato dall’epoché, con quello sguardo purificato che è
intenzionale. L’epoché e l’intenzionalità, la pars destruens e la pars costruens
della fenomenologia, ci portano alla “terra promessa”, e la fenomenologia da
metodo diventa verità.
Abbiamo delineato in forma narrativa, quasi un “grande racconto”, il
progetto fenomenologico con cui Husserl pensa di aver gettato le basi di
una scienza rigorosa (“Philosophie als strenge Wissenschaft”), ma rimane
sotteso un problema centrale, che emerge dal racconto stesso della grande
avventura speculativa: l’intenzionalità che porta alle cose in se stesse è, come
prima si è detto, “donazione di senso” o atto che lascia apparire il senso di
fronte ad occhi purificati dalla “messa fuori gioco” operata dalla riduzione
fenomenologica? Nel primo caso si ritornerebbe ad una forma di idealismo
trascendentale, nel secondo l’idealismo è superato ma ci si ritroverebbe
in una metafisica di tipo classico. Non va dimenticato che l’intenzionalità
ontologica della nostra coscienza è una nota dottrina di S. Tommaso d’Aquino
(“anima est quaeadmodum omnia”), né va tralasciata una qualche influenza
del pensiero di Meister Ekhart.
Husserl tuttavia, fedele al suo programma di “filosofia come scienza rigorosa”,
tentò un’ulteriore radicalizzazione del suo programma speculativo: una
riduzione nella riduzione, una “riduzione alla seconda potenza”, una epoché
che, come si è accennato, raggiunga il più elementare substrato della realtà:
un “sostrato unitario e coerente”, un deserto di presenza amorfa ove tuttavia
appare una singolare presenza, un alter ego che permette un rapporto
intersoggettivo, e così l’inizio di un processo che conduce alla fondazione
della cultura e delle sue istituzioni. Allo sguardo sottoposto ad una doppia
riduzione appare quindi nel contesto “unitario e coerente” una strana
presenza: una monade (una singolarità vivente) che presenta analogie con
me stesso e che avverte la mia presenza come io avverto la sua. Siamo di
fronte ad una elementare intersoggettività. L’osservazione di questo rapporto
intermonadico ci porta gradualmente ad individuare rapporti intersoggettivi
sempre più complessi fino a giungere al compimento: un mondo umano
che gradatamente si costituisce come cultura e spiritualità e dà luogo alle
relative istituzioni.
L’enorme sforzo condotto con minuzioso rigore nelle Meditazioni cartesiane
porta Husserl, nelle ultime pagine del testo, ad una celebrazione dell’umana
interiorità. La frase conclusiva è una celebre citazione da Agostino: “Noli foras
ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas”. La vicenda speculativa
e umana di Edmund Husserl non si conclude tuttavia in quel momento di
esaltante pienezza, lo attendono ancora gli anni bui della Crisi delle scienze
europee e le amarezze e le umiliazioni della Germania nazista.
2. Il senso. Discorso sensato e fondamento.
Possiamo ora ritornare alla nozione di senso che si è visto essere sottesa ad
ogni radicale indagine critica, ossia al movente di ogni passo indietro verso
una condizione, un punto incontrovertibile di partenza, il cogito di Cartesio o
l’epoché di Husserl o il gratuito gesto esistenziale di Sartre. Tutto ciò ci porta a
distinguere nel concetto di senso la componente della criticità da quella della
ragione. La criticità assoluta ci appare impossibile: da qualcosa occorre pur
partire, questo aliquid è il nostro inevitabile radicamento nel senso: un punto
di partenza è necessario e tale vis a tergo del nostro pensare è il consistere
nel senso. Kant deducendo tutta l’articolazione del suo sistema dall’originaria
Spontaneität accoglie di fatto un presupposto ontologico, un dato inevitabile
della condizione umana, come la stessa nozione di libertà come “fatto” della
ragione. Una cosa è il rigore, un procedere nell’argomentazione secondo
regole logiche sempre più stringenti, altra cosa è la criticità come assenza
di ogni presupposto. Il senso esige rigore nel suo esercizio, ma non assoluta
criticità nel suo fondamento, esso è coinvolto nell’esistenza, nel vissuto. La
criticità nel darsi assoluto paralizza il discorso.
Tutto ciò ci porta a concludere che il senso ha un’anima logica, ma è coinvolto
in una esperienza esistenziale. Tenendo conto di questa considerazione
possiamo concludere che l’intenzionalità husserliana (sia nella prima
riduzione, sia nella “riduzione nella riduzione”) presuppone già un soggetto
pensante che si ponga una questione, più o meno radicale, di senso.
L’atto intenzionale, il concreto esercizio dell’intenzionalità, sono insieme
donazione di senso e visione eidetica del senso. Un più o meno consapevole
avvertimento del senso è all’origine dell’intenzionalità e lo riconosce in
una pienezza originaria alle cui soglie essa si arresta. L’intenzionalità non
è soltanto una dinamica dimensione della razionalità, ma è un’esperienza
esistenziale complessa. Si potrebbe descriverla parafrasando, per così dire,
una celebre espressione di Pascal riferita ad un ben diverso contesto: “Tu
non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”.
Alla pluridimensionalità della dimensione di senso si accompagna una più
complessa articolazione del termine intenzionalità. Ciò ci permette di
allargare il confronto con altri aspetti del discorso sul senso, alludiamo ai
contributi di Frege e di Wittgenstein da un lato, dall’altro al dibattito sul senso
nella cultura francese degli anni centrali del secolo scorso, con particolare
riferimento alla prospettiva di Merlau-Ponty.
Per Frege, che affronta il tema da diversi piani di analisi, il senso (Sinn) è ciò
che si afferma con la mente, ossia il pensiero che essa esprime. L’enunciazione
concettuale del senso di per sé è insatura cioè priva di contenuti particolari,
diventa satura quando il significato (Bedeutung) ne indica il contenuto, lo
rende saturo. Il senso, nel suo consistere non saturo, si apre ad una pluralità
di saturazioni, ad una varietà di significati. Queste considerazioni, pur con
linguaggio diverso, presentano qualche affinità nell’estendere la pregnanza
del senso, oltre il rigore logico, alla sfera dell’impercettibile, non venendo
meno al rigore ma situandolo in un orizzonte ontologico-esistenziale.
La questione del senso si pone in termini ben diversi se facciamo riferimento
alla posizione assunta da Wittgenstein in poi, che considera sensati soltanto gli
enunciati che esibiscono le condizioni della loro verità. Il senso, in tal modo,
si risolverebbe nella struttura logica del discorso. Ogni trascendimento, ogni
apertura all’impercettibile, che per Frege era un compimento di un possibile
itinerario dal senso al significato, determinerebbe invece un non senso. La
metafisica si presenterebbe quindi come un discorso privo di senso, come
pure l’ontologia. Questa convinzione, nelle più recenti teorie linguistiche
viene tuttavia spesso contestata in nome di un pluralismo ontologico sotteso
all’argomentazione. Nel presente studio siamo naturalmente più vicini a
questa seconda prospettiva. La considerazione della intenzionalità coinvolta
nel vissuto ha qualche compatibilità con il pluralismo ontologico.
Il confronto con alcune significative concezioni sulla realtà del senso, si sposta
ora sulla filosofia francese del Novecento, che nel contesto del nostro discorso
si limita ai contributi di Merlau-Ponty in Senso e non senso2 e nel volume
postumo Il visibile e l’invisibile3, che rappresentano con acuta sensibilità
speculativa e comprensione storiografica una problematica crisi del pensiero
nella metà del secolo scorso. Per il Merlau-Ponty di Senso e non senso, il
senso è forma intenzionale, espressione che racchiude il nucleo centrale del
suo pensiero. La forma è già operante nella percezione, che non è quindi un
mero ricevere, ma l’avvertire una dinamica interna che si fa intenzionalità.
Il termine husserliano si inscrive in tal modo in una fenomenologia che non
è rigorosa soltanto per l’esercizio dell’epoché, ma perché caratterizzata da
una tensione verso, ossia un percepire nel presentimento di una ulteriorità.
L’impegno speculativo e morale di Merlau-Ponty è quello di riportare le
astrazioni della tradizione filosofica alla concretezza, al concreto vissuto, ai
rapporti intersoggettivi. La nozione di intenzionalità dinamica è la struttura
portante di questo programma. La “donazione di senso” (Sinngebung) di
Husserl si esistenzializza e si affina in una complessa intersoggettività. Il
visibile e l’invisibile, un testo postumo del 1964, arricchito da note di lavoro
e abbozzi di progetti, rappresenta una radicalizzazione della prospettiva dei
precedenti lavori, radicalizzazione particolarmente significativa per il nostro
studio. L’invisibile, osserva Merlau-Ponty, non indica semplicemente una
mancanza, un limite anzi un’impossibilità, ma è piuttosto un “tessuto” che
avvolge le cose, è il tralucere di una loro possibile dimensione ontologica.
Non è una cosa ma ciò che conferisce alle cose allusività, che toglie loro
la presente oggettività e nel rapporto tra visibile e invisibile si delinea un
latente trascendimento.
La reciprocità tra “donazione di senso” e il suo apparire al compimento
dell’atto intenzionale, presenta qualche analogia con il rapporto che MerleauPonty stabilisce tra il visibile e l’invisibile. In entrambe le prospettive si
coglie una trama logica coinvolta nella certezza del vissuto. Nella riduzione
e nell’intenzionalità, in Merleau-Ponty come nella nostra proposta, vi è
l’esigenza di partire da Husserl ma di andare oltre, nell’avvertimento di
una dimensione ontologica da cui non si può prescindere se navigando nel
concreto si vogliano evitare le secche analitiche.
L’analogia messa in luce ha tuttavia un limite rilevante nel concepire il rapporto
2
M. MERLEAU-PONTY, Sens et non sens, Nagel, Paris 1948; trad. it. P. Caruso,
introduzione di E. Paci, Senso e non senso, il Saggiatore, Milano 1962
3
M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964; trad. it. e a
cura di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani 1969.
tra il visibile e l’invisibile. Nella prospettiva di Merleau-Ponty l’invisibile è
una presenza, un orizzonte che ci rende consapevoli della complessità del
visibile, del suo manifestarsi nel tralucere di vari piani, che permette di
andare oltre il piatto fenomeno empirico, di coglierlo in una ricchezza di
rinvii in un intreccio di solidarietà intersoggettive. Nella prospettiva che
vorremmo delineare, questa variegata presenza di rinvii, di allusioni, di
coinvolgimenti si disegna in un itinerario di effettivo trascendimento, verso
una “terra promessa”, una intenzionalità rivolta ad un trascendimento anche
se non si configura nella sua immediatezza come una effettiva trascendenza.
Immanenza e trascendenza non sono così antitetiche, e quindi alternative,
come può spesso apparire. Il rapporto tra prossimità e ulteriorità è un’efficace
esemplificazione di un mutevole rapporto. Una metafisica è certo implicita
nella nostra prospettiva, ma non si tratta di una dottrina compiuta quanto
di uno spazio teoretico richiesto da un’incontrovertibile esigenza della
condizione umana pensata fino in fondo.
3. Reciprocità tra la “donazione di senso” e il suo apparire.
Nel discorso finora portato innanzi sembra sufficientemente delineata la
natura dei termini che entrano in gioco mediante l’epoché e l’intenzionalità:
la “donazione di senso” e l’apprensione intuitiva dell’eidos, ossia del senso.
Rimane tuttavia enigmatica la loro compresenza e sinergia. La donazione
di senso è concettualmente più definita, più problematico è il suo rapporto
con l’atto noetico dell’apparire del senso. La contraddizione tra i due modi
di conoscenza ed insieme il loro confluire nella conoscenza fenomenologica,
può essere rimossa se coinvolgiamo le due operazioni fenomenologiche
nel contesto esistenziale, nella decisione ardua e addirittura eroica
descritta da Husserl nell’ampia citazione riportata all’inizio di queste
pagine. L’irrinunciabile risposta sul senso è alla radice di tutta l’ascesi
fenomenologica e rende radicale ogni espressione. Ciò fa sì che tutto il
processo, l’iter dell’intenzionalità non si risolva in uno slancio intuitivo ma
maturi nel continuo confronto, nel tormento e nella fiduciosa esperienza
di un inquieto cercare. Questo contesto speculativo ed insieme pratico
può trovare una analogia in quel “vivere assieme ai problemi” di cui parla
Platone nella Lettera VII4. “All’improvviso”, osserva Platone, appare l’idea,
dopo che si siano confrontate le parole e i loro significati, dopo quel “vivere
assieme” che richiama una pensosa, insistente fiducia che accompagna
l’inquietudine, la ricerca, la speranza.
La donazione di senso non è un facile dono, nasce nella “penuria” ed
insieme dall’esigenza di possesso, nota costitutiva della condizione umana.
Anche qui un richiamo all’eros platonico, figlio di penia, la mancanza, e
di poros, la pienezza. L’eidos, quale senso presagito, è quel dono che
l’intenzionalità intende fare alla coscienza radicalmente “ridotta”, allo
sguardo fenomenologico sulla realtà non inquinato da ciò che è empirico.
Ma quel dono è insieme il riconoscimento di una certezza già presagita fin
dall’inizio della ricerca.
Queste considerazioni non intendono essere una interpretazione del pensiero
di Husserl. Le linee essenziali della sua proposta fenomenologica ci hanno
fornito un paradigma su cui misurare un discorso autonomo. Pensiamo
tuttavia che questo misurarsi sull’essenziale articolazione del pensiero di
4
PLATONE, Lettera VII, 341 c-d.
Husserl aiuti a mantenere il discorso su un livello di rigore ed insieme che
quel suo mettere continuamente in questione i risultati raggiunti costituisca
un’esemplare consapevolezza di limiti. Dal pensiero di Husserl, come d’altra
parte da quello di Kant, non si può prescindere, ma ad essi non ci si può
fermare.
Si possono aggiungere alcune ulteriori considerazioni. La totale decostruzione
dei contenuti della coscienza richiesta da un rigoroso esercizio dell’epoché
husserliana è realmente possibile? Oppure se ne ha notizia solo in una
radicalità mistica ove il nulla ed il tutto, lo svuotamento di sé e l’esaltante
pienezza sono aspetti di un assoluto ove gli opposti coincidono? In questo
caso tutto si consuma in una pienezza il cui linguaggio è semantico, poetico
o mistico. D’altro canto, ritornando al tema specifico di cui si discute in
queste pagine, non sarebbe possibile compiere una “donazione di senso” se
la nostra intenzionalità non fosse essa stessa immersa nel senso, non tanto in
alcuni significati ma nel senso in quanto senso. Il vivere finisce per essere un
vivere nel senso poiché il non senso è una hybris di assenza infinita.
Il senso conseguito nell’intuizione come compimento di un atto intenzionale,
l’accennato “vivere assieme ai problemi”, comporterebbe l’esperienza che
“conoscere è oggettivare un’inquietudine”, evocata da una considerazione
di Jean Lacroix5. Non è infatti la pienezza che muove alla ricerca, ma
l’inquietudine. L’intuizione intellettiva è un compimento in cui la tensione si
placa nell’eidos che brilla dinnanzi allo sguardo purificato. Tutto il processo
conoscitivo si compie attraverso una epoché produttiva. Che significato
può avere la parola oggettivare nel contesto dell’espressione? Oggettivare
significa dare forma concreta, “oggettiva” a qualche cosa. Objectum in latino
significa gettare davanti a sé, il tedesco usa il termine Gegenstand, ciò che
ci sta di fronte. Il senso dell’espressione nel contesto della nostra ricerca è
più vicino all’espressione latina: una dinamica, un urgere finalizzato. Nel
nostro discorso però l’ “oggettivazione” non è un semplice gettare oltre,
dinnanzi, ma è un esporre la nostra inquietudine, un orientarla, sostenuti
dalla speranza, in una concreta oggettività in cui l’inquietudine si plachi.
L’inquietudine non è sempre una anomalia psicologica ma può anche essere
un privilegio, l’indice di una ricerca e quindi di una speranza. Abbiamo già
citato la suggestiva espressione di Pascal: “Tu non mi cercheresti se non mi
avessi già trovato”. Il discorso pascaliano si riferisce all’esperienza religiosa,
ma è una considerazione che può convenire anche ad altre situazioni
interiori. D’altra parte la ricerca di senso accomuna la spiritualità religiosa e
la condizione filosofica dell’interiorità in quanto tali.
Il contesto in cui si colloca la nostra ricerca può essere indicato come il
tentativo, misurato sul modello di una fenomenologia husserliana (considerata
nell’essenziale delle sue linee portanti), di restituire alla filosofia la capacità
di una risposta positiva alla domanda di senso, ineludibile problema della
condizione umana. Ciò può avvenire attraverso un pluralismo metodologico,
coinvolgendo il rigore nella concretezza del vissuto, superando la pretesa di
ridurre ad un unico metodo la dignità speculativa del discorso filosofico. La
“soluzione del compito” è una “frattura” del metodo unico che perviene ad
una pluralità metodologica e comporta una particolare concezione della realtà
e della condizione umana. La rottura metodologica non prevede il semplice
5
J. LACROIX, Marxisme, existentialisme, personnalisme, Presses Universitaires de
France, Paris 1970.
abbandono di un metodo per accoglierne uno diverso ma una pluralità di
prospettive, pluralità che non conclude con una relatività insuperabile ma
con un confronto che rende possibile un problematico trascendimento.