Husserl Il pensiero di Husserl prende il là da una critica allo psicologismo ovvero la dottrina secondo cui l’intelletto umano ha come oggetto l’idea. Dato che tutto ciò che possiamo pensare viene conosciuto come idea, attraverso la conoscenza del modo in cui la ragione organizza ed elabora le idee potremmo fondare e organizzare a sua vola ogni ramo del nostro sapere e del nostro conoscere. Nel 1901, Husserl pubblica il suo volume chiamato “Ricerche Logiche” in cui critica in maniera netta lo psicologismo. Perché? Perché egli vuole tornare alle cose stesse, cioè al dato in quanto tale lasciando da parte le idee. All’interno di questo testo percorre la strada di chi vuole fornire una fondazione unitaria del sapere, una vera e propria trattazione e analisi della logica, cioè una scienza epistemologica che sia in grado di abbracciare la realtà tutta. Parte con delle obiezioni rivolte allo psicologismo: 1)Le leggi logiche possono essere ricondotte a fatti psichici e ,dunque, possono essere studiate dalla psicologia. Ammesso questo, dice Husserl, la psicologia può solo ed esclusivamente partecipare alla fondazione della logica. 2)La psicologia, oltretutto, presenta delle contraddizioni: essa si fonda sull’induzione (passa cioè dallo studio di alcuni casi particolari da cui si può arrivare a leggi di carattere universale). Il punto è: chi ci dice che la necessarietà delle leggi universali sia vera? In questo senso, dice Husserl, non possiamo fondare il sapere sulla psicologia poiché è una scienza precaria che non ci garantisce alcuna verità. La psicologia non può dunque fondare la logica e, quindi, il sapere in quanto tale. Nonostante tutto ciò, ammette Husserl, rileggendo in seguito il testo egli si rende conto di non essersi liberato ancora del tutto di ogni traccia di psicologia e decide di correggerlo, compiendo ancora un passo. Quale era stato il limite del percorso fenomenologico che abbiamo analizzato finora? Quello che lui definisce l’atteggiamento naturale che altro non è che una forma di realismo ingenuo, nostro senso comune secondo cui sia il mondo in quanto tale sia la nostra psiche (e dunque i nostri giudizi) sono ovviamente e indubitabilmente esistenti. Noi tutti crediamo, cioè, che tutto ciò che ci circonda sia realmente e ovviamente esistente, così come la nostra psiche e tutto ciò che ne deriva. La ricerca filosofica, se è realmente tale, ha però la necessità di andare oltre, di approfondire l’analisi. Nel 1913 pubblicherà infine il suo primo volume delle “Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica” Già dal termine “pura” capiamo che la fenomenologia di cui stiamo parlando è liberata e purificata dall’atteggiamento naturale, lontana dalla fenomenologia empirica. Come ha potuto fare ciò? Grazie all’epochè (anche definita da lui riduzione fenomenologica). L’analisi è questa: quando noi conosciamo, da cosa partiamo? Da un dato indubitabile cioè il dato fenomenologico che ci è di fronte e di cui abbiamo coscienza. Dunque Husserl assume come vero e indubitabile il pensare. Ma ciò significa che quanto conosciamo esista davvero nel mondo a noi circostante? Secondo Husserl questo non è possibile. Esempio: Se noi vediamo una pera possiamo asserire con sicurezza che il contenuto noematico (ciò che noi percepiamo) del vissuto è una mela. Ma da questo a dire che esiste realmente in un mondo esterno un oggetto chiamato pera è dire più di quanto ci è possibile. Infatti la nostra potrebbe essere una allucinazione: nulla della mela come elemento oggettivo del nostro atto empirico del percepire ci può autorizzare a concludere che esista realmente nel mondo esterno. Esiste solo come atto del percepire. In questo senso, secondo Husserl, dobbiamo compiere una epochè, cioè una sospensione del giudizio sull’esistenza reale dell’oggetto di esperienza. Ciò che si dà alla coscienza è un semplice e puro fenomeno senza alcuna pretesa di inferire l’oggettualità del contenuto di coscienza. L’intenzionalità Sempre nelle Ricerche del 1901 Husserl affronta il problema della intenzionalità. Essa è un aspetto fondamentale della coscienza: è coscienza di qualcosa. Posso sentire perché c’è una cosa da sentire, posso pensare perché c’è un oggetto da pensare. Tuttavia esistono vissuti che non hanno un qualcosa a cui riferirsi (un contenuto intenzionale), come ad esempio il panico. Nell’atto intenzionale c’è, comunque, un nesso tra coscienza e oggetto intenzionato (a cui è rivolto la nostra intenzione): questa e l’intenzionalità. L’oggetto intenzionato non è immanente alla mia coscienza o alla mia mente, come direbbe lo psicologismo perché se io guardo un muro (coscienza) non guardo l’immagine mentale che creo io in me, ma il muro in quanto tale che esiste fuori di me (oggetto intenzionato). Dunque siamo qui oltre la psicologia e ci riferiamo alle cose stesse. Husserl, tuttavia, approfondisce dopo il 1901 questo concetto e capisce che utilizzare il termine oggetto potrebbe essere controproducente (sempre per via di quell’atteggiamento naturale). Nel testo del 1913, perciò, utilizza il termine di noesi (per indicare l’atto della coscienza) e noema (per indicare l’oggetto vissuto e intenzionato, ciò di cui si ha coscienza). In virtù dell’epochè a cui era giunto precedentemente, Husserl capisce che il noema (ciò di cui si ha coscienza) non è né un qualcosa di totalmente appartenente alla coscienza né un oggetto totalmente appartenente al mondo esterno. La Soggettività Secondo Husserl, passare come ha fatto Cartesio dal “Cogito Ergo Sum” all’affermare la sostanzialità dell’io è sbagliato. La sostanzialità dell’io non è derivabile dal cogito. Per Husserl il soggetto non è di natura sostanziale come lo era per Cartesio, bensì trascendentale: non è un soggetto fisico, ma la condizione del darsi dell’esperienza. Per comprendere il soggetto bisogna ricondurlo all’intenzionalità, grazie alla quale il soggetto può essere compreso e colto come quel polo a cui si riferisce ogni contenuto intenzionale ( quel qualcosa a cui ci si riferisce). Tutti i pensieri si basano sull’io, hanno la polarizzazione-io: io penso, io rifletto, io desidero; in tutti c’è uno stesso io che compie questi diversi atti, un io stabile. In questo modo Husserl può far suo il concetto di monade ( oggetto chiuso, che non ha comunicazioni con l’esterno) di Leibniz: il soggetto coglie in sé la realtà. In questo senso si parla di idealismo fenomenologico, o trascendentale,: l’io è la condizione della possibilità del darsi dell’esperienza. Il soggetto trascendentale di Husserl è come una monade, è la condizione della possibilità del darsi dell’esperienza, è il polo a cui sono rivolti tutti i contenuti intenzionali. E’ a partire dal soggetto monade che puà darsi l’esperienza attraverso noesi e noema. Ma cosa permette all’uomo di poter considerare il prossimo come realmente esistente e non come semplice contenuto dei propri vissuti? E’ possibile dire con certezza dell’esistenza del mondo esterno e di altri io? Per Husserl è possibile. Parte dal concetto di corpo proprio. Il corpo mi appartiene e l’esperienza che ognuno di noi ha della realtà è data in relazione al corpo proprio. Cogliendo noi stessi come corpo proprio, possiamo cogliere anche gli altri corpi e sentiamo che sono come noi. E’ l’empatia che ci permette di sentire l’altra persona, un sentire immediato attraverso cui sentiamo l’altro soggetto. Per Husserl, dunque, la riduzione fenomenologica (epochè) ci dà la possibilità di cogliere l’essenza senza però attribuirle una esistenza autonoma reale, mettendola in idea. L’essenza messa in idea diviene un contenuto noematico (qualcosa di cui si ha coscienza) che esiste in quanto c’è un atto noetico (cioè quel percepire della percezione, l’atto del soggetto che ci fa intuire l’essenza).