Husserl e la fenomenologia Proprio negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento andava nascendo quell'elaborazione filosofica designata come «fenomenologia» dallo stesso autore, E. Husserl. Edmund Husserl nacque in Moravia nel 1859, in una famiglia di commercianti ebrei. Compiuti gli studi secondari s'iscrisse all'Università di Lipsia, dove frequentò, oltre le lezioni di astronomia, di fisica e di matematica, anche un corso di filosofia tenuto da Wilhelm Wundt. Passò quindi all'Università di Berlino, dove si concretò uno specifico interesse per la matematica e per la filosofia della matematica. Trasferitosi poi all'Università di Vienna, conseguí il dottorato e, in seguito, tenne fecondi contatti con Franz Brentano, un prestigioso filosofo di quell'Università. Da questi trasse l'interesse per l'empirismo e il positivismo inglesi e quello per la filosofia greca, oltre che l'atteggiamento di cauta riserva per le filosofie di Kant e degli Idealisti tedeschi, considerate difettose di rigore logico. Da Brentano inoltre ebbe anche il consiglio di studiare le opere di Bernhard Bolzano e di frequentare lo Stumpf, uno studioso di psicologia della musica, docente nella città di Halle. Husserl si trasferí quindi ad Halle, dove ottenne l'incarico di insegnamento presso la locale Università e dove ebbe inizio il suo lavoro di docente universitario; lavoro che continuò poi anche a Gottinga e a Friburgo, fino a quando non fu collocato a riposo forzato, nel 1928, dal governo nazista di Hitler, che gli tolse, in quanto ebreo, anche la cittadinanza tedesca. Morí poi a Friburgo nel 1938. Le opere pubblicate da Husserl sono solo una piccola parte di quanto egli ha prodotto; gl'inediti, conservati presso l'«Archivio Husserl» di Lovanio, hanno cominciato a veder la luce nel 1951; ma tantissimi sono ancora i testi che aspettano un’ edizione. Tra gli scritti dati alle stampe dallo stesso Husserl, ricordiamo: Psicologia dal punto di vista empirico (1874), Filosofa dell'aritmetica (1891) Ricerche logiche (1900-1901), La filosofia come scienza rigorosa (1911), Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913), Logica formale e trascendentale (1929), Meditazioni cartesiane (1931), La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936). Nella nostra vita quotidiana noi consideriamo il mondo, dice Husserl, in modo «ingenuo». Lo consideriamo cioè esistente, ed esistente cosí come lo vediamo dalla nostra prospettiva soggettiva; e lo rendiamo oggetto della nostra attività emozionale, conoscitiva, pratica, per ciò ch'esso rappresenta per noi, per ciò ch'esso vale «immediatamente» per noi. Io sono consapevole di un mondo, che si estende infinitamente nello spazio e che è stato soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che io trovo il mondo immediatamente e visivamente dinanzi a me, che lo esperisco. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, al vedere, al toccare, all'udire, ecc., le cose corporee sono in una certa ripartizione spaziale qui per me, mi sono alla mano, in senso letterale e figurato, sia che io presti o non presti loro attenzione, sia che io mi occupi o no di esse nel pensiero, nel sentimento, nella volontà... Ma non è indispensabile che gli oggetti si trovino precisamente nel mio campo di percezione. Infatti, insieme con gli oggetti percepiti, sono «qui per me» anche oggetti reali determinati, piú o meno noti, senza che siano percepiti, visivamente presenti. Io posso lasciar vagare la mia attenzione dalla scrivania, che vedo ed osservo, alle parti della mia camera che stanno alle mie spalle, sino alla veranda, al giardino, ai bambini che si trovano sotto la pergola, ecc., ossia verso tutti quegli oggetti che «so» essere qua e là nelle mie vicinanze; un sapere che però non ha nulla del pensare concettuale Cosí nella mia coscienza desta, mi trovo sempre, e senza poter mai modificare tale situazione, in rapporto con un solo e medesimo mondo, per quanto mutevole nel suo contenuto. Esso mi è costantemente «alla mano», ed io stesso sono un suo membro. E mi è dinanzi non soltanto come un mondo di cose, ma, con la medesima immediatezza, anche come mondo di valori, mondo di beni, mondo pratico. Davanti a me trovo le cose fornite di caratteri di valore, come di proprietà fisiche, belle e brutte, piacevoli e spiacevoli, gradite e sgradite, ecc. Le cose si presentano immediatamente come oggetti d'uso, la «tavola» con i suoi «libri», il «bicchiere», il «vaso», il «pianoforte», ecc. Anche questi caratteri assiologici e pratici appartengono costitutivamente agli oggetti come tali, che io presti o non presti attenzione ad essi e agli oggetti. E, come per le mere cose, ciò vale naturalmente anche per gli uomini e per gli animali che mi circondano riguardo al loro carattere sociale. Essi sono miei «amici» o «nemici», miei «inferiori» o «superiori», «estranei» o «parenti», ecc. (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofa fenomenologica) Ma questo mondo (di oggetti, di animali, di cose) esiste ed ha questi caratteri che io «trovo», perché è reso da me oggetto di coscienza, contenuto cioè di atti di conoscenza, o di atti emotivi, o di azioni pratiche. A questo mondo si riferisce il complesso delle mie attività di coscienza, dell'indagare, dell'esplicare, del raccogliere e numerare, del presupporre e dedurre, in breve, della coscienza teoretizzante. Ma vi si riferiscono anche i multiformi atti e stati del sentimento e della volontà: il gradire e il non gradire, il rallegrarsi e il rattristarsi, il decidere e l'agire. (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofa fenomenologica) Nell'«atteggiamento naturale» io sono un «cogito», che ha sempre a contenuto un «cogitatum»; «io mi ritrovo sempre come uno che percepisce, rappresenta, sente, desidera, qualcosa», tuttavia «non ogni cogito ha per cogitatum cose, uomini, oggetti, o situazioni di cose del mio mondo circostante»; vi può essere, come cogitatum, anche il «mondo aritmetico», quello degli enti ideali, o logici; anche il «mondo aritmetico» può «essere qui per me», immediatamente, naturalmente. Per riassumere, nell'«atteggiamento naturale» io trovo costantemente alla mano, di fronte a me la realtà spazio-temporale. La realtà... io la trovo in quanto io resto dentro una esperienza omogenea e mai interrotta, la trovo come esistente e la assumo come esistente, cosí come essa mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell'atteggiamento naturale. Il mondo come realtà è sempre là. Conoscerlo piú comprensivamente, fedelmente, perfettamente, tale è lo scopo delle scienze dell'atteggiamento naturale. Sono le scienze... «positive», le scienze della positività naturale. (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofa fenomenologica) Ma queste scienze sono «scienze dei dati di fatto», non delle «essenze», e studiano i dati di fatto come se fossero separati dalle loro «essenze». Un oggetto individuale non è qualcosa di semplicemente individuale, un effimero «questo qui», ma, in quanto è «in se stesso» cosí e cosí costituito, possiede come propria caratteristica dei predicati essenziali che necessariamente gli competono (competono cioè «all'ente com'è in se stesso»), oltre ai quali può ricevere poi altre determinazioni secondarie e casuali. Cosí ad esempio ogni suono in sé e per sé ha un'essenza, e anzitutto l'essenza di suono in generale, o meglio di acustico in generale, dove questa essenza è da intendere come un momento da cogliere intuitivamente nel suono individuale (considerato singolarmente o confrontato con altri, per quel che ha di «comune»). Tutto ciò che appartiene all'essenza di un individuo può appartenere anche ad un altro individuo. (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofa fenomenologica) Bisogna dunque isolare l'«essenza», cioè «ciò che si trova nell'essere proprio di un individuo come un suo quid», e «metterla in idea» (trasformando la «visione empirica» in «ideazione» o «visione dell'essenza»). La visione dell'essenza può essere adeguata o inadeguata; quella dell'essenza del suono è «adeguata»; ma quella di una realtà materiale è sempre «inadeguata». Infatti in questo caso l'essenza si offre soltanto da un lato, o da piú lati, ma non può mai offrirsi da tutti i lati; insomma: la figura spaziale della cosa fisica si offre, per principio, soltanto in «adombramenti» unilaterali; inoltre, pur prescindendo da questa inadeguatezza che perdura per quanto la figura si arricchisca col succedersi delle visioni, ogni proprietà fisica ci trascina nell'infinità dell'esperienza, anche la piú estesa multilateralità d'esperienza lascia aperte nuove e piú minute determinazioni; e cosí in infinitum. (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofa fenomenologica) Ma anche nella visione essenziale, il contenuto «si dà» alla coscienza. Essa è sempre coscienza di qualcosa, di un «oggetto», su cui essa Si dirige, e che le è dato «in se stesso». È una «visione in senso pregnante», «visione originalmente offerente», e perciò «capace di afferrare l'essenza in carne ed ossa». Ma la «visione essenziale» si fonda sulla «visione empirica». La prima però non mira ad afferrare elementi individuali né a porli in alcun modo come realtà, come fa la seconda, l'«individuo», la realtà particolare, infatti è solo un «esempio» tra gli infiniti in cui si realizza l'immutabile «essenza». Tuttavia «le pure verità essenziali non contengono la minima affermazione circa i dati di fatto», e «quindi da esse sole non si può ricavare nemmeno la piú modesta verità di fatto». Sicché la visione essenziale non può arricchire quella empirica, ma neppure può essere arricchita da questa. Per cogliere l'essenza bisogna raggiungere dunque un altro livello di «visione», in cui i dati empirici siano il fondamento ma siano egualmente neutralizzati nella loro azione di disturbo sulla visione essenziale. Come si vede, a parte il linguaggio nuovo, il discorso di Husserl non è approdato finora a risultati inediti nella storia della filosofia. La polemica contro l'empirismo, che riduceva la realtà ai dati empirici percepiti, e quella contro il positivismo, che faceva coincidere la conoscenza vera con quella dei «dati di fatto», ha riportato Husserl al discorso sulle «essenze» che era già noto anche nella filosofia greca. La novità del discorso husserliano comincia con l'esame del modo in cui si perviene alla conoscenza delle «essenze», con l'analisi dell'«atto» di coscienza - sia esso un intuire, un rappresentare, o un amare, ecc. - con cui cogliamo la realtà. In tutte le operazioni - emotive, conoscitive, pratiche - il mondo «si offre», «si dà» alla nostra coscienza, che si «rapporta» ad esso. Allora «come» si rapporta la coscienza agli oggetti? Oppure, che è la stessa cosa, «in che modo» il mondo degli oggetti si dà alla coscienza? Per dare risposta adeguata a questi quesiti bisogna guardarsi dall'assumere sia una posizione «realistica» che una «empiristica» o «idealistica». Bisogna guardarsi cioè dal privilegiare - come primum filosofico - sia il mondo, la natura, che lo spirito, l'io; sia il soggetto che l'oggetto delle attività di coscienza. Bisogna insomma appuntare l'attenzione analitica proprio sul «rapporto» tra soggetto e oggetto di coscienza, individuare cioè ciò che caratterizza quel rapporto, e descrivere i «modi» molteplici in cui esso si determina. Detto con terminologia husserliana, occorre «vedere direttamente» e descrivere i modi di presentarsi della cosa alla coscienza, o, che è lo stesso, i modi con cui la coscienza «tende», «si dirige trascendendosi» alla cosa; e non «spiegare» questi modi a partire dalla «realtà» dell'io, o dalla «realtà» del mondo, perché in ogni rapporto - emotivo, conoscitivo, pratico soggetto e oggetto sono sempre «correlati» e «costituenti un'unità originaria»; tra loro sussiste sempre una «correlazione a priori», o, meglio, un «a priori di correlazione». 2. L'epoché, la coscienza e l'intenzionalità Il mondo, oggetto di coscienza, in quanto a questa correlato, non deve piú esser considerato in modo ingenuo, naturalistico, come esistente in sé, esistente fuori e indipendentemente dalla coscienza, bensí come «fenomeno», nel suo «apparire» alla coscienza stessa. L'atteggiamento fenomenologico, dunque, ha come premessa che «si metta fuori gioco» la considerazione ingenua dell'esistenza fisica degli oggetti e dei loro modi fisici d'esistenza, come vengono «immediatamente» colti. Il che ha luogo con l'«epochè», su cui Ci soffermeremo tra poco. E contestualmente quell'atteggiamento si fonda sull'esclusione di una «realtà» della coscienza affinché venga in rilievo l'aspetto «attivo» della coscienza stessa, il suo «rapportarsi» alle cose. Il che implica evidentemente che la coscienza «si scinda», «si duplichi», diventi «coscienza osservante», in modo analitico-descrittivo, degli atti ch'essa stessa compie in modo ingenuo, irriflesso. L'atteggiamento naturale si compendia nella «tesi del mondo», cioè nella «posizione dell'esistenza di un mondo in sé». Non bisogna, dice Husserl, né «mettere in dubbio» né «negare» questa tesi di esistenza: questi sono solo atti di «giudizio»; ma - facendo molto di piú - metterla «fuori azione», «in parentesi», «neutralizzarla». Bisogna dunque «sospendere il giudizio». Al tentativo cartesiano di un dubbio universale potremmo ora sostituire l'universale epoché nel nostro nuovo e ben determinato senso. Noi mettiamo fuori azione la tesi generale inerente all'essenza dell'atteggiamento naturale, mettiamo di colpo in parentesi quanto essa abbraccia sotto l'aspetto antico: dunque l'intero mondo naturale, che è costantemente «qui per noi», «alla mano», e che continuerà a permanere come «realtà» per la coscienza, anche se a noi talenta di metterlo in parentesi. Facendo questo, come è in mia piena libertà di farlo, io non nego questo mondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito in senso proprio l'epoché fenomenologica, cioè: io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato in quanto essente, come faccio, direttamente, nella vita pratico-naturale, ma anche nelle scienze positive. Cosí attuo l'epoché fenomenologica, la quale, dunque, eo ipso, mi vieta anche l'attuazione di qualsiasi giudizio, di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell'essere e dell'essere-cosí e di tutte le modalità d'essere dell'esistenza spazio-temporale del reale. Cosí io neutralizzo tutte le scienze riferentisi al mondo naturale, e, per quanto mi sembrino solide... non ne faccio assolutamente uso. Non mi approprio di nemmeno una delle loro proposizioni, anche se sono di perfetta evidenza, non ne assumo nessuna e da nessuna di esse ricavo fondamento. (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica) Evidentemente, mettendo tra parentesi il mondo, mettiamo in parentesi anche noi stessi, che di questo mondo siamo parte. Che cosa resta allora di noi? Che cosa si rivela a noi essere il nostro «io»? Husserl risponde: «pure esperienze vissute», in cui il mondo «appare» alla coscienza; o, si può anche dire, il fascio d'esperienze vissute con cui la coscienza si relaziona al mondo. Ma qual è la struttura fondamentale della relazione coscienza-mondo? Husserl dice, riprendendo il concetto da Brentano, che a sua volta lo aveva ripreso dagli Scolastici medievali: l'«intenzionalità». Anzi egli spiega il senso della «intenzionalità» brentaniana in questo modo: Nella percezione viene percepito qualcosa, nella rappresentazione immaginativa qualcosa viene rappresentato in immagine, nell'amore qualcosa viene amato, nel desiderio qualcosa viene desiderato, ecc. Brentano pensa a ciò che si può cogliere di comune in questi esempi, quando dice: «Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli Scolastici del medioevo hanno chiamato «in-esistenza» intenzionale (o anche mentale) di un oggetto, e che noi chiameremmo, non senza qualche ambiguità, riferimento a un contenuto, direzione verso un oggetto (e ciò non vuol dire che si tratti di una realtà) oppure oggettualità immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, benché non sempre in egual modo». Questa «modalità» di riferimento della coscienza ad un contenuto... è appunto, nella rappresentazione, la modalità del rappresentare, nel giudizio, la modalità del giudicare, ecc. (Ricerche logiche) Husserl, dunque, dichiara di accogliere sostanzialmente l'intenzionalità brentaniana; ma con la specificazione che il rapporto coscienza-oggetto è un «vissuto» (si vive ad esempio l'amore dell'oggetto amato); vissuto in cui l'atto di coscienza e l'oggetto non sono in alcun modo separabili né considerabili come due realtà in sé; pertanto - aggiunge - non si può dire che la coscienza «contiene» un oggetto in sé immanente, né che un oggetto è contenuto nella e dalla coscienza. Col definire «vissuto intenzionale» l'atto di coscienza, scompare ogni distinzione tra il soggetto, ad esempio, che ama, e l'oggetto amato; e perciò l'oggetto, non avendo «realtà in sé», non può neppur essere detto «immanente» o «trascendente» la coscienza. Insomma l'unica cosa reale è l'atto, è la correlazione che stringe in unità coscienza e oggetto. È molto discutibile e può abbastanza spesso indurre in errore dire che gli oggetti percepiti, immaginati, desiderati, ecc. (che sono quindi dati, rispettivamente, nella modalità della percezione, della rappresentazione, ecc.) «entrano nella coscienza» o, viceversa, che «la coscienza (o l' "io") entra in rapporto» con essi, oppure che essi «sono assunti nella coscienza» secondo questa o quella modalità, e anche dire che i vissuti intenzionali «contengono in sé qualcosa come oggetto» e simili. (Ricerche logiche) Gli oggetti fisici restano dunque trascendenti la coscienza; sono al di là di essa, e in nessun modo interni all'esperienza vissuta. Rappresentarsi un oggetto, ad esempio il castello di Berlino,... non è altro che una specie determinata di «stato d'animo». Esprimere un giudizio su questo castello, gioire della sua bella architettura, o nutrire il desiderio di poter fare questo, ecc., sono vissuti nuovi, fenomenologicamente caratterizzati in modo nuovo. L'aspetto che hanno tutti in comune è il fatto che sono modalità dell'intenzione oggettuale, che in termini correnti non possiamo esprimere altrimenti se non dicendo che il castello è percepito, fantasticato, rappresentato in immagine, giudicato, ch'esso è oggetto di quella gioia, di quel desiderio, ecc. (Ricerche logiche) L'oggetto insomma è là. Nella sua «oggettività» non ha un senso. Ne acquista uno quando diviene contenuto di una mia esperienza vissuta, quando diventa, come dice Husserl, «noema» di una mia «noesi», ossia oggetto «mentale» (percepito, immaginato, desiderato) correlato ad un atto intenzionale (percepire, immaginare, desiderare). Il che significa pure che non l'oggetto «reale» è contenuto di coscienza, ma solo i suoi «noemi», e che nessun «noema» di un oggetto fisico rappresenta tutto il reale. L'oggetto, quindi, è il punto di riferimento «oggettivo» cui si riferiscono le varie «noeseis» (percepire, fantasticare, rappresentare in immagine); e in ognuna di queste l'oggetto, che è sempre lo stesso, mi si presenta come «un» particolare contenuto noematico, come «un» particolare senso, «un» particolare scorcio di prospettiva del reale, in quanto è intenzionato in «un» particolare modo. Va distinto l'oggetto nel modo in cui viene intenzionato e l'oggetto che viene intenzionato in quanto tale. In ogni atto, un oggetto viene «rappresentato» con queste o quelle determinazioni, e come tale esso potrà essere anche eventualmente il centro a cui mirano intenzioni di vario genere - intenzioni di giudizio, di sentimento, di desiderio, ecc. Pertanto in esse l'oggetto che viene intenzionato è lo stesso, mentre l'intenzione è diversa in ciascuna di esse, ogni rappresentazione intende l'oggetto in modo diverso. (Ricerche logiche) È nella «percezione sensibile» - che Husserl definisce «il modo primitivo del darsi delle cose stesse» - che la cosa appare nella sua verità significativa. E Husserl specifica che proprio la percezione sensibile, e non la sensazione, rivela in modo «pieno» l'oggetto. La sensazione infatti offre solo «dati psichici» informi, insignificanti, peraltro mutevoli; insomma solo materiali grezzi. La percezione sensibile, invece, coglie quei dati connessi nell'unità significativa dell'oggetto; il quale dunque mi si presenta in modo «evidente», mi si dà «riempendo» di sé l'atto intenzionale. In quanto la percezione coglie l'oggetto, che mi si offre, nella sua globalità, nella sua «pienezza», «in carne ed ossa», e soprattutto «in modo diretto», immediato, essa è un'«intuizione». Un esempio. Se sento parlare del castello di Berlino, questo diventa oggetto intenzionale, ma attraverso «segni» cioè parole; se, ugualmente, vedo quel castello attraverso la riproduzione fotografica, esso sarà sempre un mio oggetto intenzionale, ma sempre attraverso «segni», la foto. Quando poi vado a contemplarlo di persona, facendo magari una ricognizione accurata dei suoi interni e dei suoi esterni, esso mi si presenta ancora come oggetto intenzionato, ma ora «in modo diretto», e «in carne ed ossa». Sicché la rappresentazione di quel castello, che finora era rimasta «vuota», viene ora «riempita». L'intuizione sensibile, che, appunto in quanto percezione è vincolata al sensibile, ci dà in modo «evidente» la presenza spazio-temporale dell'oggetto. Su questa forma d'intuizione può elevarsi quella «intellettuale», o «concettuale», in cui l'oggetto viene «astratto» da ogni riferimento sensibile, e si presenta nella sua «essenza». Ciò, naturalmente, in linea generale, perché Husserl specifica che sull'intuizione sensibile può essere operata una prima forma astrattiva che ha per contenuto i «concetti sensibili», che a loro volta possono essere o «puramente sensibili» (ad esempio quello di «casa»), o «mescolati con forme categoriali» (ad esempio quello di «virtú»). Su questa che Husserl definisce «astrazione sensibile», può poi essere operata un'«astrazione puramente categoriale», che ha per oggetto i «concetti puramente categoriali», quali «unità», «pluralità», ecc Comunque, a livello astrattivo, a quello cioè delle «intenzioni intellettuali», si perviene alle «essenze», che, come s'è visto, possono essere, in generale, «essenze di cose» o «forme di relazione». 3 . L'io «costituisce» il mondo C'è, poi, una «percezione immanente», cioè interiore, con cui la coscienza coglie se stessa, ma in essa il «cogito» ed il «cogitatum» costituiscono un'unità immediata, che nell'atto percettivo interiore è indubitabile e «apodittico»: questo è l'aspetto «cartesiano» che Husserl stesso rivendica alla sua fenomenologia. La certezza relativa al mondo si fonda su quella relativa alla propria esistenza come «vissuto», come fascio di esperienze vissute; mentre quella relativa a se stessa, la coscienza la trova fondata in sé. L'io è già «costituito», il mondo, invece, dev'essere «costituito dall'io». È l'io, il cogito, dunque, il centro «costitutivo» dell'esistenza e del senso delle cose; come pure degli «uomini», degli «altri». In ciò la fenomenologia è un «idealismo trascendentale». Ma non in senso kantiano, avverte Husserl; essa si risolve completamente «nell'autoesposizione del mio io in quanto soggetto di conoscenze possibili», e quindi esclude ogni riferimento al «reale in sé», sia pure concepito come «il noumeno kantiano»; essa mira alla rivelazione dei «sensi dell'essere» (dell'essere che è sempre trascendente la coscienza) attraverso le «possibilità» che l'io ha di donare senso, negli atti intenzionali, all'essere stesso. Nel «costituire» il mondo, l'io è soggetto, autore, di un «suo» mondo; di questo fanno parte anche gli altri «io», che vengono costituiti attraverso l'«appercezione», attraverso cioè un riconoscimento per analogia. Con l'appercezione io riconosco l'altro io come spiritualità «analoga» alla mia, e quindi «estranea» alla mia, «altra» da me. Il mondo «viene costituito» dal mio io; ma ugualmente dagli «io» degli altri; senonché il rapporto tra gl'io è rapporto come tra «monadi»; e il mondo «costituito» dagl'io non è quello delle scienze obiettive, delle scienze dei fatti. La consapevolezza di tali problemi conduce Husserl ad aprire un nuovo filone di discorso, quello sull'esistenza umana, sui suoi valori, sul suo fine; quello insomma del fine della storia e del possibile ruolo delle scienze nella chiarificazione del senso dell'esistenza. Per operare questo esame bisogna anzitutto esercitare in modo sistematico l'epoché. Bisogna attuare un'epoché universale. Operare quest'epoché non equivale ad astrarre da essa esistenza; non basta per esempio un ripensamento fittizio dell'esistenza umana attuale al di fuori di qualsiasi elemento scientifico. Piuttosto occorre un'epoché da qualsiasi assunzione delle nozioni delle scienze obiettive, un'epoché da qualsiasi presa di posizione critica attorno alla verità o alla falsità della scienza, un'epoché persino dalla sua idea direttiva, dall'idea di una conoscenza obiettiva del mondo. In breve: noi operiamo l'epoché rispetto a tutte le finalità e alle azioni che assumiamo e compiamo in quanto scienziati o anche soltanto in quanto uomini avidi di sapere. (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale) Un'epoché cosí radicale, che mette in questione tutta la nostra vita quotidiana, di uomini «pratici» e «teoretici», ha il senso di una «messa in questione» totale dell'esistenza abituale. Forse risulterà addirittura che l'atteggiamento fenomenologico totale e l' epoché che gli inerisce sono destinati a produrre innanzitutto una completa trasformazione personale che sulle prime potrebbe essere paragonata a una conversione religiosa, ma che, al di là di ciò, è la piú grande evoluzione esistenziale che sia concessa all'umanità come tale. (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale) Certo è che pur continuando a vivere, a conoscere e ad operare come abitualmente facciamo, dobbiamo riservare un «tempo» della nostra vita a questo riesame che solo può riscoprire il «senso» di ciò che conosciamo e di ciò che operiamo. Operando quest'epoché viene in risalto, alla nostra coscienza, il «mondo della vita»: Il mondo della vita è il mondo spazio-temporale delle cose cosí come noi le sperimentiamo nella nostra vita pre- e extra-scientifica e cosí come noi le sappiamo esperibili al di là dell'esperienza attuale. Noi abbiamo l'orizzonte del mondo quale orizzonte di un'esperienza possibile di cose. Cose: cioè pietre, animali, piante, uomini, e formazioni umane; ma tutto, qui, è soggettivo-relativo, anche se normalmente, nella nostra esperienza e nella cerchia sociale che è legata a noi in una comunità di vita, noi perveniamo a fatti «sicuri». Ma se noi siamo gettati in un ambiente estraneo, tra i negri del Congo, tra i contadini cinesi, ecc., ci accorgiamo che le loro verità, i fatti che per loro sono assodati e verificati o verificabili, non sono in genere affatto quelli che noi riteniamo tali. (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale) Il mondo della vita è dunque «relativo», anche in base alle connotazioni sociali dei gruppi umani. Tuttavia - dice Husserl abbiamo cercato di superare questa relatività fondando una scienza «obiettiva», che pareva soddisfare la nostra esigenza di «una verità concernente gli oggetti che sia incondizionatamente valida per tutti i soggetti, a partire da ciò su cui, malgrado la relatività, sono d'accordo gli europei normali, gli indi normali, i cinesi ecc.». Ma il mondo posto dalla scienza obiettiva «travalica» il mondo della vita, non corrisponde ad esso; perciò va «messo tra parentesi»; ad esempio i «corpi» che ci sono familiari non sono i «corpi» della fisica. Ma, messo tra parentesi il «mondo» costruito dalle scienze, dobbiamo dichiarare incrollabile la relatività? Questo imbarazzo scompare appena consideriamo il fatto che il mondo della vita, malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale. Questa struttura generale... non è a sua volta relativa. Noi possiamo considerarla nella sua generalità e ritenerla, pur con la necessaria cautela, accessibile una volta per tutte e da pane di tutti. Il mondo in quanto mondo della vita ha già in via prescientifica le «stesse» strutture che le scienze obiettive presuppongono. (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale) A fondamento del metodo delle scienze sta dunque il mondo della vita, sta il dominio delle evidenze originarie, dotato di una propria struttura generale percepibile da tutti. Mondo comune a tutti gli uomini, mondo che per essere colto, e colto come comune, richiede il riconoscimento dell'altro uomo come esistente e la «comunità» del singolo con tutti gli altri. Il mio ego dato a me in maniera apodittica, l'unico ego che io possa porre come esistente in maniera assolutamente apodittica, non può essere un ego che ha esperienza del mondo se non in quanto si trova in comunità con altri ego a lui simili, se non in quanto è membro di una società di monadi che è orientata a partire da lui. La giustificazione conseguente del mondo dell'esperienza oggettiva implica una pari giustificazione dell'esistenza delle altre monadi. (Meditazioni cartesiane) Il mondo della vita è dunque lo stesso mondo che io, nella considerazione ingenua, trovo già a portata di mano, ma che ora riconosco nella sua struttura generale come «mio», come «costituito» dal mio io, come dotato di un significato donatogli dal mio rapporto con esso; e da cui trae validità anche l'immagine scientifica che me ne formo. Dunque non le scienze danno un senso al mondo, e tanto meno all'esistenza umana. È l'io esistente invece che dà senso a sé e al mondo. È l'io che pone ideali, valori, criteri, leggi attraverso l'esercizio della ragione. Bisogna dunque, per Husserl, che la ragione, innata nell'umanità e sua essenza, «si riveli» nel movimento storico, e si «ridesti» nel singolo, «autocomprendendosi», «autoriconoscendosi», recuperando quel «mondo della vita», quelle evidenze originarie relative al mondo, naufragate nel predominio delle immagini scientifiche del mondo. Recuperando il mondo della vita come «proprio» dell'uomo, questi riacquista fiducia nelle sue capacità, nei rapporti con sé e con la realtà, e le stesse scienze saranno potenziate per il fatto di essere fondate sulle evidenze originarie soggettive, e rigenerate per il fatto che perderanno la loro presunta assoluta oggettività. Solo recuperando il ruolo «costitutivo» del soggetto, ossia il valore fondante dell'evidenza «soggettiva», la civiltà occidentale può superare la «crisi delle scienze», come quella di norme valori e forme dell'esistenza umana.