L`ANTIGERMANESIMO ITALIANO Da Sedan a Versailles

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FEDERICO NIGLIA
L’ANTIGERMANESIMO ITALIANO
Da Sedan a Versailles
Le Lettere
II
AFFERMAZIONE E USURA
DEL MODELLO TEDESCO IN ITALIA
(1870-1914)
La guerra franco-prussiana è un momento di svolta della storia europea: Sedan non modifica solamente i rapporti di forza tra Francia
e Prussia ma definisce un nuovo sistema di potere a livello continentale, centrato sul nascente impero tedesco. Si verifica un’alterazione
strutturale dell’equilibrio tra le potenze, con un definitivo scardinamento dell’assetto definito nel Seicento e fondato sulla divisione del
mondo germanico. L’impero tedesco, ampollosamente proclamato il
18 gennaio 1871 nello stesso giorno della proclamazione del regno di
Prussia, si presenta sulla scena europea come un soggetto nuovo: non
solo il centro del nuovo assetto politico-diplomatico garantito da una
potenza militare ed economica di prim’ordine, quanto soprattutto il
punto di irradiazione dello Zeitgeist, delle nuove istanze della cultura
europea.
L’Italia è, probabilmente, anche per i motivi di cui si è detto in precedenza, il paese maggiormente influenzato dalla nuova Germania. Essa
finisce per essere progressivamente inclusa nella rete di alleanze tessuta
da Berlino, ma quel che più conta è che gli italiani vengono conquistati
da tutto quello che viene dalla Germania, che sia letteratura, filosofia,
politica, tecnologia o arte militare.
Nel corso degli oltre quarant’anni di pace compresi tra la proclamazione del secondo Reich e la prima guerra mondiale l’Italia si imbeve
in ogni modo possibile dell’alta cultura, ma anche delle più semplici mode di Germania, a volte con un’interazione dialettica di elevato
profilo, a volte con un vero e proprio scimmiottamento degli usi altrui. È in questo contesto che prendono corpo le prime reazioni antitedesche, formulate nel nome di un’identità nazionale da difendere
e, in subordine, della volontà di evitare che il Modell Deutschland si
sostituisse ad altri modelli europei giudicati più confacenti ai valori e
agli interessi italiani.
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Federico Niglia
1. A prima impressione: l’avanguardia dell’Europa “giovane”
Il sentimento dominante nel mondo politico e intellettuale italiano, nel
settembre 1870, era quello della sorpresa. L’attenzione di tutti era centrata sull’inserimento di Roma all’interno del Regno d’Italia, un problema dalle implicazioni estremamente estese che catalizzava gran parte
del dibattito pubblico. Non mancarono però i commenti alla proclamazione dell’impero tedesco, in gran parte entusiasti e tutti, ripetiamo,
accomunati dallo stupore. Per gli italiani non meno che per gli altri osservatori europei la sconfitta della Francia a Sedan si configurava come
un evento “prodigioso” nel senso letterale del termine, cioè un misto di
meraviglia e orrore. Si aveva la netta percezione che l’equilibrio europeo che la restaurazione aveva ricostruito dopo le guerre napoleoniche
fosse stato definitivamente scardinato. L’unità tedesca confermava in
modo irrefutabile la forza dirompente contenuta nell’idea nazionale,
mostrando fino a che punto la sua applicazione puntuale potesse distruggere l’equilibrio europeo. Se nei precedenti casi di state building,
dal Belgio all’Italia, l’unità aveva portato ad riassetto problematico ma
non certo tragico dell’equilibrio, così non era stato per l’unità tedesca,
vera e propria alterazione strutturale della comunità internazionale.
In secondo luogo l’unità tedesca aveva consacrato l’esistenza di un
grande polo di irradiazione culturale, che per alcune sue caratteristiche intrinseche si presentava diverso rispetto agli altri poli culturali del
continente. La Germania non era infatti solo la fucina nella quale venivano forgiate alcune teorie filosofiche o scoperte scientifiche: essa era
soprattutto il luogo in cui i nuovi concetti vengono applicati in modo
sinergico alla vita reale. Più che il mondo delle idee, la Germania diventava il paese dove le idee si inverano e contribuivano a fronteggiare le nuove sfide del tempo nuovo. La Germania lasciava indietro le
altre nazioni, superate nella capacità di fornire risposte alla crescente
massificazione sociale, alle nuove dinamiche industriali, alla crescente
competitività che si sperimentava a livello internazionale. Invecchiata
appariva soprattutto la Francia, da molti percepita come l’espressione di una stagione tramontata e, come tale, inidonea a rappresentare
un modello di riferimento. Questo lo si percepiva nella Francia stessa,
tanto che uno dei motivi di commiserazione della terza repubblica era
quello del non essere più il riferimento culturale europeo: potrà apparire un’esagerazione, ma per la Francia l’affermazione della Germania
come polo stabile di riferimento culturale dell’Europa aveva rappresentato un’onta ben maggiore delle vessazioni, invero modeste, imposte
da Bismarck con il trattato di pace, e dell’isolamento diplomatico nel
quale il cancelliere di ferro aveva costretto Parigi. Non è un caso che
l’analisi più compiuta sulla “minaccia” culturale tedesca venisse com-
Affermazione e usura del modello tedesco in Italia (1870-1914)
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piuta dal pensiero nazionalista francese a cavallo tra gli anni Ottanta
dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Fu in Francia che
prese corpo la riflessione più articolata sulla “estraneità” della Germania rispetto alla storia comune dell’Europa: sulla tradizionale visione
politico-diplomatica del cardinale Richelieu, che vedeva in un mondo
germanico frammentato una garanzia di sicurezza, si innestò una concezione della Germania come soggetto naturalmente destinato ad alterare in via permanente l’equilibrio del continente e a diffondere i germi
“insani” della cultura tedesca. In Charles Maurras, come prima di lui
nelle opere di uno storico come Fustel de Coulanges, vi era il rigetto del
pensiero di Madame de Staël.
Per parte sua, l’Italia non visse negativamente l’ascesa e l’affermazione della Germania, dalla quale trasse peraltro ampio giovamento:
per ben due volte, nel ’66 e nel ’70, essa aveva di fatto beneficiato
dell’avanzata tedesca per ampliarsi senza bisogno di attendere, come
era stato nella prima fase risorgimentale, l’appoggio francese. Ora dalla Germania non ci si aspettava più, o non più soltanto, la creazione
di condizioni favorevoli ad ulteriori ampliamenti territoriali, quanto la
trasmissione delle competenze necessarie a trasformarsi in una nazione
padrona dei suoi destini. Queste considerazioni hanno spinto anche
Rosario Romeo a spiegare perché l’Italia «paese di recente formazione e
impegnato in un faticoso sforzo di ammodernamento della propria vita
intellettuale, che si accompagnava allo sforzo di mettersi alla pari con
i grandi paesi dell’Europa moderna nell’ordine politico-sociale, abbia
accolto l’influenza culturale tedesca in misura più vasta di ogni altro
paese al di fuori dell’area, di cultura tradizionalmente germanica, della
Mitteleuropa»1.
A questo riorientamento filo-germanico aveva contribuito anche il
progressivo scadimento dei rapporti tra la Francia e il Regno d’Italia.
Già all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia la Francia di
Napoleone III aveva assunto un atteggiamento cauto verso le aspirazioni italiane: proprio nel momento in cui Roma tornava ad essere bramata con forza dagli italiani Napoleone III, ben diverso oramai dal
tribuno del secondo impero, si era fatto difensore del papa. L’imperatore era inoltre restio a far accomodare l’Italia nel “salotto buono”
della politica europea e lo si era visto nel ’66, quando la Francia aveva
mostrato molta freddezza per i progetti italiani2. Il dato palpabile, non
1
R. ROMEO, La Germania e la vita intellettuale italiana dall’unità alla prima guerra mondiale, in ID., L’Italia unita e la prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 165.
2
Sull’argomento si veda sempre F. LEFEBVRE D’OVIDIO, Napoleone III, l’Austria e la
questione del Veneto, cit.
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Federico Niglia
solo dai diplomatici e dagli addetti alla politica estera ma anche dagli
appartenenti al più vasto ceto intellettuale, era la trasformazione della
Francia in potenza conservatrice e statica, come tale inidonea a fornire
una risposta alla giovane Italia. All’opposto la Prussia, di cui, come si è
già detto, l’Italia aveva saggiato il dinamismo nel 1866: la rapidità con
cui era stata conchiusa l’alleanza con Berlino, la possenza delle armate
prussiane, la capacità del cancelliere di gestire la pace, tutto questo
aveva trasmesso un forte segnale a un’Italia alle prese con la propria
incapacità politica e militare, ma, al contempo, ansiosa di affermarsi a
livello continentale.
Nel settembre del 1870 si era compresa l’ampiezza del disegno
bismarckiano: Sedan mostrava chiaramente la volontà della Germania
di affermarsi come riferimento per l’Europa. Parlare di un’esplicita volontà egemonica da parte di Bismarck sarebbe certamente improprio:
il principe mancava di quelle aspirazioni globali che avrebbero invece
animato Guglielmo II ed era poco interessato al ruolo egemonico che
la cultura tedesca avrebbe giocato sul continente. Era però fisiologico
che un paese grandemente dotato di forze morali e materiali finisse per
imporsi a livello continentale non solo come forza politica e militare
ma soprattutto come modello di sviluppo sociale e culturale. La nuova
Germania diventa così un polo capace di guidare l’Europa verso i nuovi
traguardi di crescita politica ed economica che si materializzano negli
ultimi decenni del secolo.
Non casualmente Federico Chabod ha aperto la sua magistrale Storia della politica estera italiana citando un commento entusiastico di
Alberto Blanc, il segretario generale della Consulta, forse il diplomatico
italiano che per primo aveva realizzato la fine della diplomazia risorgimentale e l’affermazione del nuovo sistema internazionale centrato sulla Germania3. È il caso di richiamare ancora una volta Romeo, che si è
soffermato sulla capacità della Germania di assurgere a nuovo modello
di riferimento per l’Italia in sostituzione della Francia:
Appare chiaro, dunque, che alla radice di queste simpatie per la nuova Germania stava una scelta che era insieme culturale e politica, e che coincideva
con una determinata visione dell’avvenire della civiltà europea. All’esaltazione della forza e della virtù tedesca si accompagnava infatti una crescente
sfiducia nelle sorti e nell’avvenire della Francia4.
Veniamo ora ai commenti dei contemporanei, coloro i quali vissero in
prima persona le emozioni di quel grande rivolgimento politico. Dallo
3
4
F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, cit., p. 3 e ss.
R. ROMEO, La Germania e la vita intellettuale italiana, cit., p. 161.
Affermazione e usura del modello tedesco in Italia (1870-1914)
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spoglio dei commenti apparsi sulla stampa quotidiana e periodica italiana emerge una sorpresa per una forza non prevedibile: la potenza
tedesca faceva paura, ma i timori iniziali venivano facilmente superati
perché si trattava di una forza che era espressione di una sana vitalità. Testimonianze di questo tipo se ne trovano in quantità, ma la più
emblematica rimane quella, non casualmente già citata da Romeo, del
pisano Giuseppe Civinini. Il direttore de «La Nazione» era un figura
di primo piano del giornalismo nazionale e, da tempo, si batteva per
un riorientamento dell’Italia verso la Prussia, della quale ammirava la
modernità, la forza e soprattutto la capacità di svecchiamento della politica europea. Civinini è tanto più degno di essere richiamato anche
perché fu considerato, non senza eccessi, come il maggiore ispiratore
della svolta filo-germanica impressa da Francesco Crispi nei decenni
successivi. Nel maggio 1871 apparve sulla «Nuova Antologia» un suo
ampio saggio che partiva dalla comprensione per le riserve da molti
espresse nei confronti della Germania bismarckiana:
Non fu senza timori né senza sospetti accolto dall’Europa il rinnovamento dell’Impero Germànico. […] L’Italia poi più particolarmente fu scossa
dalla notizia che la Germania aveva un nuovo imperatore, un imperatore
acclamato “il vittorioso” da un esercito prode e trionfante, un imperatore
che ora, al diritto divino già prima vantato come origine della sua potenza
regale, aggiungeva il diritto della spada. Quell’annunzio risuscitò mille dolorose memorie del passalo, ispirò mille gravi timori per l’avvenire. Parve a
molti di rivedere un’altra volta Ottone, alla testa de’ suoi guerrieri, scendere
dalle Alpi per atterrare la dinastia nazionale dei Berengarii; risorse nelle
menti l’immagine del Barbarossa che sparge di sale le rovine fumanti di Milano, del Conestabile di Borbone che assalta le mura di Roma, del principe
d’Orange che assedia Firenze. Le fresche e crudeli ricordanze del dominio
tedesco, cessato appena da quattro anni, si rinverdirono: e più di un padre
tremò per la vita dei figli, destinati forse ancora una volta a combattere per
la libertà della patria, mal difesa dalle Alpi, contro l’ambizione teutonica.
Si aggiungeva che questo nuovo impero germanico sorgeva dopo avere
atterrato e quasi distrutto la Francia, volgarmente creduta protettrice del
diritto dei popoli e maestra di libertà moderna; clie il primo atto di lui doveva essere un atto da conquistatore, l’annessione di una parte del territorio
tedesco oramai da secoli considerata francese; e che il nuovo imperatore
invaso di un profondo sentimento religioso, persuaso di aver direttamente
da Dio una grande missione mondiale, faceva temere chela forza vincitrice
della Germania diventasse strumento di un principe, in cui l’ambizione del
conquistatore si unisse al fanatismo del profeta5.
5
G. CIVININI, L’antico e il nuovo Impero in Germania. I: Il santo romano impero, «Nuova
Antologia», n. 16, aprile 1871, pp. 807-808.
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Federico Niglia
Civinini metteva però subito in chiaro come tali paure fossero il frutto
di vecchi pregiudizi dell’ambiente neoguelfo e anche di coloro che «di
quella scuola non hanno avuto il coraggio di accettare l’ideale neo-guelfo
del Papato difensore e rappresentante dell’indipendenza italiana, [ma]
ne hanno almeno presi tutti gl’ingiusti e falsi giudizii contro l’Impero»6.
Questa falsa coscienza avrebbero veicolato un’immagine non reale dalla
storia tedesca e in particolare del suo ruolo giocato dalla Germania nei
due momenti epocali della storia europea: il crollo dell’impero romano d’Occidente e la Riforma protestante. Per Civinini l’abbattimento
dell’impero romano per mano dei barbari germanici non doveva essere più presentato, come preteso dalla tradizione, come un vile colpo al
cuore della civiltà, bensì come il fisiologico superamento di un assetto
politico e culturale marcescente. Discorso analogo per la Riforma, con
la quale ancora una volta la Germania aveva impresso una spinta propulsiva alla storia del continente. Dunque in questa lettura la Germania
diventava potenza di rinnovamento, un rinnovamento che era soprattutto intellettuale. Nelle parole di Civinini si trova quasi una replica alla
critica leopardiana di cui si è fatto cenno nel capitolo precedente:
E qui forse cade in acconcio notare che, se le armi della Prussia hanno materialmente compiuto il gran disegno della unificazione germanica, esso è
stato preceduto ed efficacemente preparato da un lavoro intellettuale, che
è cominciato, può dirsi, dal Leibnitz e si è continuato fino a’ di nostri. Ci
hanno contribuito filosofi e poeti, storici ed eruditi. Si può asserire che il
rinnovamento della Germania è opera principalmente della scienza e del
pensiero. Dal Goethe al Mommsen, dal Kant al Ranke, dal Winkelmann
all’Humboldt, in ogni parte dello scibile umano, con ogni forma di poesia, la Germania intellettuale ha preparato la nuova Germania politica. Le
lettere, le scienze, la storia, la filosofia hanno dato al popolo tedesco il profondo sentimento della propria nazionalità, gli hanno insegnato a considerarsi come destinato ad una grande missione storica, lo hanno persuaso che
compierla era un dovere. È anzi questo il carattere proprio del movimento
germanico, ch’esso è stato prima, per cosi dire, un’opera dell’intelletto; e
quando quella è stata matura, è divenuto un’opera della forza: l’idea ha preceduto l’atto, e prima di diventare il popolo materialmente più forte d’Europa, i tedeschi sono stati il popolo intellettualmente più culto; l’egemonia
politica è stata effetto e conseguenza dell’egemonia intellettuale. Fortunata
anzi e invidiabile in questo la Germania, al paragone di qualche altro popolo; perocché chi crede che l’intelletto sia qualche cosa nel mondo, ha poca
fede nella durata di opere che sono frutto soltanto di operazioni politiche
e militari, senza sufficiente preparazione intellettuale e morale. Ma dove un
popolo ha già una filosofia, una storia, una poesia, una scienza, una musica,
6
Ivi, p. 809.
Affermazione e usura del modello tedesco in Italia (1870-1914)
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una erudizione veramente nazionali, opera di tutti, a tutti comuni, dove un
movimento sempre crescente da più di un secolo ha fondato già l’unità nel
dominio del pensiero e della dottrina, allora Sadowa e Woertli posson venire: trovano il terreno in cui il seme frutterà frutti sani e durevoli7.
Leggendo Civinini e gli altri germanofili della prima ora si rinviene una
tendenza generalizzata a contrapporre la grande ricchezza di idee e
di risorse materiali della Germania alla presunta povertà mentale dell’Italia, ancorata a categorie interpretative e formule politiche sempre
più inattuali.
Per costoro si trattava dunque di fugare i vecchi pregiudizi antitedeschi e di valorizzare le analogie e le sintonie tra i due paesi. I parallelismi
tra Italia e Germania, emersi nella prima metà del secolo e dei quali si
è già parlato, vennero ampiamente sfruttati. Nel campo dell’organizzazione statale i punti di contatto erano peraltro diversi, e basti pensare
il sistema di giustizia che la Germania iniziò a costruire a partire dall’unificazione ricalcava in molta parte quei codici che in Italia erano stati
varati nel 1865. È poi interessante rilevare come i governi di entrambi
paesi si fossero cimentati nella costruzione di un sistema di sicurezza
sociale, anche se in quest’ambito fu soprattutto l’Italia a rincorrere la
Germania8. Il dato rimarchevole è che in Italia come in Germania fossero state le priorità dello Stato nazionale e quelle della rivoluzione industriale a dettare tempi e temi dell’azione esecutiva e legislativa9. Ecco
che le due nazioni “tardive” – è opportuno rispolverare l’utile concetto
di verspätete Nationen coniato dal sociologo Helmuth Plessner – indicavano la strada a quella che veniva detta l’Europa “giovane”, giustapposta
agli stati e agli imperi di antica formazione e maggiormente legata alle
vicende del tempo presente.
Inutile però negare il fatto che fosse la Germania a simboleggiare
in modo più compiuto il nuovo che avanzava, anche perché presentava una solidità e un dinamismo di cui il Regno d’Italia, suo malgrado,
non disponeva. E infatti molti di quei tedeschi che avevano guardato
con invidia all’Italia si volgevano ora compiaciuti al loro paese e alla
sua guida. Quegli stessi liberali che avevano osannato Cavour perché
insoddisfatti di Bismarck, si ritrovavano ora nel programma nazionale
7
ID., L’antico e il nuovo Impero in Germania. II: L’impero tedesco, «Nuova Antologia»,
n. 17, maggio 1871, p. 34.
8
Si veda P. SCHIERA, Il laboratorio borghese. Scienza e politica nella Germania dell’Ottocento, il Mulino, Bologna 1987.
9
M. STOLLEIS, La costruzione dello Stato nazionale in Italia e in Germania e le sue prospettive future, testo della relazione presentata al convegno «La costruzione dello stato nazionale in Italia e in Germania - Der Aufbau des Nationalstaates in Italien und Deutschland
in Italien und seine Zukunftinge Perspektiven», Accademia dei Lincei, Roma, maggio 2011.
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Federico Niglia
promosso dal principe. È interessante notare come anche il vecchio paragone tra Cavour e Bismarck, un tempo decisamente a favore del primo, tendesse e modificarsi. Lo si vede chiaramente leggendo il volume
che lo storico Heinrich von Treitschke dedicò alla figura di Cavour10.
Il libro si poneva nel solco di quella corrente di pensiero sinceramente favorevole all’avvicinamento italo-tedesco, come peraltro esplicitato
negli auspici conclusivi:
Sono finalmente scomparsi quei gravi torti che per l’abuso del nostro nome
si erano accumulati sopra di noi sul suolo italiano, dacché le aquile di Federico il Grande hanno ritrovato di nuovo il ben noto cammino della Boemia
ed ivi conquistarono la Venezia all’Italia; dacché i vincitori di Metz e di
Sédan consegnarono agl’Italiani le chiavi della città eterna. Noi lasciamo
all’avvenire il decidere chi debba essere preferito, se il fondatore dello Stato
italiano o il fondatore dello Stato tedesco: è una sentenza che oggi non può
solleticare che le voglie di un preteso profeta o la vanità dell’emulazione
nazionale. Noi ci congratuliamo della giovane vita che tra mille difficoltà
e patimenti pure si manifesta nello Stato unitario di Cavour, e che anche
in Roma, vogliamo sperarlo, potrà svegliare di nuovo le forze di un popolo
grandemente privilegiato dalla natura; e poi torniamo pieni di confidenza
all’opera del nostro Stato, lieti di ricordare che a noi fu concesso due volte di
sostenere ad un tempo la libertà della nuova Germania contro la prepotenza
forestiera, e di dare compimento ai giusti desiderii di un popolo straniero,
nell’atto stesso che espiavamo un’ antica colpa. Il fantasma che in Francia si
chiama libertà repubblicana ha mostrato da lungo tempo la sua vera faccia.
L’odio e l’invidia dei congiunti latini prorompe in audaci invettive contro
l’Italia. Possano gl’Italiani tenersi a mente questa nuova lezione, e liberare
il nobile loro paese dal predominio dei costumi gallici! Legati con noi Tedeschi da antichissima comunione di destini, coi Francesi dai vincoli del
sangue, gl’Italiani meglio di qualunque altra Nazione sono atti a diventare
una potenza conciliatrice tra i due popoli vicini, ora così profondamente
nimicati tra loro. Questa è la politica che si conviene al popolo di Cavour11.
Ma Treitschke sottolineava forse troppo l’ansia di Cavour di affrancare
l’Italia dalla tutela francese e ne esagerava artificiosamente lo slancio
verso la Prussia. Nelle mani dello storico tedesco l’Italia assumeva il
ruolo storico di potenza pacificatrice dell’Europa e mediatrice tra i due
poli dell’Europa carolingia. Treitschke immaginava un nuovo sistema
di equilibrio europeo, fondato sull’interazione tra Germania, Francia e
Italia, ma nel quale quest’ultima esercitava un ruolo subordinato rispet-
10
H. VON TREITSCHKE, Il conte di Cavour, traduzione di Anselmo Guerrieri Gonzaga, G.
Barbèra editore, Firenze 1873.
11
Ivi, pp. 242-243.
Affermazione e usura del modello tedesco in Italia (1870-1914)
51
to alla potenza tedesca, una potenza che non aveva nulla da spiegare o
da farsi perdonare dall’Europa12.
Nella pubblicistica italiana il mito della Germania come avanguardia
di una nuova Europa avrebbe tenuto banco per diversi decenni. Una
conferma molto chiara di questa sopravvivenza ce la fornisce Guglielmo
Ferrero, che nel 1897 diede alle stampe L’Europa giovane13, uno studio
comparativo tra paesi latini e paesi nordici di impostazione tipicamente
spenceriana basato sulle impressioni di un biennio di viaggi che Ferrero
aveva compiuto in Germania, Russia, Inghilterra e nei paesi scandinavi.
Nel volume, che ottenne un certo successo, Ferrero contrapponeva i
paesi latini, dove la classe dirigente non partecipava in alcun modo del
lavoro produttivo, e quelli nordici, Germania compresa, dove invece
le dinamiche del capitalismo industriale avevano ridefinito i rapporti
sociali e generato una nuova classe dirigente.
Per Ferrero la Germania era il paese che aveva prodotto due grandi
fenomeni epocali: il bismarckismo e il socialismo. L’autore si soffermava ampiamente su quest’ultimo, mostrando come in Germania la dicotomia tra capitale e lavoro fosse stata in parte superata con l’affermarsi
di divisioni trasversali alla società14. Contrariamente a quanto avrebbe
affermato in seguito, quando si sarebbe tramutato in un fiero interventista antigermanico, Ferrero sosteneva che l’orientamento militarista e
conquistatore dimostrato dalla Germania di Bismarck rappresentava
solo un carattere transitorio destinato a lasciare il passo a una volontà di
integrazione e amalgama con le altre società europee ed extraeuropee.
Con una previsione forse non proprio lungimirante motivava le cupidigie imperiali di Guglielmo II come una semplice aspirazione all’influenza al di fuori dell’angusto contesto dell’Europa centrale:
Ma sarebbe vano credere che la missione futura della Germania sia di combattere altre guerre o di guidare i popoli civili sulla via della riforma sociale.
La Germania, se non ha deposto ancora la pesante armatura di cui la vestì
Bismarck, ha per lo meno rinfoderata con gran piacere la pesante armatura
12
Questa la chiusura del volume: «Sono finalmente scomparsi quei gravi torti che per
l’abuso del nostro nome si erano accumulati sopra di noi».
13
G. FERRERO, L’Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord, Treves, Milano, 1898.
14
Così Ferrero: «L’unione di tutti i partiti contro il socialismo non è oggi in Germania
che un’ironia o un sogno: la realtà sono gli antimilitaristi contro il partito militare; i borghesi
di tutta la Germania contro i nobili prussiani; gli industriali contro i latifondisti; i cattolici
contro i protestanti; i protestanti contro gli ebrei; i piccoli commercianti contro i grossi; la
grande maggioranza del paese in rivolta, aperta o latente, contro le tradizioni militaresche e
imperiali della politica bismarckiana; gli stati particolari contro l’impero, i polacchi e gli alsaziani contro i prussiani: come può dal raccapricciante disordine d’una simile lotta sociale
nascere la semplicità quasi schematica di un puro confitto tra capitale e lavoro?». Ivi, p. 112.
52
Federico Niglia
di cui la vestì Bismarck e non la sguainerà se non costretta da inevitabili
eventi. D’altra parte, la sua inesperienza politica è ancora troppo grande,
perché essa possa insegnare al mondo il gran segreto che guarirà i mali della
società moderna. La vera missione invece dei tedeschi è missione di coloni
e pionieri. […] La missione civile della Germania è insomma di formare
la borghesia industriale e commerciale nei paesi restati addietro, per vizio
di organizzazione sociale o per difetto degli uomini, nella gara del lavoro
moderno; di eguagliare, in tutto il mondo civile, le condizioni sociali dei
differenti popoli, introducendovi il regime borghese in tutti, così nella rudimentale società agricola della California, come nell’impero militare, teocratico e burocratico della Russia.
La Germania, posta così in mezzo all’Europa, è destinata a diventare il grande formicaio centrale del mondo, da cui lunghe processioni di formiche partiranno per tutte le direzioni della terra; di formiche laboriose e non guerriere; pazienti e non feroci; capaci non di distruggere ma di accumulare15.
Nello stesso anno in cui pubblicava l’Europa giovane, Ferrero dava alle
stampe anche i testi di una serie di conferenze sul militarismo, nelle
quali sosteneva che con la società industriale la guerra avesse perso
gran parte del suo senso: nei secoli passati la guerra – intesa come razzia
di risorse – era stata lo strumento attraverso cui classi dominanti senza
alcun legame con il mondo produttivo aveva cercato di accrescere il
loro potere. Nel momento in cui le nazioni civili cessavano di essere
governate «da oligarchie di sibariti oziosi ma da gruppi sociali che, dirigendo, bene o male, il valore sociale, hanno sino ad un certo segno
diritto di essere annoverati tra i membri utili della società» sorgeva un
interesse diffuso ad evitare la guerra16.
Con il passare degli anni all’immagine della Germania come avanguardia dell’Europa giovane se ne affiancò un’altra: quella della Germania
come espressione della stabilità e della sicurezza. Fu questa seconda visione a conquistare la borghesia italiana a cavallo tra Otto e Novecento17.
2. La germanizzazione silenziosa
Da un punto di vista formale il trentennio che precedette lo scoppio della
prima guerra mondiale può essere riassunto come il periodo dell’Italia
nella Triplice Alleanza. Su questo accordo molto e in diverse epoche è
Ivi, pp. 117-118.
G. FERRERO, Il militarismo, Treves, Milano 1898, p. 413.
17
Per l’immagine della Germania nella borghesia dell’età liberale A. M. BANTI, Storia
della borghesia italiana: l’età liberale (1861-1922), Donzelli, Roma 1996, p. 163. In prospettiva comparata utile M. MERIGGI, P. SCHIERA, Dalla città alla nazione. Borghesie ottocentesche
in Italia e in Germania, il Mulino, Bologna 1993.
15
16
Affermazione e usura del modello tedesco in Italia (1870-1914)
53
stato scritto. Pur tenendo a mente la molteplicità delle interpretazioni
che sull’argomento sono state fornite non si può negare che il giudizio
sull’Italia nella Triplice sia stato (ed è ancora oggi) fortemente condizionato dalla lettura che ne diede Gaetano Salvemini e una certa storiografia
di orientamento democratico.
Il Salvemini interventista democratico della prima guerra mondiale
ma soprattutto il Salvemini storico fornirono un’interpretazione che ha
finito per alimentare il mito della Triplice come alleanza “innaturale”
dell’Italia: legandosi all’Austria-Ungheria e alla Germania il paese si
sarebbe vincolato ad un partenariato inidoneo innanzitutto a produrre
risultati tangibili in funzione del completamento dell’unità. Secondo
questa ricostruzione con l’accordo del 1882 l’idea nazionale cessava
di essere il principio guida della politica estera italiana. È proprio al
Salvemini che si deve la lettura della Triplice come alleanza dal valore
“negativo”, utile cioè solo per rompere l’isolamento internazionale e
per migliorare la sicurezza del paese.
Salvemini e altri dopo di lui hanno riconosciuto come la Triplice rispondesse effettivamente alla necessità di uscire dall’impasse in cui era
finita la politica estera italiana della destra, oramai ancorata a schemi
inattuali e infruttuosi. Ma tale corrente di pensiero ha sottovalutato il
valore positivo che l’accordo del 1882 assumeva per l’Italia, confondendo di fatto l’orientamento filotedesco di ampi settori del paese con
il triplicismo crispino, del quale si parlerà a parte e che rappresentò l’estremizzazione di un sentimento tendenzialmente moderato condiviso
da settori cospicui dell’élite politica ed intellettuale nazionale.
La storiografia si è ampiamente soffermata sulle ragioni della svolta
di politica estera impressa da Depretis e Mancini. Qui basti ricordare
che l’avvicinamento alla Germania venne concepito come un passaggio necessario per dare all’Italia quella collocazione internazionale che
mancava dalla presa di Roma. Il congresso di Berlino del 1878 e l’annessione della Tunisia alla Francia nel 1881 avevano portato a un inclemente ripensamento della politica estera che l’Italia aveva fino a quel
momento condotto. In un’Italia “malcontenta” e “sdegnata” si ebbe un
primo diffuso moto di ripulsa verso la Francia: in parlamento il gruppo
guidato da Sydney Sonnino prese posizione a favore di una rottura con
Parigi, mentre Pasquale Stanislao Mancini, nominato ministro degli
Esteri nel maggio 1881, fece i primi passi per migliorare le relazioni
con l’Austria-Ungheria e la Germania, «ancora dominate da una certa
freddezza e da una invincibile diffidenza»18.
18
Intervento di Mancini alla Camera dei Deputati, 21 giugno 1881. Un’utile ricostruzione del processo di riorientamento dell’opinione pubblica italiana verso la Germania
54
Federico Niglia
Nel dibattito che precedette la firma della Triplice divenne sempre più
diffusa l’idea secondo cui la Germania rappresentasse, al di là dei suoi
vizi intrinseci e dei fattori che la allontanavano dal sentire italiano, un
partner “frequentabile”. Questo, ad esempio, il leit motiv di un articolo
che Nicola Marselli, esponente di primo piano dell’establishment militare e senatore del Regno, pubblicò in luglio sulla «Nuova Antologia»:
L’Italia, pur mantenendosi stretta all’Inghilterra, non deve far senza di solide amicizie con potenze continentali. Sul continente dell’Europa essa deve
trovare quel freno all’ambizione della Francia, che inutilmente aspetterebbe
dal ministero Gladstone. Certo che senza l’acquiescenza dei governi di Berlino e di Vienna la Francia non avrebbe fatto la campagna della Tunisia. Or
codesta adesione è stata una conseguenza dell’isolamento dell’Italia. Se noi
avessimo seguito altra politica rispetto alla lega austro-germanica, a questa
sarebbe mancata la principale ragione per spingere la Francia verso Tunisi.
L’ipotesi che l’Italia potesse tirar innanzi con la politica estera di Porta Pia appariva improponibile non solo perché la politica europea era
cambiata, ma anche perché gli uomini di quella stagione non erano più:
nel giugno dell’82, a pochi giorni dalla sigla della Triplice, era scomparso anche Garibaldi, colui che assieme a Mazzini, a Vittorio Emanuale
e a Cavour aveva definito e dominato la prima stagione risorgimentale.
Per i loro successori l’alleanza con la Germania fu il modo attraverso
cui riformulare la politica estera italiana attualizzandola rispetto ai tempi. In un contesto tendenzialmente stabile, l’idea di cavalcare sommovimenti di sorta, come si era fatto nel ’66 e nel ’70, appariva decisamente
fuori luogo. L’alleanza con la Germania, la maggiore potenza continentale, sembrava invece garantire ampie possibilità di “guadagno”
per l’Italia. Certo il vizio della Triplice stava proprio nei rapporti con
l’Austria, che basava le sue pacifiche relazioni sull’Italia sulla cosiddetta
“circolare Andrassy” del 1874, il documento nel quale si asseriva che i
buoni rapporti con l’Italia si sarebbero dovuti basare sull’inviolabilità
delle frontiere19. L’introduzione della clausola dei compensi all’interno
del rinnovo del 1887 ingenererò l’illusione di poter arrivare alle terre
irredente cavalcando l’inorientamento dell’Austria: un ragionamento
che, come noto, avrebbe dimostrato la sua inconsistenza in occasione
della crisi bosniaca.
nell’anno in questione è nel capitolo iniziale di L. CHIALA, Pagine di storia contemporanea: la
Triplice e la Duplice Alleanza (1881-1897), Roux Frassati, Torino, 1898, pp. 1-77.
19
Cfr. P. PASTORELLI, Il principio di nazionalità nella politica estera italiana, in ID., Dalla
prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana 19141943, LED, Milano 1997, pp. 203-204.
Affermazione e usura del modello tedesco in Italia (1870-1914)
55
Questo però non toglie che nella Germania più di una generazione
di italiani avesse visto il referente di un’intesa ragionevole e potenzialmente fruttuosa. È questa la convinzione di fondo che lega, con l’eccezione crispina, Depretis a Giolitti, l’Ottocento al Novecento. Giolitti
fu poi un disincantato continuatore della politica triplicista, di cui peraltro comprese delle potenzialità benefiche ai fini della crescita e del
consolidamento del paese. La sua concezione della Triplice e, più nello
specifico, dell’alleanza con la Germania, era molto diversa da quella di
Crispi. Infatti, a differenza del suo predecessore, Giolitti non percepiva
l’intesa con il mondo tedesco come lo strumento per una palingenesi
politica e morale del paese e certo non la intendeva come strumento
offensivo di scardinamento dell’equilibrio europeo. Queste considerazioni ben si sposavano con una certa “comprensione” dei tedeschi
che è stata ben colta da Giovanni Ansaldo, uno dei migliori biografi
dell’uomo di Dronero:
Giolitti aveva, nel 1903, trovato in atto la Triplice, e l’aveva adottata lealmente come piattaforma delle nostre relazioni internazionali. Influì in
questo senso la stima ch’egli, come tanti italiani dei suoi tempi, faceva dei
tedeschi, se non della diplomazia guglielmina; dei tedeschi, che allora erano
«praticabili» proprio per quanto sopravviveva ancora in Germania dell’antico regime sociale, dell’antico predominio dinastico e signorile. Ma, beninteso, egli non voleva che l’alleanza avesse punte verso nessuno; la Triplice,
come l’aveva adoperata Crispi, doveva essere finita per sempre20.
Ecco dunque lo sfondo politico dei rapporti italo-tedeschi, rapporti
che ad avviso di molti sarebbero potuti essere molto più fruttuosi se
l’Austria non fosse stata forzosamente inclusa nell’alleanza. Ma questo
lo si sarebbe compreso solo nel corso primo decennio del Novecento,
quando la diplomazia italiana prese atto della priorità attribuita dalla
Germania all’Austria, nonché dell’indisponibilità di quest’ultima a dare
applicazione alla clausola dei compensi.
Ma fino a quel momento la Triplice rappresentò, per i più, l’alleanza
più funzionale agli interessi del paese e più consona agli orientamenti
della sua classe dirigente. È stato proprio Gioacchino Volpe a sottolineare il nesso tra gli orientamenti nazionali e le scelte diplomatiche di
quel momento: «così la nostra politica estera, più autonoma da Francia
e più vicina a Germania e Inghilterra, più sollecita nel Mediterraneo e
tendente a velare un po’ d’ombra gli obiettivi irredentistici, si metteva
per una via diversa da quella del Risorgimento, si adeguava alle nuove
20
G. ANSALDO, Il ministro di buona vita. Giovanni Giolitti e i suoi tempi, Le Lettere,
Firenze 2002 [edizione originale Longanesi, Milano 1953], p. 181.
56
Federico Niglia
condizioni politiche dell’Europa, insomma un po’ si aggiornava. Ne
rimaneva ferito qualche sentimento o convinzione; ma se ne appagava
qualche altro. Riceveva un suggello politico quel grande credito che la
Germania aveva acquistato fra noi in tutti i campi e presso che fra tutte
le categorie di persone»21. Rosario Romeo ha, per parte sua, messo in
risalto come dietro a quella scelta “diplomatica” vi fosse anche un’effettiva volontà di andar dietro a quello che appariva come il miglior
modello possibile di sviluppo europeo:
Nelle scienze naturali e nella medicina l’autorità dei laboratori e delle cliniche
germaniche si erigeva incontrastata, non meno che negli studi di ingegneria
e tecnica, dove le scuole politecniche del secondo Reich venivano favorevolmente paragonate alle analoghe inglesi e francesi, e riconosciute nettamente
superiori per i risultati che si voleva esse dovessero alla sapiente commistione
di intervento governativo e di autonomia che le caratterizzava22.
Nell’odierno panorama storiografico si sente ancora la mancanza di studi specifici dedicati ai rapporti italo-tedeschi nei diversi contesti. Molto
resta da scrivere, ad esempio, sui rapporti scientifici e sul trasferimento
di tecnologie. Si tratta di un aspetto particolarmente importante da approfondire, purtroppo non in questa sede, anche perché fu soprattutto
la Germania della tecnica e dell’industria ad attrarre silenti quanto importanti settori dell’imprenditoria e dell’artigianato italiano in particolar
modo delle regioni settentrionali. Da quel mondo emerse una montante
aspirazione a “fare come in Germania”, importando modelli imprenditoriali, organizzativi e anche educativi funzionali all’industrializzazione.
Lo si vede guardando, ad esempio, al dibattito sull’ordinamento scolastico di quegli anni: da più parti si iniziò a insistere sul potenziamento
dell’istruzione professionale, che la legge Casati del 1859 aveva introdotto pur senza attribuirgli grande importanza. Sul finire dell’Ottocento l’idea di introdurre in modo più convinto il sistema della Realschule
ottenne crescenti consensi e diventò uno dei cavalli di battaglia dei fautori dell’industrialismo, come testimoniano peraltro da alcune prese di
posizione di Filippo Carli, sul quale si tornerà a breve.
Il germanesimo si diffuse soprattutto attraverso le università e i poli
di istruzione. In ambito accademico le scienze umane – la storia, la
filosofia e la neonata scienza sociologica – come anche quelle naturali si impregnarono di Germania. E fu questo a suscitare le reazioni
spesso sdegnate dei difensori della tradizione accademica italiana23. Ri-
21
22
23
G. VOLPE, Italia moderna 1815-1898, Le Lettere, Firenze 2002, p. 112.
R. ROMEO, La Germania e la vita intellettuale italiana, cit., p. 167.
Ruggiero Bonghi, sul quale si tornerà più diffusamente in seguito, affermò esplici-
Affermazione e usura del modello tedesco in Italia (1870-1914)
57
allacciandoci a quanto detto sugli influssi della filosofia italiana nelle
accademie germaniche del Settecento si vede come, a distanza di un
secolo, montasse una grande ondata di ritorno della filosofia tedesca
in Italia. Già negli anni in cui scomparivano i grandi numi della cultura tedesca – Hegel nel 1831, Goethe nel 1832 – aveva preso avvio la
ricezione sistematica dei prodotti del pensiero germanico. La filosofia
di Hegel venne inspirata a pieni polmoni soprattutto nelle accademie
meridionali, massimamente dopo la traduzione in italiano, curata da
Giovanbattista Passerini, della Filosofia della storia. Il tipico esponente
dell’hegelismo italiano fu Augusto Vera, la cui adesione a quelle dottrine era giunta a compimento durante la rivoluzione del 1848. Titolare
dell’insegnamento di storia della filosofia a Milano, nel 1861 ottenne il
trasferimento a Napoli per il diretto interessamento di Francesco De
Sanctis, allora ministro della Pubblica istruzione. Vera mantenne un
rapporto molto stretto con i seguaci di Hegel in Germania ed ebbe
un ruolo centrale in quella che Karl Friedrich Rosenkranz, il maggiore
biografo del filosofo tedesco, ebbe a definire la “rinascita hegeliana”
in Italia. Il contributo di Vera indirizzato alla diffusione del pensiero
hegeliano più che al suo superamento, indirizzo che invece prese l’atro l’altro polo dell’hegelismo napoletano, quello animato da Antonio
Tari e soprattutto da Bertando Spaventa. Approdato anch’egli come
professore a Napoli nel 1861, Spaventa fu un pensatore maggiormente
capace di richiamare l’attenzione degli altri studiosi italiani e tedeschi.
Fu anche un effettivo estimatore della Germania contemporanea e lo
si vede leggendo La filosofia italiana e le sue relazioni con la filosofia europea, pubblicato nel 1862: qui Spaventa sostenne l’idea secondo cui la
divisione tra i diversi popoli europei si fosse infine tradotta in diversi livelli di crescita morale e materiale. L’evo contemporaneo vedeva, a suo
avviso, un primato del popolo tedesco, al cui esempio gli altri popoli
avrebbero dovuto rifarsi per migliorarsi o, come nel caso dell’Italia, per
tornare ai fasti del Rinascimento.
La Napoli di Vera e Spaventa produsse quell’insieme di stimoli che
sarebbero stati propedeutici alle successive riflessioni di Benedetto
Croce e di Giovanni Gentile. Ma da quel ramo sarebbe germogliato
anche il pensiero di Antonio Labriola, il cui approdo al marxismo avvenne attraverso la formazione hegeliana fornitagli, per l’appunto, da
Vera e Spaventa.
tamente alla Camera che «l’università germanica non è nata in Germania; l’università germanica è nata in Italia, e dall’Italia è passata in Germania ed in Francia», a rimarcare un
primato che l’Italia aveva già acquisito nel corso del medioevo. Archivio Storico del Parlamento Italiano, Discussioni e documenti, Camera dei Deputati, XI legislatura, tornata del
2 marzo 1872.
INDICE
Premessa metodologica.
Le mentalità collettive nel rapporto tra Italia e mondo tedesco . .
I. L’IMMAGINE TEDESCA IN ITALIA PRIMA DEL 1870 . . . . . . . . . .
1. Dal medioevo all’età moderna: echi popolari e suggestioni
culturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Ambivalenze nel Settecento riformatore . . . . . . . . . . . . . . .
3. L’Ottocento, il discorso politico e il sentimento antiaustriaco .
4. L’enigma prussiano prima del ’70 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
II. AFFERMAZIONE E USURA DEL MODELLO TEDESCO IN ITALIA
(1870-1914) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.
2.
3.
4.
5.
A prima impressione: l’avanguardia dell’Europa “giovane” .
La germanizzazione silenziosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Per il germanesimo: culture dell’autorità da Crispi a Rocco .
Critiche liberali e radicali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Contro il germanesimo economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
III. LA SVOLTA (1914-1921) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. L’antigermanesimo della grande guerra: un fenomeno
transnazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. L’Italia e il dilemma politico-diplomatico . . . . . . . . . . . . . .
3. La svolta ideologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. Il mancato riassorbimento: l’Italia a Versailles . . . . . . . . . . .
5. La parabola di un sentimento: conclusione . . . . . . . . . . . . .
Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
5
» 15
»
»
»
»
15
20
28
36
» 43
»
»
»
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» 89
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