Stabilità dei vini bianchi
S tabilità dei vini bianchi
Introduzione
La produzione di vini bianchi assume un ruolo determinante sia da un punto di vista economico che sociale, data la sempre maggiore richiesta da parte del consumatore di vini di grande
bevibilità e freschezza.
Tuttavia numerosi sono i fattori che influiscono nelle alterazioni delle caratteristiche qualitative del vino bianco e che possono comprometterne l'aroma, il colore e la limpidezza, dando
origine ad intorbidamenti indesiderati.
Tra questi ricordiamo, l'azione degli enzimi ossidativi e dell'ossigeno, specie in fase prefermentativa ed in particolare la sua interazione con alcuni costituenti del vino (sostanze polifenoliche), la presenza di sostanze minerali quali ferro e rame, i sali dell'acido tartarico ed il contenuto in proteine, che in particolari condizioni possono aggregare e precipitare dando origine all'indesiderato fenomeno della "casse proteica".
La finalità del presente progetto ha consistito nella messa a punto di processi e tecnologie
innovative per la produzione di vini bianchi di qualità, allo scopo di migliorarne le caratteristiche qualitative e di longevità, con un approfondimento in merito alla specifiche caratteristiche delle uve a bacca bianca di maggior interesse presente nelle tre regioni e dei relativi
vini, con particolare riferimento allo studio dei fattori che condizionano la loro stabilità.
La ricerca è stata svolta dal Centro Interdipartimentale per la Ricerca in Viticoltura e Enologia
(CIRVE) dell’Università degli Studi di Padova, dal Di.Va.P.R.A. dell’Università degli Studi di
Torino (con la collaborazione dell’Istituto Sperimentale per l’Enologia di Asti) e dall’Università
degli Studi di Verona (Dipartimento di Biotecnologie).
41
Ricerca e sviluppo di tecniche innovative per
la stabilizzazione proteica dei vini bianchi
M. Lucchetta, S. Vincenzi, F. Favaron e A. Curioni
Università degli Studi di Padova, Centro Interdip. per la Ricerca in Viticoltura ed Enologia
Le proteine presenti nell'uva possono provocare uno dei più comuni difetti non microbiologici dei vini commerciali: l'instabilità
(casse) proteica (Waters 1992 e 2005).
Infatti tali proteine, che passano quasi inalterate dal mosto al vino, possono precipitare
formando un sedimento amorfo o dei flocculi che causano torbidità in bottiglia. La "casse
proteica", causa una diminuzione del valore
commerciale del prodotto in quanto difficilmente è accettata dal consumatore.
Attualmente l'uso della bentonite è il metodo comunemente usato per evitare la casse
proteica, stabilizzando i vini bianchi. Questo
trattamento tuttavia presenta un costo di
3,9 euro ad ettolitro corrispondente a circa
20 milioni di euro all'anno che gravano sulle
sole aziende vinicole venete. Inoltre l'uso di
bentonite può influenzare negativamente i
caratteri sensoriali dei vini bianchi. Per questi motivi sono state studiate varie tecniche
come l'ultrafiltrazione (Hsu e Heatherbell,
1987), l'addizione di tannini enologici
(Weetall, 1984), l'uso di preparati che proteggono dall'instabilità (Waters, 1994), l'adsorbimento su differenti matrici (Vincenzi
2005), l'uso di polisaccaridi (Marchal, 2002) e
l'aggiunta di enzimi proteolitici (Feuillat,
1980; Lagace e Bisson, 1990). Questi ultimi
però, sembrano non essere efficaci nel
degradare le proteine, a causa della notevole stabilità di queste ultime non risolvendo,
in definitiva, il problema.
1.
RICERCA DI ENZIMI PROTEOLITICI
ATTIVI SULLE PROTEINE DELL’UVA
Alcuni funghi fitopatogeni sono in grado di
svilupparsi utilizzando materiali vegetali,
compresa la frutta. Si deve dunque pensare
che tali funghi possano degradare le proteine
della frutta per procurarsi l'azoto necessario
alla loro crescita. Partendo quindi dall'idea
che fosse possibile individuare, nei funghi
fitopatogeni, un qualche enzima in grado di
attaccare le proteine della frutta, è stata
valutata la capacità di rimozione delle pro42
teine dell'uva da parte di alcuni di essi, con
lo scopo finale di isolare una o più proteasi
capaci di stabilizzare i vini bianchi. Tali funghi sono stati scelti in quanto capaci di crescere e produrre proteasi attive a bassi valori di pH, come quelli del mosto.
I funghi sono stati fatti crescere in un terreno di coltura nel quale la fonte azotata era
costituita unicamente da proteine d'uva purificate. In queste colture è stata misurata
l'attività proteasica secreta, la biomassa prodotta dal fungo e sono state osservate le
alterazioni del profilo proteico delle proteine dell'uva. Alcuni funghi hanno mostrato
una buona capacità di produrre attività proteasica e di rimuovere le proteine dal mezzo
colturale. Sono poi state isolate, dalle colture, le proteasi attive, dopo aver studiato
quali terreni di coltura fossero i più adatti
per stimolare la produzione di questi enzimi.
Alla fine delle prove, è stata selezionata una
particolare specie fungina che era capace di
degradare con una certa efficacia le proteine dell'uva. La produzione di enzimi da parte
di questo fungo è stata incrementata utilizzando un substrato commerciale di basso
costo. L'enzima prodotto è stato parzialmente purificato e concentrato ottenendo così
un preparato ad alta attività proteasica
potenzialmente utilizzabile nel processo di
vinificazione. Tale preparato è in corso di
valutazione per valutarne l'applicabilità in
condizioni di cantina.
In particolare esperimenti di microvinificazione con mosto di Manzoni bianco e Glera
hanno permesso di confrontare gli effetti di
differenti quantità di preparato enzimatico
(da 0,001 a 0,00025 Unità), aggiunto all'inizio
della fermentazione, con un trattamento con
pepsina, un enzima proteolitico commerciale. I vini ottenuti sono stati quindi sottoposti al test a caldo per valutarne l'instabilità
proteica ed è stata compiuta l'analisi delle
proteine (SDS-PAGE) per osservare l'eventuale alterazione del profilo proteico dei vini in
termini quantitativi e qualitativi.
I vini trattati con il preparato enzimatico da
fungo sono risultati meno instabili dal punto
Figura 1. Instabilità proteica (test al calore, il vino può essere definito stabile con valori inferiori a 0,02)
(sopra) ed elettroforesi delle proteine (sotto) dei vini prodotti dopo trattamento con l'enzima fungino
(tre dosi) e pepsina. Controllo: vino non trattato.
di vista proteico (Figura 1, sopra). Solamente
il dosaggio quantitativamente più elevato ha
accresciuto l'instabilità del prodotto rispetto
al controllo, molto probabilmente perché la
proteina enzimatica aggiunta era eccessiva
(circa 10 mg/L). Il minor dosaggio, invece,
ha ridotto l'instabilità proteica di circa il
40%. L'analisi SDS-PAGE (Figura 1, sotto) ha
mostrato una diminuzione delle proteine dell'uva nei campioni trattati con il preparato
enzimatico sia rispetto al controllo non trattato sia a quelli trattati con la pepsina.
Si è osservata una diminuzione d'intensità
soprattutto di alcune proteine instabili
(Taumatine, circa 21 KDa) e della proteina
intorno 66 KDa (l'invertasi d'uva). Nei campioni trattati con il preparato enzimatico si
nota la presenza di una banda di 35 KDa che
rappresenta la principale componente del
preparato stesso.
Con incubazioni prolungate si poteva ottenere una scomparsa quasi totale delle proteine
del vino (Figura 2).
Anche Botrytis cinerea è stata testata nello
stesso modo, in quanto è stato riportato che
anche questa muffa è capace di rimuovere le
proteine dell'uva (Marchal, 1998). In effetti,
il mosto ottenuto da acini infettati da B.
cinerea possiede un contenuto in proteine
molto inferiore rispetto a quello ottenuto da
acini sani (Figura 3). Tale fungo, però, dopo
8 giorni di crescita nel terreno colturale contenente proteine d'uva come unica fonte
azotata, non è stato in grado di rimuovere le
proteine se non in modo molto limitato e
malgrado il rilascio di una attività proteolitica misurabile.
Un preparato enzimatico parzialmente puri43
In realtà, da prove effettuate successivamente, si è potuto dedurre che l'effetto di B.
cinerea sulla scomparsa delle proteine dal
mezzo è dovuta ad un meccanismo di insolubilizzazione delle stesse legato alla complessazione con i polifenoli ossidati dall'enzima
laccasi secreto dal fungo stesso, e non ad un
fenomeno proteolitico. Dai risultati ottenuti
si può dedurre quindi che B. cinerea non è
utilizzabile, come prospettato da qualcuno,
per la produzione di enzimi proteolitici da
usare in vinificazione per la stabilizzazione
proteica dei vini bianchi.
Al contrario, almeno un altro fungo fitopatogeno, non incluso tra i patogeni dell'uva, è
invece in grado, se coltivato in condizioni
opportune, di rilasciare una proteasi, attiva
nelle condizioni di vinificazione, che potrebbe utilmente essere impiegata, in alternativa, totale o parziale, alla bentonite per la
stabilizzazione proteica dei vini bianchi. In
questo modo, la specificità di azione, tipica
degli enzimi, verrebbe sfruttata per la
degradazione delle proteine che perderebbero così la loro capacità di dare intorbidamenti nel vino senza alterare, se non per questo
specifico aspetto, il prodotto.
Figura 2. Scomparsa delle proteine del vino per
tempi crescenti (da sin a dx) di incubazione con il
preparato enzimatico.
Figura 3. Elettroforesi delle proteine estratte da
acini sani o inoculati con B. cinerea.
A: Proteine estratte da acini sani (1) e artificialmente infettati (2) al 7° giorno dall'inoculo.
B: Proteine dell'uva parzialmente purificate (1),
proteine estratte da acini sani (2) ed acini infetti
raccolti in vigneto (3).
ficato ottenuto dal brodo colturale di B.
cinerea e contenente attività proteolitica è
stato utilizzato per il trattamento del mosto
di Manzoni bianco prima della fermentazione
alcolica, analogamente a quanto realizzato
nel preparato descritto sopra. L'enzima ottenuto da B. cinerea non ha però ridotto l'instabilità proteica dei vini ottenuti (Figura 4).
Figura 4. Instabilità proteica (test al calore, il vino può essere definito stabile con valori inferiori a 0,02)
del vino dopo trattamento con l'enzima di B. cinerea e pepsina. Controllo: vino non trattato.
44
2.
UN POLISACCARIDE FUNGINO
(SCLEROGLUCANO) COME MEZZO
PER RIMUOVERE LE PROTEINE
Durante lo studio dei funghi patogeni come
produttori di proteasi, è stato individuato un
fungo particolare (Sclerotium rolfsii) la cui
presenza provocava la rimozione completa
delle proteine dal mezzo di coltura (Figura
5). Nella coltura di tale fungo tuttavia non
era possibile rilevare alcuna attività proteolitica.
Un'analisi più approfondita ha permesso di
verificare che la capacità di rimozione delle
proteine è attribuibile alla produzione di un
polisaccaride extracellulare, lo scleroglucano, che tra l'altro trova applicazioni nell'industria degli alimenti. L'interazione dello
scleroglucano con le proteine non è mai stata
studiata, ma è subito sembrata potenzialmente interessante per un'applicazione finalizzata alla rimozione delle proteine del
vino. Per valutare questa possibilità sono
state condotte prove con un prodotto commerciale (Actigum CS, Degussa). Quando
viene disciolto in acqua in concentrazione di
0,5% (w/v), il polisaccaride non mostra interazione con le proteine, nemmeno dopo due
ore in agitazione a temperatura ambiente.
Tuttavia, quando lo scleroglucano viene
sciolto, alla stessa concentrazione, in una
soluzione di simil-vino (12% etanolo, 5 g/L
acido tartarico a pH 3,3), una proteina
modello (albumina bovina, aggiunta ad una
concentrazione di 300 mg/L) viene completamente rimossa dopo solo 10 minuti di incubazione. Lo scleroglucano mostrava la stessa
capacità di rimozione delle proteine anche
quando veniva aggiunto per trattare un vino
reale (Manzoni Bianco) con un contenuto
proteico di circa 350 mg/L (Figura 6).
Figura 6. Effetto di concentrazioni crescenti di
scleroglucano sul contenuto proteico di un vino
(Manzoni Bianco) instabile.
Nel caso del vino reale, la rimozione delle
proteine era più lenta rispetto a quella misurata nella soluzione di vino modello, e le proteine non venivano asportate completamente, rimanendo un residuo del 15% (rispetto al
valore iniziale) anche dopo 30 ore di incubazione. Inoltre, l'interazione del polisaccaride
con i polifenoli era molto limitata con una
rimozione massima del 13%. Questi dati suggeriscono che il polisaccaride potrebbe quindi essere una valida alternativa alla bentonite per la rimozione delle proteine dal vino
instabile.
Un problema legato all'utilizzo dello scleroglucano è però la sua solubilità in mezzi
acquosi e, quindi, anche in una soluzione
idroalcolica come il vino. E' stato verificato,
infatti, che l'immissione di scleroglucano
causa un aumento dei polisaccaridi solubili
nei vini trattati. Pertanto l'utilizzo della
forma naturale dello scleroglucano per la
stabilizzazione proteica dei vini bianchi non
sembra al momento possibile. Tale problema
potrebbe essere comunque risolto mediante
immobilizzazione o reticolazione del polisaccaride, in modo tale da renderlo completamente insolubile.
3.
Figura 5. Analisi elettroforetica del brodo di coltura di Sclerotium rolfsii coltivato in presenza di
proteine dell'uva. Prelievi effettuati ogni 24 h.
LA ZIRCONIA COME ADSORBENTE
PER LE PROTEINE DEL VINO
Una terza attività ha riguardato lo studio dell'ottimizzazione dell'uso di un adsorbente
alternativo alla bentonite, l'ossido di zirconio
o zirconia (Figura 7), per rimuovere le proteine dai vini bianchi, stabilizzandoli. La zirconia è un materiale molto usato anche nel
45
Figura 7. Pellet di ossido di zirconio.
settore odontoiatrico in virtù della sua resistenza ed innocuità.
E' già stato dimostrato che la zirconia ha la
proprietà di rimuovere le proteine che causano l'instabilità proteica dei vini bianchi e di
adsorbire anche gli acidi organici. Il materiale, dopo l'uso, può essere rigenerato (riscaldandolo o lavandolo con particolari soluzioni) e riutilizzato. Dal punto di vista pratico il
trattamento con l'ossido di zirconio nell'industria enologica può essere effettuato
mediante il passaggio del vino finito attraverso una colonna dove l'ossido di zirconio è
confinato. Comunque, con questi sistemi si
hanno processi troppo lenti, la rigenerazione
del materiale è costosa e se la zirconia viene
aggiunta direttamente al vino, bisogna procedere ad una filtrazione o centrifugazione.
Al fine di semplificare il processo, si è dunque pensato di confinare i pellet di zirconia
all'interno di sacchetti di rete da immergere
nel vino. Con questo sistema sono stati trattati tre vini diversi (Chardonnay, Riesling,
Sauvignon Blanc) con quattro dosaggi di
adsorbente (0, 5, 10, 25 g/L). Analisi giornaliere del contenuto proteico hanno dimostrato una efficace rimozione delle proteine dai
vini nelle prime ore e con una rimozione
proporzionale al dosaggio di adsorbente.
La misura della stabilità proteica dopo il
trattamento ha indicato che a 25 g/L di zirconia l'unico vino non stabile risultava essere
il Sauvignon, mentre la stabilità completa
46
Figura 8. Stabilità proteica dei vini trattati con
diverse dosi di zirconia.
veniva raggiunta per gli altri due vini (Figura
8).
Nei vini trattati si potevano trovare una
certa diminuzione degli acidi citrico (da -15
a -32%), tartarico (da -11 a -24%) e malico
(da -4 a -7%) e una significativa diminuzione
dei metalli, tra cui ferro (da -55 a -95%) e
rame (da -62 a -75%), indicando effetti sulla
composizione del vino. Queste proprietà supplementari sono in corso di studio e potrebbero rappresentare vantaggi per la diminuzione dell'instabilità tartarica e l'aumento
della shelf-life del prodotto (eliminazione di
metalli catalizzatori di ossidazione).
Dal punto di vista organolettico, non si poteva misurare alcuna variazione del colore, né
variazioni significative delle caratteristiche
sensoriali, se non nel Riesling dove veniva
percepita una certa diminuzione di aroma e
un carattere ridotto, forse a causa della
rimozione del rame.
Infine, semplici lavaggi con soda consentivano una perfetta rigenerazione del materiale,
che così poteva essere usato molte volte in
successione.
Da questi risultati si può prevedere che l'ossido di zirconio, una volta messe a punto le
modalità di utilizzazione in condizioni reali
di cantina, possa essere considerato un buon
candidato come sostituto della bentonite,
aprendo nuove strade nelle tecnologie di stabilizzazione dei vini bianchi.
Influenza della temperatura di conservazione
e della gradazione alcolica sulla Shelf Life
dell’Asti Spumante DOCG
V. Gerbi*, F. Torchio*, G. Zeppa*, D. Borsa**, A. Asproudi** e L. Rolle*
* Università degli Studi di Torino, Di.Va.P.R.A. - Tecnologie Alimentari
** Istituto Sperimentale per L'Enologia Asti
L'"Asti" o "Asti Spumante" è il principale vino
dolce aromatico italiano. Prodotto esclusivamente con le uve del vitigno Moscato Bianco
provenienti dai vigneti collinari delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, viene commercializzato in tutto il mondo come vino
dolce da dessert. La necessità di raggiungere
mercati sempre più lontani ha imposto ai
produttori un miglioramento qualitativo ed
un aumento della shelf life del prodotto,
attualmente troppo limitata, per consentirne
una più efficace commercializzazione.
L'applicazione di nuove tecniche di gestione
del vigneto e di vinificazione hanno nel
tempo consentito di migliorare la composizione chimica ed in particolare la concentrazione di composti aromatici nei vini.
Già negli anni '80 e '90 l'Asti è stato oggetto
di alcuni studi per conoscere gli effetti dell'ossigeno durante le fasi di preparazione dei
mosti base, il ruolo dell'acidità, l'influenza
dell'esposizione alla luce sull'evoluzione dei
suoi terpeni caratteristici. In cantina, queste
nuove conoscenze scientifiche, hanno portato alla diffusione di innovative tecniche di
gestione delle fasi di ammostamento e chiarifica del mosto, quali ad esempio la flottazione in ambiente ossidativo e la filtrazione
tangenziale, che hanno consentito un generale miglioramento qualitativo del prodotto.
Tuttavia, oggigiorno, non è ancora stata raggiunta completamente una soddisfacente
conservabilità dello spumante dopo l'imbottigliamento. Il rapido decadimento e trasformazione in bottiglia delle sostanze terpeniche, unitamente al cambiamento del colore,
costituiscono ancora il principale problema
di deprezzamento commerciale dell'Asti
DOCG immesso sul mercato.
Nel corso della conservazione e distribuzione
le bottiglie sono infatti potenzialmente esposte ad un elevato numero di fattori in grado
d'innescare reazioni di tipo degradativo e di
modificare le loro proprietà intrinseche. La
logica conseguenza di queste reazioni è la
perdita delle proprietà organolettiche caratteristiche e, nei casi più gravi, la possibile
inaccettabilità di tali prodotti da parte del
consumatore finale. Si può quindi intendere
come shelf life in determinate condizioni di
conservazione, il tempo limite entro il quale
il progredire di singoli eventi reattivi determini modificazioni impercettibili, o comunque ancora accettabili, sul piano della valutazione sensoriale. Risulta pertanto imperativo da parte delle aziende la conoscenza e,
quando possibile, la previsione della shelf
life dei propri prodotti sottoposti alle diverse condizioni di trasformazione, di conservazione, di confezionamento (e di confezione),
di trasporto e di distribuzione.
È opportuno chiarire che per shelf life non
deve intendersi l'indicazione della "data di
scadenza" o del "termine minimo di conservazione", concetti intimamente legati alla
tutela igienica e alla stabilità e molto spesso
imposti da norme, ma la garanzia di offrire al
consumatore un prodotto con caratteristiche
organolettiche soddisfacenti. La valutazione
della shelf life di un vino richiede normalmente analisi ripetute nel corso del tempo
monitorando l'effetto di questo con altre
variabili indipendenti di conservazione. Nel
caso dei vini spumanti dolci aromatici una
variabile che riveste un particolare ruolo è la
temperatura di conservazione in quanto
influenza direttamente le reazioni che portano alla perdita della componente terpenica
libera.
1.
MODELLIZZAZIONE DELLA SHELF
LIFE MEDIANTE IL CENTRAL
COMPOSITE DESIGN
Nei protocolli utilizzati per gli studi di shelf
life degli alimenti, legati alla conoscenza
degli effetti sinergici tra variabili, viene
spesso favorevolmente impiegato il Central
Composite Design (CCD), una modellizzazio47
ne che permette di mettere a punto un disegno sperimentale semplificato con un numero di campionamenti ridotto, i cui risultati
possono essere elaborati statisticamente.
Infatti, grazie alle analisi nelle combinazioni
stabilite di due variabili, distribuite nello
spazio bi-dimensionale (Figura 1), si possono
ottenere delle equazioni polinomiali che
spiegano la variabilità del parametro oggetto
di studio.
Ad esempio, nel settore enologico, il CCD è
stato usato in diverse esperienze di ricerca
come per testare l'influenza di fattori di crescita sullo sviluppo di lieviti (Arroio-Lopez et
al., 2009), per la messa a punto di condizioni di estrazione in SPME (Solid Phase Micro
Extraction) (Carrillo et al., 2007) o SBSE (Stir
Bar Sorptive Extraction) (Guerrero et al.,
2007) in metodi analitici. Inoltre, recentemente, il CCD è stato applicato al fine di studiare la shelf life di vini spumanti e "tappo
raso" di Brachetto DOCG ed in particolare
l'effetto del tempo e della temperatura sull'evoluzione della componente fenolica e
delle caratteristiche cromatiche del prodotto (Torchio et al., 2011).
Anche in questo studio, relativo ai vini spumanti a base Moscato si è voluto quindi
modellizzare l'evoluzione dei principali parametri compositivi ed organolettici in relazione al tempo e alla temperatura, operando
con prodotti a diverso grado alcolico. A tal
fine è stato implementato un disegno sperimentale bi-fattoriale 22 Central Composite
Design. Il tempo (X, giorni) e la temperatura
(Y, ºC) di conservazione sono stati scelti
come le due variabili indipendenti. La prova
è stata effettuata in un intervallo di tempo
pari a 360 giorni e a temperature comprese
tra i 5 ed i 25°C. Un anno è il tempo di vendita a cui generalmente le aziende commerciali si riferiscono, mentre le temperature
scelte variano tra quelle minime presenti
nelle celle di conservazione delle cantine e
quelle mediamente presenti nei locali di
commercializzazione del prodotto. Il disegno
sperimentale ha previsto uno schema dove il
range di ogni variabile è compreso tra 1,4141 e +1,4141 e il punto 0 risulta il valore
centrale. Le variabili sono quindi state calcolate con la seguente equazione:
xi = (Xi - mean Xi)/
Xi
dove x1 è il valore codificato di una delle
variabili indipendenti, Xi è il valore reale
della variabile indipendente, mean Xi è il
valore medio della variabile indipendente
reale e Xi corrisponde alla variazione del
valore reale della variabile alla variazione di
un unità del valore codificato (xi).
x = (X1 - 182)/129
y = (X2 - 15)/7
Nella Tabella 1 è riportato il piano sperimentale adottato in questo progetto di ricerca. Il
CCD ha previsto un disegno sperimentale a 13
punti, includendo in particolare 5 repliche
nel punto centrale.
Al termine della sperimentazione i dati ottenuti dalle determinazioni analitiche sono
stati elaborati col software Statistica 7.0
(Statsoft Inc., Tulsa, OK, USA) ed espressi
come grafico di Reponse Surface Metodology
e da un'equazione polinomiale di secondo
Figura 1. Dispersione dei punti di analisi nello spazio bi-dimensionale tempo-temperatura.
48
Tabella 1. Schema sperimentale del CCD applicato.
ordine:
Z = b0 + b1x + b2y + b11x2 + b22y2 + b12xy
dove Z è la risposa predetta, x e y corrispondono alle variabili indipendenti, b0 è il valore nel punto centrale, b1 e b2 rappresentano
invece i principali effetti associate ad ogni
variabile, b11 e b22 sono gli effetti al quadrato e b12 è l'interazione tra le due variabili.
2. VALUTAZIONE DELLA SHELF LIFE
DELL'ASTI SPUMANTE DOCG
Le caratteristiche cromatiche dei vini Asti
spumante differentemente conservati sono
state determinate per via spettrofotometrica, previa degasatura e centrifugazione del
prodotto per 15 minuti a 4000 rpm.
Su ogni campione è stato acquisito lo spettro
tra 800 e 360 nm con un intervallo di scansione di 1 nm. Le determinazioni sono state
effettuate utilizzando una cuvetta in vetro
ottico con un PO di 10 mm. Il colore è stato
determinato con la metodica CIEL*a*b* in
accordo con le disposizioni della Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino
(O.I.V., 2008).
La componente aromatica libera e glicosilata
è stata determinata per via gas-cromatografica accoppiata a spettrometria di massa
(Mateo et al., 1997).
Ciascun vino è stato inoltre sottoposto ad
assaggio da parte di un panel di assaggio
selezionato ed addestrato nonché da tecnici
del settore, utilizzando una semplice scheda
dove era richiesta una valutazione, espressa
in centesimi, dei parametri visivi, gustativi
ed olfattivi nonché un giudizio complessivo
del prodotto.
Rapportando i risultati emersi dall'analisi
sensoriale, espressi come somme dei ranghi,
con le caratteristiche chimico-fisiche monitorate, sono emerse delle correlazioni statistiche significative solo per alcuni parametri
monitorati (Tabella 2).
In particolare, tra i composti aromatici, il
linalolo è risultato inversamente correlato
con i risultati dell'assaggio espressi come
sommatoria dei ranghi del giudizio complessivo, cioè attribuendo il rango più basso al
vino preferito. Invece alcuni ossidi del linalolo, l' -terpineolo, Ho-trienolo ed altre molecole risultano direttamente correlate, cioè
aumentano alla diminuzione di preferenza da
parte degli assaggiatori (aumento del rango).
Anche la valutazione dell'intensità colorante
è risultata significativamente correlata alla
qualità percepita e può quindi favorevolmente rappresentare un marker per la shelf life
del prodotto.
L'acetaldeide, viceversa, non mostra un
andamento legato alla valutazione sensoriale, per cui le note ossidative che generalmente appaiono nel prodotto con il trascor49
Tabella 2. Coefficienti di correlazione tra i parametri chimici analizzati e la valutazione sensoriale (calcolata come somma dei ranghi).
* Significativo con p
0,05; ** significativo con
p
0,01; *** significativo con p 0,001
rere del tempo, non sembrerebbero dovute
all'accumulo di questo composto.
Per i parametri con un sufficiente livello di
correlazione sono stati quindi calcolati dei
grafici di isorisposta che permettono di
meglio rappresentare le funzioni bi-fattoriali
viste in precedenza.
Nelle Figure 2 e 3 sono pertanto riportati i
grafici di Response Surface Methodology dei
principali parametri significativamente correlati con i dati di analisi sensoriale.
Il linalolo libero diminuisce sensibilmente già
dopo pochi mesi se conservato a temperature oltre i 20°C.
Dopo un anno è presente in concentrazione
oltre la soglia di percezione (50 mg/L) solo
nei vini conservati a meno di 15°C.
L' -terpineolo e gli ossidi di linalolo cis e
trans furanici hanno un andamento crescente legato principalmente alla temperatura di
conservazione ed in modo minore al tempo.
Le caratteristiche cromatiche, espresse
come coordinate cromatiche
a* (verderosso) e b* (blu-giallo), mostrano una diminuzione della quantità di verde nel tempo,
soprattutto a temperature oltre i 20°C ed un
aumento della nota gialla a partire da sei
mesi di conservazione a temperature oltre i
15°.
50
In questo lavoro sperimentale è stata inoltre
valutata l'influenza del tenore alcolico del
vino spumantizzato sulla conservabilità del
prodotto alle temperature viste in precedenza.
Per dodici mesi sono state monitorate le
caratteristiche cromatiche, la concentrazione di acetaldeide e, mediante analisi GC-MS,
la composizione volatile di campioni di vini
imbottigliati, derivanti da un'unica massa di
mosto, prodotti con tre differenti livelli di
alcol svolto: rispettivamente 6,5%, 7,5% e 9%
v/v.
Sugli stessi campioni sono stati condotti i
test di analisi sensoriale descritti in precedenza.
Come si può vedere in Figura 4, i campioni
conservati a 25°C sono stati i meno apprezzati rispetto agli altri durante la degustazione già dopo 4 mesi dall'imbottigliamento.
Nei campioni conservati alle temperature di
5 e 15°C risulta evidente un effetto significativo del contenuto di etanolo: in entrambi i
casi l'Asti spumante con il 9%Vol. di alcol
svolto è risultato il preferito dagli assaggiatori.
Il giudizio degli assaggiatori ha avuto un
andamento similare all'evoluzione del linalolo.
Al momento dell'imbottigliamento, malgrado
le diverse fermentazioni, tutti i campioni
presentavano un contenuto simile di questo
terpene, circa 250
g/L, mentre alla fine
della prova i tenori superiori di linalolo residuo sono stati riscontrati negli Asti a 9% vol.
conservati a 5 e 15°C.
L'analisi della varianza fattoriale ha dimostrato una correlazione statisticamente
significativa tra la valutazione sensoriale globale (valutata come somma dei ranghi, cioè
la somma delle posizioni ottenute alla degustazione con un test di preferenza) e la temperatura di conservazione e la concentrazione di etanolo.
I risultati di questo lavoro sottolineano inoltre come la temperatura di stoccaggio sia il
fattore principale nella possibile shelf life
dell'Asti in bottiglia.
La conservazione a 25°C riduce il contenuto
in linalolo, il principale terpene del Moscato,
già dai primi mesi di conservazione.
Già a partire da 15°C il processo di degradazione è molto più lento, consentendo di conservare le caratteristiche cromatiche e organolettiche del prodotto per più tempo.
Tuttavia solamente con temperature di stoc-
caggio di 5°C si riesce a conservare caratteristiche cromatiche e organolettiche ottimali per più di sei mesi.
A una gradazione alcolica del prodotto più elevata i processi degradativi rallentano anche se
possono comparire delle note "amare" caratteristiche di alcuni vini a base Moscato con un
più ridotto residuo zuccherino.
L'elaborazione statistica del disegno sperimentale CCD a 13 punti applicato anche in
questo caso ai vini delle tre tesi in esame ha
originato differenti equazioni per ogni parametro considerato (Tabella 3).
Figura 2. Evoluzione del contenuto dei principali terpeni liberi in Asti Spumante.
Figura 3. Evoluzione del parametro a* e b* nell'Asti Spumante a 6,5% di alcol.
51
Figura 4. Risultati dell'analisi sensoriale (sommatoria dei ranghi) di tre Asti Spumante a gradazione alcolica crescente ottenuti dalla stessa mosto
base conservati a temperature comprese tra 5 e
25°C per 12 mesi.
Tabella 3. Equazioni bi-fattoriali che modellizzano l'evoluzione dei principali composti volatili e dei
parametri CIELab dell'Asti spumante a differenti livelli di alcol.
52
3.
SHELF LIFE DI ASTI SPUMANTE
DOCG CON BASSI TENORI DI ANIDRIDE SOLFOROSA
Infine, le attività sperimentali di shelf life
dei vini spumanti a base Moscato hanno previsto una serie di attività volte alla riduzione
del contenuto in SO2 in bottiglia. Infatti, i
vini spumanti aromatici dolci attualmente in
commercio spesso hanno dei contenuti in
anidride solforosa alti, seppure entro il limite di 250 mg/L imposto dalla normativa
vigente. Vista l'attuale attenzione del consumatore verso questo additivo è stata quindi
valutata la possibilità dell'aggiunta di glutatione ed acido caffeico in alternativa od in
accompagnamento all'anidride solforosa,
sfruttando le loro azioni antiossidanti
(Lavigne et al., 2003; Roussis et al., 2005;
Roussis et al., 2007).
Per la prova è stato utilizzato un Asti
Spumante prodotto a basse dosi di anidride
solforosa (20 mg/L libera e 70 mg/L totale)
rispetto alla normale tecnologia produttiva.
Tra i diversi dosaggi di SO2, acido caffeico e
glutatione messi a confronto, dopo un anno
dall'imbottigliamento ed a temperatura di
conservazione di 20°C (temperatura critica
per la shelf life dei vini a base Moscato) si
sono evidenziate delle differenze significative per il contenuto di linalolo libero tra la
tesi senza aggiunte e quella con l'aggiunta
sinergica di 20 mg/L di glutatione e 60 mg/L
di acido caffeico. Le differenze per quanto
riguarda l' -terpineolo e gli ossidi furanici
liberi non sono invece risultate significative.
Tuttavia, all'assaggio dopo tre e sei mesi di
conservazione, i vini con le dosi maggiori dei
due coadiuvanti aggiunti presentavano addirittura, per alcuni assaggiatori, dei penalizzanti sentori riconducibili a note di ridotto.
Invece, dopo un anno di conservazione, sono
risultati preferiti i campioni con aggiunte
sinergiche di glutatione ed acido caffeico
(20-60 mg/L) rispetto al testimone senza
aggiunte.
Prove parallele condotte su vini fermi a base
Chardonnay prodotti senza aggiunta di anidride solforosa hanno evidenziato un effetto
simile a quello riscontrato sui vini spumanti.
Il vino aggiunto all'imbottigliamento di glutatione ed acido caffeico (20 e 60 mg/L) è
risultato significativamente diverso dal testimone e sistematicamente preferito dagli
assaggiatori.
53
Studi per la messa a punto di una metodica
per la valutazione dell’ossidabilità di mosti di
uve bianche
N. Righetti, M. Manzo, E. Nicolis e R. Ferrarini
Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Biotecnologie
Nella vinificazione in bianco, ricoprono un
ruolo importantissimo tutte le fasi che
avvengono prima della fermentazione alcolica, esse giocano un ruolo di estrema criticità
per quanto riguarda la qualità finale dei vini.
Tutte le operazioni che intercorrono tra la
fase di estrazione del mosto e l'avvio della
fermentazione, espongono il mosto all'azione
degli enzimi endogeni dell'uva o esogeni
(Botrytis cinerea - "muffa grigia").
In queste fasi l'azione degli enzimi ossidativi
dell'uva (tirosinasi) e di patogeni (laccasi),
catalizzano l'azione dell'ossigeno sulle frazioni fenoliche e aromatiche del mosto e in
molti casi portano a una non completa
espressioni dei caratteri varietali del vino.
Gli interventi più diffusi nel mondo enologico sono l'impiego di anidride solforosa e di
gas inerti oltre all'abbassamento della temperatura del pigiato.
L'aggiunta in fase di pigiatura o pressatura di
anidride solforosa e acido ascorbico risolve
solo parzialmente il problema, in quanto la
dissoluzione e il dilavamento ne localizzano
l'azione solo nelle fasi di lavorazione prossime all' aggiunta, non proteggendo le successive.
Inoltre i due coadiuvanti presentano alcune
criticità.
L'anidride solforosa in presenza di parti solide favorisce la dissoluzione di frazioni polifenoliche che possono causare una serie di problematiche ossidative.
L'impiego di acido ascorbico nei mosti, non
risolve il problema in quanto questo antiossidante necessita della contemporanea presenza di anidride solforosa.
Anche i gas tecnici impiegati a protezione
del mosto non riescono da soli a proteggere
dalle ossidazioni.
La lavorazione a bassa temperatura dei mosti
con l'intento di bloccarne l'attività enzimatica, può costituire un ulteriore strumento
contro le ossidazioni.
La bassa temperatura di certo aiuta a limitare l'azione dell'ossigeno ma non è sufficiente
54
a garantire l'arresto delle attività enzimatiche dell'uva.
L'arresto di queste attività avviene in prossimità al punto di congelamento delle uve.
Comunque l'impiego del freddo permette di
rallentare l'azione nefasta dell'ossigeno e di
svolgere le prime fasi di lavorazioni con una
parziale protezione dalle ossidazioni.
Da sola nessuna di queste pratiche enologiche riesce a risolvere le problematiche legate all'ossigeno; solo una strategia integrata
permette di operare in modo preciso avendo
un controllo puntuale sulle fasi di lavorazione pre-fermentative.
Per poter scegliere il protocollo di lavorazione da applicare ad un'uva, è importante
saper valutare la sua carica enzimatica e la
sua ossidabilità.
I test disponibili sono svariati ma richiedono
sempre tempi lunghi e hanno costi elevati,
inoltre il risultato non è sempre facilmente
fruibile dal tecnico di cantina.
Un approccio già studiato in passato, è la
simulazione dell'ossidazione dei mosti a
diverse condizioni monitorando la cinetica
di consumo dell'ossigeno.
Oggi questo metodo grazie a nuove apparecchiature disponibili a costi contenuti è diventato facilmente implementabile anche in
cantina.
Questo permette di valutare di volta in volta
l'ossidabilità del mosto e dà la possibilità di
adattare il protocollo di lavorazione alla
materia prima.
Infatti è noto che l'attività enzimatica varia
notevolmente durante la maturazione delle
uve e un protocollo adatto a inizio vendemmia, può non essere adatto alle uve raccolte
a fine vendemmia.
Per questo nell'ambito del presente progetto, è stata studiata l'ossidabilità dei mosti in
laboratorio a diverse temperature e addizionando diverse sostanze.
Tra le sostanze impiegate sono stati studiati
alcuni coadiuvanti di largo uso, con azione
antiossidante in enologia come l'anidride sol-
forosa e l'acido ascorbico.
Altri invece come sodio azide, acidi metossicinnamici sono stati scelti per la loro capacità di inibire gli enzimi in modo selettivo. Il
mosto addizionato con il prodotto viene saturato d'ossigeno e posto in camera di lettura.
Di seguito sono riportati i grafici di consumo
dell'ossigeno a varie temperature con diversi
prodotti (anidride solforosa, acido ascorbico,
acido metossi-cinnamico).
Come si può vedere in Figura 1, le prove condotte su mosti tal quali non addizionati
seguono andamenti diversi a seconda della
temperatura.
Il test ambiente ha un andamento estremamente regolare che lo porta ad esaurire completamente l'ossigeno disciolto se il tempo di
contatto è sufficientemente lungo (circa 25
min).
Il test freddo invece ha un andamento estremamente rallentato e più regolare che lo
porta a non esaurire l'ossigeno a fine prova.
Si evidenzia l'importante effetto della temperatura sul rallentamento delle attività
enzimatiche.
Come si può vedere in Figura 2, il consumo di
ossigeno sui test addizionati con 10 g/hL di
anidride solforosa seguono andamenti simili
sia per le prove a 4°C che a 10°C; le due
prove si discostano meno rispetto alla prova
test senza aggiunte.
Risulta evidente un effetto di rallentamento
sinergico della SO2 sulla cinetica di consumo,
fenomeno che si aggiunge all'azione delle
basse temperature.
La prova con l'impiego di acido ascorbico alla
dose di 50 mg/L in assenza di altre sostanze genera un effetto pro-ossidante sulle frazioni fenoliche del mosto (Figura 3).
La velocità degli enzimi risulta notevolmente
incrementata fino ad arrivare, sia nella
prova a 20°C sia in quella a 4°C , ad esaurire rapidamente l'ossigeno disciolto, grazie
all'azione combinata degli enzimi e dell'acido
ascorbico.
L'aumento di velocità è strettamente legata
alla temperatura, infatti la prova a 20°C raggiunge molto velocemente valori d'ossigeno
Figura 1. Cinetica di consumo dell'ossigeno a 20°C (test ambiente) e a 4°C (test freddo).
Figura 2. Cinetica di consumo dell'ossigeno a 20°C (SO2 ambiente) e a 4°C (SO2 freddo).
55
Figura 3. Cinetica di consumo dell'ossigeno a 20°C (acido ascorbico ambiente) e a 4°C (acido ascorbico
freddo).
Figura 4. Cinetica di consumo dell'ossigeno a 20°C (metossi-cinnamico ambiente) e a 4°C (metossi-cinnamico freddo).
disciolto prossimi a zero.
L'acido metossi-cinnamico inibisce la tirosinasi presente sulle uve.
Infatti la bibliografia attribuisce all'acido
metossi-cinnamico un'azione di inibizione
specifica nei confronti della tirosinasi ma
non della laccasi.
Se come nel caso riportato (Figura 4), le
curve a 20°C e a 4°C sono molto ravvicinate
e l'abbassamento di temperatura non ha
ulteriore effetto sulla cinetica di consumo
dell'ossigeno, si può dedurre che l'inibizione
della tirosinasi è quasi completa.
Nel caso in cui le due curve rimanessero discostate, si potrebbe ipotizzare che l'azione
d'ossidazione non sia solo ad opera della tirosinasi ma anche della laccasi.
Mettendo a confronto una serie di prove condotte su uno stesso mosto alla temperatura
56
di 20°C, risultano evidenti i differenti comportamenti dei prodotti impiegati.
Molto evidente l'effetto pro-ossidante dell'acido ascorbico quando non è abbinato con
anidride solforosa.
La curva della prova test senza alcun additivo demarca il comportamento del mosto di
riferimento per la prova.
L'addizione di SO2 rallenta la cinetica rispetto al test, analogamente a quanto accade
con l'aggiunta di acido metossi-cinnamico,
infatti entrambi i prodotti inibiscono l'azione
degli enzimi.
Nel caso riportato in Figura 5 la sodio azide
non ha effetti sulla cinetica di consumo dell'ossigeno in quanto avendo effettuato la
prova su uve sane prive di laccasi, la sua
aggiunta non incide sulla cinetica di consumo
dell'ossigeno.
Figura 5. Cinetica di consumo dell'ossigeno a 20°C con l'aggiunta di differenti prodotti).
Figura 6. Cinetica di consumo dell'ossigeno a 4°C con l'aggiunta di differenti prodotti.
Analogamente al caso precedente, mettendo
a confronto i vari prodotti testati alla temperatura di 4°C (Figura 6), le considerazioni
rimangono le stesse anche se lavorando a
bassa temperatura è più difficile distinguere
l'effetto dei prodotti, che tende ad essere
sopraffatto dall'inibizione ad opera della
temperatura.
Di riferimento per questa considerazione è
la prova con acido ascorbico in cui risulta
molto meno evidente l'elevata velocità di
consumo dell'ossigeno, cosa che invece risultava evidente nella prova a 20°C.
Inoltre è stata valutata l'efficacia di protocolli di pressatura basati sui risultati dei test
precedenti.
Di seguito sono riportati i dati sugli effetti
della pressatura in ambiente inerte (RID) e
fortemente ossidativo (IPEROX) rispetto a un
testimone trattato in condizioni normali di
pigiatura e pressatura (TEST).
La valutazione è stata effettuata attraverso
analisi spettrofotometriche dirette a valutare l'ossidazione delle componenti polifenoli
che del mosto.
57
Studi per la messa a punto di una metodica
per la valutazione della stabilità tartarica dei
vini bianchi
N. Righetti, M. Manzo, E. Nicolis e R. Ferrarini
Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Biotecnologie
La stabilizzazione dei vini nei confronti delle
precipitazioni tartariche, rappresenta una
delle principali problematiche che il tecnico
è chiamato a risolvere per offrire al consumatore un prodotto che risponda in maniera
globale agli elevati standard qualitativi oggi
richiesti.
Nella valutazione della stabilità tartarica, si
cerca in tutti i modi di accelerare un processo che nel vino è alquanto lento e complesso
con attrezzature e metodologie di diverso
tipo in continua evoluzione.
I test però oggi disponibili, possono dare dei
giudizi errati, portando, nel caso di un trattamento non sufficiente, a dei precipitati in
bottiglia oppure, se trattato in maniera
eccessiva, ad uno smagrimento eccessivo del
vino con uno spreco di grandi quantità di
energia.
La conservazione dei vini a temperature di
cantina (ad esempio 12°C) per diversi mesi,
potrebbe essere il test più vicino alla reale
stabilità del vino, ma risulta eccessivamente
lungo per le necessità aziendali.
Il test a -4°C viene considerato come test di
riferimento, in quanto è simile al precedente, ma più veloce grazie alla bassa temperatura; inoltre il vino non viene "sofisticato",
né con l'aggiunta di germi di cristallizzazione, né con l'agitazione.
Sebbene accelerato, il processo di cristallizzazione risulta comunque troppo lento per
l'operatività di cantina che ha bisogno di
risultati in giornata, per valutare l'efficacia
del trattamento durante le operazioni di stabilizzazione tartarica del vino stesso.
Il test a -10°C, portando il vino a 22 %Vol. in
etanolo, sfrutta la diminuzione della solubilità del HTK, dovuta all'abbassamento della
temperatura e all'incremento del grado alcolico, mantenendo però attive le due fasi
della cinetica, al contrario dei test strumentali che prevedono l'aggiunta di nuclei bitartrato di potassio che saltano la prima fase di
cristallizzazione.
Lo scopo principale della ricerca è di mette58
re a punto un nuovo test comparandolo con il
test di riferimento a -4°C; il confronto serve
per verificare la correlazione tra i due test,
identificare delle possibili soglie e valutare i
punti di forza e quelli critici del protocollo
attuato per indirizzare ulteriori sperimentazioni future.
1. IL TEST A -10°C CON L'AGGIUNTA DI
ETANOLO
È il nuovo test di cui si è voluta testare l'efficacia. Fino ad ora, le prove analizzate
hanno sfruttato solo la temperatura come
fattore di velocizzazione della cinetica di
precipitazione, ma se si va ad aggiungere una
quantità di etanolo tale che il vino in esame
possa giungere a 22 %Vol., si può destabilizzare ulteriormente il campione e portare alla
temperatura di -10°C senza che avvenga il
congelamento.
Le rilevazioni effettuate sono dello stesso
tipo degli altri test di frigo, ma in questo
caso, la prima precipitazione tartarica è
stata valutata in ore.
Come si può vedere dalla Tabella 1, il test a
-10°C nei confronti dei vini bianchi, ne stima
alcuni fortemente instabili. L'etanolo in questo caso, assieme alla temperatura, gioca un
ruolo importante nella sovrasaturazione del
vino.
In questo test, nei vini bianchi potrebbe
risultare complesso stimare una soglia di stabilità, in quanto, data l'eccessiva estremizzazione del test, le dinamiche di precipitazione potrebbe essere alterate rispetto alla
realtà.
Problematiche relative a questo test si
riscontrano nella laboriosità della preparazione: occorre preparare il campione a 22
%Vol. con precisione e accuratezza. Si devono analizzare conducibilità, acido tartarico e
potassio su vino testimone anche prima del
test, questo perché, l'aggiunta di etanolo
comporta una diluizione del prodotto.
Per il monitoraggio, si esegue solo l'analisi
visiva, in quanto, prelevando un'aliquota, si
andrebbe a innescare il processo di precipitazione con successiva maggiore precipitazione sia durante che a fine test.
È inoltre fondamentale svolgere, almeno
ogni due ore, la valutazione dell'eventuale
cristallizzazione. Quindi, è valutata positivamente la velocità del test, ma la laboriosità
della prova è un aspetto da tener ben presente se si volesse eseguire.
Al fine di valutare l'efficacia e l'attendibilità
dei test di congelamento e di -10°C, si sono
confrontati con il test di riferimento.
Inoltre per avere una comparazione migliore,
si sono divisi i campioni in stabili e instabili
secondo il test a -4°C per sette giorni.
2. COMPARAZIONE FRA VINI STABILI
BIANCHI
Tabella 1. Risultati test -10 °C sui vini bianchi.
Fondamentale la valutazione della formazione del primo precipitato nel caso del test a 10°C: in media si è verificato nelle prime 4
ore, quindi molto rapidamente.
La precipitazione del bitartrato per quanto
riguarda il test a -10°C, avviene nelle prime
quattro ore, quindi si potrebbe stimare la
soglia di stabilità per questo limite.
Tabella 2. Confronto con variabili statistiche dei test di frigo dei vini.
59
3. COMPARAZIONE FRA VINI INSTABILI
BIANCHI
In questo caso il campione è più ampio
rispetto ai vini bianchi stabili. Come si può
vedere dalla Tabella 3, il test di riferimento,
ha dato delle diminuzioni piuttosto basse per
denotare dei prodotti instabili; ciò non è in
linea con il potassio, in quanto risulta una
diminuzione ben maggiore e una deviazione
standard di nota. Sono vini sicuramente
instabili, in quanto il primo precipitato, in
media lo si ha al giorno 3 e quindi si è lontani dalla soglia limite.
Il test a -10°C presenta in media una precipitazione alla quinta ora: anche se risulta mag-
giore rispetto a vini bianchi stabili, c'è da
ricordare che gli instabili erano in numero
molto limitato e quindi poco rappresentativo.
Gli altri due test (-4°C e -20°C) sono abbastanza simili dal punto di vista della caduta
di acido tartarico e potassio, ma non per
quanto riguarda la conducibilità.
Il congelamento rappresenta un valore più
simile rispetto al test a -4°C, anche se con
una deviazione standard più elevata.
Un dato che è importante analizzare, per
quanto riguarda la diminuzione di potassio è
la deviazione standard: si sono riscontrati
valori piuttosto elevati, quindi i risultati si
dispongono in un campo molto ampio.
Tabella 3. Confronto con variabili statistiche dei test di frigo dei vini bianchi.
60
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