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MarraffaViola2017preprint

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Quale mappa per il dominio delle emozioni?
Article in Sistemi Intelligenti · April 2017
DOI: 10.1422/86619
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2 authors:
Marco Viola
Massimo Marraffa
Università degli Studi di Torino
University Roma Tre, Rome, Italy
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The social dimension of self-consciousness View project
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SEE PROFILE
LA NATURA DELLE EMOZIONI
ALLA PROVA DELLE SCIENZE COGNITIVE
massimo marraffa marco viola
QUALE MAPPA PER IL DOMINIO DELLE EMOZIONI?
1. Introduzione: quali mappe per navigare nell’oceano delle emozioni
Da sempre al centro delle riflessioni filosofica e scientifica, lo studio delle emozioni è stato definito «un campo di studi molto confuso
e confondente» (Ortony, Clore e Collins 1988, 2). Numerosi pensatori,
partendo dal «porto sicuro» dello studio di alcuni aspetti specifici della
vita emotiva, hanno cercato di tracciare una rotta che permettesse di
circumnavigare il continente «emozioni». Per esempio, Paul Ekman
è partito dallo studio delle regolarità universali nell’espressione e nel
riconoscimento di certe categorie di emozioni nei volti umani (Ekman
1989), e ha poi generalizzato quelle categorie fino a farne costituenti
primari di tutta la vita emotiva (Ekman 1992; 1999). Parimenti, altri
ricercatori hanno elaborato le proprie teorie delle emozioni avendo in
mente certi fenomeni specifici, e generalizzando a partire da essi.
Il risultato è stato un’esplosione di «carte nautiche»: già nel 1981,
Kleinginna e Kleinginna censirono 92 definizioni in parte divergenti,
cui vanno aggiunte nove affermazioni scettiche. Per un ricercatore che
desideri imbarcarsi nell’indagine sulla natura delle emozioni, affidarsi
a una di queste mappe – o disegnarne una nuova – significherà vedere
o non vedere alcune coste che avrebbe visto adottando un’altra rotta;
addirittura, affidandosi a certe mappe, la sua nave rischierà di infrangersi
contro gli scogli non previsti di alcuni fenomeni non segnalati sulla sua
cartina.
Quali sono le ragioni di questa eterogeneità? La spiegazione a
nostro avviso più convincente è quella presentata dal libro What Emotions Really Are di Paul Griffiths (1997). A suo giudizio, il termine del
linguaggio ordinario «emotion» non si riferisce a un genere naturale,
vale a dire: i fenomeni che il senso comune definisce «emozioni» non
appartengono a un dominio omogeneo, accomunati da un medesimo
meccanismo causale che renda possibile la proiezione e l’induzione1.
1 Questa nozione di genere naturale è stata sviluppata da Richard Boyd (1991)
per rendere conto dell’eterogeneità delle categorie delle scienze speciali: infatti, una
SISTEMI INTELLIGENTI / a. XXIX, n. 1, aprile 2017
3
La «projectability» (termine coniato da Goodman 1955) è ciò che ci
rende sicuri nell’applicare certe proprietà a casi non ancora osservati e
a fenomeni nuovi che la teoria non aveva esplicitamente contemplato.
Per esempio, quando osservo certe righe spettrali nella luce emessa da
un piccolo tubo riempito di idrogeno e poi osservo le stesse righe in una
lontana galassia, mi sento autorizzato a dire «laggiù c’è idrogeno» (l’esempio è in Piattelli Palmarini 1987). Per quanto concerne l’induzione,
invece, bisogna tenere presente che i concetti di genere naturale (per
es. gli elementi in chimica e le specie in biologia) svolgono un ruolo
importante nel ragionamento induttivo perché i membri di un natural
kind tendono a condividere molte proprietà fondamentali. La scoperta
che un membro appartenente a un genere possiede una certa proprietà fornisce perciò una ragione per credere che anche gli altri membri
condivideranno tale proprietà. Questa uniformità dei generi naturali li
differenzia da classi di individui specificate arbitrariamente; infatti, nel
caso di queste ultime, rilevare che un membro della classe possiede
una certa proprietà (diversa da quelle che sono utilizzate per definire la
classe stessa) non fornisce alcuna ragione di credere che altri membri di
quella classe condivideranno tale proprietà. Di conseguenza, così come
fu impossibile rinvenire le leggi astronomiche degli oggetti «sopralunari», sarebbe impossibile (e fuorviante) cercare di rintracciare le leggi di
una scienza delle emozioni in generale. Per tornare alla nostra metafora
nautica, ogni rotta che pretendesse di circumnavigare il continente delle
emozioni sarebbe destinata al fallimento per il semplice motivo che non
c’è nessun continente, ma casomai un arcipelago.
Tre sono le «isole» identificate da Griffiths. La prima (e la più
esplorata) è quella delle già citate emozioni di base, l’output di riflessi
computazionali (moduli) denominati «affect programs». La seconda
consiste invece di emozioni complesse, episodi emozionali che hanno
una collocazione più centrale nel fitto intreccio della nostra vita mentale. La terza, infine, è popolata da emozioni da intendersi come finzioni
costruite socialmente, ovvero come schemi codificati culturalmente per
svolgere determinati ruoli all’interno di una certa società. A queste tre
isole se ne può forse aggiungere una quarta, appena abbozzata: quella
degli stati d’animo (moods), emozioni di maggior durata, cioè a carattere
non accessionale, che possono essere visti come stati disposizionali a
carattere non finalizzato. (Gli esempi più tipici di condizioni emozionali
non accessionali sono le fluttuazioni timiche, cioè le normali variazioni
del tono dell’umore.)
Tuttavia, nei vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del fondamentale
libro di Griffiths, nuovi navigatori hanno preso il largo e hanno riprovato
concezione essenzialistica di genere naturale, identificando le specie biologici tramite un
insieme necessario e sufficiente di tratti fenotipici o genotipici, sarebbe risultata incompatibile con la teoria dell’evoluzione, che richiede e origina dalla varietà fra individui.
4
a formulare una cartografia comprensiva del dominio emotivo. Dopotutto, se l’impresa scientifica assomiglia almeno un po’ alla nave della
celebre metafora di Otto Neurath, è legittimo aspettarsi che durante i
loro viaggi i marinai abbiano migliorato lo scafo, e che dunque forse ora
l’imbarcazione sia pronta per solcare mari ancora inesplorati.
È dunque interessante domandarsi se, grazie all’ausilio delle innovazioni tecnologiche e concettuali degli ultimi vent’anni, qualche navigatore sia riuscito a compiere una circumnavigazione soddisfacente della
sfera emotiva, riconsegnandole lo statuto di continente (cioè di genere
naturale) che le era stato negato da Griffiths. Questa è la domanda che
ci poniamo in questo articolo, comparando le mappe nautiche di due
navigatrici, Martha Nussbaum e Lisa Feldman Barrett, alle più classiche
carte nautiche prodotte (e perfezionate) dai teorici delle emozioni di base.
2.La
versione neostoica della teoria cognitivo-valutativa delle
emozioni
Secondo una tradizione consolidata, la base cognitiva di un’emozione è necessariamente una credenza; più specificamente, è una credenza valutativa o assiologica, ovvero una credenza la cui formulazione
include espressioni che fanno riferimento a valori. Questa concezione
sostiene, per esempio, che la base cognitiva del disprezzo nei riguardi
di un particolare oggetto è un giudizio – un giudizio in cui all’oggetto
viene attribuita la proprietà espressa dal predicato «spregevole». Con
le parole di Robert Solomon (1977, 186), una credenza valutativa (o,
più precisamente, il giudizio che esprime la credenza) è la condizione
definitoria di ogni emozione.
La teoria delle emozioni di Martha Nussbaum appartiene a questa
tradizione. Upheavals of Thought si apre con l’affermazione che le
emozioni «involve judgments about important things, judgments in
which, appraising an external object as salient for our own well-being,
we acknowledge our own neediness and incompleteness before parts of
the world that we do not fully control» (Nussbaum 2001, 19). Questa
concezione nasce da una revisione dell’etica stoica antica; è, come ha
osservato de Sousa (2004), un «cognitivismo neostoico modificato».
Anche per gli stoici le emozioni sono giudizi valutativi, giudizi in cui
viene attribuita un’enorme importanza a cose e oggetti «su cui non abbiamo pieno controllo», e ciò in vista della piena «fioritura» delle capacità
umane (human flourishing). Evidentemente, accogliere questa visione
vuol dire respingere tutte quelle concezioni che descrivono le emozioni
come moti non razionali, come «unthinking energies that simply push
the person around» (Nussbaum 2001, 24). Insomma, sostiene Nussbaum,
vuol dire accogliere una teoria cognitivo-valutativa delle emozioni.
5
Il cognitivismo neostoico modificato formula tre tesi sulla natura
delle emozioni. Primo, le emozioni sono sempre in relazione a qualcosa,
ossia non sono cieche ma hanno sempre un oggetto; e questo oggetto è
intenzionale, nel senso che figura nell’emozione così come è concepito e interpretato dalla persona che prova quell’emozione. Secondo, le
emozioni presuppongono non già semplici modi di vedere gli oggetti
bensì vere e proprie credenze su di essi. Terzo, al pari delle percezioni
intenzionali, le credenze che danno vita alle emozioni sono sempre in
relazione a un valore. Più precisamente, le emozioni chiamano in causa
giudizi di valore «aristotelici»: quando un individuo prova un’emozione
positiva nei confronti di un oggetto, non vi è soltanto il giudizio che
l’oggetto ha valore, ma anche il giudizio eudaimonistico che l’oggetto
è prezioso per il proprio benessere.
Collegare la nozione di valore al benessere individuale potrebbe farci
scivolare in una visione utilitaristica, in cui gli oggetti delle emozioni
vengono visti come mezzi per il soddisfacimento del soggetto. L’assegnazione alle emozioni di un carattere eudaimonistico pone al riparo da
questo pericolo: si tratta infatti di un modo più sofisticato di definire le
caratteristiche di una vita in cui l’individuo persegue il pieno sviluppo
delle migliori capacità umane (giustizia, amicizia, vita intellettuale ecc.):
«not only virtuous actions but also mutual relations of civic or personal
love and friendship, in which the object is loved and benefited for his or
her own sake, can qualify as constituent parts of a person’s eudaimonia»
(Nussbaum 2011, 32).
Siamo di fronte a una riflessione molto importante. È vero: da almeno
due decenni la teoria cognitivo-valutativa delle emozioni è sottoposta a
critiche stringenti alla luce di teorie e dati delle scienze cognitive (cfr. per
es. Griffiths 1997, cap. 1). E tuttavia, la revisione della teoria condotta
da Nussbaum sembra in grado di evitare almeno alcune difficoltà che
inficiano le versioni tradizionali. Secondo Ronald de Sousa (2014), per
esempio, il punto di forza della teoria di Nussbaum risiede nel sottolineare
che le emozioni non sono meri atteggiamenti proposizionali (il cui caso
paradigmatico è «io credo che p»). L’importanza psicologica e morale
delle emozioni – sostiene Nussbaum in Love’s Knowledge (1992) – può
essere colta soltanto attraverso il mezzo artistico, e in particolare grazie
alla letteratura, in cui l’inestricabile intreccio tra forma e contenuto rende
possibile un messaggio dotato di sufficiente complessità.
2.1. Alcune difficoltà dell’assunto assiologico
De Sousa ha ragione: il cognitivismo stoico modificato di Nussbaum
possiede una flessibilità e un’articolazione interna che lo rende preferibile
agli approcci cognitivisti tradizionali. Ciò nonostante, come mostreremo
6
fra poco, la teoria di Nussbaum può essere solo una componente di una
teoria completa delle emozioni.
La tesi assiologica presupposta dalla teoria delle emozioni di
Nussbaum – vale a dire, la tesi che un giudizio valutativo sia l’elemento definitorio di ogni emozione – è estremamente implausibile, e per
varie ragioni. Alcuni filosofi hanno provato a correggerla, ma con esiti
a nostro parere insoddisfacenti. Per esempio, Lyons (1980) ha aggiunto
alla condizione della credenza un’attivazione corporea causata dalla
credenza; Marks (1982) ha aggiunto il desiderio. Nel primo caso, la
base valutativa determina causalmente un particolare tipo di attivazione
corporea e l’emozione consiste nella credenza valutativa più l’attivazione
corporea; nel secondo caso, l’emozione è analizzata come una particolare
combinazione di credenze e desideri. In ambedue le revisioni si assume
che la credenza valutativa svolga un ruolo fondamentale. (Una versione
più debole di questo assunto afferma che condizione necessaria dell’esperienza emozionale è un particolare «pensiero» assiologico.) Come ora
vedremo, però, tutte le varie versioni dell’assunto assiologico possono
essere criticate alla luce di almeno tre differenti considerazioni.
Un primo problema che l’assunto assiologico deve fronteggiare
riguarda la presenza delle emozioni negli animali e nei bambini molto
piccoli. Questi ultimi hanno, per esempio, paura dei tuoni; e tuttavia
questa loro paura presuppone non già una credenza o un pensiero assiologico bensì qualche forma di valutazione di basso livello. Su questo
punto Nussbaum si allontana dalla dottrina stoica: anche gli animali
e i bambini molto piccoli formulano i giudizi valutativi presupposti
dalle emozioni. Certo, a questi giudizi valutativi non si accompagna
l’autoconsapevolezza; e questa forma di valutazione di basso livello
non è esprimibile linguisticamente. Ciò malgrado, afferma Nussbaum
(2001, 1), anche queste emozioni includono nel loro contenuto giudizi
che possono essere veri o falsi, e guide buone o cattive alla scelta etica.
Ciò che si richiede in questo caso è una nozione sfaccettata di «cognitive interpretation or seeing-as, accompanied by a flexible notion of
intentionality that allows us to ascribe to a creature more or less precise,
vaguer or more demarcated, ways of intending an object and marking
it as salient» (2001, 129).
È legittimo concepire la valutazione di basso livello presente nelle
emozioni degli animali e degli infanti sulla falsariga di un giudizio valutativo? Per Griffiths la risposta è negativa: «it is simply misleading to
describe low-level appraisal as evaluative judgment, or using any other
locution derived from a psychology that presumes a fundamental distinction between data and goals. Instead, low-level emotional appraisal
seems to involve action-oriented representation» (2004, 243).
Le rappresentazioni orientate all’azione a cui qui si fa riferimento sono stati interni particolarmente ben attrezzati per la produzione
non costosa sotto il profilo computazionale di risposte appropriate, in
7
condizioni ecologicamente normali. Il costrutto è stato sviluppato dal
filosofo Andy Clark (1997, 29), che lo ha utilizzato per forzare in senso
rappresentazionalista la teoria delle affordances di Gibson. Come è noto,
per Gibson la percezione non è mediata da modelli interni dettagliati e
neutrali rispetto all’azione; non è mediata da stati interni che richiedono
ulteriore ispezione o sforzo computazionale per generare le azioni appropriate. Gli stati interni sono invece centrati sull’azione: gli organismi
sono predisposti a rilevare affordances, ossia possibilità di uso, intervento
e azione che l’ambiente offre a un agente incorporato. Fin qui Gibson.
Clark va oltre sostenendo che quando si rappresenta il mondo-ambiente
come un complesso di affordances, si creano stati interni che descrivono
aspetti parziali del mondo e prescrivono possibili azioni e interventi2.
Ebbene, Griffiths si avvale di questa nozione per meglio definire la
valutazione di basso livello negli esseri umani. Consideriamo, propone
lo studioso, la valutazione di basso livello associata al tema relazionale
centrale «un attacco umiliante a me e a ciò che è mio»3. Immaginiamo
un giocatore intento a dribblare su un campo di calcio; un altro giocatore
lo strattona per la maglietta, facendogli perdere palla; il primo, allora,
si rivolge rabbiosamente verso il secondo. Ora, osserva Griffiths (2004,
244), sarebbe sbagliato affermare che in questo caso una qualche regione
cerebrale pertinente crede che il tema relazionale centrale della rabbia sia
stato istanziato. Le credenze sono stati mentali che rappresentano come
il mondo è e che producono l’azione in congiunzione con i desideri, che
rappresentano come il mondo dovrebbe essere. Ma nella valutazione di
basso livello associata alla rabbia non è in discussione quale azione sarà
compiuta: il giocatore frustrato si rivolgerà verso lo stimolo, produrrà
l’espressione facciale panculturale della rabbia e subirà i mutamenti
fisiologici che lo preparano all’azione aggressiva. Nell’esempio la
«computazione emozionale» è nello stesso tempo la credenza che il
mondo è in un certo modo e l’intenzione ad agire in un certo modo. In
altre parole, la computazione richiede una rappresentazione orientata
all’azione; e questa è una definizione più appropriata della valutazione
di basso livello negli animali e nei bambini molto piccoli.
Una seconda difficoltà a carico dell’assunto assiologico è l’esistenza
di esperienze emozionali che non presuppongono alcuna credenza o pensiero assiologico. Si pensi, ad esempio, al disgusto; oppure a un piacere
ricavato dallo svolgimento di una certa attività. Il disgusto che è causato
dalla percezione di qualcosa di viscido non richiede necessariamente che
2 Qui Clark rinvia alle rappresentazioni denominate da Millikan «pushmi-pullyu».
Al pari dell’immaginario animale del dottor Dolittle, queste rappresentazioni guardano
simultaneamente in due direzioni opposte: descrivono com’è il mondo e prescrivono
uno spazio di risposte adattive. Cfr. Millikan (2001).
3 I «core relational themes» sono relazioni organismo/ambiente che hanno importanza per il benessere dell’organismo. Cfr. Lazarus (1991).
8
si giudichi o si pensi esplicitamente che la cosa in questione sia rivoltante, disgustosa, ecc. E nemmeno il piacere connesso allo svolgimento di
un’attività richiede necessariamente una credenza o un pensiero: posso
trarre diletto dall’ascolto di un brano musicale senza giudicare o credere
che il brano sia bello – il mio piacere è semplicemente una modificazione
dell’attività di ascolto che la rende più vivida, più partecipativa, così da
assorbirmi corpo e anima (cfr. Calabi 1999).
A queste considerazioni si potrebbe obiettare che disgusto e piacere
non sono esempi di emozioni. Ma a questa obiezione si può replicare in
due modi. Primo, l’obiezione impoverisce il nostro repertorio emozionale.
Fra l’altro, proprio il disgusto – e precisamente nel senso appena delineato
– è annoverato fra le emozioni di base o primarie in molte tassonomie
contemporanee (vedi più avanti). Il piacere come lo abbiamo inteso qui,
ossia come parte non autonoma di un’attività, non può essere assimilato
a una sensazione corporea localizzata. Piuttosto, esso è la particolare
tonalità emozionale con cui si vive lo svolgimento di quella particolare attività. Più in generale, si può sostenere che questa linea di difesa
presuppone un punto di vista a priori sulle emozioni che, rinegoziando
al ribasso i confini dell’explanans, impedisce di comprendere alcuni
fenomeni pertinenti. Come vedremo, si tratta di una strategia ricorrente.
Infine, la terza critica dell’assunto assiologico concerne l’incapsulamento delle emozioni. In taluni casi il sistema di elaborazione di
informazione emozionale non utilizza – e nemmeno interagisce con –
il contenuto informativo di altri sistemi cognitivi. In questo senso, le
emozioni sono dette «isolate sotto il profilo inferenziale». Tuttavia, se le
emozioni hanno un contenuto proposizionale assiologico, non possono
essere inferenzialmente isolate giacché devono essere implicate da altre proposizioni e a sua volta implicano altre proposizioni, in tal modo
occupando particolari nodi in talune reti inferenziali.
L’isolamento inferenziale equivale all’«impenetrabilità cognitiva» o
all’«incapsulamento informativo» delle computazioni eseguite dai sistemi modulari (Fodor 1983). E vi sono prove dell’esistenza di emozioni
impenetrabili o incapsulate. Soffermiamoci su questo punto.
2.2. La modularità delle emozioni (di base)
Nussbaum ritiene che la classica presentazione della teoria dell’appraisal di Richard Lazarus sia «per tutti gli aspetti essenziali, la concezione delle emozioni che ho difeso nel primo capitolo» (Nussbaum 2001,
109). Ora, che cosa dice la teoria di Lazarus? Il suo nucleo essenziale
consiste nella tesi che le emozioni richiedono un tipo di elaborazione di
informazioni che è sufficientemente sofisticato da meritare la qualifica
di «cognitivo». In altri termini, Lazarus ritiene che le emozioni siano
molto simili a processi cognitivi prototipici come il problem solving o
9
il decision making; e molto diverse da processi paradigmaticamente non
cognitivi quali i riflessi.
Tuttavia, come la stessa Nussbaum (2001, cap. 2, § 2) ci ricorda,
negli anni ottanta del secolo scorso Robert Zajonc respinse la teoria
dell’appraisal di Lazarus (cfr. anche Griffiths 1998, 199). Il punto di
partenza di Zajonc erano alcuni dati empirici che inducevano a ipotizzare
l’esistenza di vie dirette dal sistema percettivo al sistema limbico, da molti
ritenuto responsabile dell’integrazione dei complessi comportamentali
emozionali. A suo parere, queste erano prove del fatto che i processi che
collegano la percezione e le emozioni non possono essere considerati
«cognitivi». Piuttosto, l’elaborazione di informazioni emozionale ha un
carattere «modulare», nel senso di essere una rapida risposta stereotipata, simili a un riflesso, controllata da un sottosistema che computa
un database limitato, ed è in larga misura indipendente dai processi alla
base della pianificazione razionale delle azioni. Tre sono gli argomenti
offerti da Zajonc a sostegno di questa tesi.
In primo luogo, lo psicologo chiama in causa alcuni esperimenti
che sembrano dimostrare la possibilità di condizionare risposte emotive
differenziali avvalendosi di stimoli subliminali. Nessuna informazione
relativa a questo genere di stimoli è disponibile a processi cognitivi
superiori paradigmatici quali il ricordo cosciente e il rapporto verbale
(cfr. per es. Kunst-Wilson e Zajonc 1980).
In secondo luogo, alcune emozioni umane – quelle che, come vedremo
fra breve, sono concepite come il prodotto di certi affect program – e
le risposte di organismi molto più elementari sono omologhe4 e localizzabili in strutture cerebrali simili5. Infine, l’ipotesi della modularità dà
conto del carattere di passività che tradizionalmente il senso comune
attribuisce alle emozioni: al pari dei riflessi o degli input percettivi, le
emozioni sembrano accadere agli individui, piuttosto che essere pianificate ed eseguite.
La concezione modulare delle emozioni di Zajonc ha fornito le
fondamenta per la teoria degli affect program. Quest’ultima si inserisce
nel quadro dell’approccio psicoevoluzionista allo studio delle emozioni,
ispirato dagli studi di Darwin (1872) sulle espressioni delle emozioni.
Ignorato dalla psicologia comportamentista, il lavoro di Darwin fu riscoperto dall’etologia classica, e ispirò il lavoro di diversi psicologi del
secolo scorso, tra cui Silvan Tomkins e il suo discepolo Paul Ekman.
La teoria psicoevoluzionista propone una spiegazione unitaria di un
repertorio di emozioni di base (o «primarie»), e lo fa postulando che la
filogenesi ci abbia lasciato in eredità dei meccanismi causali alla base di
4 Ossia, hanno la stessa origine evolutiva, anche laddove adempiano a funzioni differenti: per es. le ali del pipistrello, le pinne del delfino e il braccio di un uomo sono organi
omologhi in quanto si sono evoluti dalle pinne pettorali appaiate di un pesce primitivo.
5 Ma su questo punto si vedano più avanti, le critiche dei costruzionisti.
10
Tab. 1. Una comparazione delle caratteristiche dei moduli di Fodor (1983) e degli
Affect Programs così come formulati nella prima versione della teoria delle
Basic Emotions di Ekman (1992), divise per gruppi
Caratteristiche dei moduli fodoriani
Domain specificity
Informational encapsulation
Limited accessibility
Obligatory firing
Fast speed
Shallow outputs
Characteristic ontogeny
Fixed neural architecture
Caratteristiche delle Basic Emotions
nella prima formulazione di Ekman
Distinctive Universal signals
Automatic Appraisal, tuned to:
Distinctive universals in antecedent events
Unbidden occurrence
Quick onset
Brief duration
Distinctive appearance developmentally
Presence in other primates
Distintive physiology
ciascuna di esse6. Tali emozioni sono caratterizzate da specifiche risposte
fisiologiche, espressive, comportamentali, cognitive ed esperienziali a
eventi ambientali (Ekman e Cordaro 2011, 365); e ad attivare e coordinare
queste risposte rapide e stereotipate è un meccanismo computazionale, il
già citato affect program. Le modalità di elaborazione dell’informazione
di un affect program lo apparentano a un modulo fodoriano: si tratta
infatti di un sistema che viene attivato da una gamma ristretta di input
percettivi, che attinge esclusivamente a un database dedicato e opera in
autonomia dai processi soggiacenti la pianificazione dell’azione (vedi
la tab. 1)7. In condizioni di emergenza, di fronte a gravi pericoli, le
caratteristiche modulari consentono all’affect program di operare come
un sistema fail-safe, che sequestra il comportamento allorquando, disponendo di un tempo molto limitato, è essenziale che l’agente faccia
immediatamente la cosa giusta, anche a costo di affidarsi a conoscenze
esigue e sommarie.
6 Come ricorda Colombetti (questo volume), Darwin non postulò mai una bipartizione delle emozioni tra quelle di base e le altre: la distinzione sarebbe stata introdotta
dai suoi epigoni.
7 Cfr. Griffiths (1990). Si noti però che la specificità di dominio richiesta da questo
approccio modulare non richiede che le condizioni elicitanti universali siano specificate
nei termini di caratteristiche fisiche dell’ambiente: la vista di un ragno, per esempio,
può attivare l’affect program della paura in certi individui ma non in altri. È proprio
per rendere conto di queste variabilità individuali che Ekman ha postulato l’esistenza di
un «appraisal mechanism», specificando tuttavia come questi si tratti di un «automatic
appraisal mechanism». Griffiths ha insistito particolarmente su questa plasticità degli
affect programs dal lato dell’input, arrivando a sostenere che «most emotion-eliciting
stimuli are learned» (1997, 89), ma sottolineando come questo tipo di «apprendimento»
vada inteso come una sorta di processo associativo pavloviano con un’inclinazione innata
verso certi tipi di stimoli biologicamente salienti.
11
Gli episodi emotivi prodotti dagli affect programs sembrano insomma
costituire un limite invalicabile per la teoria di Nussbaum, che vorrebbe
definire tutte le emozioni in termini di giudizi assiologici. Ma come
vedremo, è vero anche l’inverso.
2.3. I limiti dell’approccio psicoevoluzionista
Dal canto suo, la teoria psicoevoluzionista degli affect program è in
affanno quando si tratta di spiegare episodi emozionali più complessi e
di maggiore durata che pure popolano le narrazioni psicologico-ingenue
sulla vita mentale – e con cui la teoria neostoica sembra cavarsela decisamente meglio: colpa, risentimento, invidia, vergogna, gelosia, fedeltà,
imbarazzo, e così via.
Consideriamo per esempio l’ipotesi di David Buss (2000) sulla
gelosia sessuale. Buss è uno psicologo evoluzionistico e ha teorizzato
un sistema modulare alla base della gelosia sessuale, innescabile da
semplici stimoli percettivi quali il mutamento della condotta sessuale,
un contatto oculare eccessivo e la violazione delle regole che governano
lo spazio peripersonale. Trattandosi di un meccanismo modulare, esso
impiega algoritmi specifici per dominio e, al pari di un affect program,
opera come un sistema «di sicurezza».
Tuttavia, se considerata dal punto di vista dell’input, un’emozione
come la gelosia è sensibile a una gamma di informazioni ben più ampia
di quella disponibile a un automatic appraisal mechanism. Perciò il
meccanismo alla base della gelosia non può essere attivato come sarebbe legittimo attendersi se operasse come un affect program. Il punto
è espresso in modo incisivo da Griffiths: «If Othello’s sexual jealousy
had been an affect program or a downstream cognitive effect of such a
program, he would have had to catch Desdemona in bed with Cassio, or
at least have seen the handkerchief, before his jealousy was initiated»
(1997, 117).
Inoltre, dal punto di vista dell’output, la gelosia è una risposta di
maggior durata rispetto alle reazioni degli affect program; non esibisce
il repertorio stereotipato di effetti fisiologici che caratterizza le emozioni
primarie; e appare assai più integrata in attività cognitive quali la pianificazione dell’azione a lungo termine. Quest’ultimo aspetto è in primo
piano nella teoria sociobiologica delle emozioni morali di Robert H. Frank:
in questa teoria le emozioni cognitive sono risposte irrazionali a breve
termine volte a garantire la razionalità dell’agente a lungo termine. Per
esempio, la fedeltà porterebbe spesso alla cooperazione a lungo termine
piuttosto che alla defezione a breve termine in interazioni sociali che
hanno la struttura di un dilemma del prigioniero iterato (Frank 2011).
Insomma, vi sono buone ragioni per ritenere che, con buona pace
degli psicologi evoluzionisti, un episodio emozionale complesso come
12
la gelosia richieda l’intervento di meccanismi psicologici diversi da (o
ulteriori a) quelli degli affect programs.
Tuttavia, secondo Ekman (1992; 1999), la teoria delle emozioni di
base sarebbe sufficiente a rendere conto di tutte le emozioni propriamente dette. Egli non nega l’esistenza di fenomeni più complessi, come
ad esempio il caso della gelosia; tuttavia, laddove questi fenomeni non
siano semplicemente riconducibili alla combinazione di più emozioni di
base, li «relega» ad altre categorie satellite del dominio emotivo – umori,
attitudini emotive, disordini emotivi o copioni emotivi (emotional plots)
– negando per(ci)ò che possano assurgere alla qualifica di emozioni in
senso proprio. Non solo: l’etichetta di emozione viene anche negata a
un fenomeno che tipicamente considereremmo latu sensu emotivo, quale
il trasalimento (startle reaction) perché i meccanismi soggiacenti, persino troppo semplici per qualificarli come sistemi modulari, sarebbero
piuttosto quelli di un riflesso.
Abbiamo già discusso una strategia di ridefinizione (a ribasso) dei
confini dell’uso legittimo del termine emozione come possibile controobiezione alla teoria neostoica, e abbiamo espresso il nostro scetticismo
al riguardo: si tratta di una strategia a priori che non aggiunge niente alle
nostre teorie delle emozioni, e anzi le impiccia, gravandole del fardello
di una (ennesima) disputa meramente verbale.
Proprio in riferimento polemico a questa mossa di Ekman, Scarantino
(2012) battezza questa rinegoziazione lessicale dei confini dell’explanans
«strategia ex cathedra». Ad essa contrappone una strategia riformista
e pluralista per difendere le basic emotions, sviluppata assieme al suo
maestro Griffiths (Scarantino e Griffiths 2011; Scarantino 2015) e
ispirata al suggerimento prudenziale di LeDoux (2012): «un’emozione
alla volta». Il fulcro della strategia di Scarantino è quella di tracciare
delle distinzioni nel dominio delle emozioni, abbandonando le categorie ingenue mutuate dal senso comune («paura», «rabbia», «disgusto»,
«gioia», «tristezza» e «sorpresa») in favore di sotto-categorie a grana
più fine e maggiormente validate – di cui un esempio potrebbe essere
il tipo di paura prodotta dall’improvvisa perdita d’appoggio (Öhman e
Mineka 2001). Inoltre Scarantino ammette esplicitamente che la teoria
degli affect programs non può da sola spiegare tutta la sfera della vita
emotiva: per rendere conto delle emozioni più complesse e della variabilità delle singole emozioni (un altro tallone d’Achille delle teorie
delle emozioni di base; vedi oltre) invoca l’integrazione di strumenti
esplicativi provenienti da altre tradizioni, come il costruttivismo (su cui
vedi oltre) o la teoria dei sistemi dinamici (su cui vedi il contributo di
Colombetti, questo volume). Vale la pena di notare che anche gli altri
teorici che hanno recentemente difeso una qualche versione della teoria
delle emozioni di base (con l’eccezione forse di Ekman e Cordaro 2011)
l’hanno fatto ammettendone i limiti e accettando qualche passo indietro:
Levenson (2011) ammette ad esempio che a fianco delle emozioni di
13
base (e costruite sulla base di queste) vi possano essere delle risposte
emotive secondarie, mentre Frijda e Parrott (2011) postulano, al posto
delle emozioni di base, le così dette «ur-emotions», universali emotivi
biologici che però, invece di tradursi necessariamente in schemi d’azione
ben definiti, si limitano a disporre l’organismo verso di essi.
Dunque, anche la teoria delle emozioni primarie sembra davanti a un
bivio: o nega la pertinenza che i fenomeni emotivi complessi e prolungati
come la gelosia siano emozioni vere e proprie (come nel caso di Ekman),
o più modestamente ammette di non riuscire a trattarle senza allargare
il proprio repertorio di risorse esplicative oltre ai confini della teoria
psicoevoluzionista (la direzione in cui vanno le proposte di Scarantino, Levenson o Frijda e Parrott). In entrambi i casi, è lecito pensare le
emozioni complesse potranno essere ridotte a emozioni primarie o venir
intese come combinazioni o elaborazioni di queste ultime.
2.4. Il modello di Le Doux: a ognuno il suo?
Le teorie esaminate sin qui sembrano ben descrivere due differenti
categorie di emozioni: le emozioni primarie, risposte emozionali di breve
durata a una classe limitata (ancorché parzialmente plastica) di eventi
ambientali, con omologhi in altri vertebrati; e le emozioni complesse,
episodi emozionali complessi che sono sensibili a una gamma molto più
ampia di informazioni (inclusi i propri pensieri), non esibiscono effetti
fisiologici stereotipati, hanno maggior durata e sono ben integrati nella
cognizione centrale.
Queste due classi di fenomeni sembrano a prima vista ben rispecchiare il modello della doppia via introdotto da LeDoux (1998). Secondo l’autore de Il cervello emotivo, il sistema nervoso centrale dei
mammiferi dispone di due vie per l’elaborazione degli stimoli emotivi:
da un lato, vi sarebbe una via corticale, che proiettando l’informazione
alla neocorteccia ne permette una valutazione più accurata e garantisce
l’accesso alla coscienza, proprio perché non isolata informativamente;
dall’altro, vi sarebbe una via sotto-corticale e inconscia che, aggirando
la più informata ma più lenta elaborazione corticale, permetterebbe una
risposta semplice ma molto rapida8.
Si sarebbe tentati di accettare il modello di LeDoux ed asserire che
le teorie degli affect programs rendono conto dell’elaborazione emotiva
sottocorticale, laddove invece la teoria neostoica fornisce una buona
descrizione dell’elaborazione corticale. Ma le cose sono ancora più com8 Una prova particolarmente robusta dell’esistenza di questa via sotto-corticale si può
trovare negli studi sull’impatto degli stimoli emotigeni a pazienti incapaci di processarli
coscientemente perché affetti da negligenza spaziale o unilaterale o da visione cieca (su
cui si rimanda al contributo di Celeghin, Diano, Bagnis e Tamietto (questo volume).
14
plesse: non solo perché la validità del modello di LeDoux è attualmente
dibattuta9, ma anche perché né la teoria di Nussbaum né tantomeno le
teorie psicoevoluzioniste sembrano in grado di rendere conto di una
terza famiglia di fenomeni emotivi già descritta da Griffiths: quella delle
emozioni come costruzioni sociali.
3.Emozioni
costruite socialmente
Nussbaum (2011, cap. 3) esamina attentamente la strategia costruttivista che indaga le emozioni alla luce delle pratiche sociali che conferiscono significato alle cognizioni individuali. Tuttavia, la sua adesione a
una concezione delle emozioni solo cognitivista le impedisce di prendere
le distanze dalla versione più radicale del costruttivismo, vale a dire, il
social concept model (Griffiths 1997, 140). Quest’ultimo consiste nella
semplice estensione dell’approccio cognitivo-valutativo alle emozioni.
Le emozioni sono ancora giudizi su stati di cose del mondo, ma qui
le categorie che plasmano i giudizi sono non già naturali bensì socioculturali. Se gli oggetti delle emozioni sono culturali, esse variano da
una società all’altra.
Tuttavia vi è un altro modello costruttivista delle emozioni che prende
una direzione affatto diversa. Questa è la teoria di James R. Averill, che
definisce l’emozione come «a transitory social role (a socially constituted syndrome) that includes an individual’s appraisal of the situation,
and is interpreted as a passion rather than as an action» (1980, 312).
Un ruolo sociale è uno schema comportamentale tipico, osservabile in
un certo contesto sociale. Si pensi, ad esempio, al ruolo sociale che un
individuo assume dopo essere stato eletto in Parlamento: un deputato
entra in una rete di pratiche sociali entro cui svolge un ruolo particolare.
Il ruolo che ricopre è relativamente duraturo e manifesto, nel senso che
tutti concordano sul fatto che l’essere un deputato significa essere trattato in una certa maniera. Invece, nel caso di stati emozionali costruiti
socialmente è necessario parlare di ruoli sociali transitori e dissimulati.
Questi ruoli sono transitori perché un individuo li svolge esclusivamente
in situazioni di breve durata e stressanti. Essi autorizzano condotte altrimenti inaccettabili: in questi casi, cioè, si sfrutta il carattere passivo
normalmente attribuito alle forti emozioni e alle passioni improvvise,
amorose o aggressive, al fine di sottrarsi alla responsabilità per l’azione
compiuta. Inoltre, tali ruoli sono dissimulati nel senso che si strutturano
solo in quanto la società non riconosce esplicitamente né la loro funzione,
né le pratiche sociali in cui questi ruoli sono inclusi.
9 Si vedano per esempio le obiezioni di Pessoa e Adolphs (2010) e la replica di de
Gelder, van Honk e Tamietto (2011).
15
Un esempio di sindrome costruita socialmente è la condizione di
«uomo selvatico» (ahaDe idzi Be), uno stato affine all’isteria osservato
presso i Gururumba della Nuova Guinea (Newman 1964). In tale condizione il soggetto si aggira furibondo per il villaggio, facendo man bassa
di oggetti di poco valore e aggredendo gli astanti. Tale stato di frenesia è
concepito dalla comunità come una malattia, e alla condotta antisociale
è riservato un atteggiamento tollerante. Ora, la condizione di uomo selvatico è limitata per lo più a soggetti maschi fra i 25 e i 35 anni, un’età,
vale a dire, in cui è probabile che essi si vengano a trovare sotto una
notevole pressione finanziaria a seguito dell’acquisizione di una moglie.
Il comportamento drammatico e violento associato alla condizione si
manifesta allorché l’individuo non è in grado di far fronte ai suoi obblighi
finanziari. Una volta messo in atto tale comportamento, si ottiene un
atteggiamento indulgente nei confronti delle proprie inadempienze. Si può
pertanto supporre che la condizione di uomo selvatico sia un espediente
grazie al quale un individuo si sottrae ai normali obblighi sociali senza
contestarne la legittimità. La sua è un’azione, ma non è riconosciuta
come tale né da lui né dalla comunità: il carattere involontario delle
condotte da uomo selvatico è parte integrante di questo ruolo sociale.
È interessante notare che Ian Hacking (1995) ha descritto una forma
di costruzione sociale molto simile a quella osservata presso i gururumba: il disturbo di personalità multipla (opportunamente ribattezzato
dal DSM-IV «disturbo dissociativo dell’identità»). Secondo Hacking,
la moderna sintomatologia del disturbo dissociativo dell’identità si è
evoluta all’unisono con le teorie del disturbo. Incanalando la propria
sofferenza psicologica nelle forme riconosciute dalla teoria corrente, i
pazienti sono riusciti ad essere accettati socialmente in quanto «malati»
e a ricevere un feedback positivo da psicoterapeuti, gruppi di sostegno
ecc. Agli esordi della moderna epidemia del disturbo dissociativo dell’identità i pazienti raramente presentavano la gamma completa di sintomi.
I pazienti, sostiene Hacking, sono stati «addestrati» a produrre i sintomi
del disturbo dissociativo dell’identità, prima da terapeuti esperti e quindi
da un movimento volontario di profani. Oggi, con l’ausilio della letteratura e dei talk shows televisivi, i pazienti sono in grado di produrre
i sintomi senza essere istruiti individualmente. Il disturbo dissociativo
dell’identità è diventato parte della cultura locale in regioni affette da
epidemia del disturbo.
Per ricapitolare. Le emozioni di ruolo sociale si differenziano dalle altre emozioni non soltanto in virtù della loro specificità culturale,
ma anche per la loro psicologia. Esse sono tentativi, in larga misura
inconsci, di simulare un insieme di proprietà che appartengono ad altre
emozioni – di sfruttare lo status speciale accordato alle emozioni in
virtù della loro passività (Griffiths 1997, 245). Ciò significa che la loro
eziologia include i meccanismi inconsci della cognizione sociale, e non
già i meccanismi periferici degli affect programs o i meccanismi più
16
centrali delle emozioni complesse. Pertanto le emozioni di ruolo sociale
non sono spiegabili sulla falsariga degli altri due tipi di emozione: sono
un tipo di stato autonomo, che tuttavia «parassita» il repertorio emotivo
universale, prodotto dall’evoluzione.
4.La
teoria dell’atto concettuale
Come abbiamo visto, né la tradizione psicoevoluzionista degli affect
programs né la teoria neostoica di Martha Nussbaum sembrano singolarmente sufficienti per ricomporre in un quadro unitario il reame emotivo.
Nemmeno l’adozione parallela di entrambe le strategie sembra bastare,
in quanto nessuna sembra dotata delle risorse esplicative per rendere
conto delle emozioni costruite socialmente.
Prendiamo però ancora in esame un’altra teoria, che sembra porsi la
sfida ambiziosa di riunificare entro un’unica cornice esplicativa tutti i
fenomeni affettivi: la teoria dell’atto concettuale (da qui in avanti TAC),
che è stata sviluppata (ma, per le ragioni che discuteremo a breve, sarebbe
forse meglio dire: che sta venendo sviluppata) dal gruppo di Lisa Feldman
Barrett. TAC nasce in aperta polemica contro le teorie che postulano
l’esistenza di categorie emozionali discrete, come le varie teorie degli
affect programs o alcune varianti delle teorie dell’appraisal: a detta di
Barrett, aspettarsi che la mente sia organizzata secondo generi naturali
all’incirca corrispondenti alle nostre categorie ingenue (come «paura»,
«gioia» ecc.) significa peccare di essenzialismo (Barrett 2006). Al contrario, la sua teoria riprende il pensiero del suo maestro Russell, nonché
quello di James e di Wundt, nel ritenere che ogni episodio emozionale
scaturisca dall’interazione di processi mentali più elementari – ragion
per cui si parla di «costruzionismo psicologico».
Quali sono dunque le componenti che formano un’emozione? Innanzitutto, Barrett mutua da Russell la nozione di Core Affect, ovvero:
«A neurophysiological state that is consciously accessible as a simple,
nonreflective feeling that is an integral blend of hedonic (pleasure-displeasure) and arousal (sleepy-activated) values» (Russell 2003, 147).
Questo Core Affect è tipicamente rappresentato come un diagramma cartesiano in cui si incrociano due assi (denominato The Affect Circumplex;
vedi fig. 1): le ordinate rappresentano il grado di attivazione laddove le
ascisse rappresentano la valenza edonica.
Tuttavia, per Barrett (come già per Russell) la nozione di Core Affect
è necessaria ma non sufficiente per caratterizzare appieno la vita emotiva:
dopotutto, gli stati di rabbia e di paura, entrambi caratterizzati da una
bassa piacevolezza e da un’alta attivazione, si troverebbero a occupare
lo stesso punto nella mappa del Core Affect.
Invece, la TAC asserisce che un episodio emozionale si dà quando
un qualche atto di concettualizzazione riveste di significato questo stato
17
High Arousal
Anger
Fear
Surprise
Excitement
Happiness
Disgust
Displeasure
Pleasure
Sadness
Contentment
Low Arousal
Fig. 1. The Affect Circumplex. Ognuno, in pratica, sa che può scoprirsi collocato, in ogni
dato momento, in qualche punto di una mappa disegnata da quattro estremi. Qui
noi possiamo sentirci: (1) euforicamente eccitati e agitati; oppure (2) beatamente
calmi e sedati; o (3) sgradevolmente eccitati (cioè preda di quell’irrequietezza
ansiosa che può sconfinare nel panico o nell’aggressività); oppure altre volte
(4) immobili e quasi congelati in una sorda e chiusa ostilità, o nella sofferenza
della depressione. (1) e (2) sono situazioni «piacevoli», (3) e (4) situazioni
«spiacevoli»; (1) e (3) sono situazioni «agitate», (2) e (4) situazioni «calme».
Fonte: Widen e Russell (2008).
«affettivo» di sfondo, interpretandolo alla luce della propria esperienza
pregressa e mettendolo così in relazione con un qualche stimolo esterno10. Di contro all’approccio dominante della psicologia sperimentale,
che tende a concepire la mente come meramente reattiva agli stimoli
esterni, la teoria di Barrett insiste sul fatto che la vita mentale sia sempre intrinsecamente attiva, e caratterizzata dalla costante interazione tra
domini erroneamente concepiti come distinti – la sfera concettuale (che
corrisponde all’incirca alla memoria e al pensiero concettuale), quella
sensoriale (che monitora gli stimoli esterni) e il Core Affect (che monitora
lo stato interno dell’organismo). Un’emozione dunque corrisponderebbe a un atto di concettualizzazione che interpreta un cambiamento del
Core Affect alla luce di una data situazione ambientale (Barrett, WilsonMendenhall e Barsalou 2015; cfr. anche Lindquist 2013).
10 Nell’invocare l’intervento di questi processi top-down, Barrett e colleghi (2015)
si ricollegano in maniera esplicita alla recente ondata di teorie cognitive che sostengono
che i processi top-down siano più pervasivi e più costitutivi della nostra vita mentale
di quanto non si sia finora pensato – uno su tutti il Predictive Processing (su cui cfr.
Clark 2013).
18
La TAC viene ascritta al novero del costruzionismo psicologico in
quanto postula che le emozioni emergono da un intreccio di operazioni
psicologiche più semplici. Ma in più sedi Barrett (es. 2012) enfatizza
come la TAC sia anche una forma di costruzionismo sociale: infatti, trai
processi di categorizzazione che costituiscono l’esperienza emotiva un
ruolo centrato è giocato dal linguaggio, che organizza l’esperienza emotiva
entro categorie discrete e codificate culturalmente (Lindquist, Satpute
e Gendron 2015). Entro questa cornice teorica, le presunte emozioni di
base come «paura», «rabbia», «sorpresa», «gioia» e «disgusto» si vedono
private della loro presunta realtà biologica, ma la loro «realtà» viene
recuperata al livello sociale – dove però stanno al pari di altre categorie
emotive tipicamente considerate «non di base», come la gelosia, e sono
dipendenti dal contesto culturale.
4.1. Pro e contro della teoria dell’atto concettuale
La mole di dati empirci presa in esame dai sostenitori della TAC è
ragguardevole, così come notevole sono le sue sollecitazioni teoriche e
la pervicacia dei suoi difensori. Ai suoi sostenitori vanno riconosciuti
diversi meriti: quello di averci messo in guardia dal rischio di postulare
che la mente e il cervello siano suscettibili di scomposizioni ricalcate
sulle nostre categorie ingenue; quello di aver enfatizzato che i confini
tra le emozioni e le altre sfere della vita mentale sono ancora più sfumati
di quanto si pensasse, e forse persino arbitrari (vedi oltre); infine, quello
di aver imposto l’attenzione sulla variabilità, oltre e piuttosto che sulle
regolarità, negli episodi emotivi.
Ciò nonostante, crediamo che la TAC, per lo meno nella sua formulazione attuale, soffra di diversi problemi, e che sia lungi dal costituire
una teoria unificata delle emozioni.
Primo, ci pare che l’enfasi nei confronti delle variabilità nelle emozioni
posta dai sostenitori dalla TAC li induca a sottovalutare le regolarità. Per
esempio, le numerose regolarità comportamentali rinvenute dai teorici
degli affect program sono derubricate alla stregua di co-occorrenze
accidentali indotte da qualche co-occorrenza nelle condizioni elicitanti
– che, nei contesti di laboratorio, sarebbero frutto dei limiti di validità
ecologica nei setting sperimentali.
Inoltre, la TAC mobilita una vasta mole di dati neuroscientifici per
dimostrare che nessuna delle emozioni di base correli in maniera regolare e univoca con una specifica regione cerebrale. Tuttavia, diverse
voci critiche hanno lamentato che per rivendicare la realtà neurale di un
costrutto neurale non è necessario (e con tutta probabilità non è neanche
possibile) che questo attivi una e una sola regione: sarebbe invece
sufficiente che ogni categoria correlasse in maniera sufficientemente
stabile con un dato pattern di attività cerebrale, anche distribuita. E si
19
dà il caso che una simile evidenza sia stata trovata. La contro-replica dei
costruzionisti è che per dimostrare la realtà psicologica di un costrutto
non basta un pattern qualsiasi, ma serve che questo pattern corrisponda
ai circuiti neurali «originari e intrinseci» del cervello umano (che si
presumono essere attivi anche nei domini extra-emotivi).
Neppure gli studi di Panksepp (1998), che dimostrano la presenza di
strutture sotto-corticali omologhe nel cervello di varie specie di mammiferi, sembrano contare come evidenze a favore di una certa universalità
filogenetica di certe emozioni. Qui la risposta dei costruzionisti è duplice: da un lato, Barrett e colleghi negano che i circuiti sotto-corticali
coinvolti in semplici risposte stereotipate (per es. freezing) possano
rivendicare lo statuto di moduli per un’emozione, che è una categoria
psicologica più complessa. Secondo, accusano Panksepp di postulare
una visione semplicistica della filogenesi cerebrale, secondo la quale le
strutture corticali filogeneticamente più recenti andrebbero a sedimentarsi
su strutture più arcaiche senza mutarle; di contro Barrett e il suo team
sottolineano come i mutamenti dell’evoluzione abbiano investito tanto
la neo-corteccia quanto le aree sotto-corticali.
La diatriba, di cui si è dato solo un assaggio, è ovviamente più complessa di così e tuttora in corso (per una discussione critica e per relativa la
bibliografia, si rimanda agli interventi di Caruana e di Celeghin e colleghi
contenuti nel presente volume). Per conto nostro, constatiamo come le
numerose frecce dell’arco di Barrett e colleghi abbiano contribuito non
poco a sollecitare i difensori degli affect program a fare qualche passo
indietro rispetto alle ambizioni esplicative di Ekman – e forse qualche
passo avanti nella direzione di una teoria più raffinata (vedi sopra).
Purtroppo, alla mordace pars destruens rivolta verso i teorici delle
emozioni di base (e non solo) i teorici della TAC non hanno fatto seguire
una pars construens articolata e gravida di predizioni. Barrett e colleghi
se ne rendono conto, e si difendono puntualizzando quanto segue:
Given that the conceptual act theory is about a decade old, it is not surprising that many of its key formulations represent hypotheses yet to be tested.
Perhaps its main value at present is to prescribe a different scientific paradigm
for the design and interpretation of experiments (to seek out explicitly and model variation within each emotion category rather than attempting to aggregate
across instances to find the essence of each category, and to engage in complex
analysis of interacting domain-general systems over the time that an emotional
episode unfolds) (2015, 104).
Ma supponiamo che la TAC venga articolata a sufficienza da permetterci di cogliere regolarità prima impossibili da prevedere; verosimilmente, se la caverà anche meglio della teoria neostoica nello spiegare le
emozioni costruite socialmente. La sua formulazione specifica che tutte
le emozioni dipendono da un processo di categorizzazione top-down,
20
e che sia impossibile avere un’emozione propriamente detta in assenza
di coscienza. Quand’anche i processi top-down fossero così pervasivi
nella nostra vita mentale, ci pare che, postulandone la necessità, la TAC
debba ricorrere alla stessa strategia a priori di restringimento dei confini
dell’explanans che già abbiamo discusso sia nell’esame della teoria di
Martha Nussbaum che in quella di Ekman. Secondo la Barrett e i suoi
colleghi, infatti, gli animali non possono provare emozioni, e forse
neppure i neonati (cfr. Scarantino 2015); e quel brivido che ci percorre
la schiena quando, dispersi in un quartiere malfamato, tentiamo di telefonare ad un taxi, non conterebbe, verosimilmente, come una vera e
propria istanza di paura, perché le nostre energie cognitive sono rivolte
piuttosto a ricordare il numero del taxi. Relegando questa spiegazione al
solo ruolo del Core Affect, Barrett e colleghi non possono distinguere, ad
esempio, tra paura e rabbia: infatti, entrambe sarebbero caratterizzate da
un basso valore edonico ma da un alto grado di attivazione, occupando
così lo stesso quadrante nell’Affect Circumplex (fig. 1). Di conseguenza, la TAC non sembra offrire risorse esplicative per spiegare perché
un gatto scappi da una minaccia piuttosto che rispondere in maniera
aggressiva, o del fatto che sentendoci pedinati da dei figuri loschi nella
situazione summenzionata tenderemmo ad affrettare il passo piuttosto
che ad attaccare briga.
5.Vent’anni
dopo, ancora nessun continente
Riassumendo: abbiamo discusso la variante moderna della teoria neostoica della emozioni proposta da Martha Nussbaum, secondo la quale
le emozioni sono assimilabili a un particolare tipo di giudizi di valore.
Pur riconoscendo alcuni passi avanti rispetto a versioni antecedenti della
teoria, abbiamo osservato come questa cornice teorica non possa rendere
conto di alcuni fenomeni emotivi grezzi e di breve durata, che tuttavia
sembrano costituire un patrimonio universale e in qualche modo basilare
del corredo emotivo del genere umano; per spiegarli sembrano piuttosto
meglio equipaggiate le teorie che li assimilano a moduli emotivi, ovvero ad affect programs. Osservando come le due teorie costituiscano
ognuna il confine dell’altra, ci siamo chiesti se adottarle entrambe fosse
sufficiente per rendere conto di tutti i fenomeni rilevanti della nostra
vita emotiva. La risposta è stata, ancora una volta, negativa, in quanto nessuna delle due teorie sembrava offrire risorse capaci di rendere
conto di certe categorie emotive costruite e codificate culturalmente.
Infine, abbiamo esaminato un’altra recente teoria delle emozioni con
ambizioni universalistiche: la teoria dell’atto concettuale. Ma persino
in quest’ultimo caso, nonostante i numerosi meriti di questa proposta,
abbiamo ritenuto che la portata esplicativa fosse sufficiente a coprire
tutto il dominio rilevante di una scienza delle emozioni.
21
A prima vista, il resoconto che abbiamo dato di queste ultimi viaggi
nell’Oceano delle emozioni sembra condurre a un bilancio totalmente
negativo degli ultimi vent’anni di navigazione; dopotutto, stiamo asserendo
che nessuna delle rotte tracciate sia riuscita a tracciare il perimetro di
un unico continente delle emozioni, riconfermando quello che ci aveva
insegnato già Griffiths vent’anni fa: che più che un continente, la parola
emozioni indicherebbe un arcipelago.
Tuttavia, il nostro bilancio non vuole essere totalmente pessimista.
Per prima cosa, questo ventennio di navigazione ha portato a confermare
un sospetto, elevandolo al rango di saggezza comune accettata dai più.
Già nel 1984 Giovanni Jervis osservava che «[l’]ideologia delle funzioni cerebrali come caratterizzate dal predominio precario, nell’uomo
evoluto, delle strutture neurologiche “superiori” su quelle “inferiori”»
(che è una delle tante variazioni sulla contrapposizione fra ragione e
passioni) si lega alla «concezione ottocentesca della supremazia della
razionalità civile sulla mancanza di freni inibitori attribuita agli animali
e ai primitivi» (1984, 133). A questa visione «vittoriana»11 dell’architettura neurocognitiva Jervis si opponeva fermamente, guardando a
quei filoni delle scienze psicologiche che mostrano l’inesistenza di una
sfera psicologica non razionale, fatta di passioni, istinti, emozioni, e
nettamente demarcabile dalle operazioni della coscienza razionale. Alla
sua voce si sarebbero poi aggiunte quelle di molti altri ricercatori, tra
i quali possiamo ricordare Damasio (1994), de Oliveira-Souza, Moll e
Grafman (2011), Pessoa (2013), ma anche le stesse Nussbaum e Barrett
(cfr. anche Petrolini, questo volume).
Sembra insomma che il concetto di emozione non peccasse solo
dell’assenza di importanti confini interni, ma anche dell’aver introdotto
confini esterni di dubbia consistenza: per ritornare alla nostra metafora,
(almeno alcune di) quelle che Griffiths aveva classificato come isole
sarebbero in realtà penisole, comunicanti con e inscindibili da altri
territori della vita mentale.
Ma oltre a ciò, pur non riuscendo a tracciare una mappa onnicomprensiva di un continente che probabilmente non c’è, crediamo che molte
delle nuove teorie delle emozioni, tra cui quelle che abbiamo discusso,
ci offrano mappe più ricche di dettagli delle diverse (pen)isole. Come
suggerisce Caruana (questo volume; ma cfr. anche Russell 2015), l’incompatibilità tra le varie posizioni in campo può essere meno esagerata di
quanto i toni del dibattito recente non abbiano indotto a pensare. Peraltro,
ridimensionandone le pretese esplicative, diversi concetti formulati nel
contesto di varie teorie possono essere reclutati profittevolmente per
diventare strumenti descrittivi ed euristici nella generazione di nuove
ipotesi (cfr. per es. Petrolini, questo volume).
11
22
L’espressione «Victorian Brain» è in Reynolds (1981).
Come pronosticato, tra gli altri, da uno di noi (Marraffa e Paternoster 2012), le scienze cognitive non potranno né dovranno tentare di
riunificare tutti i fenomeni sotto un medesimo modello esplicativo, ma
dovranno accettare il ricorso a un pluralismo di livelli e di modelli. Questa
apertura al pluralismo, si noti bene, non significa però porre sullo stesso
piano tutti i modelli: piuttosto siamo convinti che il modello esplicativo
più promettente fra quelli attualmente sulla piazza sia e resti il modello
meccanicistico, e che questo possa essere fruttuosamente completato da
spiegazioni alternative, quali gli approcci dinamicisti (come propone
Colombetti, questo volume, nel caso delle emozioni), solo in casi particolari – nei casi in cui le interazioni tra certe componenti siano non
lineari e dunque non assoggettabili a una spiegazione meccanicistica.
Nel caso delle scienze delle emozioni ci pare di poter azzardare che
una volta riconosciuta la sostanziale diversità tra le varie (pen)isole, sarà
produttivo domandarsi come queste interagiscano: ad esempio, chiedersi
se, quanta e quale parte dei meccanismi che soggiacciono agli affect programs siano reclutati anche da processi di cognizione top-down; oppure,
per dare un po’ di corpo alle linee altrimenti solo programmatiche dei
costruzionisti, chiedersi come il materiale emotivo primordiale, sia esso
costituito dalle emozioni di base o dal Core Affect, si rappresenti alla
coscienza (su cui si cfr. per es. il tentativo di Meini, questo volume).
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Abstract. Twenty years ago, Paul Griffiths (1997) published his well renown
book What Emotions Really Are?, in which he claimed that the phenomena
designated by the vernacular word «emotion» does not belong to a single
natural kind, and therefore no single theory of emotion can account for all of
them. In this article we assess if his claim is still valid, by considering whether
a unified account of emotion is provided by some more recent theories: Martha
Nussbaum’s neostoic theory, Lisa Feldman Barrett’s conceptual act theory, and
recent versions of basic emotions theories. We argue that, while each theory
provides some useful insight on some specific subsets of the phenomena we
call «emotion», none of them convincingly unify them into a single explanatory framework. Therefore, we suggest that Griffiths’s original argument for
pluralism about emotion is still sound.
Keywords: Emotion, affect, psychological constructionism, basic emotion,
affective neuroscience.
Massimo Marraffa, Dipartimento di Filosofia, Comunicazione, Spettacolo, Università
Roma Tre, Via Ostiense 234, 00144 Roma. E-mail: [email protected]
Marco Viola, Centre for Neurocognition, Epistemology and theoretical Syntax, Istituto
Universitari di Studi Superiori Pavia, Palazzo del Broletto Piazza della Vittoria 15,
27100 Pavia. E-mail: [email protected]
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