lOMoARcPSD|2150087 Riassunti lingua italiana ed educazione linguistica tra storia ricerca e didattica maria g lo duca Linguistica Italiana (Università degli Studi di Salerno) StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo. Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 LINGUA ITALIANA ED EDUCAZIONE LINGUISTICA TRA STORIA, RICERCA E DIDATTICA Maria Lo Duca CAPITOLO I _ NASCITA DI UNA DISCIPLINA 1.2. INQUADRAMENTO STORICO Nel periodo che va dalle origini al Quattrocento non ha ancora senso parlare di “dialetti”. Si può parlare di “dialetto” solo una volta che si è affermata una lingua e si crea una contrapposizione, per questo gli studiosi parlano genericamente di “volgari italiani” la pluralità di idiomi nati dal latino. Dunque ad eccezione del dialetto fiorentino del Trecento, che è diventato lingua dei dotti prima, lingua nazionale italiana poi, i dialetti italiani sono serviti per secoli e ancora oggi alla funzione di veicolo linguistico di comunità ristrette, di aree geografiche limitate. Non v’è alcuna caratteristica “interna” (fonologica, grammaticale, di sintassi e di sistema lessicale) che voti una parlata ad essere o no lingua di cultura. È l’uso sociale protratto per secoli, è la vicenda storica “esterna” che di un idioma fa o no una lingua di cultura nazionale. Bisogna ricordare che l’idioma chiamato, a partire dal Cinquecento, “italiano” (formatosi attraverso la stilizzazione del dialetto fiorentino trecentesco, arricchito di latinismi e depurato di tratti locali è rimasto per secoli appannaggio nemmeno delle classi dirigenti, ma (fuori da Firenze, delle maggiori città toscane e di Roma) appannaggio quasi esclusivo della gente di lettere. A metà Ottocento tutta la grande borghesia urbana e le residue aristocrazie conoscevano, come lingua di cultura, assai meglio il francese che non l’italiano, che era una lingua puramente libresca, nota solamente ad una minoranza esigua della popolazione: lo 0.8%. Per tutto il secondo Ottocento si scontrarono sulla questione due posizioni abbastanza inconciliabili: da una parte i manzoniani che avevano sperato di poter condurre attraverso la scuola una duplice lotta, volta da un lato a sradicare la malerba dialettale, dall’altro a imporre come tipo linguistico unitario il fiorentino. Altri, come De Sanctis, erano decisamente sfavorevoli ad una lotta indiscriminata contro i dialetti, che bisognava studiare e mettere a confronto con la lingua, così da far emergere una riflessione linguistica sul senso della diversità di lingua e dialetto. L’atteggiamento delle autorità fu vicino ai manzoniani. Ad inizio secolo, Camillo Corradini, burocrate incaricato dal ministero di stendere una relazione sulla situazione scolastica dell’italiano, fece notare come “insegnare l’italiano” si riassumeva nel tentativo di insegnare le regole della buona lingua italiana e i bambini continuavano ad avere gravi mancanze linguistiche, questo perché, tra le altre cose, i maestri tendevano ad usare in classe il dialetto o un misto di dialetto e lingua letteraria. Dunque, la dialettofonia diffusa e l’imposizione di un modello letterario di italiano erano, secondo il Corradini, le principali cause del fallimento scolastico nella diffusione di una lingua unitaria, alle quali bisogna aggiungere l’illusione di poter insegnare l’italiano attraverso la presentazione e l’insegnamento esplicito delle sue regole. Nel primo dopoguerra sul processo di unificazione linguistica si innestò il fascismo, che perseguì un ideale nazionale e purista che ebbe nell’antidialettalismo, oltre che nella lotte contro le lingue delle minoranze e contro i forestierismi, uno dei suoi principali punti di forza. Nelle scuole furono promossi programmi di espulsione del dialetto, anche se sarebbe lecito chiedersi fino a che punto abbiano avuto concreta attuazione. Nel secondo dopoguerra il boom economico indotto dalla ricostruzione fu un potente fattore di mobilità interna, e quindi di incontro di lingue e culture, e parallelamente di “crisi” delle parlate locali. Parallelamente aumenta l’incidenza della scuola: i livelli di scolarizzazione aumentano costantemente e la percentuale degli analfabeti – che all’indomani dell’unificazione politica dell’Italia, nel 1871, era del 75% e nel 1911 del 40% – si abbassa nel 1951 al 14%, e nel 1961 si aggira tra il 13 e l’8% [da ricordare che nel 1962 viene introdotta in Italia la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14 anni, così un nuovo pubblico di scolari tradizionalmente fermi all’istruzione elementare, vale a dire i figli delle classi operaie e contadine, si affacciò per la prima volta alla scuola superiore]. 1 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 La scuola era nel frattempo molto cambiata: i maestri avevano smesso di insegnare in dialetto e avevano adottato abbastanza uniformemente un atteggiamento di totale espulsione del dialetto dalla scuola, e si era imposto in classe un modello di italiano paludato ed arcaico, che sarebbe troppo generoso definire letterario, che venne così denominato italiano scolastico per sottolineare l’artificiosità di una varietà di lingua diffusa solo a scuola. Non tutti si accorsero della centralità del problema linguistico per i bambini dialettofoni, costretti da una scuola impreparata ad accoglierli a parlare e scrivere in una lingua “straniera” per comunicare complessi contenuti disciplinari. L’evasione dell’obbligo scolastico fu per molti la soluzione quasi scontata del problema. 1.3. I MAESTRI Don Lorenzo Milani → “Lettera ad una professoressa” è un libro collettivo scritto dai ragazzi che frequentavano la scuola di Barbiana e rappresenta una critica radicale alle scelte contenutistiche ed alle modalità dell’insegnamento linguistico tradizionalmente in uso nella nostra scuola. Sua convinzione era che le classi meno agiate fossero vittime di un deficit linguistico che li privava della possibilità di partecipare in modo attivo e costruttivo alla vita sociale e politica della comunità e dunque la responsabilità della scuola era colmare questo divario, compito che non assolveva. La scarsa considerazione per la lingua dei poveri (dialetto) e per la loro cultura ha come conseguenza l’emarginazione dei figli dei contadini e degli operai, che spesso vengono semplicemente espulsi dalla scuola, quindi tagliati fuori da qualsiasi possibilità di emancipazione e di riscatto. Si attua così un processo circolare per cui lo status sociale condiziona la lingua e la capacità d’uso della lingua rafforza le differenze sociali. Don Milani è convinto che gli strumenti linguistici posseduti dalle classi subalterne siano poveri, limitati e funzionali ad un’esistenza tutta dominata dai bisogni contingenti della sopravvivenza quotidiana e quindi incapaci di sollevarsi al di sopra di questi orizzonti e affrontare i grandi temi della vita civile e religiosa: “i signori ai poveri possono dare una sola cosa, la lingua, cioè il mezzo d’espressione, lo sanno da sé i poveri cosa dovranno scrivere”. Le cause del fallimento della scuola sono molteplici, secondo Don Milani: Il modello di lingua proposto dalla scuola non è solo diverso e lontanissimo dalle abitudini linguistiche delle classi povere, ma è anche anacronistico, ancora troppo condizionato da modelli letterari superati; La lingua proposta è non solo vecchia, ma ipocrita e ambigua, incapace di chiamare le cose con il loro nome per un malinteso perbenismo; I richiami culturali proposti dalla scuola sono esclusivi, patrimonio della borghesia da cui i poveri sono esclusi, viceversa non c’è nessuna attenzione alla cultura del popolo. E alcune materie non sono nemmeno in programma: come l’arte dello scrivere. Ritroviamo infine tante idee ed ipotesi di lavoro che saranno messe a punto dai ricercatori e dagli insegnanti successivamente: L’idea che il processo di scrittura sia complesso, scomponibile in vari sotto-processi; L’idea che prima di scrivere sia necessario raccogliere le idee e tutte le informazioni utili; La raccolta delle informazioni richiede tempo e non deve essere forzatamente delimitata all’interno delle ore di svolgimento del tema; L’idea che, dopo la raccolta, le informazioni vadano riesaminate e selezionate sulla base del proprio progetto di scrittura; Scegliere una scansione e di una successione dei contenuti; L’idea che il processo di revisione deve essere continuo ed accompagnare ogni fase della scrittura; Configura uno stile da seguire: sintassi breve e asciutta, la chiarezza e la comprensibilità come obiettivi irrinunciabili. Bruno Ciari → maestro e interprete del pensiero educativo di Célestin Freinet, cui devono farsi risalire molte delle coraggiose innovazioni di Ciari: dall’atmosfera di classe, serena e rilassata, dominata da un fervore e da un’animazione del tutto sconosciuti dalla scuola del tempo, alla corrispondenza interscolastica, alla tipografia scolastica. Lui per primo riconobbe la supremazia del linguaggio parlato sullo scritto, inoltre l’uso scritto dovrebbe essere sempre motivato da reali esigenze comunicative. Si noti come Ciari rifiuti l’idea di una scrittura 2 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 scolastica artificiosa, esclusivamente finalizzata alla valutazione, e pensi già alla scrittura come esercizio di trasposizione del pensiero in forme testuali definite e motivanti per gli allievi (il racconto, la lettera, il diario ecc.). La corrispondenza interscolastica serviva così a stimolare la curiosità e la comprensione di usanze e di culture diverse, attuando una sorta di “ricerca di ambiente”, e inaugurando un nuovo modo di imparare, basato sulla curiosità, sullo spirito di iniziativa, sulla raccolta e osservazione dei dati e sulla partecipazione attiva degli allievi alla costruzione del loro sapere. Mario Lodi → l’idea che l’educazione linguistica sia fatta anche di educazione al parlare e all’ascoltare e non solo di educazione a leggere e allo scrivere. Orlando Spigarelli → incoraggia l’uso del dialetto per la composizione di pezzi mistilingui, dove l’alternanza tra italiano e dialetto non è mai casuale ma imposta dalle situazioni e dai personaggi chiamati in causa. 1.4. I LINGUISTI Nel 1967 si costituisce la Società di Linguistica Italiana (SLI) che fin da subito si caratterizza per i suoi interessi rivolti alla didattica linguistica, poi in parte ridimensionati. Presto dalla SLI nasce per filiazione diretta una nuova associazione, il GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) che farà del rinnovamento della pedagogia linguistica tradizionale il suo centro. 1.4.2. SUGGESTIONI ESTERNE: IL DIBATTITO SULLA DEPRIVAZIONE VERBALE Basil Bernstein elaborò la teoria della deprivazione linguistica che venne resa nota in Italia a negli ultimi anni Sessanta, secondo la quale le differenze socioeconomiche influiscono in modo determinante sul linguaggio e quindi sul rendimento scolastico che dipende in larga misura dalla capacità verbale, a sua volta correlata positivamente con lo status sociale medio e alto. Secondo questa teoria la famiglia di classe media è una famiglia orientata sulla persona, che tende cioè a sviluppare la personalità di ogni suo membro, e in cui i rapporti interpersonali sono mediati continuamente attraverso il linguaggio: fin dall’inizio il bambino è esposto ad una vasta gamma di possibilità e scelte linguistiche (definito “linguaggio formale” o “codice elaborato”). Questo linguaggio presenta un alto grado di imprevedibilità perché saranno presenti in misura elevata le scelte e le modificazioni individuali. La famiglia operaia e contadina è in genere una famiglia posizionale, orientata non già sulle persone ma sulle parti, vale a dire sui ruoli ricoperti da ciascun membro al suo interno: l’individuo è legato ad un ruolo fisso, questa fissità ha riflessi linguistici importanti, i rapporti interpersonali non hanno bisogno di molte parole per definirsi e realizzarsi, inoltre, il riferimento ad esperienze note e condivise comporterà una lingua elementare, parte del significato rimane così implicito e il discorso presenta salti logici (definito “linguaggio pubblico”, privo di elementi creativi individuali, o “codice ristretto”). Si caratterizza per la scarsità di elementi formali che concorrono alla sua organizzazione, per la rigidità e la prevedibilità della struttura. Chiarendo che il rapporto codice ristretto/elaborato non vado visto in modo troppo meccanico, Bernstein definisce il codice ristretto come un codice che, facendo ampio affidamento sul contesto in cui ha luogo lo scambio, può permettersi di essere più rapido, poco esplicito. Il parlante adotta uno stile che presuppone che l’interlocutore abbia le sue stesse conoscenze e dunque non spiega, non verbalizza in modo chiaro, per questo può risultare del tutto o in parte incomprensibile a chi non condivida lo stesso contesto di comunicazione. L’adozione di un codice elaborato, d’altra parte, comporta la massima autonomia dei messaggi dal contesto di comunicazione, e dunque uno sforzo di esplicitezza e di completezza che ne garantisce la comprensibilità. Si evince come il ruolo della scuola sia quello di colmare le lacune linguistiche dei deprivati verbali favorendo una graduale acquisizione di un codice elaborato che metta tutti in condizione di interagire verbalmente a livelli più alti. La critica più serrata alla teoria della deprivazione verbale si deve al linguista americano William Labov che studiando il “non standard English” della comunità negra del ghetto di New York è arrivato a ipotizzare che tra le due varietà di inglese (standard/non standard) non ci siano differenze logiche o semantiche ma piuttosto differenti selezioni formali da un comune repertorio di forme, e che spesso le differenze sono il frutto di un naturale processo di mutamento ed evoluzione della lingua. Per Labov si tratta così di varietà stilistiche legate 3 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 non tanto alla classe sociale quanto alle diverse situazioni in cui avviene la comunicazione. Il codice ristretto altro non sarebbe che uno stile casuale usate da parlanti di tutte le classi sociali ogniqualvolta la comunicazione avviene in circostanze in cui esiste uno sfondo di esperienze comuni e di informazioni già date. Labov inoltre sostiene che l’influenza dei genitori non sia una forza così dominante come molti linguisti pensano che sia, e che in realtà l’influenza dei compagni domina quella dei genitori in una larga varietà di circostanze. È appropriato che la scuola insegni il codice elaborato, perché alcune sue caratteristiche – come ad esempio l’esplicitezza, la ricchezza lessicale, la variabilità sintattica – sono certamente positive, ma non è detto che la complessità sintattica e la varietà lessicale si traducano in un linguaggi più chiaro ed efficiente. Tale stile infatti si accompagna spesso alla verbosità, producendo messaggi apparentemente ricchi e colti ma che in realtà sono intasati di parole incomprensibili e di nessi sintattici difficili da sciogliere che nascondono il vuoto dei contenuti. 1.4.3. IL DIBATTITO INTERNO: IL GISCEL E LE DIECI TESI PER L’EDUCAZIONE LINGUISTICA DEMOCRATICA I primi anni Settanta sono caratterizzati da un ricco dibattito interno sui temi quali i fattori sociali dello svantaggio linguistico; il modello di lingua generalmente adottato dalla scuola; il rapporto che si instaura o che si dovrebbe instaurare in classe tra lingua italiana e dialetto e tra le diverse varietà di italiano; i contenuti e le modalità dell’insegnamento grammaticale alla luce dei nuovi modelli proposti dalla ricerca teorica. Dopo qualche anno di gestazione, il gruppo pubblicò nel 1975 il manifesto delle Dieci Tesi per l’Educazione Linguistica Democratica, redatto da Tullio De Mauro: I. II. III. IV. Centralità del linguaggio verbale Il linguaggio verbale è radicato nella vita biologica, emozionale, intellettuale e sociale di ogni individuo Il linguaggio verbale è composto da molteplici capacità, più o meno visibili (produrre frasi/dare un senso alle parole udite e lette) La pedagogia linguistica efficace è democratica solo se riconosce l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzioni di lingua e ripropone tale uguaglianza, rimuovendo gli ostacoli che vi si frappongono. Deve essere la scuola per prima ad individuare e perseguire i compiti di un’educazione linguistica efficace e democratica. Il traguardo principale da perseguire è il rispetto e la tutela di tutte le varietà linguistiche (siano esse idiomi diversi o usi diversi dello stesso idioma) Le tesi dalla V alla VII sono di critica della pedagogia linguistica tradizionale, in particolare nella tesi VII si dice che la pedagogia linguistica tradizionale pretende di operare settorialmente, nell’ora detta “di Italiano”, ma essa ignora la portata generale dei processi di maturazione linguistica (tesi I) e quindi la necessità di coinvolgere nei fini dello sviluppo delle capacità linguistiche non una, ma tutte le materie, a cui segue una proposta di una “nuova” pedagogia linguistica che rimedia alle incongruenze del passato (tesi VIII). Chiudono infine il documento due tesi politiche incentrate sulla formazione degli insegnanti (tesi IX) e sulle responsabilità della classe politica nel gestire l’opera di rinnovamento (tesi X). In estrema sintesi, il fine ultimo che le Dieci Tesi indicano agli insegnanti di italiano è che solo il pieno possesso di uno strumento linguistico unitario consentirà a tutti i cittadini una vita sociale e personale degna e piena. Tale fine va perseguito attraverso un percorso nuovo che viene delineato solo in parte e che dovrà essere assolutamente rispettoso del patrimonio linguistico e culturale di partenza degli allievi 1.5. DOPO LE DIECI TESI Sorse un terreno di comune interesse fra linguisti e insegnanti, interesse rinfocolato in occasione dell’uscita dei nuovi programmi per la scuola media (1979) e per la scuola elementare (1985), che accettavano e facevano propri molti dei suggerimenti delle Dieci Tesi, si è via via modificato col passare degli anni. Se da una parte molti linguisti si sono cimentati direttamente designando dei nuovi percorsi di educazione linguistica compilando libri di testo per vari ordini di scuole, dall’altro bisogna riconoscere che tutto questo fermento non ha mai riguardato la totalità della scuola italiana e nemmeno la maggior parte di essa, lasciando indenni moltissimi insegnanti. 4 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 CAPITOLO II _ LA VARIABILITÀ LINGUISTICA 2.1. LA “SCOPERTA” DEL PLURILINGUISMO Con plurilinguismo si intende la compresenza di linguaggi di tipo diverso (verbale, gestuale, iconico, ecc.), cioè di diversi tipi di semiosi, sia di idiomi diversi, sia di diverse norme di realizzazione d’un medesimo idioma. Si fa quindi riferimento a: a) ai diversi tipi di linguaggio di cui la specie umana dispone; b) alle diverse lingue di cui ogni comunità umana può disporre, e di fatto dispone; c) alle diverse forme di realizzazione, o varietà, che una lingua può presentare nella medesima comunità. Dunque nessuna comunità linguistica è omogenea e ciascun parlante è di solito in grado di padroneggiare, attivamente o anche solo passivamente, più linguaggi, più idiomi, più varietà. Nelle Dieci Tesi a più riprese si afferma che la pedagogia linguistica tradizionale trascura la realtà linguistica di partenza, spesso colloquiale e dialettale, degli allievi. Ignorando il retroterra linguistico degli allievi, la scuola trasforma in causa di svantaggio la diversità dialettale, culturale, sociale che caratterizza la società italiana. Bisogna dunque educare i giovani al rispetto della varietà linguistica ed all’uso di ogni sorta di creatività linguistica, cioè educarli alle varietà di linguaggio e di lingue, alle varietà di frasi e di vocabolario, alle varietà di stili e di esecuzione. Farli confrontare con la tematica della variabilità linguistica non solo dei dialetti ma anche delle varietà regionali di italiano, l’italiano popolare, i registri. 2.2. IL REPERTORIO LINGUISTICO DEGLI ITALIANI: LINGUA UNITARIA E DIALETTO/I Quando si parla di “repertorio linguistico degli italiani” si fa in realtà riferimento ad una realtà ipotetica, un repertorio “medio” in cui trovano posto tutte le diverse varietà, le quali possono essere variazioni di una stessa lingua (l’italiano) e lingue diverse (dialetti o parlate alloglotte – alloglossia: situazione di una comunità che rispetto all’elemento demografico maggioritario utilizza una lingua diversa da quella parlata da quest’ultimo). Dal momento che le parlate alloglotte non interessano l’intero territorio nazionale, essendo limitate a piccole aree, i due sistemi fondamentali del repertorio linguistico italiano sono la lingua nazionale da una parte e i dialetti dall’altra. Gli studi dialettologici hanno dimostrato che la differenza tra lingua e dialetto non è una differenza che ha ragioni linguistiche, ma piuttosto funzionali ed ha origine nelle vicende storiche di una comunità: una lingua gode di uno statuto socio-culturale e politico garantito da un ordinamento statale, possiede una codificazione riconosciuta e accettata all’interno e fuori dallo Stato nazionale, i dialetti invece sono impiegati in aree geografiche circoscritte, in ambiti limitati e prevalentemente nella varietà orale. La contemporanea presenza sul territorio nazionale della lingua nazionale e dei dialetti prefigura una situazione che si definisce diglossia, ovvero, compresenza nella stessa comunità di una varietà linguistica alta, per gli usi scritti e formali, e una varietà linguistica bassa, per gli usi parlati informali. Ma la situazione italiana è particolare e non rientra propriamente in questa definizione: la lingua nazionale e dialetto (qualsiasi dialetto italiano) non sono due varietà, rispettivamente alta e bassa, della stessa lingua, data la loro distanza strutturale reciproca, in genere non di molto inferiore a quella che intercorre fra le varie lingue romanze maggiori e minori, i dialetti italiani vanno considerati varietà linguistiche a sé stanti, e non semplici varietà dell’italiano a coloritura locale. Questo implicherebbe riconoscere nel panorama linguistico italiano la presenza, accanto alla lingua italiana, di una quindicina di altre varietà romanze, dunque più di diglossia in senso stretto sarebbe forse il caso di parlare di bilinguismo, anche se i due sistemi (l’italiano e il dialetto) presentano una distanza strutturale inferiore rispetto ai repertori bilingui classici. Un altro aspetto che differenzia la situazione italiana dalle situazioni classiche di diglossia è il fatto che non ci sia una corrispondenza regolare tra l’uso del dialetto e parlato conversazionale (si chiacchiera sempre più spesso anche in italiano), e ugualmente non è sempre il dialetto la lingua di socializzazione primaria acquisita in età infantile come lingua materna (il numero degli italiani aventi il dialetto come lingua materna diminuisce sempre più. Berruto definisce il repertorio linguistico degli italiani come una forma di bilinguismo a bassa distanza strutturale in cui il rapporto tra varietà alta (italiano) e varietà bassa (dialetto) è meglio definito dal termine dilalia che presuppone entrambe le varietà impiegate/impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione. 5 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 Anche il dialetto, come ogni sistema linguistico, va considerato come un insieme di varietà in fisiologico cambiamento. Sono comunque in atto in tutti i dialetti italiani vistosi processi di italianizzazione, fenomeno che colpisce particolarmente il livello fonologico e il livello lessicale. Dagli anni Ottanta agli anni Duemila si è potuto notare l’aumento dell’uso dell’italiano e il contemporaneo regresso nell’uso del dialetto in tutti i contesti, con la conferma di un arresto parziale della chiara tendenza all’abbandono del dialetto e dall’altra di un aumento del comportamento bilingue/mistilingue, diffuso soprattutto nella conversazione ordinaria. Contemporaneamente, a partire dagli anni Novanta il dialetto sembra decisamente aver perso il valore negativo di collocazione sociale bassa e svantaggiata diventando più neutro. Oggi il dialetto tende a risultare una risorsa comunicativa intercambiabile con l’italiano, sicché italiano e dialetto non ci appaiono più come idiomi contrapposti ma come varietà interne a un continuum unitario. Diffusa e persistente presenza del dialetto non solo nelle aree rurali o tra la popolazione anziana, ma anche in città e nelle fasce giovanili, facendo la sua comparsa anche in rete, negli scambi tra giovani, in messaggio per lo più mistilingui. La tendenza non sembrerebbe così quella dell’abbandono dei dialetti, sarebbe più corretto parlare di naturale processo di decadenza fatto anche di risorgenze laterali e marginali, in cui la vitalità dei dialetti pare diversamente distribuita in aree diverse del territorio nazionale. 2.2.1. DIALETTO E SCUOLA Negli anni Settanta i dialetti erano ancora una realtà importante e molto diffusa nell’intero territorio nazionale, circa il 51% della popolazione diceva di parlare in casa sempre dialetto e probabilmente questa era anche la loro lingua materna mentre l’italiano si configurava come lingua seconda, da apprendere, almeno nell’uso attivo a scuola. Il dialetto in Italia dovrebbe essere usato come il primo e più accessibile oggetto di riflessione linguistica, proprio nel passaggio all’italiano. La particolare condizione linguistica della società italiana, con la presenza di dialetti diversi e di altri idiomi e con gli effetti di vasti fenomeni migratori richiede che la scuola non prescinda da tale varietà di tradizioni e di realtà linguistiche. Un’educazione plurilingue, che sembra incidere positivamente sul profitto, si è concretamente realizzata nella scuola seguendo tre diverse direzioni: uso del dialetto per la narrazione di fatti e aneddoti di vita locale e per forme di drammatizzazione; ricerca d’ambiente e recupero del dialetto soprattutto attraverso interviste a parlanti anziani; riflessione contrastiva italiano-dialetto anche in direzione storico-comparativa. La scuola dovrebbe impegnarsi il più possibile ad assecondare un bilinguismo sociale generalizzato accompagnato da diglossia perché il problema del dialetto è il suo uso monolingue che porta alla ghettizzazione. 2.3. LE PARLATE ALLOGLOTTE Le parlate alloglotte sono le lingue parlate da piccole minoranza, si usa correntemente la denominazione di “minoranza” per indicare un gruppo, di solito non molto numeroso, nel quale i parlanti “alloglotti” hanno come prima lingua o lingua materna, cioè acquisita con la prima socializzazione, una lingua diversa da quella nazionale (→ situazione di bilinguismo). Queste situazioni si ritrovano in una serie di aree geografiche di antico insediamento, alcune di confine (minoranza tedesca in Alto Adige, francese in Val d’Aosta, slovena nel FriuliVenezia Giulia), altre sparse sul territorio nazionale nella forma di isole linguistiche di modeste dimensioni (minoranza croata della provincia di Campobasso, albanese sparse nelle regioni meridionali, greca nelle province di Reggio Calabria e Lecce, algherese-catalano ad Alghero, la lingua sarda e le parlate degli zingari). Sul piano legislativo e di tutela bisogna operare una distinzione netta tra le lingue delle aree di confine che godono a partire da secondo dopoguerra di una speciale politica di tutela e che infatti attuano da tempo nelle scuole programmi di educazione bi- o plurilingue, e le altre minoranze linguistiche, le cosiddette “isole”, le quali sono state fatte oggetto di un intervento legislativo mirato solo nel 1999. Con la legge n.482 la Stato italiano ha riconosciuto le realtà alloglotte, stanziando fondi (20 miliardi l’anno) per promuovere la protezione delle lingue e delle culture locali. La legge investe direttamente la scuola nella quale è prevista una diversa utilizzazione delle parlate locali a seconda del livello scolare: nelle scuole elementari e medie la lingua di minoranza può essere 6 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 usata anche come strumento di insegnamento. Le università delle regioni interessate al fenomeno delle minoranze possono istituire corsi di lingue a culture delle lingue di minoranza. Bisogna ricorda come la legge riguardi le minoranze linguistiche storiche, identificabili sulla base dell’antichità dell’insediamento e della territorialità. Dunque ignora da una parte le minoranze linguistiche di immigrazione recente, spesso addensati in piccole comunità linguisticamente omogenee, dall’altra la minoranza zingara, che pur essendo di vecchio insediamento non vanta un carattere territoriale ben definito. 2.4. LE VARIETÀ DELL’ITALIANO Ci sono 5 dimensioni diverse della variazione linguistica [il prefisso dia- significa attraverso]: > > > > > Varietà diacroniche quando una lingua cambia lungo l’asse del tempo Varietà diatopiche quando una lingua cambia nelle diverse aree geografiche in cui viene usata Varietà diastratiche quando una lingua cambia seconda dello strato o gruppo sociale cui appartengono i parlanti Varietà diafasiche quando una lingua cambia a seconda della situazione comunicativa in cui viene usata, per cui parliamo di varietà situazionali o contestuali Varietà diamesiche quando una lingua cambia a seconda del mezzo fisico, vale a dire del canale attraverso cui viene usata Ciascuna dimensione va immaginata come una specie di continuum, una scala di varietà avente ai suoi estremi due varietà ben distinte e fra queste una serie di varietà in cui ciascuna sfuma impercettibilmente nell’altra senza che sia possibile stabilire confini ben delimitati tra l’una e l’altra. 2.4.1. LA VARIAZIONE DIACRONICA Il cambiamento linguistico non consiste nella sostituzione improvvisa di una forma con un’altra, ma presuppone un lungo periodo di convivenza tra una forma consolidata e accettata ed una nuova che tende a sostituirsi alla prima, occupandone in tutto o in parte l’area funzionale. Normalmente accade che la vecchia forma resista nei registri più formali, e dunque nello scritto, mentre la nuova forma si afferma e si consolida nei registri meno formali e dunque nel parlato. Accade anche che una forma espanda i suo carico funzionale occupando “territori” prima serviti da altre forme: come gli usi modali dell’imperfetto contemporaneo. Quello che è difficile osservare è il cambiamento nel breve periodo, per esempio quello che avviene durante la vita di un uomo, c’è una certa insensibilità infatti che affligge il linguista di fronte alla lingua viva: molti fenomeni di cambiamento ci sfuggono. Nel breve termini colpisce di solito il cambiamento che avviene nel settore del lessico tramite prestiti da lingue straniere, dialettismi o regionalismi. Meno evidenti perché molto più lenti sono i mutamenti che interessano gli altri livelli della lingua: il livello fonologico e morfosintattico. 2.4.2. LA VARIAZIONE DIATOPICA La variazione diatopica, che dà origine alle cosiddette varietà regionali dell’italiano, riguarda infatti soprattutto le realizzazioni orali della lingua. Con l’aggettivo regionale non ci si riferisce propriamente alle regioni amministrative, ma a regioni linguistiche di varia estensione e possono considerarsi come una nuova risultante nata dal comporsi della tradizione linguistica italiana con le molteplici tradizioni linguistiche dialettali, in altri termini, esse si sono andate formando a mano a mano che gli ambienti abituati al monolinguismo dialettale si sforzavano di usare la lingua comune, vi hanno inserito elementi lessicali del loro dialetto di origine e l’hanno piegata alle consuetudini fonologiche e sintattiche dialettali. Si è così assistito all’italianizzazione di alcuni termini dialettali depurati dai caratteri più spiccatamente locali, viceversa attraverso le varietà regionali, parole e forme della lingua comune si sono inserite con facilità nei dialetti tradizionali (dialettizzazione). Attraverso l’uso delle varietà regionali, dialetto e lingua, che erano nell’Ottocento due entità contrapposte, sono andate sempre più diventando quasi varianti d’una medesima tradizione, all’interno di un continuum, oggi possiamo dire che un grado più o meno accentuato di regionalità attraversa quasi tutte le realizzazioni della lingua italiana parlata. 7 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 Alcuni tratti fonetici regionali: → Realizzazione sempre sono della [s] intervocalica: casa, viso. È un tratto settentrionale in espansione anche altrove, nel centro-sud si registra al contrario la realizzazione sempre sorda della stessa. → Riduzione delle consonanti doppie: [‘be:lo] al posti di [‘bel:o] (tratto settentrionale). → Gorgia, o aspirazione, nella realizzazione delle consonanti occlusive sorde in posizione intervocalica: [la ‘ha:sa] al posti di [la ‘ka:sa] (tratto toscano). → Pertinenza della realizzazione, aperta e chiusa, delle vocali intermedie [e], [o]: [‘pɛska], pronuncia aperta, ‘frutto’; [‘peska] pronuncia chiusa, ‘attività del pescare’ (tratto toscano e romano, in altre regioni italiane questa distinzione non è avvertita generalmente). → Rafforzamento sintattico della consonante iniziale di parola: [la ‘ffa:me], [sa ‘ttu:t:o] (trattto centromeridionale). → Pronuncia sonora delle occlusive sorde dopo [n], [m]: [in ‘drenda] al posti di [in ‘trenta], [‘kampo] al posto di [‘kampo] (tratto centro-meridionale). Per quanto riguarda i tratti morfosintattici: a) Varietà settentrionali → Uso quasi esclusivo del passato prossimo rispetto al passato remoto → Assenza dell’articolo determinativo davanti a pronomi possessivi con nomi di parentela: mia mamma, mio papà → Costrutti particolari per rendere l’aspetto verbale: sono dietro a pensare (=sto pensando), non stare a pensarci (=non pensarci) → Uso pleonastico dei pronomi e delle particelle pronominali: a me mi piace → Nomi propri di persona femminili preceduti dall’articolo determinativo: la Lucia; in certe zone (Lombardia, Trento) il fenomeno è diffuso anche con i nomi maschili: il Carlo → Rafforzamento di alcune congiunzioni o pronomi per mezzo di che (tratto veneto): quando che vai via b) Varietà centrali → Che enfatico con funzione interrogativa (originariamente romano): che, vini a cena stasera? → Sistema tripartito dei dimostrativi (tratto toscano): codesto, costì, costà, costassù → Uso della prima persona plurale in forma impersonale (tratto toscano): noi quest’estate di va al mare c) Varietà meridionali → Uso generalizzato del passato remoto rispetto al passato prossimo → Alta frequenza dei verbi pronominali intensivi: mi sono mangiato un piatto di spaghetti, mi sono vista un film → Uso del cosiddetto accusativo preposizionale, vale a dire dell’oggetto introdotto dalla preposizione a: hai chiamato a tuo padre? → Allocuzione inversa, soprattutto con i nomi di parentela: hai mangiato, mamma? (detto dalla madre al proprio figlio) → Sostituzione dell’interrogativo perché con la locuzione che + verbo + a fare: che ridi a fare? 2.4.3. LA VARIAZIONE DIASTRATICA È correlata con la collocazione del parlante nella società: con la classe sociale di appartenenza, determinata dalla professione, dal reddito e dal grado di istruzione, correlata anche con la classe di età e con il sesso. La dimensione della variazione difficilmente interessa i parlanti di classe sociale alta, solitamente ben scolarizzati e cresciuti in ambiente italofono. Si identifica con italiano popolare quell’insieme di usi frequentemente ricorrenti nel parlare e (nel caso) nello scrivere di persone non istruite e che per lo più nella vita quotidiana usano il dialetto, caratterizzati da numerose devianze rispetto a quanto previsto dall’italiano standard. Nasce nei primi decenni del Novecento tra le classi subalterne non raggiunte dalla scuola, risultato di una situazione storica ricca di cambiamenti sociali: 8 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 emigrazioni, guerre, che fecero incontrare parlanti aventi alle spalle dialetti diversi che avevano bisogno di comunicare tra di loro. È un italiano con scarsa o nulla presenza di subordinazione, presenza insistita del che polivalente, regolarizzazione di verbi irregolari (venghino), l’uso di parole generiche. A seguito della scolarizzazione di massa e della diffusione della lingua nazionale in tutti gli strati sociali questa varietà sembrerebbe scomparsa. Per quanto riguarda le differenze linguistiche tra i sessi, non ne sono state ritrovate di tali da ipotizzare l’esistenza di vere e proprie varietà di lingua, piuttosto è emerso qualche fattore di differenziazione negli atteggiamenti sociolinguistici generali. Nel parlato femminile è stata notata un’alta ricorrenza di marche di cortesia e di formule di esitazione e di attenuazione della forza delle affermazioni, come pure una certa propensione all’uso dell’eufemismo, specie nel lessico relativo alla sfera sessuale e agli stati fisiologici della donna. Le donne sembrano inoltre più propense degli uomini ad adottare le varianti normative di maggior prestigio, una percentuale maggiore degli uomini afferma di parlare prevalentemente italiano in tutti i contesti, questo significa che quando le donne hanno la possibilità di scelta tra italiano e dialetto, tendenzialmente sceglieranno di parlare ai loro bambini nella lingua considerata dalla comunità come più prestigiosa, dunque, in italiano. Questi atteggiamenti influiscono sulla conservazione o sull’innovazione linguistica. Il linguaggio giovanile si differenzia al suo interno in relazione all’età, tuttavia, al di là delle differenze, presenta alcune caratteristiche ricorrenti: la ricerca dell’espressività e dell’informalità attraverso l’uso di intercalari frequenti, detti anche segnali discorsivi (boh, nient, cazzo, cioè) o anche attraverso la riscoperta dei dialettalismi. Un motore importante del linguaggio giovanile è l’innovazione lessicale, proviene di norma dai giovani la spinta all’abbandono delle forme più arcaiche in favore dei neologismi e dell’organizzazione testuale diffusa oggi anche dalla televisione e internet che fungono da amplificatori della funzione innovativa, anche nella lingua scritta. 2.4.4. LA VARIAZIONE DIAFASICA Rientrano in questa dimensione i registri (altrimenti detti “stili contestuali”, o “stili” o “livelli di lingua”) che sono le varietà diafasiche dipendenti primariamente dal carattere dell’interazione e dal ruolo reciproco assunto da parlante (o scrivente) e destinatario. Si considerano fattori determinanti della variazione del registro il grado relativo di formalità o informalità della situazione comunicativa, e il grado di attenzione e di controllo che il parlante pone nell’attuale la produzione linguistica. Ai due estremi si pongono da una parte le situazioni molto formali che richiedono un registro sorvegliato, e dall’altra le situazioni informali, in famiglia o tra amici che richiedono un registro quasi esclusivo del parlato. Fra i due estremi si pone una gamma quasi infinita di situazioni, è di fatti una variazione aperta, giacché si potrebbero sempre immaginare e realizzare forme ancora più alte o più basse. La descrizione dei registri bassi si stempera totalmente in quella degli italiani regionali marcati, dove ritroviamo una compenetrazione di variazioni. I tratti caratteristici dei registri informali sono: o o o A livello fonologico: alta velocità di eloquio e scarsa accuratezza nella pronuncia, cui si accompagnano la tendenza al troncamento (fan, far, veniam), all’aferesi (‘sto per questo, ‘ndiam per andiamo), alla semplificazione dei nessi difficili (propio per proprio), alla fusione di segmenti (presempio per per esempio), con realizzazioni più o meno regionali di fonemi e gruppi fonematici, accentuazione della prosodia e dei tratti paralinguistici (toni di voce, gestualità). A livello morfosintattico e testuale: ricorso all’implicito, scarsa pianificazione del testo e frequenti cambiamenti di progettazione, scarso uso dei connettivi e sintassi spezzata con frasi brevi. A livello lessicale: scarsa variazione lessicale con alto tasso di ripetizioni e di nomi cosiddetti generali (cosa, tizio, faccenda), uso frequente di parole abbreviat (bici per bicicletta, prof per professore), uso di lessico connotato in senso colloquiale (prendersela al posto di offendersi), adozione di parole interdette. I tratti linguistici dei registri alti sono: o A livello fonologico: bassa velocita di eloquio e maggiore accuratezza nella pronuncia, il che ha come conseguenza una attenuazione dei tratta regionali più marcati. 9 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 o o A livello morfosintattico e testuale: massima esplicitezza verbale e scarso ricorso all’implicito, pianificazione accurata del testo, uso di connettivi di vario tipo, sintassi elaborata, subordinazione. L’esplicitezza linguistica dei registri formali non equivale alla loro massima comprensibilità, anzi. A livello lessicale: tendenza alla verbosità, vale a dire ripetere con altre parole quanto già detto, preferenza per termini specifici e per parole sentite più auliche, alto impiego di parole complesso (derivate o composte), con cumulo di morfemi derivativi. Il tipo di relazione che intercorre tra gli interlocutori condizione in maniera forte l’adozione di un registro più o meno formale, da questa relazione dipende anche la scelta degli allocutivi (Maria / signora Maria / signora Rossi / dottoressa Rossi) e dei pronomi allocutivi (tu / lei). Le diverse funzioni pragmatiche di un enunciate sono inoltre condizionate, nella forma linguistica che assumo, dalla situazione e dalla relazione con l’interlocutore: le situazioni più informali sopportano facilmente formulazioni diretta. Rientrano nell’ambito della variazione diafasica anche i sottocodici (detti anche “lingue speciali” o “lingue specialistiche” o “linguaggio settoriali” o anche “microlingue”), caratterizzati soprattutto da un lessico particolare, servono per comunicare in settori circoscritti e sono legati a particolari attività lavorative e professionali o ambiti di studio. Tra i criteri a cui deve rispondere una lingua specialistica c’è la precisione, l’economia e la neutralità emotiva. Così è attraverso il lessico che una lingua specialistica riesce a denominare in modo inequivoco concetti, oggetti, attività che non ricorrono negli usi linguistici quotidiani. Sul piano morfosintattico è attestato un largo uso dello stile nominale – ovvero l’uso frequente di frasi nominali, cioè prive di predicato o anche la tendenza a sostituire intere frasi con sintagmi nominali (la richiesta degli studenti di modificare l’orario al posto di gli studenti hanno chiesto di modificare) – la deagentivizzazione e la condensazione. Il primo aspetto è strettamente legato all’orientamento delle lingue speciali sugli oggetti, sugli eventi e non sull’agente; il secondo si realizza principalmente attraverso l’uso di frasi implicite. Tali testi hanno schemi vincolati e altamente prevedibili anche se la fenomenologia concreta è estremamente varia: si va dalle lingue speciali in senso stretto, dotate di terminologia fortemente specifica ai linguaggi settoriali tipici di certi argomenti e argomenti comunicativi. 2.4.5. LA VARIAZIONE DIAMESICA Riguarda il mezzo o il canale di trasmissione del messaggio, orale o scritto, un’opposizione che percorre le altre dimensioni di variazione e allo stesso tempo ne è attraversata. Oltre alla possibilità di veicolare almeno parte del contenuto informativo attraverso mezzi paralinguistici (volume, tono di voce, enfasi), cinesici (gestualità, mimica facciale) e prossemici (distanza tra gli interlocutori), il parlato consente di non dire ciò che è più facilmente recuperato dalla situazione o dalle conoscenze condivise. Ne consegue che questo parlato è linguisticamente ellittico, meno esplicito dello scritto, arrivando persino alle pause e ai silenzi in qualche modo informativi, un vuoto fonico che non significa un vuoto semantico. Da qui scendono molte conseguenze linguistiche importanti come, ad esempio, la frammentarietà del parlato, dunque al sua sintassi spezzettata, o la scarsa variazione lessicale. Lo scritto è l’altro estremo della scala attraverso una serie di gradini intermedi occupato da varie forme di parlato. Fino a pochi anni fa, le descrizioni grammaticali di una lingua di cultura sono state basate interamente sulla lingua scritta, per di più di registro formale, non rendendosi conto, se non recentemente, che anche il parlato spontaneo possiede una sua organizzazione interna paragonabili, quanto a complessità, a quella della lingua scritta. 2.4.5.1. TRATTI DEL PARLATO: TESTUALITÀ La conseguenza più vistosa della scarsa pianificazione del testo parlato è la frammentarietà sintattica: numerose pause, false partenze e interruzioni, autocorrezioni, segnali discorsivi. 2.4.5.2. TRATTI DEL PARLATO: SINTASSI La paratassi (giustapposizione e coordinazione) è preferita rispetto all’ipotassi (subordinazione), si usano una gamma ristretta di forme (e, ma, dopo, poi, allora), il che viene utilizzato come connettivo generico istituendo una 10 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 relazione sintattica di debole subordinazione, il così è usato spesso come introduttore di frase. Molto frequente è l’uso di frasi segmentate di vario tipo: dislocazioni a sinistra (il libro lo compro io), anacoluti (questi limoni, per avere un po’ di succo, bisogna spremerne tre), frasi scisse (è lui che mi ha fatto cadere, chi è che vuole parlare, quand’è che parti). 2.4.5.3. TRATTI DEL PARLATO: MORFOLOGIA Il sistema verbale si presenta semplificato e ridotto, con la sottoutilizzazione di alcuni tempi (passato remoto, trapassato remoto) e modi (congiuntivo, condizionale del periodo ipotetico), anche la diatesi passiva è scarsamente utilizzata. A questo processo di riduzione di forme si accompagna l’acquisizione di un maggiore carico funzionale da parte di alcuni tempi e modi, soprattutto per l’indicativo (che veicolo anche il passato e il futuro) e il passato prossimo, l’imperfetto esprime un atteggiamento di cortesia. Il sistema pronominale presenta nel parlato forme di ristrutturazione e semplificazione: i pronomi personali soggetto sono usati con più frequenza rispetto allo scritto, allo scopo di dare più enfasi al discorso, generando anche forme di ridondanza (a me mi piace), le forme lui, lei, loro usate in posizione di soggetto sostituiscono le forme egli, esso, ella, essa, essi, esse, il clitico maschile gli dativo sostituisce le forme femminili e del plurale, la forma che rimpiazza completamente il/la quale, grande frequenza dei verbo pronominali (quei verbi nella cui forma di lemma appare un pronome clitico (vedersi, cavarsela, andarsene). 2.4.5.4. TRATTI DEL PARLATO: LESSICO La mancanza di pianificazione e la velocità di eloquio portano ad una minore diversificazione nella scelta delle parole, cui si accompagna da una parte la frequente ripetizione della stessa unità lessicale, dall’altra il fenomeno della superutilizzazione di parole dal significato generico (cosa, roba, fatto, persona). L’esigenza espressiva di manifesta in vari modi: attraverso l’uso di superlativi, la ripetizione del lessema, l’uso di diminutivi. Nello stesso modo troviamo l’uso del cosiddetto lessico interdetto, di solito bandito nello scritto e nel parlato sorvegliato che ricorre invece frequentemente nel parlato-parlato. CAPITOLO III _ MODELLO (O MODELLI?) DI LINGUA E NORMA 3.1. L’ITALIANO STANDARD E NEO-STANDARD La definizione di una lingua standard è di natura extralinguistica e si riferisce al suo ruolo di funzione all’interno della comunità linguistica, si tratta cioè di una definizione sociale. Una lingua standard in questo senso è quella varietà che in una comunità linguistica viene presa come lingua franca per la comunicazione tra parlanti di regioni o gruppi sociali diversi. Le ragioni che fanno di una lingua una lingua standard non sono legate ad una sua pretesa superiorità o neutralità, sono piuttosto ragioni storiche. Per quanto riguarda l’italiano, la sua storia è nota: il toscano del Trecento delle classi colte è diventato lingua nazionale per adesione volontaria al toscano da parte dell’élite intellettuali di tutta la penisola. Ciò è accaduto non perché il toscano possedesse dei tratti intrinsecamente migliori rispetto alle altre parlate locali, ma perché è stato apprezzato e ammirato come la lingua della Commedia di Dante, del Decameron di Boccaccio e del Canzoniere di Petrarca, e dunque è stato preso a modello delle classi colte delle altre regioni italiane che, via via che abbandonavano il latino come lingua scritta, trovavano il volgare toscano che aveva già subito un processo di standardizzazione (ortografica, lessicale, morfosintattica).1 In realtà la storia della diffusione del toscano ci autorizza piuttosto a dire che l’italiano standard sia il frutto di un’opera secolare di contaminazione del toscano da parte delle parlate locali, infatti non hai mai coinciso, fin dalla codificazione cinquecentesca esattamente con il fiorentino e sin dal Seicento ha accolto innovazioni di varia provenienza. Vale la pena ricordare che prima del toscano e per un breve periodo, precisamente sotto il regno di Federico II, è stato il dialetto siciliano a svolgere il ruolo di lingua letteraria egemone in Italia, e se la vittoria degli Angiò non avesse distrutto il potere degli Hohenstaufen in Sicilia, il siciliano avrebbe potuto diventare lingua letteraria e, in seguito, standard. 1 11 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 L’italiano neo-standard, il cosiddetto italiano dell’uso medio, è il frutto di una ristrutturazione dello standard, un idioma in cui si vanno piano piano affermando come standard costrutti, forme e realizzazioni che non erano presentate nel canone ammesso dalle grammatiche prima. Tra i punti più problematici, anche per dei futuri insegnanti, troviamo: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. Lui, lei, loro in posizione di soggetto. Uso della forma dativale gli al posto di le e loro. Partitivo preceduto da preposizione: con degli amici. La dislocazione a sinistra (quel libro l’ho già letto), a destra (l’ho già letto, quel libro) e il tipo sintattico a me mi piace leggere, di pane non ne ho più, con un uso pleonastico della particella pronominale. Che polivalente, soprattutto con valore temporale: dal giorno che ti ho visto… Per cui con valore di connettivo frasale: pioveva, per cui ho preferito restare a casa. Cosa? al posto di che cosa? E, ma, o, allora, comunque in posizione iniziale di frase. L’indicativo al posto del congiuntivo in alcune subordinate e nelle ipotetiche: credo che hai torto; se venivi era meglio. La concordanza ad sensum: sono venuti a trovarmi una decina di amici. Il soggetto post-verbale: non ci sono soldi; niente soldi. Verbi in forma pronominale, per indicare partecipazione effettiva: mi sono bevuto un bel caffè. La frase scissa: è lui che mi ha fatto cadere. Il ci attualizzante: non c(i) ho tempo; non ci capisco niente. Questo “italiano dell’uso medio” è insomma quanto di più simile si riesca ad immaginare ad una lingua media, veramente comune a tutti gli italiani, parlata e scritta, ma innanzitutto parlata. Parte dei tratti propri di questo italiano neo-standard erano già presenti nel sistema dell’italiano dei secoli scorsi, anche se respinti ai margini e interdetti dalla normalizzazione grammaticale cinquecentesca. Insomma, sta avvenendo alla nostra lingua, diventata finalmente una lingua parlata da milioni di cittadini, quello che in altre lingue è avvenuto già da secoli. Per quanto riguarda la pronuncia standard dell’italiano risulta molto difficile definire una sola fonologia dell’italiano perché è stata una lingua solo scritta per molti secoli e quando poi si è imposta l’esigenza di una lingua unitaria nazionale anche nella comunicazione orale la pronuncia dell’italiano si è venuta formando nelle più diverse regioni subendo l’interferenza della fonologia della parlata locale. Per cui ci troviamo di fronte a un insieme (un diasistema) di almeno una ventina di fonologie dell’italiano, e se dovessimo scegliere un modello di “corretta pronuncia dell’italiano” bisognerebbe adottare una varietà un po’ artificiale – nel senso che non ha una collocazione geografica definita – che, prendendo come riferimento il toscano, lo depura delle particolarità locali. Si assiste oggi ad un movimento lento ma costante verso la standardizzazione, con la spontanea eliminazione o la sottoutilizzazione dei tratti più locali. Secondo Nora Galli de’ Paratesi un modello di pronuncia storicamente impostosi in Italia esiste ed è un modello toscano emendato dei tratti più tipicamente fiorentini assunto e reinterpretato al Nord-Ovest (Milano), da dove, grazie alla forza penetrante di una comunità egemone sul piano economico e culturale, si va lentamente espandendo in tutta Italia. Fra i tratti settentrionali in espansione si ricordano la s intervocalica, la sonorizzazione della z in posizione iniziale, la realizzazione della e chiusa in sillaba terminante in nasale (tempo, pentimento). Tutto quanto è stato scritto per la fonologia andrebbe ripetuto per la prosodia, cioè per accento, schema intonativo, tono, ovvero tutti quelli aspetti che contribuiscono a definire il ritmo intonativo di una lingua. 3.2. NORMA TRADIZIONALE E “ITALIANO SCOLASTICO” Il tema dell’errore nella lingua è strettamente connesso alla scelta della norma di riferimento, solo se sapremmo individuare con certezza un modello di lingua standard potremmo decidere quali sequenze linguistiche prodotte dai nostri allievi si adeguano a quel modello e quali invece se ne discostano. In passato, il modello di lingua che si propone agli allievi era anacronistico e inadeguato alla maggior parte delle reali situazioni comunicative (perché proprio di un registro letterario). Insomma, non esistendo ancora in Italia una norma di fatto, parlata e scritta, 12 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 invalsa a livello sociale, l’operazione messa in atto fu quella di scegliere aprioristicamente una forma – quella dei grandi trecentisti toscani – ed imporla. Facendo dipendere una lingua da criteri esterni, si è venuto a delineare un concetto di cambiamento come “corruzione” della purezza originaria, ovvero un modello “antiparlato”, che si identifica con “l’italiano scolastico”, una varietà e insieme un modello particolare di lingua affermatosi nella scuola italiana postunitaria. 3.3. NORMA LINGUISTICA ED USO La norma linguistica si mette in rapporto non già con un modello letterario (i “buoni autori”), o con un certo stadio storico della lingua, ma con l’uso che una certa comunità fa della lingua stessa, dunque la norma coincide con l’uso statisticamente prevalente, quell’uso che si adegua al comune sentimento dei parlanti. La linguistica sincronica si occuperebbe di questo quindi, raccoglie le testimonianze dei parlanti per ricavarne informazioni sui comportamenti linguistici diffusi e prevalenti nella collettività. I cambiamenti e le trasformazioni sono naturali e inarrestabili, l’evoluzione delle lingue è fatale e non ce n’è una che vi resista, il tempo altera ogni cosa e non c’è ragione per cui la lingua sfugga a questa legge universale. Il settore di massima stabilità della lingua è rappresentato dall’ortografia, mentre la pronuncia è ancora lo spazio meno normalizzato e vittima di forti differenziazioni regionali. Tra questi due poli, si situano gli altri livelli della lingua: la morfologia, la sintassi, il lessico. 3.4. CRITERI NORMATIVI Nel definire la norma linguistica né il criterio razionalistico-logicizzante, né il criterio etimologico sono da considerarsi attendibili, ugualmente faremmo fatica ad utilizzare anche il criterio letterario. Al “si dice o non si dice?” si dovrebbe quindi rispondere: “si dice in più modi, ma in situazioni diverse e con intenzioni espressive distinte”. La vecchia pedagogia linguistica era imitativa, prescrittiva ed esclusiva: proponeva solo un modello e tutto il resto era errore. La vecchia didattica linguistica era dittatoriale, ma la nuova non è affatto anarchica, ha una regola fondamentale che è la funzionalità espressiva di un testo parlato o scritto e delle sue parti a seconda degli interlocutori reali a cui lo si vuole destinare. La scuola, secondo Serianni, dovrebbe educare in misura crescente gli studenti alla varietà di italiano che non gli è famigliare e che non è solo l’italiano dei monumenti letterari del passato, ma è la lingua (e i modelli) in cui è scritto l’articolo di fondo di un giornale, il testo di una legge, una circolare amministrativa. 3.5. NORMA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE La norma adottata dalle odierne grammatiche non tiene in nessun conto le ragioni di distribuzione statistica, vale a dire la frequenza delle realizzazioni di certe forme e strutture dell’italiano contemporaneo, è una norma acronica per una lingua astratta. Molti testi ignorano del tutto alcuni fenomeni tipici degli usi parlati della lingua dimostrando indifferenza al contesto comunicativo e mancanza di sensibilità sociolinguistica, descrivendo così l’italiano comune solo in parte. CAPITOLO IV _ LA GRAMMATICA NELL’EDUCAZIONE LINGUISTICA 4.1. LA GRAMMATICA SOTTO ACCUSA Le principali accuse che si facevano al “fare grammatica” in classe sono 2: l’inaffidabilità scientifica dei contenuti proposti l’inefficacia rispetto agli obiettivi che si credeva, attraverso l’insegnamento grammaticale, di poter raggiungere I primi punti criticati maggiormente sono i contenuti grammaticali in senso stretto, le distinzioni e le definizioni adottate, le classificazioni adottate e le omissioni sistematiche della dimensione parlata dell’italiano, 13 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 dell’esistenza delle sue varietà geografiche, sociali e funzionali-contestuali. Tutto ciò che non era riconducibile a quel sistema unitario e astratto definito come lingua italiana era considerato deviazione, errore, abuso, da reprimere. Era inoltre assente una qualsiasi attenzione di tipo contrastivo, di confronto tra sistemi linguistici, non soltanto con le lingue straniere ma anche con i dialetti e gli usi differenziati dell’italiano. A questo insieme di pratiche grammaticali tradizionali – comunemente designate con “analisi grammaticale”, “analisi logica” e “analisi del periodo” – che ci si riferisce di solito quando si usa l’espressione di modello tradizionale. I cui principali difetti furono riassunti secondo quanto segue: 1. 2. 3. 4. 5. nell’identificazione delle categorie sia morfologiche (nome, articolo ecc.) che sintattiche (soggetto, complemento ecc.) vengono proposti criteri diversi, tra loro non coerenti: il criterio formale, che divide le categorie sulla base delle marche morfologiche; il criterio nozional-semantico che si sforza di trovare un contenuto semantico comune a tutte le parole appartenenti ad una stessa categoria (il nome indica una persona, animale o cosa); il criterio distribuzionale che indica il posto occupato da una certa categoria rispetto alla altre (l’articolo precede il nome); il criterio funzionale che indica ciò a cui serve una certa categoria (l’articolo serve a determinare il nome). Alcune nozioni e distinzioni grammaticali considerate universali (non solo le categorie, ma anche il genere, il numero ecc.) hanno realizzazioni diversissime da lingua a lingua. Il criterio nozionale-semantico ha portato alla proliferazione di categorie e sottocategorie che potrebbero moltiplicarsi all’infinito (aggettivi – qualificativi, dimostrativi, numerali…) il cui riconoscimento è alla fine spesso affidato a nozioni intuitive. Il tenace attaccamento al modello tradizionale è stato in buona parte determinato dalla presenza del latino e dell’insegnamento della morfologia latina. Tra i buchi più vistosi troviamo l’assenza di speciale considerazione per il lessico; l’assenza della distinzione tra complementi necessari (o nucleari) e complementi facoltativi (o circostanziali); l’assenza di considerazioni sociolinguistiche e l’assunzione di un modello di lingua scritta e formale su cui unicamente esercitare la riflessione grammaticale; la scarsa considerazione per fenomeni grammaticali che interessino frammenti di lingua superiori alla frase o al periodo (quali l’anafora e i connettivi). L’ennesima accusa mossa alla grammatica tradizionale riguardava la sua incapacità di garantire a tutti gli allievi, soprattutto a quelli provenienti dalle classi sociali inferiori, e quindi sostanzialmente dialettofoni, il possesso della lingua italiana nel suo uso corretto nel parlare e nello scrivere. Ci sono molti indizi che tendono a negare che lo studio della grammatica tradizionale abbia in qualche modo influito positivamente sulla competenza linguistica degli studenti. 4.2. LE RISPOSTE: LA RIFIUTO DELLA GRAMMATICA ALLA RICERCA DI ALTRE GRAMMATICHE Le grammatiche in uso fornisco al bambino che cresce linguisticamente un casellario estremamente complesso all’interno del quale inserire i “pezzi” di frase ed è quindi orientata non all’ampliamento del numero di frasi che l’allievo sa manipolare, ma all’assegnazione di strutture particolari alle frasi date. Meglio sarebbe introdurre tecniche generative nella didattica delle lingue, in modo da arricchire la competenza linguistica secondo il percorso naturale di crescita del bambino. Purtroppo nessuno pare ancora in grado di dire quali in concreto dovrebbero essere queste tecniche. Parisi propone la realizzazione di una pedagogia linguistica nazionale, aiutata da una ricerca scientifica adeguata che si misuri con i problemi reali della pedagogia linguistica, cioè una pedagogia in cui l’insegnante conosce scientificamente e sistematicamente la reale natura delle abilità che vuole far crescere nei ragazzi e degli strumenti didattici che adopera e questo fine. Mentre Renzi, pur assumendo il modello grammaticale tradizionale come base del suo programma, non disdegna l’integrazione con altri modelli ed altre tradizioni tutte le volte che dei risultati acquisiti sembrino utili all’insegnamento. 14 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 Una proposta alternativa molto insidiosa venne da Raffaele Simone che si convinse della necessità di adottare grammatiche nozionali. Le grammatiche nozionali partono dalla identificazione di alcuni significati nella comunicazione umana (quali il tempo, il modo, lo spazio, il riferimento, la quantità ecc.) e identificano le categorie o funzioni sintattiche che le realizzano in una lingua, descrivono le forme superficiali che tali categorie assumono. È un percorso esattamente opposto a quello compiuto dalle grammatiche formali, tra cui rientra il modello tradizionale, le quali partono dalla superficie della lingua, dai significanti, per analizzarli in categorie sulla base di caratteristiche soprattutto formali, solo in un secondo tempo queste grammatiche analizzano le funzioni che le categorie assolvono. Il modello nozionale, studiando le manifestazioni formali di diverse nozioni, permette un confronto interlinguistico profondo, non basato su somiglianze superficiali o casuali. In ultimo, come altra valida proposta, si tenga in considerazione il modello valenziale. Tale modello ha il suo punto di forza nella definizione della struttura della frase semplice vista come la proiezioni linguistica di un verbo. Ogni verbo possiede infatti, secondo il suo significato, delle valenze che devono essere soddisfatte nelle frasi attraverso elementi obbligatori, necessari affinché l’evento evocato dal verbo abbia una corretta rappresentazione linguistica. I verbi vengono così distinti in verbi zerovalenti (piovere), monovalenti (dormire, nascere), bivalenti (baciare, aiutare), trivalenti (consegnare, dare) e quadrivalenti (tradurre). Fino ad oggi il modello valenziale è il miglior candidato ad una assunzione generalizzata nell’insegnamento perché si presta bene ad integrare il modello tradizionale intervenendo solo sul livello di analisi. Ma allo stesso tempo, questo modello elimina anche tutte le inutili tassonomie, prima fra tutte quella dei complementi, e, in secondo luogo, richiede un ragionamento di tipo semantico profondo. 4.3. LE NUOVE FRONTIERE DELLA GRAMMATICA NELL’INSEGNAMENTO Quello che l’insegnamento linguistico a scuola dovrebbe cercare di fare è promuovere una solida competenza metalinguistica, che alcuni definiscono come riflessione sulla lingua, verso tre principali obiettivi: lo sviluppo delle capacità linguistiche, il potenziamento della formazione culturale e lo sviluppo cognitivo. Uno dei problemi da affrontare è quello legato al curricolo, ovvero come distribuire conoscenze, competenze e abilità sui tre livelli scolastici in modo tale da evitare ripetizioni e discontinuità. Al momento in ogni ciclo si fa più o meno tutto e si ricomincia da capo nel ciclo successivo senza alcuna attenzione alle reali difficoltà di certi concetti e costrutti grammaticali. Il risultato è l’ignoranza grammaticale generalizzata. Un’altra questione del il dibattito sulla riflessione grammaticale riguarda la maggiore o minore separatezza delle ore di grammatica. CAPITOLO V _ LA DIMENSIONE TESTUALE 5.1. INTRODUZIONE Il primo il primo contributo della linguistica del testo alla didattica delle lingue è stato l’ampliamento del concetto di testo a qualunque messaggio dotato di senso compiuto e autosufficiente, scritto o orale, formale o informale. A differenza della maggioranza dei modelli grammaticali tradizionali, la linguistica testuale parte dall’assunto che sia il testo a costruire il dominio della grammatica, e non la frase. Infatti la considerazione dei fatti linguistici che rimanga confinata entro i confini della frase non riesce né a descrivere né tantomeno a spiegare molti fenomeni grammaticali e semantici che si dispiegano. 5.2. COESIONE GRAMMATICALE Si intende per coesione l’insieme dei meccanismi grammaticali dei quali ci serviamo per collegare assieme le varie parti di cui un testo si compone. Tali meccanismi sono superficiali, cioè realizzati linguisticamente (articoli, pronomi, connettivi ecc.). ANAFORA Il rapporto anaforico è quel rapporto che lega diversi elementi che si riferiscono alla stessa entità, la grammatica del testo chiama antecedente la prima menzione di un individuo od oggetto in un testo, mentre ripresa 15 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 anaforica la seconda menzione e tutte le successive, se gli elementi di richiamo sono più di uno si può anche parlare di catena anaforica. Forme possibili di ripresa anaforica: sintagma nominale definito, sinonimo del sintagma nominale, pronomi, elissi. Vale la pena sottolineare che tutte le riprese di tipo lessicale sono costituite da sintagmi definiti, mentre l’antecedente è spesso introdotto dall’articolo indefinito (tranne che rimandi ad individui unici – il papa – o sia espresso da un nome proprio). La considerazione testuale degli articoli consente di vedere bene la loro principale funzione: segnalare se l’entità introdotta dall’articolo sia nuova al ricevente, oppure già nota, dunque l’articolo determinativo è un segnalatore di presunta novità (vedi testo p.197). Il tipo di ripresa può essere tanto più esile, poco esplicita, quanto più l’antecedente è facilmente recuperabile. Al contrario bisognerà richiamare con una ripresa ben esplicita e trasparente (dunque di tipo lessicale) un antecedente difficile da recuperare, perché troppo lontano nel testo, o perché in concorrenza con altri possibili antecedenti (vedi testi pag.200). Una considerazione delle diverse possibilità di ripresa anaforica dell’italiano consentirà all’insegnante di valutare e soppesare il grado di difficoltà dei testi proposti alla lettura. Simile all’anafora è la catafora, definibile come quel meccanismo relazionale che richiama, anticipandolo, quanto verrà introdotto più avanti nel testo. Pur essendo meno frequente dell’anafora, anche la catafora può presentarsi sotto varie forme, ed essere espressa, oltre che da pronomi, da perifrasi, da sinonimi testuali, da incapsulatori. CONNETTIVI I connettivi collegano fra loro parti del testo (singole frasi, periodi, o anche unità più ampie del discorso) esplicitando il tipo di legame semantico o discorsivo che esiste fra le parti collegate. Possono essere divisi fra connettivi semantici e connettivi testuali. Tra i primi si potrebbero far rientrare i connettivi temporali che segnano gli snodi temporali nei testi narrativi segnando la posterità, la contemporaneità o l’anteriorità. Tra i secondi si potrebbero invece far rientrare tutti quegli elementi che servono a scandire il testo in parti, esplicitando l’organizzazione e la pianificazione interna del testo. La diversità della funzione non si accompagna necessariamente ad una diversità di forme, spesso infatti ci avvaliamo esattamente delle stesse forme per collegare sia i “fatti del mondo” sia le “parti del testo”. Alcune principali funzioni di connessione svolte dai connettivi nel testo (oltre a quelle temporale e testuale) sono: > > > > > > Funzione additiva, quando segnalano l’aggiunta di nuove informazioni a quelle già date. Funzione avversativa, quando segnalano una contrapposizione più o meno radicale a quanto già detto. Funzione esplicativa, correttiva, esemplificativa e riassuntiva, quando introducono sequenze che spiegano, correggono, esemplificano, riformulano affermazioni contenute precedentemente nel testo. Funzione consecutiva, quando esprimono la conseguenza che deriva da una certa premessa. Funzione comparativa, quando instaurano dei paragoni tra sequenze consecutive. Funzione pragmatica, quando negli scambi orali, o nelle sequenze che simulano scambi orali, segnalano l’inizio o la fine di uno scambio, quando richiamano l’attenzione dell’interlocutore, ecc. Quasi tutti i connettivi pragmatici sono polifunzionali, la loro funzione può cambiare in base all’intonazione e al contesto. L’identificazione dei connettivi – tipici dei testi molto pianificati come del parlato informale – è affidata a criteri funzionali e non formali, sono infatti una classe aperta in cui forme appartenenti a categorie morfologiche e sintattiche diverse possono svolgere la medesima funzione. Questo li rende una categoria difficile per i parlanti poco competenti che spesso e volentieri usano sovraestensioni indebite dei connettivi più “facili”. 5.3. COERENZA E SIGNIFICATO Un testo, per funzionare, oltre che coeso deve essere coerente, e la coerenza interna del testo è data dalla combinazione di tre proprietà semantiche, che devono essere contemporaneamente presenti: l’unitarietà, la 16 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 continuità e la progressione. Si ha unitarietà quando il contenuto del testo è riconducibile a nuclei semantici generali di cui esso è l’espansione, si ha continuità se ogni enunciato ripropone in modo diretto o indiretto una componente semantica già presente nel co-testo [contesto linguistico], si ha progressione se ogni enunciato contribuisce a modificare o accrescere l’informazione veicolata dal co-testo. Al di là di ciò che un testo dice esplicitamente, il destinatario è chiamato a trarre delle inferenze e a costruire anelli mancanti, questa attività costruttiva è guidata dal principio regolativo della coerenza. Il tema dell’implicito: a volte il processo inferenziale è innestato dalle conoscenze che il ricevente ha del sistema linguistico attraverso il quale il messaggio è veicolato. Si tratta di casi in cui l’informazione rimane implicita, non detta, perché le parole o le costruzioni utilizzate bastano, da sole a far sì che il ricevente la inferisca, la ricavi per suo conto. In altri casi il processo inferenziale è attivato dal contesto situazionale in cui viene prodotto il testo, o dalle conoscenze del mondo che il parlante assume condivise dal ricevente – si parla in questo caso di conoscenza precedente o anche di enciclopedia. Quello che un insegnante non dovrebbe mai dimenticare è che l’interpretazione di certi testi non è accessibile ai riceventi che non posseggano una conoscenza del mondo pari a quella assunta dal parlante o dall’autore. 5.4. TIPOLOGIE TESTUALI La tipologia testuale è quel ramo della linguistica del testo che persegue il tentativo di individuare, secondo criteri definiti, una tassonomia, una classificazione dei diversi tipi di testo che possono essere prodotti dai parlanti nelle diverse situazioni comunicative, prendendo in esame l’insieme di condizioni, esterne al testo, della produzione del testo, della sua ricezione ed interpretazione. Se si privilegia il canale di trasmissione, si classificheranno i testi in parlati (spontanei, come la conversazione, o non spontanei, come il monologo) e scritti (finalizzati alla lettura ad alta voce o alla lettura silenziosa). A loro volta i testi parlati sono stati suddivisi in monologici e dialogici sulla base del criterio della monodirezionalità o bidirezionalità (con cambio di turni) del messaggio. Se invece si assumono come criteri distintivi i destinatari e il contesto, si parlerà di testi personali (diario, lettera), testi pubblici (cv, domanda di assunzione), testi istituzionali (verbali, atti). Il patto comunicativo lega immancabilmente emittente e destinatario distinguendo i testi sulla base dei diversi gradi di rigidità, distinguendo tra testi molto vincolanti (testi scientifici e normativi) e testi mediamente o poco vincolanti (informativi, letterari). Tutti gli studi concordano nell’individuare almeno una tipologia basica che distingue i testi in narrativi, descrittivi e argomentativi. Nonostante questo bisogna tener conto che i testi reali non si lascino incasellare tanto facilmente e che le zone di intersezione tra i diversi generi sono tali da far definire molto testi misti cioè che contengono al loro interno frammenti tipologicamente anomali, non in sintonia con l’impianto generale del testo stesso. 5.4.1. IL TIPO NARRATIVO Un qualsiasi testo narrativo deve contenere almeno un narrativo minimo, ovvero una trasformazione da uno stato A ad uno stato B. Questa trasformazione è operata da un attore e deve avvenire nel tempo, cioè implicare un prima e un dopo, sono il tempo e l’attore che funge da soggetto della trasformazione che danno coerenza. Dietro ad ogni testo narrativo c’è un narratore (N) dalle cui scelte dipendono la localizzazione dell’evento narrato e all’ordine di presentazione dei fatti che costituiscono un evento, decisioni che condizionano la struttura del testo, e quindi, tra le altre cose, la selezione dei tempi e dei connettivi. <………………|____________________|……………………|………………> MA (IMP/PR) ME <…….… TP CC……………..…> MA indica il “momento dell’avvenimento”, che può in realtà occupare diversi anni, ME indica il momento dell’enunciazione, ovvero il momento in cui N produce il testo. La funzione dell’imperfetto (IMP) è di tipo descrittivo e serve a rappresentare gli eventi di sfondo, dove per sfondo si intende tutto ciò che non è un fatto inaudito, ma che tuttavia aiuta l’ascoltatore facilitandogli l’orientamento nel mondo narrato. Attraverso l’IMP si danno quindi informazioni sulle caratteristiche dei personaggi e degli ambienti, creando le condizioni, la scena 17 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 nella quale ha luogo l’azione vera e propria. La funzione del passato remoto (PR) è invece quella di far avanzare la storia rappresentando gli eventi cruciali, i fatti inauditi. Posto che un testo narrativo sia una sequenza di eventi, l’IMP rappresenta la periferia e il PR rappresenta il centro dell’azione sulla quale il N vuole richiamare l’attenzione. Questo aspetto è reso possibile dalle caratteristiche aspettuali dei due tempi: l’IMP è un tempo fondamentalmente imperfettivo, e dunque rappresenta il processo verbale in modo indeterminato, in svolgimento per un intervallo di tempo più o meno esteso. Il PR invece è un tempo perfettivo, rappresenta un processo verbale che si dà per compiuto, svolge in italiano analoga funzione il passato prossimo (PP) che si presenta come un tempo alternativo al PR in molte varianti regionali. Altri due tempi che servono per spostarsi lungo l’asse del tempo sono il trapassato prossimo (TP), per segnalare eventi che precedono il MA, e il condizionale composto (CC), per segnalare eventi che lo seguono. Si dice che questi tempi segnano l’anteriorità e la posteriorità relativa all’evento centrale narrato. I testi narrativi che scelgono un “ordine artificiale” presentano per il ricevente una doppia difficoltà, cognitiva e linguistica, non è un caso infatti che alcuni generi narrativi originariamente orali (come le favole) siano normalmente costruiti secondo l’ordine naturale (cronologico), come le prime narrazioni dei bambini o le prime strutture testuali degli apprendenti di lingue seconde. Secondo il modello di Weinrich fondato sull’analisi di testi narrativi scritti prevalentemente letterari, i tempi dell’italiano sono suddivisi in “tempi narrativi” (IMP, PR, TP, CC), tipici del mondo del narrato, e “tempi commentativi” (P e PP), tipici dei testi a carattere commentativo. In realtà, l’analisi dei testi narrativi non letterari, scritti e parlati, ha messo in crisi questo modello perché il riferimento temporale da essi implicato non è univoco. I tempi passati usati in un testo letterario non implicano mai un autentico riferimento al passato, ma sono piuttosto da interpretarsi come segnali di tipo discorsivo o segnali di alterità rispetto al mondo reale, i quali avvertono il lettore che ci si addentra in un universo fittizio (vedi romanzi di fantascienza). 5.4.2. TIPOLOGIE TESTUALI E ABILITÀ Per secoli, e fino a pochi anni fa, educare alla letteratura ha significato leggere e commentare testi letterari, allo stesso tempo, educare alla scrittura ha significato addestrare a produrre testi che a quei modelli si ispiravano. Si è sempre trattato di una pedagogia del testo letterario e scritto che trascurava del tutto non solo la dimensione dell’oralità, ma anche la dimensione della varietà linguistica. Le critiche hanno sempre riguardato l’artificialità del tema di italiano pensato come genere testuale, privo di determinazioni di luogo e tempo, dunque privo di destinatario e di un qualunque scopo. I suggerimenti in chiave tipologica tendono invece a contestualizzare l’attività di scrittura proposta in classe, col doppio obiettivo di sottrarre la scrittura al rischio del “vuoto” comunicativo, e addestrare gli allievi a generei effettivamente praticati nella vita reale. CAPITOLO VI __ L’ITALIANO LINGUA SECONDA 6.1. LE RAGIONI SOCIALI: VECCHI E NUOVI MIGRANTI L’espressione “lingua seconda”, o “lingua due”, o L2, si riferisce ad una lingua appresa dopo la lingua materna (potrebbe essere in realtà la terza o la quarta lingua), quali che siano le condizioni di apprendimento. Si ricorda comunque che la letterature glottodidattica distingue tra: “lingua seconda” per cui si intende la lingua appresa direttamente nel paese in cui tale lingue viene usata, dunque un’immersione più o meno totale, come è il caso degli immigrati in Italia o degli studenti in scambio; “lingua straniera”, per cui si intende la lingua appresa a scuola, in contesto sociolinguistico differente, com’è il caso dell’italiano studiato all’estero in corsi di lingua curricolari o meno. I dati documentano: 18 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 La relativamente scarsa presenza di allievi immigrati (siano essi di I o II generazione) nelle scuole del Sud, mentre non sembrano sussistere grandi differenze tra le presenza attestate nel Nord e nel Centro del paese. La diversa presenza di alunni immigrati nelle diverse fasce di scolarità: l’ondata immigratoria ha interessato finora soprattutto il ciclo dell’obbligo, mentre il ciclo secondario superiore risulta ancora relativamente poco coinvolto (ma è ragionevole attendersi a breve un aumento consistente delle percentuali). La maggior incidenza tra i più piccoli (II Primaria) dei nati in Italia da famiglie immigrate e contemporaneamente la minore incidenza degli allievi immigrati di prima generazione tra i più piccoli, segno di un rallentamento degli arrivi dai paesi di origine che anche altre fonti documentano. La difficoltà è poi aggravata dal fatto che i bambini e gli adolescenti immigrati provengono da aree linguistiche spesso molto distanti dall’italiano, e dunque parlano e talvolta scrivono, lingue tipologicamente diverse e non comparabili alla categorie tradizionali che si usano per l’italiano. Un secondo tipo di pubblico è quello costituito da adulti scolarizzati, rappresentato in prima istanza dagli studenti in scambio in Italia, ma anche da figli di immigrati italiani all’estero, che spesso ai corsi di lingua italiani si scontrano con il trauma che l’italiano della scuola e un’altra lingua rispetto a quella usata a casa. 6.2. SUGGERIMENTI DALLA RICERCA: LA LINGUISTICA ACQUISIZIONALE 6.2.1. IL CONCETTO DI INTERLINGUA Il termine interlingua viene solitamente utilizzato da linguisti e glottodidatti per parlare della lingua posseduta da un discente alle prese con l’imparare una L2, è la lingua imperfettamente posseduta da chi sta tentando di impadronirsi di un nuovo sistema linguistico – anche definita competenza transitoria o varietà di apprendimento. La nozione di interlingua cerca di dar conto del fatto che le produzioni linguistiche di un apprendente non costituiscono un’accozzaglia di frasi più o meno devianti, più o meno costellate di errori, ma un sistema governato da regole ben precise, anche se tali regole corrispondono solo in parte a quelle della lingua d’arrivo. Inoltre, l’interlingua è un sistema dinamico, provvisorio e instabile, cambia frequentemente via via che vengono assunti nuovi tratti. Noam Chomsky, fondatore del generativismo, ha interpretato il processo di acquisizione delle lingua madre come il frutto dell’interazione di due componenti distinte: da una parte i dati linguistici primari a cui il bambino è esposto, e dall’altra un complesso di principi organizzativi della struttura grammaticale delle lingue naturali che non è implausibile pensare sia patrimonio della specie umana. Questo complesso di principi organizzativi di può immaginare come una sorta di meccanismo mentale di grande e ancora sconosciuta complessità che mette in grado il bambino di processare i dati linguistici. L’apprendente non sarebbe così un attore completamente passivo alla mercé degli stimoli esterni, ma rappresenterebbe un agente attivo, alla ricerca di dati per confermare ipotesi formulate autonomamente. Ogni apprendimento linguistico, anche il più spontaneo e naturale, si basa dunque sulla ricostruzione, da parte dell’apprendente, delle regole che governano il sistema della lingua. 6.2.2. LA RICERCA SULL’INTERLINGUA: TAPPE E SEQUENZA DI APPRENDIMENTO Gli studi hanno dimostrato che il processo acquisizionale procede secondo tappe precise che si ripetono abbastanza regolarmente – anche se con tempi diversi – negli apprendenti e che sono abbastanza indipendenti dalle lingue materne dei soggetti studiati. Una tappa iniziale, comunemente detta prebasica è caratterizzata dalla preferenza per mezzi pragmatici di comunicazione, il cosiddetto pragmatic mode, che sfrutta ed amplia le risorse linguistiche elementari possedute in L2 facendo ricorso a varie strategie: uso della gestualità e chiamata in causa del contesto (quando ad esempio si sopperisce ad una lacuna del lessico indicando l’oggetto), facendo richiesta di cooperazione attiva e ricostruttiva, commutando il codice (facendo uso di enunciati mistilingui). È tipica di questa prima fase la memorizzazione di elementi lessicali, cioè di parole che vengono usate senza riguardo alla morfologia, e di formule di routine, frasi non analizzate e prese per imitazione. La presenza di queste frasi nelle interlingue iniziali è solo un effetto della oro alta frequenza nell’input – non a caso si tratta 19 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 quasi sempre di formule necessarie alla gestione della comunicazione quotidiana – che l’apprendente memorizza come se fossero moduli prefabbricati di linguaggio che non è in grado di smontare. Segue in un secondo momento la varietà di base, in cui il pragmatic mode, senza essere del tutto abbandonato, viene gradualmente sostituito da una modalità più grammaticale, il syntactic mode: le frasi cominciano ad organizzarsi intorno ad un verbo, spesso non flesso, prodotto in forma ritenuta di base (di solito l’infinito o il presente), la grammatica è ancora quasi assente, si può osservare uno stile telegrafico, scarsità di congiunzioni, paratassi, uso asistematico delle desinenze e predominio di forme non marcate (sono le forme strutturalmente più semplici e distribuzionalmente più frequenti, ad esempio il maschile singolare usato per tutti gli aggettivi dell’italiano). Infine compare le varietà post-basiche che sono caratterizzate da un ricorso sempre maggiore a strategie grammaticali, con progressivo avvicinamento alla lingua. In particolare, gli apprendenti di italiano iniziano a produrre frasi con verbo flesso e compare la morfologia più regolare, sono presenti più spesso gli articoli, ausiliari, desinenze nominali e verbali, forme di accordo sintattico fra soggetto e verbo e fra aggettivo e nome. Anche a livello di sintassi del periodo si ha complessificazione: compaiono le prime subordinate, dapprima di causa, fine, tempo e poi le relative, le oggettive. Nell’acquisizione spontanea della morfologia dell’italiano è stato riscontrato che l’ordine di comparsa delle diverse forme è implicazionale (dunque rappresentabile come a > b > c > d), la sequenza acquisizionale ricorre con interessante regolarità in apprendenti diversi (per L1, per età, per modalità di esposizione alla L2), e in molti casi rivelano una sorprendente somiglianza con le sequenze acquisizionali ritrovate nei bambini che hanno la stessa lingua come lingua madre. Per l’italiano l’ordine è il seguente: a. b. c. d. Presente indicativo, per lo più in 3° persona singolare, questa forma è stata chiamata “forma basica” e sarebbe il risultato di una prima analisi dell’input che porta l’apprendente a individuare nel verbo una parte invariabile partendo da forme verbali con desinenze variabili. Studia è una sorte di tema verbale astratto da studia-to, studia-no, studia-va, presso alcuni apprendenti, soprattutto sinofoni, la forma basica è rappresentata dall’infinito. Participio passato (forma semplificata del passato prossimo, con omissione più o meno sistematica dell’ausiliare) la forma in –to è marcata dal punto di vista formale in quanto dotata di suffisso saliente, ed è mercata anche dal punto di vista della funzione perché portatrice di valori temporali [passato] e aspettuali [perfettivo o compiuto] specifici di fronte al presente non marcato. Imperfetto, la cui funzione è quella di esprimere il passato imperfettivo: parallelamente alla comparsa dell’imperfetto si riduce l’area di utilizzazione del presente, non più usato per esprimere il passato imperfettivo. La prima forma di imperfetto ad emergere è quelle del verbo essere. Futuro, condizionale, congiuntivo: emergono per ultime le forme che esprimono la non fattualità, forme cioè in grado di presentare eventi, stati, emozioni non già come veri o reali, ma come possibili, ipotizzati, desiderati. Sono tuttavia attestate forme precoci di condizionale come vorrei e sarebbe acquisite come forme inanalizzate o formule a seguito della loro alta frequenza nel parlato dei nativi. 6.2.3. STRATEGIE DI APPRENDIMENTO ⇒ Le strategie più elementari, tipiche anche se non esclusive delle varietà prebasiche, sono quelle paralinguistiche o contestuali: privo di supporti linguistici l’apprendente sfrutta al massimo la mimica e la gestualità per indicare i partecipanti allo scambio o denominare e descrivere. ⇒ Una strategia molto nota e molto studiata è il transfer, con consiste nel trasferire in L2 forme o strutture della L1. ⇒ Frequenti anche le strategie analitiche, che descrivono con circonlocuzioni e giri di parole significati grammaticali o lessicali, realizzando una maggiore esplicitezza e trasparenza. Ad esempio, nell’acquisizione dell’italiano L2 è spiegabile in questo modo l’uso insistito del soggetto pronominale per supplire alla mancanza di marche di persona sul verbo, per supplire alla mancanza di marche di tempo e di aspetto sul verbo è ampiamente attestato l’uso di materiali lessicali vari, tipicamente avverbiali di tempo. Un’altra strategia frequentemente usata dagli apprendenti per sopperire alla povertà del lessico 20 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected]) lOMoARcPSD|2150087 in L2: l’uso di parole generiche quali cosa, persona, fare accompagnate a perifrasi descrittive di varia lunghezza e complessità – strategia ampiamente utilizzata anche dai bambini. ⇒ L’estensione analogica, o generalizzazione, è un’altra strategia di apprendimento che dimostra il grado di elaborazione dell’input che l’apprendente è in grado di compiere: piacere-piaciuto crea aprireaprito, la finale in –o sarà interpretata come la marca puntuale del maschile e la –a viceversa. È come se, di fronte alle molteplicità possibilità dell’italiano, l’apprendente straniero arrivi a focalizzare un solo procedimento alla volta, solo in un secondo momento il confronto con l’input standard, eventualmente la correzione, fanno rientrare tali sovraestensioni regolarizzanti. ⇒ Un’altra strategia è quella della semplificazione o di riduzione formale, può interessare qualunque livello linguistico (la fonologia, la morfologia, la sintassi) e consiste di solito nell’omissione di alcune forme previste dalla norma, si parla anche di strategie di evitamento, come ad esempio l’uso di sintagmi privi di articoli. Se tuttavia, il processo di graduale complessificazione non ha luogo, o si ferma a metà strada l’apprendente non migliora le sue prestazioni adeguandole via via al sistema di arrivo, allora si parla di fossilizzazione. ⇒ Altri tipi di strategie sono infine basate, più che sulla elaborazione linguistica, sulla cooperazione con l’interlocutore: così quando in modo diretto o indiretto si segnala all’interlocutore il bisogno di aiuto (come si dice…? Può ripetere?), o quando ci si limita a ripetere una o più parole dell’interlocutore, come un segnale di partecipazione o come prova di esecuzione e tentativo di memorizzazione. Per un migliore apprendimento bisognerebbe usare la quantità maggiore di strategie di apprendimento, è questo infatti un fattore individuale che contribuisce a spiegare la variabilità nell’acquisizione della L2. 6.3. DAGLI STUDI ACQUISIZIONALI ALLA DIDATTICA DELLA L2 Manfred Piemann e la sua teoria della processabilità parte dall’assunto che l’insegnamento di una qualunque L2 avrà successo solo se si uniforma all’ordine di acquisizione naturale, rivelato dalle ricerche acquisizionali, ordine che non può essere modificato dall’istruzione: perché l’apprendente sia in grado di recepire una nuova forma deve avere infatti maturato certi prerequisiti cognitivi e linguistici che lo rendono pronto ad interiorizzare un’altra forma. Questa teoria elabora quindi una gerarchia di elaborabilità delle procedure di codifica grammaticale dovuta all’architettura della nostra mente, e come tale universale. Tutti i linguisti acquisizionali sono d’accordo che l’insegnamento debba uniformarsi all’ordine naturale delle di acquisizione, l’ideale sarebbe disporre di un sillabo in cui le forme e le strutture della lingua d’arrivo siano presentate nello stesso ordine in cui emergono nell’acquisizione spontanea. 6.3.1. L’ERRORE DI LINGUA Le ricerche sull’interlingua ci dicono che gli errori sono delle realizzazioni sì devianti, ma quasi sempre transitorie e molto spesso sistematiche e non casuali, bisogna lasciare agli allievi il tempo di rielaborare il materiale linguistico passando attraverso l’esperienza ineliminabile dell’errore. Il meglio sarebbe adottare una pluralità di strategie correttive, che vanno comunque adattate ai diversi momenti e alle diverse situazioni di insegnamento, è la pratica della “correzione selettiva”. Ad esempio la strategia proposta da Truscott, quella di fingere di ignorare l’errore dello studente senza intervenire, può diventare utile e necessario in almeno due casi: quando l’errore sia in una zona considerata dall’insegnante inaccessibile rispetto alla maturazione linguistica dello studente oppure quando l’urgenza della comunicazione è tale che l’interruzione indotta dall’intervento correttivo verrebbe sentita inopportuna e demotivante per l’allievo. In altri casi il mancato intervento dell’insegnante potrebbe essere interpretato come accettazione piena della forma prodotta, come consenso, il che potrebbe generare fenomeni di fossilizzazione. Una strategia esplicita ma leggere è quella di limitarsi alla riformulazione corretta dell’enunciato dell’apprendente per favorire un’operazione di raffronto con la formulazione precedente e di registrazione della forma corretta. 21 Scaricato da Antonella Acquaviva ([email protected])