L`impresa sociale: norme, caratteristiche e

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L’impresa sociale: norme, caratteristiche e prospettive
-PROGETTO COURAGE 3.1.002-
L’impresa sociale: norme, caratteristiche e prospettive
INTRODUZIONE
In quasi tutti i Paesi industrializzati è in atto una significativa crescita del “terzo settore”,
ossia di tutte quelle iniziative sociali ed economiche che non appartengono né al
settore privato for-profit, né al settore pubblico.
Tali iniziative si sviluppano spesso a partire da organizzazioni di volontariato, e possono
assumere diverse forme giuridiche. Per molti versi esse rappresentano una nuova (o
una rinnovata) espressione della società civile, in una fase di crisi dell’economia,
indebolimento dei legami sociali e crescenti difficoltà dei sistemi pubblici di welfare.
Il terzo settore, spesso definito “settore non profit” o “economia sociale”, è cresciuto di
importanza sino ad assumere un ruolo di spicco nella partnership con le pubbliche
amministrazioni. Partecipa all’allocazione delle risorse producendo beni e servizi
pubblici e quasi-pubblici. Esercita una funzione ridistributiva erogando un’ampia
gamma di servizi (a titolo gratuito, o virtualmente gratuito) a soggetti svantaggiati,
grazie anche ai contributi di tipo volontario (in termini di donazioni o di lavoro
volontario) che molte organizzazioni sono in grado di attivare. Non da ultimo,
partecipa alla regolamentazione della vita economica, quando – per esempio – le
associazioni o le cooperative sociali sono partner della pubblica amministrazione nel
reinserimento lavorativo di persone disoccupate e debolmente qualificate, a rischio di
esclusione dal mercato del lavoro.
La necessità di una normativa specifica sull’impresa sociale è venuta maturando a
partire dall’inizio degli anni ’90, dopo l’approvazione della legge sul volontariato
(legge 11 agosto 1991, n. 266) e, soprattutto, di quella sulla cooperazione sociale
(legge 8 novembre 1991, n. 381).
Chi operava nel settore dei servizi di utilità sociale si è progressivamente reso conto
che le forme giuridiche disponibili non erano in grado di accompagnare, in modo
adeguato, l’evoluzione di un numero crescente di organizzazioni di terzo settore verso
un sempre più esplicito ruolo produttivo e verso modalità di gestione sempre più
imprenditoriali.
L’esigenza di una legge sull’impresa sociale non è nata quindi dall’assenza di forme
giuridiche con cui organizzare la produzione e l’erogazione di servizi sociali (sia
l’associazione che, soprattutto, la cooperativa sociale possono essere usate a questo
fine), ma proprio dall’esperienza maturata gestendo le tipologie organizzative
esistenti, dal loro successo e, soprattutto, dalla presa d’atto dei loro limiti. In
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particolare, le forme giuridiche della fondazione e soprattutto dell’associazione e
della cooperativa sociale:
a) non consentono di ampliare con la necessaria facilità gli ambiti di intervento a
servizi di utilità sociale diversi da quelli socio-assistenziali e di inserimento lavorativo,
b) pongono seri limiti alla crescita dimensionale, poiché si connotano come società di
persone o hanno sistemi di governance inadeguati,
c) impediscono e comunque non facilitano il rafforzamento patrimoniale e quindi
rallentano l’acquisizione di una piena autonomia.
Nel corso degli ultimi anni – come fa rilevare Carlo Borzaga – l’esigenza di ampliare e
meglio definire le forme di imprenditorialità sociale si è venuta rafforzando con il
crescere della consapevolezza che l’evoluzione economica, sociale e istituzionale, in
particolare il rallentamento dell’espansione dell’intervento pubblico, e la crescente
sensibilità per le tematiche sociali e ambientali, richiedevano la creazione di forme
organizzative, anche di carattere imprenditoriale, che consentissero ai cittadini
interessati a impegnarsi direttamente in queste attività e di poterlo fare nel modo più
efficiente possibile. Di qui la crescente insistenza per il riconoscimento legislativo e la
regolamentazione di un nuovo genere di impresa, rivolta non più solo a realizzare un
profitto per i proprietari, bensì a permettere ai privati cittadini di perseguire in modo
organizzato obiettivi di interesse collettivo.
1. Gli obiettivi della legge n. 118 del 2005
Con la legge 13 giugno 2005, n. 118, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 153 del 4
luglio 2005, viene data al Governo la delega ad adottare entro un anno dalla data di
entrata in vigore della legge e su proposta dei Ministri del Lavoro e delle Politiche
Sociali, delle Attività produttive, della Giustizia, delle Politiche Comunitarie e
dell'Interno, uno o più decreti legislativi per disciplinare organicamente ed integrare le
norme relative alle "imprese sociali".
Si tratta di una legge-quadro nella quale vengono dettati i lineamenti essenziali della
nuova “impresa sociale”.
Questi gli obiettivi della riforma:
definire, nel rispetto del quadro normativo e della specificità propria degli organismi di
promozione sociale, nonchè della disciplina generale delle associazioni, delle
fondazioni, delle società e delle cooperative, e delle norme concernenti la
cooperazione sociale e gli enti ecclesiastici, il carattere sociale dell'impresa;
prevedere, in coerenza con il carattere sociale dell'impresa e compatibilmente
con la struttura dell'ente, omogenee disposizioni in ordine all'assetto dell'impresa
stessa;
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attivare, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, funzioni e servizi
permanenti di monitoraggio e di ricerca necessari alla verifica della qualità delle
prestazioni rese dalle imprese sociali;
definire la disciplina dei gruppi di imprese sociali secondo i principi di trasparenza
e tutela delle minoranze, regolando i conflitti di interesse e le forme di abuso da
parte dell'impresa dominante.
Con la legge n. 118 del 2005 si è proposta – come si legge nella Relazione
accompagnatoria – di “temperare la rigida dicotomia, attualmente prevista dal
codice civile, fra gli enti di cui al Libro I e quelli del Libro V a riguardo della possibilità di
esercitare attività commerciali in forma imprenditoriale”.
Nel tempo sono maturate almeno tre possibili definizioni di impresa sociale:
a) quella di origine statunitense, secondo cui sono definite sociali tutte le imprese che
assumono volontariamente l’impegno a sostenere in modo stabile attività di
particolare rilevanza sociale;
b) quella sostenuta da alcuni studiosi europei, secondo cui sono imprese sociali solo e
organizzazioni produttive che hanno come obiettivo l’inserimento lavorativo di
soggetti svantaggiati;
c) quella secondo cui è impresa sociale ogni organizzazione esplicitamente non
finalizzata al profitto, impegnata nella produzione stabile e continuativa di servizi di
interesse collettivo secondo modalità imprenditoriali e quindi caratterizzata da
autonomia decisionale e dalla conseguente assunzione da parte dei promotori e dei
proprietari del rischio di impresa.
Quest’ultima definizione è quella che si è imposta con il tempo, almeno in Europa ed
è questa la definizione che viene in sostanza recepita sia nella legge che nel
regolamento di attuazione.
All’articolo 1 della legge n. 118/2005 viene data la seguente definizione di "impresa
sociale": un’organizzazione privata senza scopo di lucro che esercita, in via stabile e
principale, un'attività economica di produzione o di scambio di beni o di servizi di
utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale.
All’articolo 1, comma 1, del D. Lgs. n. 155/2006 viene ripresa la stessa nozione della
legge-delega e si stabilisce che “Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte
le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che
esercitano in via stabile e principale un'attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare
finalità di interesse generale, e che hanno i requisiti di cui agli articoli 2, 3 e 4”.
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Si tratta di una definizione che non fa riferimento ad una specifica figura giuridica e
ha il pregio di tener conto e di ricomprendere esperienze nazionali, forme giuridiche e
tradizioni socio-politiche assai diverse e quindi di accomunare le varie forme di
imprenditorialità sociale sorte in questi anni, spesso in modo spontaneo, nei diversi
paesi dell’Unione Europea.
Questa definizione amplia il concetto tradizionale di impresa, ammettendo che
possano esistere imprese private non orientate al profitto, ma ad obiettivi di interesse
generale della comunità, la cui individuazione è lasciata all’autonoma decisione dei
promotori e dei proprietari delle sesse imprese.
Secondo Carlo Borzaga, ciò che caratterizza l’impresa sociale rispetto alle altre
imprese è il fatto che essa distribuisce volontariamente e sistematicamente parte del
valore prodotto a soggetti che non sono in grado, del tutto o in parte, di acquisire
quei servizi pagando un prezzo pari almeno ai costi di produzione. L’impresa sociale
persegue gli stessi obiettivi delle più tradizionali fondazioni o associazioni, ma lo fa
attraverso la produzione e allocazione di beni e servizi invece che attraverso
trasferimenti di risorse monetarie.
2. Caratteristiche fondamentali dell’impresa sociale
Con l’emanazione del decreto legislativo sulla disciplina dell'impresa sociale, a
norma della legge 13 giugno 2005, n. 118, in GU n. 97 del 27 aprile 2006, in vigore dal
12 maggio 2006, possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le
organizzazioni private che esercitano stabilmente e principalmente un'attività
economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di
utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale (art. 1, comma 1), senza
alcun scopo di lucro (art. 3).
Agli enti ecclesiastici e di confessioni religiose, con le quali lo Stato ha stipulato patti,
accordi o intese, si applicano le attuali norme limitatamente allo svolgimento di
determinate attività (elencate all'articolo 2), a condizione che per tali attività adottino
un regolamento, in forma di scrittura privata autenticata, che recepisca le norme del
nuovo decreto (art. 1, comma 3).
I beni e i servizi di utilità sociale che l’impresa sociale deve produrre o scambiare,
sono relativi a settori di attività che l’articolo 2, comma 1, del D. Lgs. n. 152/2006
elenca:
a) assistenza sociale, ai sensi della legge 8 novembre 2000, n. 328, recante “Legge
quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”;
b) assistenza sanitaria, per l’erogazione delle prestazioni di cui al decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri in data 29 novembre 2001, recante “Definizione
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dei livelli essenziali di assistenza”, e successive modificazioni, pubblicato nel
supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n.33 dell’8 febbraio 2002;
c) assistenza socio-sanitaria,ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri in data 14 febbraio 2001, recante “Atto di indirizzo e coordinamento in materia
di prestazioni socio-sanitarie”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 129 del 6 giugno
2001;
d) educazione, istruzione e formazione, ai sensi della legge 28 marzo 2003, n. 53,
recante “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e
dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”;
e) tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ai sensi della legge 15 dicembre 2004, n.
308, recante “Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione
della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione,con
esclusione delle attività, esercitate abitualmente, di raccolta e riciclaggio dei rifiuti
urbani, speciali e pericolosi”;
f) valorizzazione del patrimonio culturale, ai sensi del Codice dei beni culturali e del
paesaggio, di cui al D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42;
g) turismo sociale, di cui all’articolo 7, comma 10, della legge 29 marzo 2001, n. 135,
recante “Riforma della legislazione nazionale del turismo”;
h) formazione universitaria e post-universitaria;
i) ricerca ed erogazione di servizi culturali;
l) formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica
ed al successo scolastico e formativo;
m) servizi strumentali alle imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al 70%
da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale.
Al successivo comma 2, si stabilisce che, indipendentemente dall'esercizio della
attività di impresa nei settori di cui sopra, possono acquisire la qualifica di impresa
sociale le organizzazioni che esercitano attività di impresa, al fine dell'inserimento
lavorativo di soggetti che siano:
-
lavoratori svantaggiati ai sensi dell'articolo 2, primo paragrafo 1, lettera f), punti i),
ix) e x), del regolamento (CE) n. 2204/2002 della Commissione, 5 dicembre 2002,
della Commissione relativo all'applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE
agli aiuti di Stato a favore dell'occupazione;
-
lavoratori disabili ai sensi dell'articolo 2, primo paragrafo 1, lettera g), del citato
regolamento (CE) n. 2204/2002 1.
Questi lavoratori devono essere in misura non inferiore al 30% dei lavoratori impiegati
a qualunque titolo nell’impresa.
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L’impresa sociale può, dunque, esercitare un’attività economica organizzata, in
maniera stabile e principale, senza scopo di lucro.
Il comma 3 dell’articolo 2, precisa che per attività principale deve intendersi quella
per
la quale i relativi ricavi
sono superiori al
70% dei
ricavi complessivi
dell’organizzazione che esercita l’impresa sociale.
Con un successivo decreto interministeriale (del Ministero delle attività produttive e
del Ministero del lavoro delle politiche sociali) sono definiti i criteri quantitativi e
temporali per il computo della percentuale del 70% dei ricavi complessivi
dell’impresa.
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L’organizzazione che esercita un’impresa sociale deve destinare gli utili e gli avanzi di
gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio (art.
3, comma 1).
A tal fine è vietata la distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di
gestione, comunque denominati, nonché fondi e riserve a favore di amministratori,
cosi, partecipanti, lavoratori o collaboratori (art. 3, comma 2).
Il decreto legislativo n. 155/2006, al medesimo articolo, precisa cosa deve intendersi
per distribuzione indiretta di utili.
Si considera distribuzione indiretta di utili:
a) la corresponsione agli amministratori di compensi superiori a quelli previsti nelle
imprese che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni, salvo comprovate
esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ed, in ogni caso,
con un incremento massimo del venti per cento;
b) la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi
superiori a quelli previsti dai contratti o accordi collettivi per le medesime qualifiche,
salvo
comprovate
esigenze
attinenti
alla
necessità
di
acquisire
specifiche
professionalità;
c) la remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote, a soggetti
diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, superiori di cinque punti
percentuali al tasso ufficiale di riferimento.
Secondi quanto stabilito all’articolo 4 del D. Lgs. n. 155/2006, alla disciplina dei gruppi
di imprese sociali viene estesa la normativa codicistica in materia di direzione e
coordinamento (artt. 2497 – 2497-septies C.C.) e di gruppo cooperativo paritetico 2,
al fine di preservare i diritti di coloro che subiscono le decisioni del gruppo.
Al comma 1 viene precisato che si considera, in ogni caso, attività di direzione e
controllo il soggetto che, per previsione statutaria o per qualsiasi altra ragione, abbia
la facoltà di nominare la maggioranza degli organi di amministrazione.
I gruppi di imprese sociali sono obbligati a redigere e a depositare presso il Registro
delle imprese:
a) l’accordo di partecipazione;
b) i documenti contabili e il bilancio sociale in forma consolidata, secondo le linee
che saranno dettate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Le imprese private con finalità lucrative e le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1,
comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001 non possono esercitare attività di direzione e
coordinamento e detenere il controllo dell’impresa sociale. Ogni atto contrario è
annullabile e può essere impugnato (art. 4, comma 4).
L'organizzazione che esercita un'impresa sociale deve essere costituita con atto
pubblico. Oltre a quanto specificamente previsto per ciascun tipo di organizzazione,
gli atti costitutivi devono esplicitare il carattere sociale dell'impresa in conformità alle
norme del presente decreto ed in particolare indicare:
a) l'oggetto sociale;
b) l'assenza di scopo di lucro (art. 5, comma 1).
Gli atti costitutivi e le loro modificazioni devono essere depositati entro trenta giorni a
cura del notaio o degli amministratori presso l'ufficio del Registro delle imprese nella
cui circoscrizione è stabilita la sede legale, per l'iscrizione
in apposita sezione (art. 5, 2).
Anche per questo tipo di società è previsto l’obbligo dell’invio telematico delle
denuncia, in applicazione del disposto di cui all’art. 31 della legge n. 340/2000.
Gli enti ecclesiastici e di confessioni religiose (vedi articolo 1, comma 3) sono tenuti al
deposito del solo regolamento e delle sue modificazioni (art. 5, comma 4).
Secondo quanto stabilito all’articolo 7 del D. Lgs. n. 155/2006, nella denominazione è
obbligatorio l’uso della locuzione “impresa sociale”.
Questa disposizione non si applica agli enti ecclesiastici e agli enti delle confessioni
religiose.
All’articolo 9, comma 1, del D. Lgs. n. 155/2006 viene detta una norma di carattere
generale secondo la quale le modalità di ammissione ed esclusione dei soci sono
regolate secondo il principio di non discriminazione, compatibilmente con la forma
giuridica dell’ente. Nel successivo comma si stabilisce che gli atti costitutivi devono
prevedere la facoltà dell'istante che dei provvedimenti di diniego di ammissione o di
esclusione possa essere investita l'assemblea dei soci.
Nei regolamenti aziendali o negli atti costitutivi devono essere previste forme di
coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività, ossia qualsiasi
meccanismo mediante il quale lavoratori e destinatari delle attività possono
esercitare un'influenza sulle decisioni che devono essere adottate nell'ambito
dell'impresa (art. 12, 1 e 2).
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Gli articoli che vanno dal 6 al 13 trattano aspetti vari dell’impresa sociale, in particolar
modo legati ad elementi gestionali. È possibile identificare, in diverse disposizioni,
elementi che vincolano le imprese sociali ad una forma particolare di misure di
governance.
Un elemento da rilevare è che tali disposizioni non contengono in realtà precetti,
bensì requisiti che l’organizzazione deve possedere per essere qualificata come
impresa sociale. Sono quindi norme di fattispecie e non di disciplina.
Principi cardine, espressi dal decreto, che riguardano il profilo organizzativo e i
rapporti esterni, sono :
sana gestione,
trasparenza,
la porta aperta,
la partecipazione,
la tutela dei lavoratori.
Il principio di sana gestione si evince dall’art. 8 comma 3, secondo cui «l’atto
costitutivo deve prevedere specifici requisiti di onorabilità, professionalità ed
indipendenza per coloro che assumono cariche sociali», oltre che dall’art.11, che
impone la presenza di un organo di controllo in certe condizioni di natura
patrimoniale.
La trasparenza è evidenziata dall’art. 5. Si richiede qui la costituzione per atto
pubblico, un contenuto minimo dell’atto costitutivo e il suo deposito presso il Registro
delle imprese. Altro spunto proviene dall’art. 7, comma 1, lì dove il decreto obbliga
l’uso della locuzione impresa sociale nella denominazione.
Infine, in maniera significativa e innovativa, nell’art.10, che vincola l’IS a tenere il libro
giornale più il libro degli inventari, impegna l’impresa a redigere e depositare presso il
registro delle imprese il bilancio economico, nonché il bilancio sociale, documento in
cui dovrebbe essere rappresentata l’osservanza della finalità sociale. Nel decreto gli
schemi espositivi dei dati del bilancio economico non sono stati esplicitamente rinviati
alle disposizione del Codice Civile, dato che l’impresa sociale è una qualifica che
investe un’organizzazione giuridica, e i contenuti del documento dovranno
inevitabilmente allinearsi al tipo sociale prescelto.
Gli elementi innovativi si riscontrano nell’attenzione che il legislatore ha riposto al
monitoraggio continuo sul perseguimento degli obiettivi sociali. Nella pratica ciò si
concretizza nell’obbligatorietà del bilancio sociale, da rendere pubblico mediante
iscrizione presso il Registro delle Imprese.
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La normativa individua 2 macrogruppi di stakeholders da tutelare in maniera
significativa: i destinatari dell’attività sociale e i lavoratori dell’impresa sociale. Per
entrambi i gruppi deve essere perseguito un comportamento teso al loro
coinvolgimento, inteso come «qualsiasi meccanismo, ivi compresa l’informazione, la
consultazione o la partecipazione, mediante il quale i lavoratori e destinatari delle
attività possono esercitare un’influenza sulle decisioni che devono essere adottate
nell’ambito dell’impresa, almeno in relazione alle questioni che incidono direttamente
sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni e servizi prodotti o scambiati».
Questo principio getta un’ulteriore luce sull’orientamento principale dell’impresa
sociale: il soddisfacimento delle attese dei soggetti destinatari e partecipi dell’azione
dell’impresa. Il perseguimento della remunerazione del capitale investito è quindi
messa in secondo piano. Inoltre, la condivisione degli obiettivi dell’impresa sociale
rappresenta un sensibile salto di qualità rispetto al semplice criterio dell’informazione
tra le parti.
Sempre rispetto ai rapporti sociali all’interno della stessa impresa è importante
constatare l’assenza di un esplicito riferimento al principio di democraticità. Tale
principio trova la sua massima espressione nella tradizione e nella legislazione relativa
al mondo cooperativo (“una testa un voto”). Ciò è in linea con l’impostazione
generale della legge di ammettere qualsiasi forma giuridica, e dunque anche le
società di capitali, alla qualifica di impresa sociale.
Secondo quanto disposto dall’articolo 8 del D. Lgs. n. 155/2006, negli enti associativi,
la nomina della maggioranza dei componenti delle cariche sociali non può essere
riservata a soggetti esterni alla organizzazione che esercita l'impresa sociale, salvo
quanto specificamente previsto per ogni tipo di ente dalle norme legali e statutarie e
compatibilmente con la sua natura.
Non possono rivestire cariche sociali soggetti nominati dalle imprese private con
finalità lucrative e le amministrazioni pubbliche individuate all’art. 1, comma 2, del D.
Lgs. n. 165 del 2001. L'atto costitutivo deve prevedere specifici requisiti di onorabilità,
professionalità ed indipendenza per coloro che assumono cariche sociali.
All’articolo 11 del D. Lgs. n. 155/2006 vengono stabilite le regole attinenti l’organo di
controllo. Al primo comma si stabilisce che “Ove non sia diversamente stabilito dalla
legge, gli atti costitutivi devono prevedere, nel caso del superamento di due dei limiti
indicati nel primo comma dell'articolo 2435-bis del codice civile ridotti della metà, la
nomina di uno o più sindaci, che vigilano sull'osservanza della legge e
dello statuto e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, sull'adeguatezza
dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile”.
Dunque, superate determinate soglie dimensionali, è previsto l’obbligo del controllo
contabile da parte di uno o più sindaci, dei quali vengono indicati compiti e poteri.
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Nei limiti in cui l’impresa superi determinati limiti quantitativi, è obbligatorio anche il
controllo da parte dei revisori contabili.
Un discorso a parte riguarda la regolazione di situazioni quali le trasformazioni, fusioni,
scissioni e cessioni d’azienda (Art. 14). Tali operazioni sono ammesse senza vincoli di
sorta qualora siano attuate tra imprese sociali. La trasformazione, la fusione e la
scissione devono essere realizzate in modo da preservare l'assenza di scopo di lucro
dei soggetti risultanti dagli atti posti in essere.
La cessione d'azienda deve essere realizzata in modo da preservare il perseguimento
delle finalità di interesse generale da parte del cessionario. Per gli enti religiosi, ecc., la
disposizione di cui al presente comma si applica limitatamente alle attività indicate
nel regolamento (art. 13, comma 1). In caso di cessazione dell'impresa, il patrimonio
residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni,
comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, secondo le norme statutarie (comma 3 : «il
patrimonio residuo sia devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale,
associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici»). Dunque non necessariamente
un’altra impresa sociale o ONLUS: si parla infatti di una qualsiasi associazione, senza il
vincolo di appartenenza ad alcun albo, senza specificazioni rispetto ai fini statuari e
alle tipologie di soci.
L’Art.17 contiene infine norme di coordinamento rispetto al D.Lgs. n. 460/97 (istitutivo
delle ONLUS) prevedendo tra l’altro al comma 3 due vincoli per le cooperative sociali
che desiderino acquisire la qualifica di impresa sociale:
l’obbligo di redigere il bilancio sociale (art. 10);
la previsione, anche attraverso la redazione di appositi regolamenti, di forme di
coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività.
Sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 86 del 11 aprile 2008, quattro nuovi
decreti del 24 gennaio 2008, adottati dal Ministero dello Sviluppo Economico e della
Solidarietà, in attuazione del D. Lgs. 24 marzo 2006, n. 155, recante la disciplina
dell’impresa sociale.
I decreti riguardano:
1) la definizione dei criteri quantitativi e temporali per il computo della percentuale
del 70% dei ricavi complessivi dell’impresa ai fini della determinazione dell’attività
principale (art. 2, comma 3, D. Lgs. n. 155/2006);
2) la definizione degli atti e documenti che devono essere depositati presso l’ufficio
del Registro delle imprese competente e delle relative procedure (art. 5, comma 5, D.
Lgs. n. 155/2006);
3) la definizione delle linee guida per la redazione del bilancio sociale da parte delle
imprese sociali (art. 10, comma 2, D. Lgs. n. 155/2006);
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4) la definizione delle linee guida relative a operazioni straordinarie poste in essere
dalle imprese sociali (trasformazione, fusione, scissione e cessione d’azienda) (art. 13,
comma 2, D. Lgs. n. 155/2006).
Si completa così il percorso attuativo della normativa avviato con il decreto legislativo
n.155/2006.
L’articolo 1 del D. Lgs. n. 155 del 2006 stabilisce che possono acquisire la qualifica di
impresa sociale tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del
codice civile, che esercitano una attività economica con una serie di caratteristiche
ivi definite in via stabile e principale.
All’articolo 2, comma 3, si dispone che per attività principale si intende quella per la
quale i relativi ricavi sono superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi
dell’organizzazione che esercita l’impresa sociale.
Il decreto del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro della solidarietà sociale
del 24 gennaio 2008 determina i criteri quantitativi e temporali per il computo della
percentuale del settanta per cento necessario a stabilire l’attività principale.
Definisce come “ricavi”
a) tutti i proventi che concorrono positivamente alla realizzazione del risultato
gestionale nell’esercizio contabile di riferimento in caso di contabilità per competenza
b) tutte le entrate temporalmente riferibili all’anno di riferimento nell’ipotesi di
contabilità per cassa.
Nel computo del rapporto si prendono in considerazione soltanto i ricavi direttamente
generati dalle attività di utilità sociale, escludendo i ricavi relativi a:
a) proventi da rendite finanziarie o immobiliari,
b) plusvalenze di tipo finanziario o patrimoniale,
c) sopravvenienze attive,
d) contratti o convenzioni con società ed enti controllati dall’organizzazione che
esercita l’impresa sociale o controllanti la medesima.
Quando sussiste una difficoltà ad attribuire direttamente ricavi fra diverse attività, il
decreto prevede si utilizzi il criterio del numero di addetti impiegati per ciascuna
attività.
Le informazioni di cui sopra vengono pubblicate unitamente ai dati annuali di bilancio
ed evidenziate anche all’interno del bilancio sociale, che deve essere redatto
dall’organizzazione che esercita l’impresa sociale e depositato presso il registro delle
imprese al fine di rappresentare l’osservanza delle finalità sociali.
Il decreto del Ministro della solidarietà sociale e del Ministro dello sviluppo economico
del 24 gennaio 2008 elenca innanzitutto gli atti e i documenti da depositare per via
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telematica presso l’ufficio del registro delle imprese competente per territorio per
l’iscrizione in apposita sezione del Registro delle imprese.
Le imprese sociali, come stabilito dall’articolo 5, comma 2 del D.Lgs. n. 155/2006,
devono depositare presso l’ufficio del Registro delle imprese competente per territorio
- per via telematica o su supporto informatico – i seguenti documenti:
a) atto costitutivo e statuto (e ogni successiva modificazione);
b) un documento che rappresenti adeguatamente la situazione economica e
patrimoniale dell’impresa;
c) il bilancio sociale;
d) per i gruppi di imprese sociali, i documenti di cui alle precedenti lettere b) e
c) in forma consolidata;
e) ogni altro atto e documento previsto dalla vigente normativa.
Il deposito dei documenti avviene entro trenta giorni dal verificarsi dell’evento,
seguendo la vigente disciplina in tema di Registro delle imprese.
L’ufficio del Registro delle imprese procede all’iscrizione nell’apposita sezione una
volta verificata la completezza formale della domanda.
Il medesimo ufficio può chiedere modifiche o integrazioni nell’ipotesi in cui ne ravvisi
la necessità.
Nel caso in cui l’organizzazione che esercita l’impresa sociale non provveda entro un
congruo termine, l’ufficio può rifiutare il deposito dell’atto con provvedimento
motivato.
I codici attività attribuiti all’impresa sociale saranno quelli della classificazione ICNPO
(International Classification of non Profit Organizations) elaborata dalle Nazioni Unite,
che dovrà essere raccordata con la classificazione NACE-Ateco.
La classificazione ICNPO prevede la suddivisione delle attività in dodici categorie:
1) attività culturali e ricreative;
2) istruzione e ricerca;
3) sanità;
4) assistenza sociale;
5) attività ambientalista;
6) promozione dello sviluppo economico e sociale della comunità locale; tutela degli
inquilini e sviluppo del patrimonio abitativo
7) diritti civili, tutela legale e politica;
8) intermediari filantropici e promozione del volontariato;
9) attività internazionali;
10) organizzazioni religiose;
11) organizzazioni economiche, di titolari di impresa, professionali e sindacali
12) altre attività.
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3. Scegliere la forma giuridica
Le forme giuridiche che possono essere assunte dalle imprese sociali sono
sostanzialmente di due tipi:
associazioni, fondazioni, comitati (forme “non imprenditoriali”);
società
di
persone,
società
di
capitali,
cooperative,
consorzi
(forme
“imprenditoriali”).
Associazioni, Fondazioni, Comitati
1. Associazioni
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Si ha un’associazione quando due o più persone si uniscono in maniera più o meno
duratura per il raggiungimento di un determinato scopo, non lucrativo e non
mutualistico: ad es. etico, culturale, assistenziale, ricreativo, sociale, educativo,
religioso, sportivo ecc.
Le associazioni svolgono la loro attività prevalentemente attraverso prestazioni
lavorative o in denaro, volontarie o meno, degli aderenti (associati).
Le associazioni possono essere:
o riconosciute: in tal caso il patrimonio personale degli associati è separato da
quello
dell’ente
e
quindi
chi
risponde
delle
obbligazioni
contratte
dall’associazione (es. debiti) è sempre e soltanto il patrimonio dell’ente (e non
quello degli associati); inoltre i creditori personali degli associati non possono
rifarsi sul patrimonio dell’ente;
o non riconosciute: in tal caso il patrimonio personale degli associati non è
separato da quello dell’ente e, delle obbligazioni contratte dall’associazione
possono rispondere, oltre al patrimonio dell’ente, i soggetti che hanno agito in
nome e per conto dell’associazione stessa (anche se non sono iscritti).
Per ottenere il riconoscimento l’associazione deve costituirsi con atto pubblico: deve
cioè redigere un “atto costitutivo”, tramite notaio o pubblico ufficiale, e un altro
documento – lo “statuto” – che detta le regole generali per il funzionamento
dell’associazione stessa e dei relativi organi.
2. Fondazioni
Si ha una fondazione normalmente quando un fondatore mette a disposizione un
patrimonio per determinati scopi diversi da quello di lucro (culturali, educativi, religiosi,
sociali, scientifici o comunque di utilità pubblica). La fondazione forse più nota al
mondo è quella realizzata dal chimico svedese Alfred Nobel, l’inventore della
dinamite, la quale insignisce ogni anno del premio omonimo personaggi che si sono
distinti nel campo delle arti, delle scienze e per il bene dell’umanità.
Anche la fondazione per ottenere il riconoscimento deve costituirsi con atto pubblico
(in questo caso si chiama “atto di fondazione”) e redigere uno statuto.
3. Comitati
Si ha un comitato quando più persone perseguono uno scopo altruistico o di pubblica
utilità, e – non disponendo di mezzi patrimoniali adeguati – promuovono una pubblica
sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari a tal fine. Ne sono esempi i comitati di
soccorso o di beneficenza, nonché i comitati promotori di opere pubbliche,
monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti ecc.
L’atto costitutivo, in questo caso, non richiede formalità particolari (può essere redatto
anche tramite scrittura privata) ma deve comunque specificare lo scopo per il quale
il comitato è stato costituito.
Delle obbligazioni assunte dal comitato verso i terzi rispondono tutti i componenti del
comitato stesso in modo illimitato e solidale.
Che significa “responsabilità illimitata e solidale”:
• “Responsabilità illimitata” significa che un socio, se la società non è in grado di pagare i
creditori, risponde con tutto il suo patrimonio personale.
• “Responsabilità solidale” significa che un socio risponde anche dei debiti contratti, in nome
della società, dagli altri soci; se quindi i beni personali di un socio non sono sufficienti, la sua
quota di debito deve essere pagata da tutti gli altri.
Società
Se due o più persone si accordano per svolgere insieme un’attività economica allo
scopo di dividerne gli utili, abbiamo un’impresa collettiva, cioè una società (art. 2247
C.C.).
Ogni socio ha l’obbligo di “conferire beni o servizi”: deve cioè dare un contributo alla
società sotto una o più delle seguenti forme:
• denaro contante;
• crediti;
• beni in natura (locali, attrezzature, ecc.);
• prestazioni di lavoro (per alcuni tipi di società).
In genere questo accordo risulta formalmente dall’atto costitutivo, integrato in certi
casi dallo statuto, che detta le regole generali per il funzionamento della società e
degli organi sociali.
Nel caso dell’impresa collettiva quindi occorre:
la stipula di un “contratto di società” tra due o più persone per lo svolgimento di
un’attività economica;
l’effettivo esercizio comune dell’attività da parte di coloro che sono intervenuti
nell’accordo: tutti i soci cioè partecipano in qualche modo, direttamente o
indirettamente, alla gestione (anche se questa è affidata a qualcuno in
particolare, ciò avviene pur sempre per volontà di tutti i soci).
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Le società si distinguono in:
società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in
accomandita semplice);
società di capitali (società a responsabilità limitata, società unipersonale a
responsabilità limitata, società per azioni, società in accomandita per azioni);
società cooperative.
La scelta di un tipo di società piuttosto che di un altro dipende da molti fattori
(tecnici, giuridici, amministrativi, fiscali ecc.); per maggiori particolari si consiglia di
consultare apposite pubblicazioni specializzate o di rivolgersi al proprio consulente di
fiducia.
SOCIETÀ DI PERSONE
Nelle società di persone:
o le qualità dei singoli soci (competenza, abilità, onestà, ecc.) sono più importanti dei
beni conferiti alla società: il lavoro costituisce infatti il mezzo principale con cui i soci
contribuiscono all’attività sociale;
o il numero dei soci è ristretto, e di conseguenza il capitale conferito nella società non
è, di norma, molto elevato;
o tutti i soci (eccetto gli accomandanti nelle S.a.s.) sono responsabili con il loro
patrimonio personale per i debiti sociali (“responsabilità illimitata”) e rispondono
anche della parte di debito non pagata dagli altri soci (“responsabilità solidale”);
o l’amministrazione (quindi la parte più significativa delle attività d’impresa) può
spettare solo ai soci o a parte di essi.
SOCIETÀ DI CAPITALI
Nelle società di capitali:
o i beni conferiti alla società hanno maggiore importanza delle qualità personali dei
soci: i capitali costituiscono infatti il mezzo principale con cui i soci contribuiscono
all’attività sociale;
o è più facile cedere le proprie quote sociali che nelle società di persone;
o i creditori possono rivalersi esclusivamente sul patrimonio sociale (cosiddetta
“responsabilità limitata”);
o l’amministrazione può spettare anche ai non soci.
SOCIETÀ COOPERATIVE
Nelle società cooperative:
o i soci devono essere almeno nove (possono essere almeno tre quando i soci sono
persone fisiche e la società adotta le norme della società a responsabilità limitata);
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o il capitale sociale è variabile; ciò significa che l’ammissione, il recesso o l’esclusione
dei
soci
non
comporta
una
modifica
dell’atto
costitutivo,
ma
avviene
semplicemente con una annotazione nel libro soci da parte degli amministratori;
o lo statuto prevede lo scopo di fornire beni o servizi o occasioni di lavoro
direttamente ai membri dell’organizzazione (“scopo mutualistico”). Ai fini della
possibilità di godere delle agevolazioni fiscali previste dalla legge, la cooperativa
deve operare prevalentemente a favore dei soci secondo i criteri ed i requisiti
previsti agli articoli 2513 e 2514 del codice civile;
o nelle società cooperative i creditori possono rivalersi esclusivamente sul patrimonio
sociale e pertanto il rischio dei soci è limitato esclusivamente all’ammontare del
capitale sociale sottoscritto durante la permanenza nella società.
CONSORZI
Il consorzio merita un cenno a parte. È un contratto con cui più imprenditori
istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di
determinate fasi delle rispettive imprese.
La differenza sostanziale tra il consorzio e la società è che la seconda è finalizzata
all’esercizio di un’impresa, mentre il primo è costituito da più imprese per condividere
risorse o servizi o per meglio organizzare un’attività economica.
Anziché con un consorzio vero e proprio, l’attività svolta con finalità consortili può
essere perseguita anche con una società (tipicamente la S.p.a. o la S.r.l., che
assumono rispettivamente la denominazione di “Società consortile per azioni” o
“Società consortile a responsabilità limitata”).
Le cooperative sociali
Regolate dalla L. 381/91, le cooperative sociali operano nell’interesse della collettività
attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi oppure lo svolgimento di qualsiasi
tipo di attività, se finalizzato all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Esse
beneficiano di apposite agevolazioni.
Le cooperative sociali, che rispettino le norme previste dalla L. 381/91, sono considerate
società cooperative a mutualità prevalente indipendentemente dal rispetto dei criteri
indicati nell’articolo 2513 del codice civile e sono inoltre riconosciute dal D.Lgs. 460/97 quali
ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale). Quasi sempre le cooperative sociali
hanno i requisiti per essere riconosciute anche come “imprese sociali”.
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4. Evoluzione storica e prospettive europee dell’impresa sociale (IS)
La forma “Impresa produttrice di beni e servizi di interesse collettivo”, dove quindi la
massimizzazione dell’interesse dei proprietari è posta in secondo piano, nasce a
partire dagli anni ‘80 in primo luogo gli USA. In Europa, il primo Paese ad approvare
(nel ’93) una legge avanzata sull’impresa sociale (IS) è stato il Belgio, mediante una
modificazione del codice del commercio e introducendo la figura dell’Impresa a
Finalità Sociale.
In Italia il percorso di sviluppo dell’IS è stato lungo e complesso e, nello specifico, il
Decreto esaminato non pone certo fine sulle possibili controversie, sui nuovi sviluppi,
sui contrasti aperti tra i diversi modi di intendere la gestione dei Servizi di interesse
collettivo.
Per capire la portata dei cambiamenti introdotti dal Decreto 155/06 è necessario
cogliere, almeno sinteticamente, la dimensione del processo di evoluzione storica del
concetto di IS. Per svolgere tale analisi prenderemo in prestito la definizione delle
quattro fasi di sviluppo descritte da Borzaga: pionieristica, del riconoscimento, del
consolidamento, dell’istituzionalizzazione ("L'evoluzione del terzo settore in Italia", In:
“Scenari e strumenti per il terzo settore” EGEA, 1999, Borzaga).
La fase pionieristica, dal ‘70 agli anni ’80, ha rappresentato lo stato nascente della
fattispecie. Poco formalizzati e scarsamente riconosciuti a livello giuridico, i primi sforzi
di fare impresa sociale possono essere considerati espressione dell’esperienza
partecipativa in una società scossa e animata dai movimenti del ’68 e dal Concilio
Vaticano II, processi che diffondono una cultura di estensione dei diritti sociali alle
classi disagiate e marginali.
Non ancora inserite nel contesto di crisi del welfare, tali iniziative riscontrarono, oltre
che il favore dell’opinione pubblica, anche del mondo politico e delle istituzioni in
genere.
La fase del riconoscimento è caratterizzata dall’emanazione delle leggi n. 266 del
1991 (“Legge quadro sul volontariato”) e n. 381 del 1991 (“Disciplina delle
Cooperative Sociali”) che danno la possibilità all’IS di interagire e cooperare in
maniera più strutturata con l’Ente Pubblico e di usufruire di incentivi allo sviluppo.
Si tratta di due leggi animate da intenzioni di fondo sensibilmente diverse: la legge sul
volontariato prende atto di un fenomeno che si è sviluppato fino a quel momento,
mentre quella sulla cooperazione sociale struttura una forma di impresa in maniera
innovativa, provocando il rapido consolidamento del settore: la legge 381 configura,
di fatto, le prime forme di IS esistenti in Italia. Imprese che rientrano nell’alveo della
cooperazione, ma che si differenziano dalla tradizione civilista del mondo
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cooperativo a causa del principio del perseguimento dell’interesse generale della
comunità (mutualità allargata).
Altro aspetto da rilevare è come con i provvedimenti venga formalizzato stabilmente
che i servizi sociali possano essere gestiti in modo strutturato anche da organizzazioni
con status giuridico non pubblico, come le cooperative sociali o le associazioni di
volontariato.
Il consolidamento, fase successiva, ha avvio con le crisi economiche degli anni ‘90 da
una parte (con l’emergere delle critiche al sistema classico) e con il parallelo
consolidarsi di nuove tendenze culturali legate al post-fordismo, che cercano di
formulare ipotesi nuove in grado di uscire dalle visioni culturali che contrappongono
la sfera sociale a quella economica.
Le difficoltà economiche nelle quali versano le finanze pubbliche causano il blocco
delle assunzioni nelle Pubbliche Amministrazioni e il non profit si presenta come scelta
second best rispetto all’ente pubblico determinata altresì dalla sua flessibilità ed
economicità.
E’ in questo contesto che le cooperative sociali si dimostrano capaci di rispondere
alla crescita di una domanda insoddisfatta di servizi sociali.
Oltre che le condizioni socio-politiche, a mutare sono anche le variabili concorrenziali.
Si pensi ad esempio alle direttive della Comunità Europea, le quali impongono la
diffusione delle gare d’appalto come sistema di gestione dei processi di
esternalizzazione dei servizi alle ONP (in sostituzione della trattativa privata).
La fase dell’istituzionalizzazione, inquadrabile alla fine degli anni ’90, è caratterizzata
dalla legge quadro di riforma dell’assistenza (l. 328/00). Tale normativa rappresenta il
tentativo di sanare le problematiche emerse nel periodo precedente, specialmente
rispetto al problema della scarsità di risorse dovute alla compressione della spesa
sociale. La legge 328 ridefinisce i rapporti tra Enti Pubblici e IS, ridisegnando i rispettivi
ruoli (promozione/coordinamento da una parte, innovazione/produzione dall’altra)
nell’ambito di uno spirito di compartecipazione all’individuazione dei bisogni e alla
progettazione degli interventi.
Considerate le tappe sinora presentate sinteticamente, il decreto 155/06 può essere
considerato, per certi versi, una rivoluzione. In primo luogo da un punto di vista
teorico, in quanto si distanzia dalla convinzione degli economisti del passato fautori
dell’equazione “Impresa uguale Impresa Capitalistica”, accogliendo le moderne
teorie proprie dell’Economia Sociale. In tal senso questa legge scardina una
tradizione di pensiero, anche scientifico, introducendo l’idea che si possa fare
impresa perseguendo un interesse generale, ovvero non perseguendo l’interesse degli
stakeholder interni, o mediando tra interesse dei soci e della collettività.
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Nella pratica, la scommessa del decreto è quella di affiancare al modello
paternalistico degli Enti Morali, le virtù del modello degli Enti Commerciali
(testimoniata dalla capacità di affrontare gli accadimenti economico-gestionali),
ovvero avvicinare, mediante una qualifica, spirito sociale e spirito economico, quale
incentivo per una sempre maggiore efficacia ed efficienza degli operatori sociali.
Il Decreto 155/06 non ha certo posto la parola fine ai possibili approfondimenti in
materia. In Italia il dibattito si è fatto importante a partire dagli anni ’90,
parallelamente al consolidarsi dell’esperienza della cooperazione sociale. In quegli
anni il termine veniva prettamente associato ad esperienze imprenditoriali volte al
reinserimento di soggetti svantaggiati (le cooperative B).
È in questo contesto che nascono in Europa significative iniziative di ricerca e
approfondimento del fenomeno IS, come quella di Emes sulle specificità delle sociale
enterprise e quelle del gruppo Digestus, più focalizzate sull’aspetto giuridico del
problema. Il clima che ha preceduto e accompagnato l’approvazione del Decreto è
stato riconosciuto da più parti come fertile per la realizzazione del famoso “salto
imprenditoriale” del Terzo Settore.
Da più parti, nell’ambito operativo e disciplinare, si rileva l’esigenza di trovare una
dimensione che garantisca all’IS di mantenersi sulle finalità ideali, senza per ciò
rinunciare ad una prassi imprenditoriale che riconosca nel profitto l’opportunità di
garantire il raggiungimento dei fini stessi.
Se il non profit sembra pronto a compiere il salto imprenditoriale, discorso uguale e
contrario può applicarsi al mondo del profit. Le imprese, per esigenze competitive, di
immagine, ma anche di razionalità economica, si stanno sempre più avvicinando ad
un modello di impresa sociale responsabile. Questo percorso fa parte di un processo
più ampio che molti studiosi hanno descritto come “uscita dall’autoreferenzialità”.
Punto di partenza essenziale è la conoscenza, vero motore del contesto economico
definito post-fordismo. Sistemi prima solo marginalmente connessi (la cultura, l’arte, la
ricerca, la comunicazione, il sociale, la produzione di beni materiali, l’economia dei
servizi)
appaiono
oggi
maggiormente
integrati,
al
di
là
delle
convinzioni
dell’immaginario collettivo che vede disgiunti tali sistemi sociali.
Contemporaneamente, la conoscenza, proprio perché legata a campi dell’agire
umano sempre più interconnessi, va incontro a processi di cambiamento e di
invecchiamento sempre più veloci, rendendo le nozioni obsolete con ritmi inusuali
rispetto al passato. Ciò è dovuto in buona parte all’uso delle nuove tecnologie e alle
scoperte scientifiche, le innovazioni, che, “invecchiando” rapidamente, spingono al
cambiamento ogni sistema, compreso quello della solidarietà.
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La conoscenza entra in maniera più cogente nel mondo dell’impresa creando un
grande fermento nel tessuto economico e sociale. Si assiste alla trasformazione delle
imprese classiche, tradizionalmente orientate alla produzione di beni e servizi per il
conseguimento di un profitto, in imprese ibride, meticce, contagiate dalle nuove
sollecitazioni.
Appare chiaro quindi il legame tra le nuove imprese fondate sulla conoscenza e le IS.
Il minimo comun denominatore è il riconoscimento delle relazioni e della
comunicazione, e quindi dell’innovazione. L’IS, producendo ricchezze a partire da
conoscenze che riguardano relazioni (azioni di cura, formazione, percorsi educativi,
ecc) è impegnata quotidianamente nella produzione di “nuove conoscenze a partire
dalle conoscenze”.
Si possono individuare i seguenti elementi d’innovazione:
a) La pluralizzazione degli attori (portanti) della politica sociale. La prima grande
tendenza macro-strutturale è verso stili di politica sociale che sappiano combinare
maggiore autonomia di ogni attore, così da poter consentire il ricorso ad un raggio
più
ampio
di
risorse
e
di
opportunità.
Le
nuove
parole
chiave
sono:
decentralizzazione, partecipazione e rafforzamento dei corpi intermedi;
b) Il ruolo della famiglia come soggetto di servizi primari di vita quotidiana. Necessità
di superare, nell’ambito delle politiche sociali, il deficit model per un approccio
incentrato maggiormente sulle risorse e l’autonomia dei soggetti primari (empowering
model);
c) La riorganizzazione dei servizi sociali personali: gli utenti da attori passivi a coproduttori e co-gestori dei servizi. Tale approccio andrebbe nella direzione non solo di
una migliore e più razionale distribuzione delle risorse pubbliche, ma anche di una
umanizzazione dei processi di aiuto.
La crescita del Terzo Settore a livello internazionale ha stimolato numerose riflessioni
sulle cause intrinseche ed estrinseche della sua nascita. Gli studi sul non profit
segnalano le seguenti svolte di ordine culturale alla base del fenomeno:
La nuova collocazione della mission dell’Impresa in uno spazio economico
compreso tra Stato e Mercato e lo sviluppo di soggetti autonomi capaci di gestire
l’erogazione e la produzione di beni e servizi con finalità pubbliche andando oltre
i modelli capitalistici e mutualistici;
L’affermazione del concetto e della pratica di Responsabilità Sociale d’Impresa
(RSI), intesa sia come vincolo al fine economico che come mezzo di
legittimazione sul mercato per una creazione del valore effettivo per gli
stakeholders.
In letteratura esistono due interpretazioni principali del non profit:
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a) Il non profit come risposta al fallimento dello Stato nel soddisfare una domanda
di servizi eterogenea: data la vastità di bisogni di una popolazione, il Pubblico,
per motivi di razionalità del servizio, definisce la sua offerta in base alla media
delle esigenze, lasciando così insoddisfatti gli “scostamenti”, i quali si
rivolgeranno alle ONP. Tale intepretazione, nella prassi, si è sviluppata non tanto
in una concorrenza tra pubblico e privato, quanto in forme di partnership: il
cosiddetto welfare mix.
b) Il non profit come insieme d’istituzioni in grado di permettere ai consumatori di
ridurre le asimmetrie informative verso i fornitori, e di creare relazioni fiduciarie
tra istituzioni e consumatori. Secondo questa interpretazione, il vincolo alla
ridistribuzione degli utili è lo strumento per segnalare alla collettività che non si è
interessati a sfruttare le asimmetrie informative per ampliare il proprio margine di
profitto.
L’evidenza empirica e la teoria dimostrano come un mercato concepito solo come
luogo degli scambi guidati dal raggiungimento di finalità egoistiche (e sul quale è
svalutata la componente etica e sociale) tende a diventare progressivamente meno
efficiente. Il mercato funziona efficacemente solo se gli operatori (coloro che
scambiano beni e/o servizi) sviluppano e mettono in atto, accanto ad una qualità
materiale (self interest) una qualità etica (sympathy, passion, relazionalità).
Le organizzazione non profit possono assumere quindi dignità d’impresa tale da
creare plusvalore e non disvalore economico, uscendo dal proprio ruolo marginale
rispetto a Stato e Mercato, costituendo parte integrante dei sistemi economici di
scambio di beni e servizi.
Da questo punto di vista, l’IS potrebbe svolgere un ruolo complementare alle imprese
for profit, perché in grado di creare un bene intangibile di vitale importanza: il
capitale sociale.
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