LEGALITA’ E LAVORO
NELLA DIASPORA CINESE IN ITALIA
Introduzione
Il presente lavoro di ricerca si prefigge la finalità di studiare le
dinamiche relazionali che contraddistinguono l’interazione all’interno
della comunità cinese in Italia, nonché i rapporti di relazione di questa
con la popolazione autoctona e ciò considerata l’importanza che le
tradizioni e la cultura assumono nel connotare il fattore identitario dei
gruppi migranti nei luoghi d’accoglienza.
Nell’affrontare la tematica concernente le migrazioni e nello specifico le
peculiarità riguardanti i migranti cinesi che in Italia hanno dato vita a
comunità etniche “chiuse”, exclave1, è stato ritenuto doveroso cercare
di indagare e verificare quali siano stati i prodromi, cioè a dire le
condizioni culturali, sociali ed economiche che hanno reso possibile il
concretarsi di una tale realtà, specialmente in talune regioni.
La crisi del sistema economico Occidentale, come si vedrà, ha assunto,
in questo fenomeno, un ruolo preminente. Si evidenzierà, ad esempio, il
fatto che il consolidarsi dell’utilizzo di metodi di pagamento quali il
1
Definizione: piccolo territorio completamente isolato dallo Stato al quale appartiene politicamente e
situato geograficamente in territorio straniero.
Il vocabolo viene altresì usato dalla scuola di antropologia CERCO per indicare le comunità etniche
chiuse in una sorta d’autoreferenzialità culturale, organizzativa e politica tale da renderle assolutamente
incoerenti con il territorio nel quale si stanziano. Si tratta di “repliche impermeabili”, degli stati d’origine
dei migranti.
1
credito al consumo, abbia favorito anche un mutamento delle istanze
sociali, in termini di beni da possedere e consumare. Il cliente e
l’utilizzatore di beni si sono trasformati in consumatori. Così facendo
essi hanno contribuito a sviluppare e consolidare un modello di mercato
nel quale viene consentita la produzione di beni di bassa qualità ma in
quantità tali da far sì che la domanda non rimanga mai disattesa, anche
se ciò ha incentivato, nelle zone di penetrazione economica, lo
sfruttamento del lavoratore (spesso clandestino) e il suo asservimento
all’impresa. Un processo di identificazione usuale in Cina.
La ricerca analizzerà, dunque, la quotidianità della vita all’interno della
comunità cinese in Italia con l’intento di rilevare quelle semplici ma
tipiche condotte (usuali e valide per il cinese in Cina) qui ritenute
extralegali, illegali o criminali. Comportamenti che la perdurante
indifferenza di molte istituzioni - il cui compito sarebbe dovuto essere
quello di sviluppare politiche sociali d’integrazione e d’inclusione tese
ad armonizzare le diverse culture che s’incontrano sul territorio senza
perderne il controllo – ha consentito si radicassero, dando luogo a un
fertile terreno di coltura sul quale si è assistito alla strutturazione e al
consolidamento di situazioni di alterità, di realtà autonome legibus
solute.
La differenza tra Italia e resto d’Europa è piuttosto in due
fenomeni concomitanti: da una parte, l’assenza di autentiche
politiche di integrazione sociali dei migranti, abbandonati in ogni
aspetto della loro esistenza all’economia informale (dal lavoro
all’abitazione) e, dall’altra, l’espandersi di un vero e proprio
2
panico sociale, in gran parte favorito dai media e da tutti i governi
che si sono succeduti dalla fine degli anni ’80 a oggi.
2
Nel far ciò non sarà omesso di considerare come l’adozione di questa
policy disomogenea, frammentaria, emergenziale e alterna si sia
rivelata, in molti casi, inadeguata nei confronti della trattazione del
fenomeno migratorio nella sua globalità.
Lo svolgimento di un approfondimento delle tematiche dal carattere
storico, economico e sociale consentirà di comprendere perché, dal
1984 a oggi, alcune regioni italiane – non esclusivamente quelle
economicamente più prosperose, produttive e avanzate dal punto di
vista artigianale e industriale - invece di altre, si siano rivelate in grado
di attrarre investimenti e forza lavoro provenienti dalla Cina e come nei
siti prescelti siano state fondate le Tong3: vere e proprie isole etniche in
tutto autoreferenziali.
La medesima riflessione, poi, evidenzierà come la segretezza nell’agire,
il silenzio e il basso profilo tenuti dagli appartenenti alla comunità cinese
negli anni, rispetto agli appartenenti ad altre comunità di migranti (che
per le loro condotte hanno, invece, attirato l’attenzione degli organismi
di vigilanza e controllo sociale nonché dei media), abbia origini risalenti
nella storia di quel popolo e si siano rivelati strumentali, connotanti e
vincenti. Divenendo determinanti nel dar luogo all’insorgere di
2 Alessandro Dal Lago, Giovani, stranieri e criminali, Il Manifestolibri Editore (collana Talpa di biblioteca),
Roma, 2001, pp.18-19.
3 Letterale: luogo dove si incontra la famiglia allargata. Questo vocabolo, nell’accezione contemporanea ha
perso la sua accezione letterale e indica latamente la comunità cinese. Con il termine Tong è, quindi,
invalso l’uso indicare non un luogo, bensì la comunità in sé, il suo atteggiamento di chiusura e di
autoreferenzialità nei confronti degli “stranieri”, cioè degli autoctoni dei territori sui quali si stanzia
legittimando se stessa e la propria alterità nell’organizzazione sociale e del Diritto.
3
importanti derive in materia di ordine pubblico e di sicurezza pubblica gli
usi patrii replicati nella diaspora4 hanno un ruolo importantissimo.
Si vedrà, dunque, quanto l’accondiscendenza nei confronti di talune
condotte, in principio ignorate e sottovalutate da parte delle Istituzioni,
abbia ingenerato il convincimento negli appartenenti al gruppo sinomigrato che esistesse la possibilità di creare, o mantenere, una
condizione di alterità tipica del paese di provenienza alla cui base esiste
un’arcaica, tradizionale ma semplice e solida struttura di comportamenti
- intrecciati e solidalmente legati tra loro - sui quali poggia, oggi,
l’isolamento spontaneo delle tong in Italia.
Per addivenire alla spiegazione di una tale esperienza domestica che
vede lo stato e le sue strutture in seconda posizione rispetto alla
centralità e alle esigenze della comunità a cui il soggetto appartiene, è
stato riservato un capitolo di natura eminentemente storica nel quale è
stato compiuto un excursus sull’origine dell’associazionismo (segreto)
cinese in patria e sul mantenimento di tale habitus anche nelle
migrazioni che si sono succedute negli ultimi secoli. Da tale contesto
emergeranno peculiarità utili a comprendere come attraverso la
consueta pratica dell’adesione a un’Associazione segreta, il singolo
pervenga alla propria validazione in seno al gruppo nazionale.
Un altro elemento di differenziazione delle società segrete
rispetto allo Stato era l’estrema semplicità formale della loro
gerarchia interna. Sembra che in ogni società e loggia vi fosse
una gerarchia unica, che assommava in sé le competenze degli
4 Definizione: dïàspora [dal gr. διασπορά «dispersione», der. di διασπείρω «disseminare»]. In generale,
dispersione, specialmente di popoli che, costretti ad abbandonare le loro sedi di origine, si disseminano in
varie parti del mondo. FONTE: dizionario Treccani.
4
organi civili, militari e censorî dello Stato. Tuttavia, come nella
pubblica amministrazione, anche nelle società segrete vi erano,
di solito, nove gradi gerarchici; ma, mentre nella gerarchia
statale, il sistema dei gradi si applicava solo ai funzionari, nelle
società segrete esso si estendeva a tutto l’insieme degli
associati, e non soltanto ai dirigenti.5
In alcuni casi queste comunità “chiuse” sono diventate talmente
autosufficienti e autoreferenziali da costituire, in tutto e per tutto, la
replica del modello culturale lasciato dal migrante nella madre patria. Lo
strutturarsi di questa replica è stato permesso, e talvolta incoraggiato,
col fine di far sentire accettate, integrate e rispettate le giovani comunità
etnico-linguistiche. L’impostazione di tale politica di accoglienza e
dell’integrazione è divenuta, però, la prassi attraverso la quale il limite
tra ciò che è consentito e ciò che non lo è ha avuto una progressiva
dilatazione, uno spostamento “in avanti”, sino a far sì che nel migrante
si compisse quella perniciosa confusione tra il lecito e l’illecito che lo ha
portato ad innescare frizioni con l’autoctono.
Nel corso della ricerca è evidente l’importanza di analizzare perché
questo procedimento sia avvenuto nella comunità cinese che vive in
Italia secondo regole proprie alle quali il “sistema Cina” per più versi fa
riferimento. Dall’esperienza sul campo in Italia emerge la responsabilità,
in particolar modo degli organi amministrativi e di polizia che hanno
permesso – forse con la presunzione che in virtù di una naturale spinta
osmotica tutto si sarebbe regolato da sé - il consolidamento di questi
comportamenti di tal che gli usi giunti insieme ai migranti sono divenute
delle consuetudini.
5 Fei-Ling Davis, Le Società Segrete in Cina,– Ed. Piccola Biblioteca Einaudi – Milano 1971, cit. pag. 170.
5
Se tale politica di accoglienza e di integrazione è apparsa valida alle
autorità, sollevate dall’onere – segnatamente economico finanziario - di
interventi di strutturazione, agli occhi degli autoctoni, invece, tutto ciò si
è palesato come la concretizzazione di una sperequazione di
trattamento di fronte alla legge, come la dismissione da parte delle
istituzioni di potestà tipiche. Questa percezione – non sempre nei fatti
riscontrabile - ha talvolta esasperato gli animi e condotto alla
coostituzione di compagini politiche che, assumendo su di sé l’onere di
un’asserita tutela degli “interessi domestici” hanno veicolato messaggi
razzisti e allarmistici, fomentando l’intolleranza e la xenofobía.
L’intangibile libertà di esprimere la propria identità ha fatto, dunque, sì
che i gruppi nazionali migranti interpretassero un tale segno di “civiltà
politica del Paese ospitante” come l’avallo di ogni pratica, anche se in
evidente contrasto con le norme vigenti nello Stato italiano.
L’Ente pubblico, ritenendo che questa comunità di migranti si sarebbe
allineata e integrata seguendo l’orientamento della popolazione
autoctona, così come altre hanno fatto nel tempo, non ha, invece,
tenuto conto della specificità del fenomeno ignorando di prendere a
paradigma le pregresse e analoghe esperienze statunitensi e francesi.
In tale prospettiva è stato sottovalutato che all’interno di queste “isole di
Cina in Italia”, il fattore extralegale6, da principio “tollerato”, è divenuto la
6 “Fattore extralegale”: per fattore extralegale si intende l’ampio spettro di pratiche sociali ed attività
economiche che tendono a eludere o infrangere le definizioni vigenti di legalità, senza con ciò assumere
la fissità o inferire da queste un giudizio circa ammissibilità o legittimità sociale. L’extralegalità può
essere il risultato del trattare beni e servizi legali in modi illegali. Per converso, quando ad essere illegali
sono i beni ed i servizi in sé, si entra nel settore criminale. Per una sintesi di come criminale e
extralegale sono presi in considerazione nella ricerca economica, si veda R. Naylor, The Rise and Fall
of the Underground Economy, in <<Brown Journal of World Affairs>> , 11, 2005, n. 2. Pp 131 – 143.
6
norma. In alcuni casi, addirittura, si è assistito alla validazione del
crimine che, trasformando le dinamiche relazionali interne al gruppo
nazionale cinese, ha consentito che la vessazione si trasformasse in
sfruttamento della persona e conseguentemente in quella nuova forma
di schiavitù che l’ONU, nel Protocollo di Palermo del 2001, definisce
chiaramente trafficking of human beings.7
Il lavoro di ricerca, poi, avrà cura di porre in evidenza quale importanza
abbia assunto, nella percezione del fenomeno migratorio cinese, il ruolo
dei media, che non sempre hanno diffuso informazioni in modo
imparziale e piuttosto hanno, in taluni casi, favorito il radicamento di
una errata percezione della realtà. Sebbene la presenza dei cinesi in
Italia sia, ancora oggi, poco conosciuta e poco conoscibile, ciò non
dovrebbe, di per sé solo, e con l’appoggio degli strumenti di
informazione di massa, alimentare lo strutturarsi di stereotipi o il
FONTE: Francesco Strazzari, Notte balcanica. Guerre, crimine, stati falliti alle soglie d’Europa, Bologna,
Il Mulino-Contemporanea, 2008.
7 The Palermo Protocol supplements the UN Convention Against Transnational Organized Crime, and
situates trafficking in this paradigm. Therein, human trafficking is defined as:
“(a)...the recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of persons, by means of the threat or
use of force or other forms of coercion, of abduction, of fraud, of deception, of the abuse of power or of
a position of vulnerability or of the giving or receiving of payments or benefits to achieve the consent of
a person having control over another person, for the purpose of exploitation. Exploitation shall include,
at a minimum, the exploitation of the prostitution of others or other forms of sexual exploitation, forced
labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs
(b)The consent of a victim of trafficking in persons to the intended exploitation set forth in subparagraph
(a) of this article shall be irrelevant where any of the means set forth in subparagraph (a) have been
used;
(c) The recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of a child for the purpose of exploitation
shall be considered “trafficking in persons” even if this does not involve any of the means set forth in
subparagraph (a) of this article;
(d) “Child” shall mean any person under eighteen years of age” (...)
FONTE: Palermo Protocol supplements the UN Convention Against Transnational Organized Crime,
2001.
7
consolidarsi di pregiudizi: i cinesi non muoiono mai. Ma è ciò che
accade.
Il presente lavoro di ricerca evidenzia, altresì, le difficoltà organizzative
degli operatori e dei referenti locali di istituzioni centrali di vigilanza e
controllo territoriale per i quali adempiere al proprio ufficio spesso
diventa materia improba e frustrante. La formazione delle Tong ha
implicato la formazione di gruppi criminali che gestiscono, più o meno
violentemente, i rapporti di relazione all’interno di esse.
Le interviste condotte ai funzionari, contattati per corroborare i dati
estrapolati dalla ricerca teorica, saranno una testimonianza tangibile di
come spesso sia l’iniziativa dei singoli a porre rimedio alla
disarticolazione di una struttura centrale lontana dalle problematiche del
territorio. Gli interpreti, poi, emergeranno come un vero e proprio ponte
culturale tra chi migra e chi accoglie. In tale contesto, però, emergerà
anche come alcuni Enti locali e regioni abbiano colto appieno il valore
aggiunto e il significato intrinseco della collaborazione interdisciplinare
per materia e dell’integrazione delle competenze professionali degli
operatori nella gestione e nel controllo degli insediamenti umani, delle
imprese e delle attività economiche più in generale, operanti nei
rispettivi ambiti territoriali.
8
CAPITOLO I
LA CRISI DELL’OCCIDENTE E L’AFFERMAZIONE DELLA CINA
1. La migrazione e la penetrazione della logica di produzione cinese
nell’Italia multietnica
L’Italia, negli ultimi quarant’anni, ha visto modificarsi, in modo
importante se non addirittura sostanziale, e non solo per l’immigrazione
cinese, il dato demografico relativo alla presenza di cittadini stranieri sul
proprio territorio. Il fenomeno appare più che evidente quando si vanno
a considerare le cifre riferite agli “stranieri regolari”8, cioè coloro che
sono in possesso del Permesso o della Carta di Soggiorno. Un dato
che nel 1969 era pari a circa 200.000 unità e nel 2010 aveva già
raggiunto le 4.800.000 unità. Ciò sta a significare che il peggioramento
delle condizioni di vita in alcune aree geografiche, e l’attrattiva suscitata
dal messaggio dai media relativo al modello di vita occidentale, hanno
creato delle aspettative di miglioramento economico9 nelle popolazioni
delle zone meno sviluppate del mondo. Questa aspettativa, che come si
vedrà in seguito ha stimolato la creazione di un vero e proprio mercato
della
migrazione,
è
stata
colta
dalla
criminalità
organizzata
transnazionale che, per altri e diversi mercati illeciti, si era già dotata di
una “rete di relazioni” assai ramificata.
8 Non cittadini (appartenenti alla Comunità Europea o extracomunitari) in possesso del regolare Permesso
di Soggiorno o della Carta di Soggiorno rilasciati dalla Questura della provincia ove risiedono.
9 Si intende come la naturale propensione dell’essere umano a migliorare la propria condizione di vita
generale e non, quindi, esclusivamente il proprio trattamento retributivo e finanziario.
9
Le cifre sopra richiamate fanno comprendere che quello con cui si ha a
che fare è un dato in continua evoluzione e che una larga maggioranza
dei migranti è costituita da “stranieri non comunitari”.
Nel 2011, secondo il Rapporto ISTAT 2012 riferito alla data del
31.12.2011, i migranti non comunitari ammontano a 3.637.724 unità. A
questa cifra vanno aggiunti anche 1.373.000 cittadini comunitari
stabilmente soggiornanti in Italia. Il dato riportato è ricavato dal numero
dei Permessi e delle Carte di soggiorno rilasciate e, pertanto, include
unicamente i migranti “regolari”. Tra questi vanno annoverati anche i
cittadini stranieri nati in Italia, quindi sottoposti comunque al regime
amministrativo del “migrante”. Si parla di quei figli nati da genitori non
italiani10 che eventualmente acquisiranno la cittadinanza al compimento
del loro diciottesimo anno d’età.
10 L’acquisizione della cittadinanza italiana attualmente è regolata dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 91 (e
relativi regolamenti di esecuzione: in particolare il DPR 12 ottobre 1993, n. 572 e il DPR 18 aprile 1994,
n. 362) che, a differenza della Legge precedente, rivaluta il peso della volontà individuale nell’acquisto e
nella perdita della cittadinanza e riconosce il diritto alla titolarità contemporanea di più cittadinanze.
I principi su cui si basa la cittadinanza italiana sono:
• la trasmissibilità della cittadinanza per discendenza (principio dello “ius sanguinis”);
• l’acquisto “iure soli” (per nascita sul territorio) in alcuni casi;
• la possibilità della doppia cittadinanza;
• la manifestazione di volontà per acquisto e perdita.
L’art. 1 della legge n. 91/92 stabilisce che è cittadino per nascita il figlio di padre o madre cittadini.
Viene, quindi, confermato il principio dello ius sanguinis, già presente nella previgente legislazione,
come principio cardine per l’acquisto della cittadinanza mentre lo ius soli resta un’ipotesi eccezionale e
residuale. Nel dichiarare esplicitamente che anche la madre trasmette la cittadinanza, l’articolo
recepisce in pieno il principio di parità tra uomo e donna per quanto attiene alla trasmissione dello
status civitatis. La legge del 1912, sebbene all’art. 1 confermasse il principio del riconoscimento della
cittadinanza italiana per derivazione paterna al figlio del cittadino a prescindere dal luogo di nascita già
stabilito nel codice civile del 1865, all’art. 7 intese garantire ai figli dei nostri emigrati il mantenimento del
legame con il Paese di origine degli ascendenti, introducendo un’importante eccezione al principio
dell’unicità della cittadinanza. (fonte Ministero degli Esteri: www.esteri.it).
10
Il Rapporto della Caritas–Migrantes 201211 evidenzia quanto il dato sia
mutevole e che il superamento della soglia dei 5.000.000 di persone sia
avvenuto in “appena” un anno.
Un discorso diverso va fatto per il numero di “clandestini”, cioè per quei
migranti illegalmente presenti sul territorio, il cui dato invece è desunto
(e per ciò può essere considerato solo approssimativamente) dal
numero dei rintracci. Questo dato, quindi, trascura tutti coloro i quali
vivono stabilmente in Italia riuscendo a rendersi irrintracciabili dalle
autorità.
Per quanto riguarda l’entità del dato reale, le cifre a disposizione sono
sensibilmente diverse e, nemmeno coniugando i dati afferenti ai
rintracci e ai rimpatri con quelli offerti dalle “Organizzazioni non
Governative” 12 , è possibile fornire un’approssimativa quantificazione
degli “irregolari” presenti sul territorio nazionale.
In tema di migrazione irregolare e di contrasto allo sfruttamento dei
migranti
un
contributo
interessante
alla
ricerca
viene
fornito
dall’esperienza del dottor Domenico Savi 13 , questore della Polizia di
11 Fonte: http://www.caritas.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2011/dossier_immigrazione2011/scheda.pdf
12 D’ora in poi indicate con l’acronimo O.N.G. o, in inglese, N.G.O.’s) operanti sul territorio attraverso una
rete capillare di centri operativi di supporto e ascolto, che sulla strada offrono sussidio.
13 Domenico Savi è Questore della Repubblica nella Polizia di Stato in servizio presso la Questura di
Reggio Emilia. Nella sede di servizio precedente è stato Questore a Prato. A lui si deve l’introduzione
sul territorio della provincia pratese di un sistema coordinato di controllo Amministrativo. Un tavolo di
lavoro congiunto attraverso il quale Polizia di Stato, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Polizia Locale,
Magistratura, nonché l’ufficio della Direzione Provinciale del Lavoro di Prato e l’Azienda Sanitaria
Locale hanno intrapreso un’azione organica di verifica e vigilanza sugli opifici gestiti da laoban o nei
quali la mano d’opera fosse di origine cinese. Grazie alla sinergizzazione delle professionalità sopra
citate, ecco che il risultato s’è concretato in un’incisiva quanto proficua azione di repressione nei
confronti di soggetti usi allo sfruttamento ed al traffico di esseri umani; nell’identificazione di soggetti
evasori o, addirittura, inesistenti per l’anagrafe tributaria e di cittadini italiani che attraverso la locazione
di immobili e l’affitto di strutture d’impresa si sono resi complici e concorrenti nella commissione dei reati
di cui al Testo Unico sulla Immigrazione.
11
Stato in servizio a Reggio Emilia e già questore in Prato. Durante uno
dei numerosi “colloqui-intervista”, effettuati durante la fase di ricerca sul
campo, svolta con il metodo snowball sampling14, egli pone la questione
sul dato riferito ai cittadini cinesi.
Questa è una comunità che sin dalle prime esperienze di insediamento
territoriale ha seguito un percorso e una strategia a sé stanti. Secondo
le informazioni in possesso del dirigente della Polizia, ottenute
incrociando i dati degli uffici immigrazione, vi è da ritenere che le
persone in possesso di regolare permesso di soggiorno raggiungano a
mala pena la metà di quelle realmente dimoranti e soggiornanti in Italia.
È più che verosimile, quindi, conferma il dott. Savi, che il dato sia da
riconsiderare non solo in ambito nazionale, ma anche europeo.
Si parla di un dato che, comunque, non tiene conto degli spostamenti
“giornalieri” che molti cittadini stranieri non comunitari (è sempre d’uopo
14 Snowball sampling - letteralmente “campionatura a palla di neve”: si tratta di un metodo di ricerca usato
nelle indagini scientifiche sociali che afferiscono ad aree tematiche criminali e di difficile penetrazione
da parte degli scienziati, perché è il settore stesso in cui vogliono inserirsi ad essere impenetrabile se
non a degli “iniziati” o a soggetti “coinvolti”. Wright, Decker, Atkinson, Maxfield e Babble tra il 1994 e il
2001 affinano e perfezionano l’impostazione di questo particolare metodo di raccolta informazioni che
cresce e si corrobora come, appunto, può fare una palla di neve che rotola. È attraverso un duplice
canale di raccolta dati che inizia ad operare lo scienziato: il primo individua i soggetti istituzionali ai quali
rivolgere le interviste introduttive (ed è questa la fase di maggiore difficoltà che richiede, quindi,
l’avvicinamento e “l’aggancio” dei “tecnici del settore” dell’informazione e della prevenzione o del
rafforzamento del sistema di sicurezza e di polizia). Tale fase si fonda sull’intervista mirata che vuole
svelare le metodologie di valutazione del loro settore d’impiego. Il secondo canale, invece, di pari
importanza ma di più impegnativa attuazione perché richiede maggiore attenzione nella verifica delle
informazioni ottenute, porta al progressivo coinvolgimento (snowball sampling) di soggetti sempre nuovi
e con specifiche caratteristiche di interesse per la ricerca. Questi soggetti, nel nostro caso saranno altri
operatori del settore (appartenenti a N.G.O.’s, poliziotti o politici locali, nonché i soggetti passivi delle
indagini o delle azioni della polizia svolte sul territorio), sono stati reperiti nelle zone produttive della
Toscana, dell’Emilia Romagna, della Lombardia e del Friuli Venezia Giulia. Questo metodo di ricerca è
già stato usato in precedenza dalla PhD. Min Liu, (autrice della ricerca “Migration, Prostitution and
Human Trafficking – the voice of Chinese woman” - Library of Congress: 2011003367) con successo
per svelare i retroscena del trafficking nell’ambito delle organizzazioni criminali internazionali e
transnazionali cinesi che gestiscono il traffico delle donne da destinare alla prostituzione in Cina e negli
USA.
12
praticare questa distinzione) compiono per recarsi nel territorio
dell’Unione per svolgere lavori in regime di “irregolarità”. Già, perché,
come osservato dallo stesso dirigente della Polizia, la libera
circolazione delle persone e delle merci è garantita e attuata attraverso
l’applicazione del trattato di Schengen; un percorso virtuoso di civiltà,
ma che inevitabilmente pone in circolazione anche chi non è in
possesso di documenti regolari per l’espatrio o il soggiorno,
permettendo alle persone di accedere all’Unione e poi, all’interno di
essa, di muoversi con disinvoltura.
Un ulteriore punto di vista dal quale poter analizzare il dato relativo alla
comunità dei migranti è quello geo-antropologico. È necessario
compiere una riflessione che vede, de facto, mutati sia nel numero che
nelle proporzioni i rapporti di relazione tra le minoranze linguistiche in
Italia.
In tale ambito, infatti, si è assistito alla nascita di “nuove” minoranze
che, ora, concorrono a comporre la popolazione italiana. Alcuni gruppi
sono, in alcune aree, assai più numerosi di quelli delle minoranze
linguistiche autoctone, cosiddette “storiche”, riconosciute e tutelate dalla
Costituzione. Si ricordano, a tale proposito, le minoranze di lingua
francese,
occitana,
tedesca,
ladina,
friulana,
slovena
presenti
principalmente lungo l’arco alpino. Le altre minoranze storiche, come
quella albanese, quella greca e, per finire, quella catalana, sono
distribuite in zone del territorio abruzzese, molisano, lucano, salentino,
calabrese, siciliano e sardo e, globalmente, non superano i 3.000.000 di
unità.
13
Il gruppo linguistico più numeroso, quello sardo catalano, ammonta a
1.300.000 unità; ad esso segue quello friulano, che ne conta 500.000 e
quello Sudtirolese, con 299.000 unità; la globalità dei restanti a stento
supera le 50.000 unità.
Tabella 1
Mappatura delle comunità linguistiche “storiche” in Italia
Potrebbe significare qualcosa questo mutamento delle proporzioni dal
punto di vista normativo e giuridico? E, se sì, un tale assetto sarebbe in
grado di determinare nelle comunità dei migranti, dei “nuovi residenti”,
l’intenzione di collocarsi in aree geografiche definite del territorio dando
così origine a istanze di tutela correlate a “tipicità nazionali” quali: la
14
lingua, gli usi e la religione? Appare dunque imminente una
riconsiderazione
dell’aggettivo
“storiche”
abbinato
all’espressione
“minoranze linguistiche”: la parola “storiche”, seppure evoca il senso del
“remoto”, non chiarisce affatto i parametri cui fare riferimento per
acquisire una tale qualifica.
Una domanda, rispondere alla quale potrebbe risultare utile al fine di
comprendere perché vi siano disparità di trattamento nei confronti dei
popoli migranti di un tempo e di quelli di oggi, potrebbe essere: “Cosa
hanno di diverso gli albanesi che migrarono verso la penisola italica
mille anni fa dai loro connazionali di oggi?”.
Parlando poi di contributo al “progresso della nazione”, la spinta
propulsiva d’incentivazione economica promana, almeno per il settore
del tessile, da una regione, da una zona ormai definita e circoscritta
sulla quale un popolo ha definito confini linguistici, culturali e ha
introdotto usi di tale peculiarità che, nella cartina che segue, potrebbe
aggiungersi un’ulteriore “area gialla”, magari di tonalità diversa (perché
non è propriamente catalana), in Toscana: la più italiana delle regioni
cinesi.
La Caritas/Migrantes, nel Rapporto precedentemente citato, fornisce
una mappa dei luoghi di provenienza dei migranti. Dei quasi 5 milioni di
stranieri –regolari- residenti in Italia, 1.373.000 sono comunitari con i
rumeni in testa (997mila), seguiti dai polacchi (112mila), dai bulgari
(53mila) e dai tedeschi (44mila).
In seno all’Unione Europea dunque, la “libera circolazione di persone e
merci” ha trovato una sua attuazione perseguendo spontaneamente il
15
tentativo di perequazione e l’osmosi prefissata. Emerge chiaramente
che la spinta al miglioramento economico è ancora il fattore più forte.
Tra i soggiornanti europei non comunitari (1.171.163), gli albanesi sono
i più numerosi (491.495), seguiti dagli ucraini (223.782), dai moldavi
(147.519), dai serbi e dai montenegrini (101.554). Vere e proprie
“minoranze” relative che in quanto a forza numerica raggiungono o,
addirittura, superano, quelle storiche. Se si vanno a prendere i dati
riguardanti le migrazioni extraeuropee, per quanto concerne il
continente africano, i marocchini risultano essere la prima collettività,
con 506.369 soggiornanti. Le altre grandi collettività provengono dalla
Tunisia (122.595), dall’Egitto (117.145), dal Senegal (87.311), e dalla
Nigeria (57.011).
La “conta dei migranti”, dunque, è un’operazione che apre a una
moltitudine di riflessioni sulla base delle quali non è più sufficiente
limitarsi a decidere quale sia l’ennesima emergenza nella quale farli
rientrare. Appare infatti necessario iniziare a pensare ai migranti in
termini di diritti e di garanzie che permettano loro la partecipazione alla
vita democratica dello Stato in cui esprimono le loro doti e potenzialità
umane. L’aleatorietà, la precarietà e l’incertezza a cui rimanda il rilascio
dei documenti di soggiorno e di permanenza non permette loro, dal
punto di vista psicologico, di sentirsi completamente inseriti sul territorio
ospite.
Le energie dei lavoratori migranti entrano a far parte di un processo
economico contribuendo, in modo sempre più importante, al progresso
e allo sviluppo del Paese che li ospita e, cosa ancora più importante,
16
concorrono al tentativo di salvataggio del sistema occidentale che
l’Italia, e l’Europa in generale, rappresentano.
Un sistema che ha consentito (se non favorito) che le zone di
provenienza dei migranti rimanessero in condizioni di svantaggio tali da
poter essere definite “terzo mondo”.
Un dato non trascurabile afferisce “Gli asiatici presenti in Italia che sono
924.443 di cui una buona parte cinesi (277.570) e filippini (152.382).”15
L’attenzione che verrà riservata ai cittadini cinesi, oggetto della ricerca,
sollecita attente riflessioni tra le quali la più importante è la comprovata
connessione
che
esiste
tra
il
lato
criminale
che
gestisce
l’organizzazione della migrazione, finalizzata allo sfruttamento degli
esseri umani in strutture produttive, e il potere politico cinese a livello
centrale. A questa, poi, vanno aggiunte altre due: la prima è che vi sono
motivi per ritenere che la comunità cinese in Italia sia in numero
grandemente superiore rispetto a quello ufficiale; la seconda è che, a
oggi, i cinesi sono ancora gli unici ad aver scelto il radicamento
territoriale su aree specifiche e circoscritte presumibilmente funzionali a
una strategia socio-economica preordinata.
2. La spinta al miglioramento e libero mercato
Analizzare lo spostamento umano a seguito dei flussi migratori sul
territorio italiano e le emergenze di extralegalità, di illegalità e di
criminalità che si sono sviluppate a margine delle migrazioni stesse o
attorno alle comunità etniche (autoreferenziali), nate dalla “diaspora
15 Fonte: http://www.programmaintegra.it/modules/news/article.php?storyid=6881
17
cinese” in Italia, può non essere sufficiente (Renzo Rastrelli). È
necessario, invece, comprendere, anche attraverso lo studio e la
valutazione di alcuni comportamenti (e di tutti gli elementi utili), quali ne
siano stati i prodromi e perché la situazione, da principio, sia stata
affrontata senza conferirle la richiesta attenzione; senza, cioè, alcuna
scientificità e lo scarso coinvolgimento delle istituzioni dell’Unione
Europea.
Per fare questo diventa imprescindibile cercare di comprendere se
l’origine del fenomeno migratorio (trasformatosi in appena un decennio
in un fenomeno di massa) non affondi le proprie ragioni oltre che
nell’impellenza, da parte dei soggetti migranti, di affrancarsi da
condizioni di emergenza umanitaria, anche nell’ascolto, nella ricettività
all’informazione, di cui ormai il mondo s’è dimostrato, essere capace.
L'immigrazione cinese in Europa è senza dubbio un fenomeno di
notevoli dimensioni che coinvolge, secondo certe stime, più di
settecentomila persone che, a loro volta, fanno parte di una
vastissima diaspora mondiale. L'immigrazione cinese inoltre si
distingue dalle altre che interessano i nostri paesi per alcune
peculiari caratteristiche, quali una particolare coesione ed una
solida identità etnica e culturale, accompagnata da una estrema
vitalità ed intraprendenza economica. Gli studi per ora fatti
intorno al fenomeno migratorio cinese sottolineano però una
difficoltà a determinare modelli o categorie per definire in
maniera univoca e generalizzata la diaspora cinese in Europa e
nel mondo. Essa assume forme e caratteristiche del tutto
particolari secondo i luoghi, mentre, per un altro verso,
sembrerebbe essere il diretto prodotto di una medesima cultura.
Il quadro storico in cui si colloca l'immigrazione cinese è
comunque ora profondamente mutato. […] Sotto questo punto di
vista la diaspora cinese assume tutto un altro significato rispetto
a quello che poteva avere nel secolo scorso o solo trenta anni fa.
18
I cinesi sparsi per il mondo non sono più i figli poveri di un paese
emarginato e disconosciuto, ma sono i rappresentanti di una
potenza emergente che sembra riaffermare i valori tradizionali
della
propria
civiltà
attraverso
uno
sviluppo
indubbio
e
sorprendente, in una cornice politico diplomatica fino a pochi anni
fa impensabile. 16
Nel recepimento, cioè, dei “segnali di bisogno” lanciati dall’Occidente
accogliendo in questo modo una domanda implicita e sottesa da parte
di un mercato, quello del lavoro, i cui costi stavano assumendo
proporzioni insostenibili per l’impresa. Un richiamo che in Italia è stato
lanciato (e quindi raccolto) da alcuni distretti produttivi più che da altri;
gli stessi che oggi si auto-definiscono “colonizzati”, e nei quali, oramai,
si fatica a reperire la traccia di tali bisogni nella memoria collettiva.
I cinesi, dunque, arrivano in Italia, e non lo si dovrebbe mai dimenticare,
quando la considerazione, la consapevolezza, del potenziale del loro
sfruttamento di una risorsa a “basso costo”, diviene evidente e va ad
inserirsi nel ragionamento comune che pone la logica del profitto al di
sopra dell’etica del lavoro. In un’epoca in cui al diritto del lavoratore si
sostituisce il diritto al profitto.
Erano i giorni in cui ero ancora arrabbiato, quelli a cavallo del
nuovo millennio, quando il fatturato della ditta si riduceva anno
dopo anno, mese dopo mese, e tornavo a casa pieno di rabbia
per le aste che i clienti ormai ci costringevano a fare per gli ordini
più grossi, senza più dare importanza alla qualità del tessuto,
all’affidabilità del servizio, alla puntualità delle consegne, al nome
dell’azienda e alla sua storia. […] Contava solo il prezzo, e sul
16 Renzo Rastrelli, Immigrazione cinese e criminalità Analisi e riflessione metodologiche, in Mondo
Cinese, www.tuttocina.it, 2012.
19
prezzo perdevamo sempre, perché c’era sempre qualcuno più
disperato di noi – a Prato sia chiaro, non a Wenzouh –,che
evidentemente si era fatto imbibire delle entusiastiche, perniciose
teorie per cui è sempre e solo il libero mercato a decidere qual è
il prezzo giusto di qualsiasi bene e così, perché l’ordine non si
può perdere, continuava a ribassare il prezzo […]. A quel punto
noi ci ritiravamo, perdenti, ma ancora e sempre convinti della
bontà del principio antico che dove non c’è guadagno, c’è perdita
17
sicura .
Edoardo
Nesi
racconta,
come
cronista
ma
con
uno
spunto
scientificamente valido, di un “suicidio collettivo” insito nelle scelte
strategiche della trasformazione di un modo d’intendere la produttività e
l’impresa.
[…] È così che si entra nella fase terminale della storia della
piccola
impresa
tessile
italiana,
quando
alla
fisiologica
concorrenza, alla sana lotta per il guadagno si sostituisce una
furibonda
battaglia
sopravvivenza
per
tiepida
assicurarsi
niente
più
e sempre più stretta;
che
una
quando gli
imprenditori si sentono consolati dal solo fatto di poter continuare
ogni giorno ad andare in fabbrica a fare il loro lavoro, di poter
continuare a dirsi e farsi chiamare industriali quando invece non
fanno altro che scimmiottare il loro recente passato, senza
accorgersi di avviare a somigliare agli zombi di Romero, quelli
che da morti continuavano ad andare al supermercato perché si
ricordavano di aver fatto solo questo in vita.18
Da queste righe, seppure letterarie, emerge schietta la trasformazione
di una classe imprenditoriale con una visione obsoleta dell’imprenditoria
responsabile di un distretto industriale
19
d’indiscutibile rilevanza
17 Edoardo Nesi, Storia della mia gente - Ed.: Bompiani Overlook, Milano 2012, pag. 62
18 Ibidem pag. 66
19 Distretto industriale, sistema produttivo costituito da un insieme di imprese, prevalentemente di piccole e
medie dimensioni, caratterizzate da una tendenza all’integrazione orizzontale e verticale e alla
specializzazione produttiva, in genere concentrate in un determinato territorio e legate da una comune
esperienza storica, sociale, economica e culturale.
20
economica, quello del tessile. La concorrenza cinese non ha dapprima
creato allarme, ma, anzi, ha invogliato, attratto e spronato la piccola e
media industria “a far profitto ad ogni costo” cedendo alla lusinga di
sostenere
scelte
di
produzione
e
occupazionali
improntate
a
sopravvivere facendo fronte a qualsiasi ribasso avesse proposto la
concorrenza.
3. Migrare: “Libertà di… Libertà da…”
La strutturazione della socialità cinopopolare in Italia, per come si è
compiuta, pone in evidenza aspetti d’intangibilità tra la comunità
autoctona e quella migrante. Nel corso degli anni sono sorti confini a
dividere ciò che, almeno in linea teorica e nel quadro della teoria
dell’integrazione,
non
avrebbe
mai
dovuto
essere
disgiunto.
Interrogandosi su quale sia la posizione del singolo migrante e del
gruppo etnico-sociale cui esso afferisce non si avranno risposte
univoche, poiché i fattori di incidenza sono tanti e tali, soprattutto legati
alla cultura di cui è latore il migrante, ne emergerà evidente la natura
soggettiva e, come tale, il dato sarà relativo. Preso di per sé, infatti, non
sarà indicativo di nulla, ma nella sua globalità assumerà l’importanza e
il rilievo di un indicatore. Il singolo caso contribuisce a chiarire quale
percorso un singolo abbia fatto per giungere al punto in cui si trova.
Alfred Marshall, fu il primo autore a studiare questa forma di organizzazione della produzione e nel
saggio Principles of economics (1890), ne delinea le principali caratteristiche. Uno degli elementi
fondamentali che definisce A. Marshall è il concetto di atmosfera industriale che si ottiene quando in un
territorio circoscritto lavora un numero molto elevato di soggetti che svolgono mestieri simili.
Secondo la teoria di Giacomo Becattini, ciò che unisce fortemente tra loro le imprese che appartengono
a un distretto industriale è dato dai rapporti professionali che si intrecciano alle relazioni sociali anche di
carattere informale e che facilitano la diffusione della conoscenza tra gli attori. Il d.i. per G. Becattini è
una rete complessa e inestricabile di economie e diseconomie esterne, di congiunzioni e connessioni di
costo, di retaggi storico-culturali che avvolge sia le relazioni interaziendali che quelle più squisitamente
personali (Il mercato e le forze locali: il distretto industriale, 1987).
21
Dall’osservazione dei comportamenti sociali degli appartenenti alla
comunità cinese o delle relazioni che questi gruppi sociali connotati
etnicamente intrattengono con la comunità degli stranieri a essi
contigui, si potranno acquisire elementi per cercare di comprendere se
vi sia, e quale sia, la percezione e soprattutto la consapevolezza di
essere parte di una alterità. In alcuni casi, infatti, si evidenzia nelle
condotte
tenute
dai
soggetti
coinvolti
la
propensione
(anche
inconsapevole) a una forma di esaltazione dello spirito di solidarietà e
dell’amicizia che si sostanziano nel guanxi. 20 Extralegalità e illegalità
legano il soggetto al gruppo sociale in cui si muove e si riconosce non
dandogli possibilità alcuna di scegliere come, e se, essere al di fuori
della Tong.
Nel fare questo e allo scopo di svolgere la disamina in modo quanto più
preciso e corretto possibile, l’occhio non deve trascurare di considerare,
quando si posa sulle realtà sociali etniche, che è indispensabile
indagare sulle radici culturali che il migrante porta con sé e dentro di sé
durante gli spostamenti. Si tratta di una dote che accresce la “relazione
di frontiera”21, cioè le dinamiche che si creano nelle aree dove comunità
eterogenee si incontrano.
Per comprendere ciò che oggi accade, interrogarsi sulla causa di una
migrazione non è mai sbagliato o superfluo; esaminando i molteplici
20 Letterale: solidarietà. Indica lo spirito solidaristico e di mutua assistenza che obbliga i connazionali a
una totale acquiescenza nei confronti dell’operato gli uni degli altri. Si fonda sulla volontà di privilegiare
gli interessi della comunità/famiglia rispetto alla legalità istituzionale. L’omertà e l’obbligazione
economica, ad esempio, ne sono elementi cardine.
21 Si veda Chiara Brambilla, Ripensare le frontiere in Africa - Ed. L'Harmattan Italia – 2009. Nel testo citato
viene ridefinito il concetto di frontiera come tertium genus. Un territorio ibrido di meticciato in cui si
dispiegano, coniugate, le potenzialità dei gruppi sociali umani che su di esso si incontrano dando
origine ad un gruppo sociale “terzo” originale nella propria ibridazione.
22
aspetti della migrazione cinese, nello specifico, si rinviene una costante
alternanza tra passato e presente.
Il passo più importante da compiere, perché si possa conferire al
prodotto finale un costrutto che non escluda i punti di vista di chi è parte
del fenomeno stesso, sia come migrante “attivo” sia come migrante
“passivo22”, è il considerare tale fenomeno da diversi angoli prospettici.
Interrogandosi sul perché un soggetto migra e su quali siano le ragioni
per cui un territorio diventa meta di migrazione non si può ignorare
un’interessante sintesi di vedute che potrebbe condurre, o introdurre, a
quella visione dualista della “libertà sociale” che Amartya Sen dà delle
“libertà individuali”. Una libertà di, positiva; una libertà da, negativa23.
Applicando la teoria di A. Sen all’esigenza del migrante, ne viene che
[…]Spostare l’accento dai beni primari e dalle risorse alle
capacità e alle libertà può determinare una differenza sostanziale
nell’analisi empirica delle diseguaglianze sociali. Questo può,
come si è discusso in precedenza, influenzare la valutazione
delle diseguaglianze dovute al sesso, alla classe, all’invalidità o
alla posizione delle persone. Poiché queste sono alcune delle più
scottanti questioni sociali nel mondo moderno, le concrete
differenze dovute a questo spostamento di prospettiva possono
22 Migrazione passiva: secondo chi scrive, la “migrazione passiva” non è un ossimoro come appare. In
esso si sintetizza il concetto di movimento statico inteso come l’attività stanziale e al contempo
intellettualmente dinamica, di chi riceve il migrante ed entra in contatto con ciò che questi porta con sé.
Il migrante passivo è la persona preposta all’accoglienza che, ricevendo la testimonianza di esperienze
facendole proprie, assommandole al proprio bagaglio esperienziale e, quindi, migra a sua volta pur
“stando fermo”. L’operatore d’accoglienza, relazionandosi con il migrante, riceve per osmosi,
informazioni
e si “contamina” degli usi e delle abitudini di chi è accolto. Lasciando allontanare le
certezze della stanzialità, anche se in modo passivo dovuto all’inamovibilità del ruolo e della posizione
fisica-geografica, migra anche chi non si muove. La migrazione di chi riceve è tanto importante quanto
quella del migrante attivo perché man mano che s’implementa di esperienze riflesse, oltre a
presupporre un atto d’apertura mentale progressivo e un pensiero dinamico, lascia l’assolutezza del
concetto ego-centrico come paradigma e, considerando l’esistenza come l’accettazione, attiva
un’accoglienza continua dell’altro (e della trasformazione del sé), accettando anche il modo “altro” di
vivere la stessa quotidianità.
23 Si veda Amartya Sen, Libertà individuale come impegno sociale - Edizioni Laterza, Bari 2007 p.9
23
rivelarsi niente affatto trascurabili. Questo spostamento è
rilevante anche in relazione anche ad altre questioni, legate alle
prime, quali la scelta dei criteri per stabilire l’esistenza di stati di
privazione o di povertà, ovvero, se si considera la povertà in
termini di basso reddito (una carenza di risorse) oppure di
insufficienza di libertà di condurre esistenze adeguate (una
carenza di capacità). Ad esempio una persona che non sia
particolarmente povera in termini di reddito, ma che debba
spendere gran parte di questo reddito per la dialisi ai reni, può
venire considerata <<povera>>, proprio a causa della poca
libertà che ha di conseguire apprezzabili functionings 24 . La
necessità di tenere conto di differenze nelle abilità di trasformare
redditi e beni primari in capacità e libertà è veramente centrale
nello studio dei livelli di vita, in generale, e della povertà in
particolare.25
Prendendo in considerazione proprio i due aspetti della Cina che
conosciamo, cioè la “Cina in Cina” e la “Cina in Italia”, la “teoria delle
libertà” in questo particolare frangente può essere d’ausilio nello
scegliere in quale direzione orientare per prima l’analisi.
Fondamentale, dunque, sarà cercare di capire quali siano stati i segnali
che la società italiana in generale – ma il settore dell’impresa, come
l’abbiamo appena sfiorato grazie a Edoardo Nesi, in particolare - ha
lanciato al mondo e come questi messaggi siano stati raccolti e
interpretati all’estero. In questo clima di mutamento degli assetti
economici ad esempio nel pratese di cui parla Nesi, gli interessi leciti,
quelli criminosi e quelli criminali evolvono solidalmente favorendo, così,
la coniazione di una complessa e articolata sintesi Italia-Cina.
24 Functioning: The action for which a person or thing is particularly fitted or employed. In italiano: rendere
funzionale attraverso la capacità di ottimizzare azioni creando sinergie tra le persone e predisporre
strategie per il raggiungimento di un obiettivo dato.
25 A. Sen, Libertà individuale come impegno sociale - Edizioni Laterza, Bari 2007, pag. 31
24
È fondamentale quindi ricordare che l’Italia, verso la metà degli anni
Ottanta dello scorso secolo, dava al mondo i primi segnali dell’odierna
crisi economica che, ignorati dal mercato nazionale, non sfuggirono,
invece, alla rilevazione degli analisti cinesi. Relativamente all’analisi del
fenomeno migratorio dalla Cina si stavano, quindi, gettando le basi di
quella che sarebbe stata successivamente indicata come una
penetrazione economica.
I primissimi anni ’80 furono caratterizzati dal persistere di quel
clima recessivo che aveva già caratterizzato l’economia italiana
degli anni precedenti. Il tasso d’inflazione su base annua
raggiunse nel 1980 un picco del 21,1 per cento, ed anche il ritmo
della sua successiva discesa fu più lento rispetto a quello di altri
paesi europei: nel 1983 esso era ancora attestato sul 15 per
cento. Anche il ritmo della crescita economica si presentava
tutt’altro che lineare: mentre nel 1980 era stato caratterizzato da
una sorta di mini-boom, il 1982 ed il 1983 si dimostrarono
decisamente due anni neri per l’economia, facendo registrare un
tasso di crescita negativo dello 0,5 per cento e dello 0,2 percento
rispettivamente. Bisognava riandare al 1975 per trovare risultati
peggiori.26
In quegli stessi anni, la prima metà degli anni Ottanta, la Cina del dopo
Mao processava se stessa e la Rivoluzione Culturale, ma allo stesso
tempo, con Deng Xiaoping, promuoveva la politica della porta aperta.
Una porta, però, che oltre a consentire l’accesso delle delocalizzazioni
occidentali, permetteva di esportare manodopera a bassissimo costo.
È in quegli anni che in Occidente approda un “nuovo” modo di fare
impresa e P. Ginsborg, nel suo saggio, lo riassume riconducendolo al
primo miracolo economico:
26 Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica - Ed. Einaudi, Torino 1989, pp.
546-547
25
Gli anni immediatamente successivi videro però una rapida ed
intensa ripresa in tutti i settori, stimolata dalla favorevole
congiuntura
internazionale;
questa
a
sua
volta
appariva
influenzata dal positivo andamento dell’economia americana,
caratterizzato da fenomeni come la discesa del tasso di
inflazione e l’afflusso di capitali esteri che venivano così a
finanziare il deficit del bilancio nazionale americano. Anche la
caduta del prezzo del petrolio giocò un ruolo cruciale. I tassi di
crescita migliorarono un po’ in tutta Europa, così come il volume
complessivo degli scambi commerciali.
27
Il volano dell’internazionalizzazione inizia dunque a muovere i propri
passi. La Cina, sino a ora rimasta in silenziosa attesa ai margini
dell’economia occidentale, si affaccia sui mercati con l’energia e la
forza proprie delle filosofie tradizionali più antiche, il confucianesimo e
lo suntzuismo
28
. Come predisse Mao, il prodromo delle crisi
occidentali, tra le quali la più evidente è senza dubbio quella
economica, sarebbe stata “l’annunciazione” del miracolo economico per
la paziente Cina.
L’arrivo in Occidente dei migranti cinesi e del nuovo modo di concepire
l’etica del lavoro che questi portano con sé entra in conflitto con la
disciplina giuridica e con le istanze sindacali a tutela del diritto dei
lavoratori. Compromesso, dunque, l’equilibrio tra le parti sociali, l’ordine
e la sicurezza pubblica ne risentono e le tensioni ideologiche sfociano
27 Ibidem, pp. 546-547
28 Sun Tzu fu filosofo e stratega del periodo “Primavere e Autunni” (722-481 a.C.). Il suo pseudonimo
letterario fu Ch’ang Ch’ing. Nato nello Stato di Ch’in, fu assunto da sovrano di Wu, il re He Lu. Autore
della citata opera “L’arte della guerra”, rimane uno dei più letti filosofi e strateghi, non solo militari, di tutti
i tempi. Di lui ci giungono gli scritti e i commenti noti e tradotti in letteratura.
26
in vere e proprie criticità sociali mutandole, talvolta, in derive razziste e
frizioni clausewtiziane29.
I cinesi consumano anche in tempo di crisi: dibattito infuocato.
I ricercatori spiegano a Prato come cresce il ceto medio orientale
in un’Italia che non è più attraente per chi sta a Wenzhou. Duro
botta e risposta tra Milone e l’imprenditore Angelo Ou.
L’assessore:
«La
vostra
ricchezza
nasce
dall’evasione».
«Offensivo parlare di mafia, una forma di criminalità per la quale
gli italiani sono famosi nel mondo».
L’assessore Milone e ha dato fuoco alle polveri. «Guardiamo
anche l’altra faccia della medaglia - ha detto Milone - Guardiamo
all’origine della ricchezza dei cinesi, in gran parte frutto
dell’evasione fiscale e contributiva». L’assessore ha citato
l’ultimo controllo della Finanza (31 lavoratori a nero, di cui uno
solo clandestino) e i risultati dello screening sulle ultime 100
aziende cinesi controllate: «Di queste, 46 hanno dichiarato un
bilancio in perdita, le altre utili di 10.000/12.000 euro. Se non è
evasione questa... Come fa un cinese che dichiara redditi per
5.000 euro a prendere a leasing auto da 40.000? Se mi presento
io mi danno una Mazda. Seguendo questa logica, anche le
nostre mafie producono ricchezza». […]
Un’affermazione questa che ha provocato la dura risposta
dell’imprenditore Angelo Ou. «Non capisco che cosa ci fa qui un
assessore alla Sicurezza - ha detto - E quanto ai finanziamenti,
stia tranquillo, le finanziarie non sono distratte, garantiscono solo
chi può pagare i prestiti ricevuti. E’ offensivo parlare di una forma
di criminalità per la quale gli italiani sono famosi nel mondo».
Quando l’imprenditore ha citato le parole del colonnello Marco
Defila della Finanza («I cinesi evadono quanto gli italiani»)
Milone ha abbandonato per protesta la sala, mentre il giornalista
29 Carl Phillip Gottlieb von Clausewitz, 1 giugno 1780 - 6 novembre 1831, Generale di Sato Maggiore
dell’esercito prussiano è autore di numerosi saggi di economia della difesa e del trattato “Vom Kriege”
(Della Guerra), attenta rielaborazione in chiave occidentale del pensiero filosofico dello stratega cinese
Sun Tzu.
27
Staglianò aggiungeva: «Le do una notizia: gli italiani sono grandi
30
evasori». Un fuori programma che ha rianimato il dibattito.
4. L’affermazione del consumo come valore universale
Due teorie del <<bisogno>> si contendono l’onore di fondare –
sul piano filosofico - la corsa allo sviluppo. La prima immagina
l’accrescimento delle soddisfazioni come teso verso un punto
finale
comunemente
designato
con
il
termine
di
<<abbondanza>>. Affermando che è possibile mettere fine alla
scarsità dei mezzi di sussistenza, questa teoria postula
tacitamente che:
a)
le
<<carenze>>
dell’esistenza
umana
si
riallacciano
essenzialmente alle necessità fisiologiche (alle quali si risponde
con la mediazione della produzione in senso lato);
b) queste <<carenze>> fisiologiche sono saziabili perché
<<finite>>. In questo modo è concepibile uno stato di saturazione
e l’accrescimento delle soddisfazioni tangibili può essere
considerato come un processo finito.
L’abbondanza, utopia vecchia quanto l’umanità, non implica
necessariamente la fine della storia perché, in linea di massima,
il progresso potrebbe continuare in rapporto ai bisogni che non
richiedono la <<risposta delle cose>> per esempio sul piano
della conoscenza pura. Il fatto che possano verificarsi delle
<<scarsità>> di ordine nuovo –estetiche, intellettuali- costituisce
certo un’obiezione valida ma non insormontabile.
La
seconda
teoria
è
quella
<<dei
bisogni
illimitati>>.
Contrariamente alla tesi precedente, essa contesta che il
progresso tecnico ed economico possa avere termine perché
considera i bisogni –e in particolare quelli che si appagano con
l’acquisizione dei beni di consumo o di potenza- come votati a
una estensione infinita.
Questa teoria spartisce con la tesi dello sviluppo finito solo il suo
principio di partenza - <<le carenze richiedono una risposta dalle
30 FONTE: IL TIRRENO dd. 4 ottobre 2013, autore: Paolo Nencioni,
http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2013/10/04/news/i-cinesi-consumano-anche-in-tempo-di-crisidibattito-infuocato-1.7861452.
28
cose>> - principio che essa del resto accentua con le possibilità
illimitate del perfezionamento umano. L’uomo si perfeziona nella
sua qualità di utente delle proprie tecniche.
31
Il contesto socio ambientale in cui l’essere umano era inserito sino alla
metà
del
secolo
scorso
registra
un
mutamento
importante,
proporzionalmente collegato alla rapidità con cui il progresso, inteso
come innovazione tecnologica, determina la trasformazione del suo
rapporto con la res, cioè con i beni.
Mutata la veste e il valore con i quali vengono percepiti proprio questi
ultimi essi assumono la valenza di strumenti non più al solo servizio
della persona, ma di validazione dell’uomo: complementi della vita in
grado di conferire all’utilizzatore lo status sociale.
Questa trasformazione, in appena dieci lustri, ha inciso così
profondamente
nella
vita
delle
persone
da
determinare
la
trasformazione dei valori sulla base dei quali si fondavano le dinamiche
relazionali
tra
gli
individui.
Una
società,
quella
dei
primi
cinquanta/sessanta anni del ‘900, in cui il lavoro, l’attitudine al sacrificio,
la frugalità e la cultura della fruizione e del consapevole rispetto della
“cosa” portavano i beni, ancorché non più impiegabili nell’accezione per
la quale erano stati prodotti, ad essere riutilizzati. L’obsolescenza della
cosa, dunque, non portava necessariamente a “rifiutare”, cioè a creare
un “rifiuto”, ma, piuttosto, stimolava al reimpiego, a non dismetterla, ma
anzi ad adattarla in una veste diversa per un nuovo scopo utile a
31 Peter Kende La crisi della società produttivistica - Rusconi Editore - Milano 1973, pp. 83-84
P. Kende, nato in Ungheria nel 1952 è laureato in sociologia e svolge la professione di avvocato. Autore
di numerosi saggi, egli fornisce una visione originale e rispondente della trasformazione della società
alla luce delle sollecitazioni e mutazioni che il mutare del modo di fare economia, impone.
29
sopperire a esigenze positive
32
, allontanando dall’individuo la
percezione di un impoverimento derivante dalla perdita di funzionalità
del bene de quo. Così tutti i beni riutilizzati venivano posti nuovamente
al servizio di quella religione laica e di quella ritualità che si sostanzia e
si riconosce nell’allocuzione di propensione al “benessere quotidiano”.
Per lo più si tratta di beni che il consumismo invece ha imposto di
dismettere e di processare come inservibili scarti al venir meno della
loro funzione. Un consumismo che non tocca solo le cose, ma che ha
investito anche le persone, assimilate sempre di più al concetto di bene
economico, un bene da sfruttare.
5. L’internazionalizzazione del debito. La crisi
L’attuale crisi economica e sociale non colpisce solo l’Italia ma, in
generale, tutti gli stati del “sistema occidentale”. Contrariamente a
quanto s’è inteso far credere da una certa teoria economica, la crisi non
è un prodotto inatteso, inaspettato e non preventivabile di un’ecatombe
che, nata dal nulla, è in procinto di travolgere tutto e tutti. Si tratta,
invece, del risveglio da un sogno, si tratta del crash di un modello di vita
che, fallendo, ha sprofondato un “sistema” finora riconosciuto come
universalmente valido. È crollato il simulacro di un benessere, fittizio al
pari del valore del denaro che l’ha prodotto.
L’economia, retta dall’indebitamento progressivo (e compulsivo), aveva
costruito su presunzioni di stabilità basate su un calcolo probabilistico
32 Si veda Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi - Ed.: Bollati Boringhieri, 2009; Usa e
getta: anatomia delle cose guaste. La follia dell’obsolescenza programmata - Ed.: Bollati Boringhieri,
2013.
30
lontano dal tener conto di variabili che potevano essere considerate
quali l’Asia come motore economico del Terzo Millennio. La struttura
che oggi è collassata seppellisce, insieme, il “sogno americano”, la sua
versione europea e le aspirazioni neocolonialiste occidentali.
Sembra ormai acclarato, dunque, che la crisi economico-finanziaria
nella quale è stato attratto l’Occidente sia la crisi delle Banche,
corresponsabili di aver creato – in funzione dell’utile - l’ologramma di un
mondo virtualmente opulento che, però, si regge sui debiti reali del
singolo. Quella odierna, infatti, non è la crisi del 1929. Sarebbe utile
prendere atto prontamente che nulla tornerà mai più come prima e che,
tanto meno, ciò potrà avvenire seguendo i diktat, le ricette, della finanza
mondiale che – lontana dal riconoscersi in errore - incentiva e spinge
sempre più a nuovi bisogni, nuovi consumi e, quindi, a contrarre nuovi
debiti. A nessuno verranno restituite “le meraviglie” cui la culla europea,
il brodo di coltura della sperimentazione neocapitalista e liberista del
consumismo e del sogno americano, s’è abituata.
Questa non è, dunque, una crisi ma è “La” crisi del sistema. È la prima
spallata tangibile a un costrutto complicato, a un intreccio (una trama),
che svela qualcosa di deteriore creato senza la reale attenzione a
sostenere l’esigenza di progresso, in funzione dell’elevazione del
benessere del Popolo. Dei processi migliorativi, del progressivo
sviluppo
e
dell’affrancamento
dalle
malattie,
dall’emarginazione
culturale e dalla povertà non v’è traccia: al contrario v’è attenzione ad
attrarre l’uomo/consumatore nell’universo ludico del “bisogno/desiderio”
creato unicamente per sostenere i “castelli di carta (moneta)” virtuale.
31
Quello
imbastito
dalla
finanza
mondiale
è
tanto
più
simile
all’enfatizzazione del gioco d’azzardo e di abilità “delle tre carte” che a
una strategia sincrona di economia liberale. Una dimostrazione di
abilità, fraudolenta, che fonda la propria essenza sulla capacità di
attrarre a sé lo sprovveduto e, con la rapidità del gesto della mano che
riesce a ingannare l’occhio, a fagocitarlo nel sistema. Un gioco di
velocità di spostamento che, in questo caso, anziché essere inscenato
da picari di strada, è sostenuto e legittimato dai Grandi della Terra
(autoproclamatisi tali) e consacrato dalla finanza mondiale. Le vittime,
in questo caso, sono unicamente i consumatori: una categoria che
include ciò che resta delle persone masticate dal mondo dei media e
delle pubblicità e nella quale si afferma l’illusione di essere sempre gli
unici ad aver individuato (e identificato) la carta vincente, cioè il sogno
più vantaggioso da perseguire e sul quale puntare per “vincere sul
banco” della vita.
Gli
accattivanti
imbonitori
del
marketing,
personificazione
del
capitalismo neoliberista, promuovendo l’internazionale del debito
(principalmente le banche, indiscusse sovrane del credito al consumo),
hanno reso possibile l’affermazione del consumismo e del credito al
consumo
sull’altra,
e
ben
più
virtuosa,
internazionale,
quella
dell’economia sostenibile, dell’etica del lavoro, della solidarietà, della
reciprocità e della “fratellanza”.
Stefano Zamagni33, partendo da questo assunto, individua nel principio
di reciprocità - per cui io ti do liberamente qualcosa affinché tu possa a
33 Si veda Stefano Zamagni, Economia ed etica. La crisi e la sfida dell'economia civile - Ed.: La Scuola,
2009
32
tua volta dare, secondo le tue capacità, ad altri o eventualmente a me la chiave di volta di un nuovo sistema economico, basato sulla cultura
della fraternità, capace di porre al centro, e come fine dell'attività
produttiva, l'uomo. Diventando, quindi, garanzia di una convivenza
armoniosa e capace di futuro che, seppur afferisce anch’esso al mondo
della finanza, lo fa latamente e con opportuni distinguo (Banca Etica,
Commercio Equosolidale).
L’economia occidentale, e quella italiana in particolare - come si evince
dall’analisi storica di P. Ginsborg34 - da quasi tre decenni si è avviata,
sino poi a piegarsi (ma per non rimanere esclusa dal nuovo mercato),
alle logiche della globalizzazione dei consumi. Nell’uniformarsi al
generale trend che vede consolidarsi la costante e progressiva
attitudine
a
far
migrare
il
complesso
produttivo,
trova
nella
delocalizzazione l’unica via percorribile per aumentare sia la produzione
di beni sia i margini di profitto non senza, però, andare a intaccare la
solidità delle famiglie minando la stabilità del mercato del lavoro interno
e la stabilità sociale.
Così facendo l’impresa “migrante” percorre, verso Est, le strade che i
beni di larga diffusione prodotti sui mercati vantaggiosi ripercorrono
nella direzione opposta per essere immessi in un mercato dove i
consumatori, per fruirne, devono ricorrere al credito bancario,
all’indebitamento.
Spesso si tratta di beni di largo consumo e di facile reperimento, ma
voluttuari.
34 Ibidem
33
In seno a taluni gruppi sociali, poi, tali beni assumono una valenza
ulteriore e vengono indicati, dagli stessi consumatori, come “beni di
riferimento” 35. Il mero poterne fruire, cioè, attribuisce al soggetto che ne
è possessore un potere sociale: quello legato alla propria immagine.
Seppure non abbiano nulla a che vedere con i beni di riferimento
propriamente detti, quelli del paniere, e nemmeno con lo studio dei
prezzi al consumo, per i quali il vocabolo “riferimento” venne
inizialmente adottato e impiegato, si tratta di oggetti cult, destinati a
introdurre accreditando e validando il soggetto che ne è possessore in
un determinato ambiente: all’interno della propria tribù. Accreditando,
cioè validando, l’individuo presso il gruppo sociale del quale egli è
parte, o ambisce a divenire parte, il bene36 esaurisce la propria funzione
ed è, paradossalmente, indifferente se esso realmente abbia una utilità
o meno. Anzi, la brevità della vita per cui l’oggetto di consumo viene
concepito, tiene conto, verosimilmente, anche della “brevità” della sua
funzione37. Si apre così la via a feticci38, a simulacri per lo più inutili ma
sempre nuovi, in grado di sostenere, di sorreggere, non l’utilità della
35 Secondo il linguaggio gergale del consumatore, con l’accezione “bene di riferimento” viene indicato quel
particolare bene deputato a fornire la necessaria “validazione sociale” al soggetto che ne è possessore.
Di “riferimento” (rispetto al mercato cui un soggetto si rivolge) lo sono quegli oggetti cult votati non ad
assolvere una funzione di utilità in particolare, ma, quali feticci, il cui compito è unicamente quello di far
sì che il possessore sia riconosciuto come “adatto” e, quindi, una persona alla quale riferirsi quando la
finalità è quella di appartenere a un gruppo determinato in cui aspirare a vivere viene considerato un
“valore” o un obbiettivo da perseguire (Z. Bauman – “Consumo, dunque sono” Ed. Laterza).
36 Il breve termine di durata e funzionalità, vuole che il bene deperisca (o passi “di moda” risultando
inadeguato alla funzione a cui lo si destina) divenendo rapidamente obsoleto. Per conseguenza,
attraverso la politica della “obsolescenza programmata”, nel creare il bene da commercializzare se ne
sancisce in re ipsa già la durata e la caducità e se ne programmano le avarie stabilendo una strategia di
mercato sui pezzi di ricambio e sulla definitiva cessazione di attività dell’utensile.
37 Si veda S. Latouche, Usa e getta: anatomia delle cose guaste. La follia dell’obsolescenza programmata
- Ed.: Bollati Boringhieri, 2013.
38 Si veda Z. Bauman, Consumo, dunque sono – Editori Laterza, 2008.
34
funzione, bensì la posizione del soggetto, riconosciuto e socialmente
validato, facendolo muovere agevolmente nel contesto da questi
ritenuto qualificante.
In una società in cui l’apparire è diventato sinonimo di esserci a dispetto
dell’essere, (il “giro di valzer” vorticoso del quale qui si delineano i tratti,
e a cui) chi vuole essere “IN” deve necessariamente adattarsi, deve,
per sostenersi, poter contare su una progressiva disponibilità di denaro.
Tale denaro può anche non essere garantito dal reddito reale, cioè dai
salari in senso stretto, ma dall’accesso a linee credito (di debito, in
realtà) create e sostenute dagli stessi produttori di feticci.
Questo meccanismo è ritenuto, oggidì, l’espressione massima di
democrazia intesa come la possibilità di un coinvolgimento trasversale,
astratto, generalizzato che consente a “chiunque”, cioè alla generalità
dei partecipanti alla società, di potersi indebitare e di disporre di somme
in denaro (virtuale) indispensabili a comperare, a consumare. Il
consumatore viene così coinvolto nella spirale di un indebitamento
compulsivo, progressivo, ma assolutamente “vero”.
Le persone dell’era del “mercato globale” hanno sempre più desideri
indotti e il crescendo di questi, vissuti come necessità, si amplifica nella
misura in cui la possibilità di esaudirli si esaurisce a causa della scarsa
liquidità.
35
CAPITOLO II
LA FABBRICA DEI DESIDERI TRA ORIENTE ED OCCIDENTE
1. Il controllo sociale: il problema nel problema
Pressione, compressione e repressione non sono vocaboli e concetti
che dal passato si riaffacciano. La creazione di nuove strategie di
controllo sociale rappresenta il segnale distintivo della forma di
esercizio di un potere che marchia e contraddistingue l’attuale classe
politica. Impaurita e, talvolta, incapace di scelte coraggiose attraverso le
quali ricondurre l’economia alla realtà, a qualcosa che sia, in effetti,
compatibile con le esigenze dei popoli che si vedono da questa
rappresentati, essa affida e si affida al controllo sociale per sconfiggere
il dissenso.
Oggi è sempre più importante comprendere come le forze
economiche di un Paese si organizzino per fare dell'informazione
uno strumento di sviluppo economico e di difesa dei suoi
interessi vitali, tanto più che la crisi economica in cui siamo
entrati rischia di accrescere, ancora di più, la lotta per l'accesso
ai mercati mondiali (E. Denécé, Direttore CF2R).
Il potere di cui Denécé parla e al quale ci si trova di fronte, infatti, è un
potere molto forte, al quale non corrisponde un’ideologia politica (da
combattere, abbattere o sostenere), ma è una forza che proietta lo
scenario politico - sociale nel passato, facendo sì che i soggetti che
esercitano il potere riprendano a farlo come se questo fosse loro per
“diritto”.
Il
controllo
delle
menti,
attraverso
il
controllo
dei
mezzi
di
comunicazione di massa, è l’indicatore dell’annunciata deriva di
36
autoritarismo ai quali i fatti che sconvolsero New York e il mondo nel
2001 hanno introdotto. A protezione del sistema globale non vi sono
scelte d’equità sociale, ma impennate autoritarie attraverso le quali
gestire l’omogenea distribuzione dell’impoverimento che “deve essere
accettato” solo perché è un “fenomeno globale” al quale sembra
nessuno possa, o debba, sottrarsi.39 Tutto ciò accade in nome di un
supposto e asserito interesse condiviso, quello del sostegno al P.I.L.40,
legittimato da un elettorato stanco e indolente, ammaestrato comunque
a sostenere l’economia del debito (a ogni livello perché da questo
dipende l’illusorietà del benessere pubblicizzato).
Il potere legittima se stesso e favorisce, seppur formalmente
condannandolo, lo sfruttamento dell’essere umano dando origine, così,
all’evidenza che ormai un uomo non vale più del posto di lavoro che lo
occupa.
2. La fabbrica dei desideri
Nell’era dell’assolutismo delle banche internazionali d’affari non si
ignora, così come nell’attuazione delle strategie manageriali, che la
delega conferita ai governi e l’autorità di esercitare il potere provengono
39 Si veda David Lyon, Massima sicurezza - Ed.: Cortina Raffaello, 2005
40 Il Prodotto Interno Lordo (PIL) o, in inglese, GDP (Gross Domestic Product) rappresenta il valore
complessivo dei beni e servizi finali prodotti all'interno di un paese in un certo intervallo di tempo,
generalmente l’anno). Il PIL può essere anche definito come il valore della ricchezza o del benessere di
un paese. Si parla di Prodotto in quanto il PIL misura il valore dei beni finali prodotti, Interno perché la
definizione e il calcolo del PIL prende in considerazione il valore finale dei beni e dei servizi prodotti
internamente ad un determinato paese (indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce), a
differenza del Prodotto Nazionale Lordo (PNL) che in parte è conseguito all'estero. Del PIL fanno parte i
profitti realizzati dalle imprese straniere in Italia, viceversa i profitti realizzati dalle imprese italiane
all'estero fanno parte del PNL italiano e del PIL dello Stato in cui hanno sede tali imprese. Il termine
Lordo invece fa riferimento al fatto che il PIL è al lordo degli Ammortamenti.
37
da quello stesso popolo sul quale la pressione applicata è tanto
semplice, quanto funzionale, a tenere alti i desideri.
Avere una collettività di consumatori ai quali donare il desiderio di nuovi
bisogni, di nuovi balocchi, è la missione commerciale che, trasformata
ed elevata, diviene il progetto politico dello Stato.
Dietro l’incentivo al debito (si pensi agli incentivi per la rottamazione
degli autoveicoli) c’è una policy, che punta a far ricadere il peso della
relazione
importante
che
consegue
al
rapporto
tra
“indebitamento/impoverimento” (e che coinvolge il creditore), e che
impedisce, a chi dovrebbe subire il controllo, di essere controllato da
quella base che estende il proprio consenso, non in ragione di un
risultato positivo generale ma sulla scia dell’appagamento del desiderio
particolare - meno remoto e più futile – e che la “include” in un contesto
che la rende involontaria complice.
Il potere derivante da questo modo di intendere la politica è
indipendente, autoreferenziale, e si sostiene (come il mercato del quale
è
promotore
e
rappresentante)
erodendo
e/o
consumando
la
democrazia e la legalità, cioè compiendo la trasformazione delle leggi
sgradite, o inadatte, al disegno condiviso di globalizzazione in “rifiuti
normativi speciali”.
Le bolle di dissenso esplodono e determinano così detonazioni non
piccole, anche se è proprio questo che descrivono gli strumenti di
informazione di massa, all’esclusivo scopo di screditarle: si vuole fare
credere che siano indice di un’insoddisfazione sociale marginalizzata e
38
derisa, perché minoritaria, che increspa appena la superficie del
magma,.
A sottomettere l’Occidente civile, democratico e consumista, a
reprimere il dissenso e a quietare gli animi, non sono più necessarie le
strutture di controllo sociale proprie del secolo scorso, non sono più le
polizie segrete e l’ascolto occulto delle conversazioni intra moenia a
opprimere, reprimere e disperdere le folle. Oggi basta il lancio
pubblicitario del nuovo smart phone (il cui acquisto è prefinanziato dal
debito globale) ed ecco che la pace sociale torna, il dissenso scema
dissolvendosi nell’unico desiderio condiviso.
L’unico moto di libertà che ancora rimane vivo e riesce a unire
trasversalmente il popolo è il desiderio (che ormai è divenuto “bisogno”)
di possedere per essere posseduti.
3. Possedere ed essere posseduti
In un contesto moderno di ricerca sociale non bisogna aver timore di
forzare la metodologia classica ma bisogna cercare di attingere, anche
da “fonti” non propriamente scientifiche, le tracce e gli elementi utili a
comporre il costrutto dell’analisi.
Ad esempio nella rilettura, in chiave scientifica, del saggio di
investigazione giornalistica di Tiziano Terzani, La porta proibita, si
possono cogliere elementi utili a stigmatizzare la nuova relazione
biunivoca tra Occidente e Oriente. Ponendo l’accento su evidenze
sottovalutate e per la loro natura e per il taglio con il quale sono state
39
divulgate, si comprende come anche esse contribuiscano a comporre
un quadro esemplificativo assolutamente pertinente e appropriato.
L'economia dovrebbe essere fondata sulle esigenze dell'uomo.
L'economia dovrebbe essere fatta non per i criteri economici ma
per l'uomo. La crescita!? Ma siamo sicuri che il progresso deve
essere solo crescita? O non sarebbe molto meglio arrivare ad
una situazione in cui abbiamo poco ma il giusto. Voglio dire, se ci
rimettiamo a pensare ciò di cui veramente abbiamo bisogno, non
è quello che l'economia di oggi ci dà. Se tu pensi, oggi
l’economia è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi
spaventosi per produrre delle cose per lo più inutili, che altri
lavorano a ritmi spaventosi, per poter comprare, perché questo è
ciò che dà soldi alle società multinazionali, alle grandi aziende,
ma non dà felicità alla gente.41
L’uomo,
l’ambiente
nel
quale
si
muove,
sono
cambiati.
Progressivamente, ma non lentamente, il millantato benessere ha
trasformato anche i suoi desideri sino a portarlo ad avere sempre
maggiori appetiti, fino a far sì che egli sentisse in sé impellente,
irrinunciabile, “il bisogno dei propri desideri” e la necessità di
desiderare.
La rivoluzione neo-liberista42 che è seguita, a partire dagli anni ‘70 del
‘900, al capitalismo produttivista43 proprio della prima metà del secolo
41 Tiziano Terzani, La porta proibita - Ed.: TEA, Tascabili degli Editori Associati –IV Edizione– Milano 2010
42 “Il neoliberismo è una costola del capitolo globalizzazione, incredibilmente sottovalutata nella storia
contemporanea. Nei libri di storia, specialmente nei manuali scolastici, la questione è trattata en
passant riferendosi a Ronald Reagan e Margaret Thatcher: i leader conservatori che ai primi anni
ottanta hanno introdotto, in politica interna, radicali riforme in senso liberista. In realtà i protagonisti di
questa storia, dalle radici profonde e dagli effetti globali, sono molti di più, anche se meno “popolari”. La
storia del neo-liberismo nasce come opposizione al meanstream degli anni d’oro ’50 -‘70, che era, come
abbiamo visto, profondamente ispirato alle teorie economiche di Keynes. Malgrado la crescita record
delle economie una piccola cerchia di professori e studenti sviluppò una nuova dottrina anti-keynes. Il
centro di questa corrente di pensiero fu l’Università di Chicago e il grande ideologo fu l’economista di
scuola austriaca Friederich von Heydek. Le sue lezioni propugnavano un mondo ideale totalmente
regolato dalle leggi economiche, senza interferenze da parte dello stato. Un mondo ovviamente irreale;
nella realtà invece milioni di persone in Europa e in America, negli anni ’50 poterono curarsi
40
scorso, ha modificato, travolgendoli, gli stessi punti cardine del principio
economico liberale.
Il modo di intendere il mercato ha fatto sì che si passasse da un
capitalismo industriale, spiega Kende nel saggio La crisi della società
produttivistica44, a un capitalismo “manageriale azionario”, il cui unico
fine è di creare valore a breve periodo per gli azionisti e che ha
cambiato la società condensando, negli ultimi trent’anni, delle
gratuitamente, percepire reddito anche in situazioni di malattia, infortunio, ferie, disoccupazione;
accedere a una pensione di anzianità; usufruire di strutture decenti per l’istruzione, l’assistenza
all’infanzia; usufruire di efficienti sistemi di trasporto ferroviario, strade nuove e scorrevoli, quartieri
finalmente vivibili…ecc. ecc. Le economie “aiutate” dai capitali statali, spesso da aziende
nazionalizzate, fornivano servizi essenziali a prezzi irrisori: luce, acqua, gas diventarono comuni nelle
abitazioni delle principali cittadine dei paesi industrializzati. Tutti gli indici economici e sociali segnavano
progressi più o meno sensibili. La ricchezza complessiva aumentava e – in parte – questa crescita era
condivisa dall’intera popolazione. […] La ricetta, che passerà all’opinione pubblica come neoliberista,
era presentata da Friedman e i suoi seguaci come una vera e propria “scienza esatta”. Qui sta il
clamoroso successo di una pratica economica disastrosa a qualunque verifica empirica: presentare con
l’aurea della “imparzialità scientifica” modelli matematici del tutto privi di coerenza con la realtà, ma di
straordinario beneficio per i settori più dinamici della finanza e della imprenditorialità mondiale […].”
FONTE: http://storiacontemporanea.eu/globalizzazione/il-neoliberismo
43 “Si tratta di una sorta di ‘mutazione genetica’ del capitalismo manageriale, che, da produttivista qual era
dal secondo dopoguerra fino, in media, agli anni Ottanta del Novecento, si è trasformato in capitalismo
azionario manageriale. Da un punto di vista meramente formale, la mutazione parrebbe anodina. Ma
basti paragonare le due strutturazioni per rendersi conto che così non è. Il capitalismo manageriale
produttivista contribuì all’affermazione del Welfare State, dunque ad una perequazione distributiva del
prodotto interno lordo delle democrazie occidentali, incardinato sull’arricchimento della classe media
(anche perché in qualche modo condizionato – sostiene il Gallino – dallo spauracchio collettivista al di
là della Cortina di ferro). Ciò fu possibile grazie al cosiddetto compromesso fordista, ovverosia la
realizzazione di prodotti sempre più concorrenziali a prezzi sempre più bassi, grazie ad
un’organizzazione del lavoro sempre più efficiente. La qual innovazione implementò circoli virtuosi per il
reddito e l’occupazione. […] il circolo virtuoso scricchiolò allorché si dovette fronteggiare una
congiuntura negativa mondiale (dalla seconda metà degli anni Settanta in poi) che produsse la drastica
diminuzione dei tassi di profitto. Tra le cause preminenti viene indicato […] l’esaurimento delle basi
tecnologiche ed economiche del modo di produzione fordista (pag. 98). Ed ecco che allora, nelle aule
delle Business School, in specie anglosassoni, venne creato pian piano l’antidoto: il pensiero
neoliberale, che si basava su una radicale inversione della destinazione non solo dei profitti aziendali,
ma anche dell’intera politica del management. Fra i nuovi "guru", basti ricordare gli economisti Milton
Friedman e Franco Modigliani. Nacque così il nuovo credo ed il nuovo imperativo categorico: la teoria
della massimizzazione di valore per l’azionista.”
FONTE: Luciano Gallino, L’Impresa Irresponsabile, Edizione Einaudi, 2005
44 Si veda P. Kende, La crisi della società produttivistica, Rusconi Editore, Milano, 1973
41
trasformazioni che non reggono il paragone con quelle lente e diluite
(ma più solide) che si erano succedute nei secoli precedenti.
Il tempo, sufficiente e idoneo, a che le strategie mediatiche delle
televisioni “libere”, dei media e del web, andassero a insinuarsi nelle
case prima, nella quotidianità e nelle coscienze di un popolo in
trasformazione poi, ha inciso così profondamente da modificare non
solo, e non tanto, il modo di trasmettere l’informazione, ma anche la
capacità di riceverla, di comprenderla e di assimilarla. In questo breve
lasso di tempo, quindi, sono intervenuti fattori in grado di modificare e
stabilire, secondo nuove linee guida, i ruoli sociali dell’individuo sino a
portarlo a un grado di condizionamento tale che ha finito per generare
una società liquida ed orientabile nella percezione dello stesso
“bisogno”.
Zygmunt Bauman, nel saggio Consumo, dunque sono, coglie e
stigmatizza tutte le fasi del processo di opacizzazione e sostituzione
della capacità critica soggettiva (alla quale l’uomo si riferisce
consapevole dei propri bisogni e desideri per compiere le proprie
scelte) con una che è artificiale, collettiva, generalista e la cui
veicolazione è affidata ai media, veri titolari del “potere” attraverso
l’orientamento delle coscienze.
È in tale quadro, dunque, che si compie la trasformazione ultima per cui
un popolo di utenti e di clienti, diventa la massa indistinta e acritica di
produttori di consumo: generatori di rifiuti.
Assolto
il
ruolo
d’incentivazione
che
il marketing
pubblicitario
(trasversalmente) spalma sui mezzi di comunicazione, dalla televisione
42
al web, si è pronti a riconoscere, accresciuto e rafforzato, il desiderio di
affermazione di questo uomo nuovo proteso verso il “possedere” un
numero sempre maggiore di beni, irrinunciabili feticci di validazione
sociale, simbolo più che del sé, del liberismo consumista occidentale.
Attraverso l’adorazione di “nuovi oracoli” che rivelano le nuove
tendenze e santificano icone cult, avviene la trasfigurante validazione
sociale dei modelli stereotipati di libertà (essenzialmente libertà di
possedere) che i “media” hanno introdotto, sostituendoli al pensiero
critico che conduce all’essere.
Se ci si fermasse a questa considerazione e non si facesse attenzione
al lessico fin qui usato, si potrebbe dire di essere innanzi all’ormai
abusato dilemma tra avere o essere 45 , ma non è così. L’annoso
45 Erich Fromm, Avere o essere? - Ed. Mondadori, Milano 1977. “Avere ed essere” sono modalità
esistenziali, entrambe sono potenzialità della natura umana: alla base della modalità esistenziale
dell'avere vi è un fattore biologico, la spinta alla sopravvivenza (pag.134), alla base della modalità
esistenziale dell'essere c'è il bisogno di superare il proprio isolamento, che è una condizione specifica
dell'esistenza umana. A decidere quale modalità avrà il sopravvento per la maggioranza è la struttura
sociale con le sue norme ed i suoi valori (pag.141). Il carattere sociale fonde la psiche individuale e la
struttura socioeconomica (sì che gli individui "desiderano fare ciò che devono fare", pag.176). I
mutamenti solo psichici sono limitati alla sfera privata e sono inefficaci come i mutamenti economici, se
non riguardano anche il carattere. La struttura caratteriale dell'individuo costituisce il suo vero essere,
mentre il suo comportamento può essere solo una maschera, un'apparenza (pag.130; il fanatismo,
osserva l'Autore, talvolta serve a coprire impulsi opposti, pag.116). Le strutture socioeconomica,
caratteriale, religiosa sono inseparabili (pag.182); la rivoluzione francese non fu solo politica ma anche
religiosa (pag.189). L'uomo, osserva Fromm, è come un recipiente che mentre lo si riempie,
ingrandisce, così che non sarà mai pieno (pag.93), il nostro io è alla base del nostro sentimento di
identità e comprende sia qualità effettive (corpo, possessi, cognizioni) che fittizie (immagini di noi,
pag.100). La determinazione istintuale minima che caratterizza la specie umana rende necessari i
sistemi referenziali di orientamento (mappe) e gli oggetti di devozione (mete, pag.180), mappe e mete
che peraltro non sono mai del tutto esatte e mai del tutto sbagliate (pag.181): ogni cultura (passata,
presente, futura) comprende sia i mezzi di orientamento che gli oggetti di devozione, vale a dire una
religione. L'atteggiamento religioso è un aspetto della struttura caratteriale (pagg.177-178). La libertà
umana è limitata dal nostro io, dai possessi e dalle opere; la libertà come condizione per la creatività
comporta non avere legami che impediscono la propria autorealizzazione (pag.92). L'Autore distingue
due forme di essere, una contrapposta all'avere, l'altra all'apparire (pag.43), e distingue l'avere
esistenziale (beni necessari per soddisfare bisogni) dall'avere caratteriologico, che è socialmente
determinato ed in conflitto con l'essere (pag.117). Il possesso è un momento transitorio del processo
vitale (pag.107), nella storia umana la proprietà privata costituisce un'eccezione e non la regola; Fromm
43
dilemma si esaurisce nei tecnicismi del lessico giuridico, che tecnicismi,
poi, non sono perché rappresentano la sostanza, la differenza di
approccio alla posizione giuridica del bene, della res, di cui il
possessore ha la detenzione. Dato che il concetto di “avere” porta insito
in sé quello della proprietà sul bene nei confronti del quale viene
esercitata la potestas, si disquisisce ora se, con essa proprietà, s’apre
nei confronti di chi è titolare di tale diritto la possibilità di esercitarvi il
potere proprio del dominus. L’acquisto del bene di validazione sociale,
in questo caso, non avviene attraverso l’investimento di una somma di
denaro risparmiata, cioè di un capitale devoluto all’accrescimento di
una condizione di benessere commisurata alla possibilità finanziaria,
ma, viceversa, attraverso l’assunzione di una posizione debitoria; per
dirla in gergo di mercato: aprendo una linea di credito al consumo. Il
possessore 46 , asseritamente proprietario del bene, s’intesta in realtà
unicamente il contratto di mutuo47 utile all’eventuale acquisto del bene,
ma che lo legherà a una agenzia di credito (bancaria o finanziaria) che
elenca altre forme di proprietà: autoprodotta, personale o funzionale, limitata, comune (pag.98). La
stragrande maggioranza è esclusa dalla proprietà dei mezzi di produzione (capitali e impianti), molto più
diffusa storicamente è invece la proprietà patriarcale, che è una proprietà non su cose ma su esseri
viventi.
46 Possesso: il vocabolo, nella sua accezione giuridica, designa un potere “di fatto” da esercitare sulla cosa
(res) che si manifesta in un’attività corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale minore. Il
possesso è una situazione di fatto che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della
proprietà o di altro diritto reale, in una parola, tutelando e attribuendo valore giuridico alla detenzione.
47 Il mutuo è un contratto specifico, poiché definito da una norma del Codice Civile. L’art 1813 c.c.. infatti
dispone che: “il mutuo è il contratto col quale una parte (mutuante) consegna all'altra (mutuatario) una
determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l'altra si obbliga a restituire altrettante cose
della stessa specie e qualità”. Mutuo è il termine giuridico usato per indicare qualsiasi forma di
“prestito”, sia esso di piccola entità sia per l’acquisto di un immobile. Tale descrizione include qualsiasi
tipo di debito, anche se solitamente l'oggetto del contratto è il denaro. È intuibile come il mutuo sia il
principale contratto di prestito utilizzato ai nostri giorni, poiché permette di trasferire soldi da un soggetto
a un altro, al fine di consentire alla persona che chiede il prestito (mutuatario) di godere dei benefici del
poter acquistare ciò di cui ha bisogno. FONTE: http://www.studiocataldi.it/mutui/il-mutuo.asp
44
apre in suo favore una linea di debito. L’accesso al debito, quindi, non
legittima, affatto il possessore del bene a dirsene proprietario, anzi,
dopo aver creato l’illusorietà nel possessore di essere il dominus
dell’oggetto, alla prima rata di mutuo scaduta e non assolta ecco che il
mero possesso del bene conduce a prendere atto che da “possessore”
(non proprietario) a “esecutato” il passo è assai breve.
Una considerazione a margine va comunque fatta e afferisce l’angolo
prospettico dal quale il consumatore osserva il mondo, l’ambiente nel
quale si muove e nel quale, migrando, tende a inserirsi. Appare del tutto
inverosimile, infatti, che la finzione, cioè la realtà virtuale alternativa e
rappresentata dai format televisivi o dai giochi che solcano l’oceano del
web, possa essere un modello (o “il” modello) da emulare per
riconoscersi validi. Il mondo su cui l’occhio si posa è filtrato dai media48;
le sue forme, le proporzioni, hanno la consistenza che avrebbero se lo
si contemplasse attraverso una lente deformante, un filtro che
impedisce di distinguere la nitidezza che si pone come confine tra la
realtà e la finzione.
Il panorama descritto nelle considerazioni che precedono non ha la
presunzione di spiegare come la società si è trasformata, ma si prefigge
lo scopo di imporre una riflessione e di metterne in evidenza determinati
aspetti contraddittori. Lo studio di tali elementi diventa imprescindibile
pensando a quante persone sono state asservite alla bontà del
supposto progresso del modello occidentale.
48 Mass media, l'insieme dei mezzi di comunicazione e di divulgazione (web, televisione, cinema, radio,
giornali, manifesti) che rivolgono al pubblico messaggi e informazioni.
45
Ci accingiamo quindi a indagare, per comprendere come taluni
comportamenti che sino a pochi decenni fa venivano descritti e indicati
come socialmente inaccettabili per l’indice di inciviltà giuridica e barbara
testimonianza di una involuzione del rapporto dell’uomo con il lavoro,
siano oggi accettati, se non addirittura incoraggiati, poiché funzionali al
mantenimento di uno status, di un modello di società, al quale non si
vuole rinunciare.
Ecco come l’ologramma, il paesaggio fantastico che la suggestione
mediatica proietta attraverso la sovraesposizione del consumatore ai
messaggi di promozione commerciale, diviene l’alternativa plausibile e
verosimigliante della realtà. Un mondo immaginario e immaginifico, in
cui si ostinano a vivere i destinatari stessi dei messaggi, ma che non
corrisponde affatto all’imperfetto e talvolta irto sentiero che la vita
presuppone venga percorso: The Truman Show.
Con una grossolana distorsione e perversione dell’essenza
autentica della rivoluzione consumistica, la società dei consumi è
perlopiù rappresentata come incentrata sulle relazioni tra il
consumatore, saldamente collocato nello status del soggetto
cartesiano, e la merce, nel ruolo dell’oggetto di Cartesio, anche
se in tali rappresentazioni il centro di gravità dell’incontro
soggetto-oggetto si trasferisce in modo decisivo dall’area
dell’osservazione alla sfera dell’attività. In questa il soggetto
cartesiano pensante (che percepisce, esamina, confronta, stima,
valuta nella sua rilevanza, rende intelligibile) si trova di fronte
(proprio
come
avveniva
durante
l’osservazione)
a
una
molteplicità di oggetti nello spazio (che egli percepisce, esamina,
confronta, stima, valuta nella loro rilevanza, comprendente); ma
46
ora deve anche affrontare il compito di maneggiarli: spostarli, farli
propri, usarli, scartarli.
49
Quella di cui si tratta è una quotidianità nella quale la soddisfazione dei
bisogni e l’appagamento dei desideri sono confusi e spesso svincolati
dal lavoro e dal proporzionato guadagno.
Sacrificio e risparmio, sebbene il particolare momento storico li richieda
(e le piazze ne sono la prova tangibile), sembrano essere stati espunti
dal novero dei concetti cardine trasmissibili. Non appartenendo più, di
fatto, al bagaglio ereditabile dei valori dei quali si compone il processo
educativo, sono stati marginalizzati e relativizzati. A loro s’è, infatti,
sostituito un modello basato sulle Libertà (positive e negative) delle
scelte (e dalle scelte) che esalta l’estemporaneità e l’occasionalità degli
elementi che si pongono alla base del “successo” che nella vita un
individuo può dire d’aver raggiunto: “È stato libero di… perché era libero
da”.
Si tratta di elementi che non fanno riferimento ai valori di sacrificio e
lavoro, ma guardano con un occhio ammirevole al “fato”: la fortuna,
come unica via da perseguire per giungere al benessere e all’agiatezza.
Quello che si prospetta in questo passaggio, epocale, di concepire il
valore lavoro è senz’altro un percorso disseminato di scorciatoie, di
opportunità da cogliere al volo, di lotterie e di “gratta e vinci”. Un
percorso costruito al contrario che sovverte ogni aspettativa ponendo i
soggetti sociali in competizione tra loro: protesi verso un punto d’arrivo,
un traguardo, tanto fantasioso quanto prestabilito, artificiale e patinato,
49 Z. Bauman, Consumo dunque sono - GLF Economica - Edizioni Laterza 2008, pag. 16.
47
che riassuma - in tutto e per tutto – la “realtà” surreale delle soap opera
elevata a modello.
Il teorema valido a rappresentare come sarebbe avvenuto il passaggio
epocale al “futuro” con il miglioramento e l’elevazione delle condizioni di
vita annunciava panorami diversi. Nel 1990, infatti, l’interrogativo
verteva su:
[…] possiamo chiederci perché la domanda culturale aumenta
nella società contemporanea. A questo proposito, com’è noto, è
stato fornito un primo ordine di risposte, che fanno riferimento
all’aumento del reddito e della scolarità o alla riduzione del tempo
di lavoro. Si tratta, evidentemente, di risposte fondate. Con
l’innalzamento del livello del reddito e l’aumento del tempo libero
a disposizione, è possibile finalmente che ampie masse di
popolazione sviluppino, per la prima volta, forse, nella storia,
bisogni diffusi di cultura, o anche, come sono stati chiamati,
bisogni <<post-materialisti>> […]50
La speranza di vedere il benessere economico dato dallo sviluppo e
dalla
crescita
derivanti
dal
modello
globalizzato,
correlato
proporzionalmente al potere derivante dall’evoluzione culturale e ai
benefici che avrebbe portato, non ha fatto intuire che un potere occulto,
una “mano invisibile” (che nulla ha a che vedere con quella di A. Smith),
affidandosi a bassi istinti, avrebbe condotto la società ad un punto in cui
non sarebbe stato più l’uomo a sostenere e competere con l’uomo,
cercando lo spazio per crescere ed affermare la propria personalità, ma
sarebbe stato il diktat delle multinazionali ad affermarsi sull’uomo
stesso.
La
prassi del sistema per auto
conservarsi è
di sollecitare
costantemente nuovi bisogni attraverso la rete di commercializzazione
50 Massimo Paci, La sfida della cittadinanza sociale - EdizioniLavoro, Roma 1990, pag. 105
48
di beni voluttuari e di largo consumo, beni resi “accessibili” a tutti dal
sistema dell’indebitamento progressivo, una realtà artificiale alla quale
non si può rinunciare.
Si tratta di un percorso, quello di cui stiamo parlando, facilitato e
agevolato in tutto e per tutto. Un costrutto inteso a far collassare quello
che, rimasto stabile di una struttura sociale a “chilometro zero” (fondata
su valori, condivisi e condivisibili, quali il recupero, il reimpiego, la
solidarietà e la democrazia), rischiava di compromettere l’affermazione
del “nuovo concetto” di mercato, di marketing globalizzato che si stava
affermando sempre più.
La privatizzazione delle onde radio se tanto bene ha fatto al pluralismo
d’opinione e alla democrazia ha anche aperto un vortice in cui oggi,
tutto ciò che si muove e che si è sostituito al mondo della
comunicazione, si inabissa divenendo comunicazione alla massa51.
Questo mondo non si è affacciato alle porte delle case d’improvviso, ma
ha seguito un percorso logico, strutturato e preordinato: la sinergica
strategia dell’inganno, dell’errore, attraverso la quale l’individuo da
“essere”
umano
è
trasformato
in
telespettatore.
Esposto
alla
comunicazione “alla massa” per un periodo progressivamente sempre
più lungo della giornata, del proprio tempo libero, l’uomo si affida a chi
51 Secondo chi scrive, la comunicazione alla massa si connota per l’attitudine a convogliare l’informazione
che sottende il raggiungimento di un esito finale attraverso l’uso e l’impiego di tecniche di
comunicazione che, suddividendo e parcellizzando il messaggio finale in più “messaggi convergenti” e
concomitanti, inducono il destinatario a supporre di sviluppare un “pensiero autonomo” che in realtà è
previsto e standardizzato. La comunicazione di massa, invece, presuppone che le masse comunichino
(tra di loro), “facciano rete” e, nel far ciò, inneschino la virtuosità tipica della diversità di opinioni a
confronto. Il fraintendimento su cui si giuoca, l’ambiguità nell’uso dei vocaboli è evidente nell’uso delle
locuzioni “comunicazione di massa” e “comunicazione alla massa” perché il messaggio che si vuole sia
veicolato deve “suonare” come un sinonimo e, dai grandi media, deve essere ripreso perché lo
omogeneizzino nel tentativo – che parrebbe riuscito - di validare se stessi e nulla più.
49
“lo accompagna”, a chi, fornendogli realtà preconfezionate e mondi
surreali, persegue lo scopo di riprogrammarne la funzione sociale e
progettarne
un
“nuovo
modello
d’inserimento”,
assolutamente
compatibile con la società dello sfruttamento e del consumo.
Invece di ordinare la conoscenza secondo schemi ordinati, la
società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni
decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno
casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente
quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente,
diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze
evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento,
con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al
lavoro e allo stile di vita in senso generale.52
Quello al quale ci si trova innanzi, nell’era del consumo, è un essere
umano prostrato, intellettualmente stremato, “consumato” al punto da
non essere più in grado di filtrare alcunché perché:
[…] Ci sono troppe informazioni in circolazione. Nella società
dell’informazione bisogna essere assolutamente capaci di
difendersi dal 99,99 per cento delle informazioni che ci vengono
offerte e di cui non abbiamo bisogno.53
Sebbene il consumatore aumenti la propria capacità di possedere, egli
risulta proprietario di un numero sempre minore di beni. È proprio
grazie alla crescente possibilità di indebitamento che si sostanzia il
paradosso del consumatore che, infatti, più possiede più è povero.
All’aumento dei beni posseduti corrisponde l’avanzare progressivo della
condizione d’indigenza alla quale, però, non corrisponde (come
sarebbe logico aspettarsi) la propensione a un’inversione di “rotta”, cioè
52 Thomas H. Eriksen, Tempo tiranno - Ed.: Eleuthera, Milano 2003, pp. 139 e 144
53 Ibidem
50
alla tendenza verso una minore esposizione debitoria. Al contrario,
s’innesca una più accesa competizione per accedere a nuove forme
d’indebitamento, di accesso al credito, che consentano di essere (di
apparire) esattamente come s’immagina che la società vorrebbe si
fosse per essere accettati (essere validati). Così il soggetto
progressivamente “salva” se stesso, sottraendosi al confronto con
“l’altro” che, sebbene viva in analoga condizione, risulta come lui
riluttante a condividere quel senso d’inadeguatezza e di malessere che
lo rende sempre più propenso a isolarsi, a sfuggire agli occhi del
proprio simile, rifugiandosi nella realtà alternativa di una folla di monadi
leibniziane54 inclini a sognare, isolatamente, in una comunità che non
comunica più in modo autentico.
[…] la società dei consumatori (pur andando contro i fatti) non
ammette differenze di età o di genere, e non farà sconti né
all’una né all’altro; e nemmeno riconosce (pur andando
clamorosamente contro i fatti) distinzioni di classe. Dai centri
geografici della rete mondiale delle autostrade informative fino
alle sue più remote e immiserite periferie << i poveri si trovano
giocoforza in una condizione in cui sono costretti a spendere lo
scarso denaro o le poche risorse per procurarsi oggetti di
consumo
privi
di
senso,
anziché
sopperire
a
bisogni
54 Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Monadologia: la Teoria delle monadi ci dice che esse, non
avendo parti, non possono essere formate né disfatte: esse non possono cominciare né finire secondo
natura, perché durano quanto l'Universo che potrà essere modificato ma non distrutto. Esse non
possono avere figure, altrimenti avrebbero parti: una monade, perciò, non può in se stessa e nel
momento essere distinta da un'altra che per qualità e azioni interne, le quali non possono essere altro
che le sue percezioni (cioè le rappresentazioni, nel semplice, del composto o di ciò che è esterno); e le
sue appetizioni (cioè le tendenze da una percezione all'altra), che costituiscono i princípi del
cambiamento. La semplicità della sostanza, infatti, non esclude la molteplicità delle modificazioni, che
devono trovarsi insieme nella stessa sostanza semplice e che devono consistere nella varietà dei
rapporti con le cose che le sono esterne. E’ come un centro o punto, nel quale, per quanto semplice, si
trovano una infinità di angoli, formati dalle rette che vi concorrono.
51
fondamentali, al fine di allontanare da sé una tale umiliazione
sociale e la prospettiva di essere umiliati e derisi >>.
55
In attesa davanti al media che informa, l’essere umano avrà la
possibilità di entrare a far parte della nuova casta digitale. Per Z.
Bauman:
Consumare significa dunque investire nell’appartenenza alla
società, che in una società di consumatori significa “vendibilità”:
l’acquisizione di caratteristiche per cui esista già una domanda di
mercato, o la trasformazione di caratteristiche che già si
possiedono in merci per le quali si può continuare a creare
domanda. La maggior parte dei prodotti offerti sul mercato deriva
la loro attrattiva, e il potere che ha di chiamare a raccolta
consumatori entusiastici, dal suo vero o presunto “valore
d’investimento”,
reclamizzato
apertamente
o
suggerito
56
indirettamente.
4. Privacy e media: le preferenze dei consumatori
L’uomo digitale, nel rapporto che ha con se stesso e con i mezzi di
comunicazione, da un lato percepisce il diritto alla riservatezza sui dati
“sensibili” che gli appartengono (luogo e data di nascita, orientamento
sessuale e credo religioso o politico) come un bene irrinunciabile ma
poi, dall’altro lato, assume come indicatore della propria libertà la
possibilità di mostrarsi senza veli nei social network.
Nella convinzione di essere anonimo, riversa se stesso in un recipiente
al quale tutti possono accedere e che processa ogni singolo dato che in
esso è immesso.
55 Z. Bauman, Consumo, dunque sono, pp.69-70 Ed.: Economica Laterza, Roma 2010 pp.69-70
56 Ibidem p.71
52
È, appunto, attraverso la cessione gratuita di informazioni conferite
spontaneamente dal singolo che vengono estrapolati i dati che
orienteranno chi produce beni sulle preferenze del consumatore al
quale il dato viene restituito sotto forma di stimolanti e accattivanti
pubblicità.
[…] tutto quello che avviene nella società non avviene per
costrizione: le persone vogliono questo modo di consumo,
questo tipo di vita, vogliono passare tante ore al giorno davanti
alla televisione e giocare con il computer a casa. C’è qualcosa di
diverso da una semplice <<manipolazione>> da parte del
sistema e delle industrie che ci guadagnano. C’è un enorme
movimento – uno scivolamento – in cui tutto si tiene: le persone
si spoliticizzano, si privatizzano si rifugiano nella loro piccola
sfera <<privata>>, e il sistema fornisce loro il sistema per farlo
[…].57
I creatori di bisogni, infatti, risultano costantemente in grado di
migliorare la propria efficacia e competenza rendendo la diffusione di
“offerte” sempre più attagliata ai desideri del consumatore che
ubbidisce alla logica: Consumo dunque sono.
Denunciare l’aggressione pubblicitaria, oggi veicolo di ideologia
[…del nulla], è sicuramente il punto di partenza della
controffensiva per uscire da quello che Castoriadis chiama
<<l’onanismo consumistico e televisivo>>. […] In effetti la
pubblicità costituisce la molla fondamentale della società della
crescita – cosa d’altronde riconosciuta, non senza un certo
cinismo,
dagli stessi pubblicitari. <<Possiamo svilupparci
soltanto come società di sovraconsumo – scrive Jaques Séguela
-. Questo surplus è una necessità del sistema. […] Questo
sistema
fragile
sopravvive
soltanto
grazie
al
culto
del
desiderio>>. In sostanza, siamo di fronte a un vero e proprio
57 Si veda Cornelius Castoriadis, Una società alla deriva, colloqui e dibattiti 1974-1997 - Ed. Elethéra,
Milano, 2005.
53
complotto, ben analizzato da Edward Bernays, il nipote di Freud,
che come un perfetto cesellatore ha snaturato la psichiatria per
applicarla al marketing, cioè all’arte del riduttore di teste per
eccellenza. […] Bernays dichiara che: <<la manipolazione
consapevole ed intelligente delle abitudini e delle convinzioni
delle masse è un elemento importante della società democratica.
Coloro che manovrano questo meccanismo nascosto della
società costituiscono un governo invisibile che è la vera potenza
regnante del paese>>
.58
5. La manipolazione
Il consumismo, la pubblicità occulta, l’obsolescenza programmata, la
manipolazione dell’informazione e la cessione dei dati sensibili entrano
in connessione con la migrazione e lo sfruttamento degli esseri umani.
In un primo tempo, infatti, furono predisposti piani per arginare le
migrazioni dei gruppi umani provenienti da regioni della terra
economicamente svantaggiate o colpite da catastrofi e attratti da una
rappresentazione del benessere occidentale ostentata e diffusamente
proposta sui media.
L’organizzazione dei flussi migratori nati come esigenza spontanea di
allontanarsi da luoghi depressi del mondo è raccolta da organizzazioni
criminali il cui fine lucrativo è entrare, quali monopolisti, nel mercato
internazionale del traffico di esseri umani.
Tale traffico aumentava i costi del lavoro, la competizione e,
contemporaneamente, riduceva i margini di profitto per gli imprenditori
(vedi “Storia della mia gente”, Nesi), nelle pieghe del tessuto
socioeconomico, favorendo lo sfruttamento della manodopera illegale
58 S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita - Ed. Bollati
Boringhieri – Trebaseleghe (PD), pagg. 143-145.
54
sempre più facilmente reperibile sul mercato clandestino a costi
davvero vantaggiosi.
L’Europa ha prontamente agito, sia nell’apparente tentativo di
disincentivare le migrazioni, sia nel perseguire obiettivi economici che
conducessero le imprese ad aumentare i profitti attraverso la
“delocalizzazione” dei cicli produttivi proprio nelle regioni geografiche di
provenienza dei più cospicui gruppi migranti. Il tentativo occidentale di
affermarsi, attraverso una politica di aiuto allo sviluppo dei Paesi
“poveri”, propone uno schema che si pensava superato con la
decolonizzazione post bellica del 1947. È così che il neocolonialismo59
si afferma con lo scopo di tentare di asservire, sfruttandole, le
popolazioni di quelle stesse aree geografiche sulle quali le strategie di
egemonia imperialista ottocentesche e dei primi decenni del ‘900
avevano già esercitato una pressione politico economica rilevante.
59 Neocolonialismo: politica perseguita da alcune potenze industriali, spesso ex coloniali, che consiste nel
mantenere i paesi in via di sviluppo in una situazione subalterna, esercitando forme di controllo e di
condizionamento sulla loro vita economica e politica. Il fenomeno neo-coloniale viene teorizzato per la
prima volta dal premier indonesiano Sukarno in occasione della Conferenza di Bandung del 1955. Tale
espressione entrata, poi, nel linguaggio politico contemporaneo durante la Terza conferenza dei popoli
africani tenuta al Cairo nel 1961 quando il presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, esaminando la
situazione interna dei regimi africani, denuncia che la loro autorità di governo non deriva dalla volontà
popolare, ma dal sostegno dei loro “padroni neocoloniali” che, nella maggior parte dei casi,
eterodirigono o condizionano il sistema economico e la vita politica di questi Paesi con una forma di
“neocolonialismo”. Secondo la teoria di J. Woddis, che integra e in alcuni tratti si oppone a quella di
Nkrumah, ha evidenziato quanta importanza abbia avuto l'adesione ‘spontanea’ di alcune frazioni della
borghesia delle ex colonie al progetto di alleanza con le forze economiche, sociali e politiche dei Paesi
imperialisti. Secondo la tesi sostenuta da C. Leys, invece, si dovrebbe parlare di neocolonialismo non
solo come di una forma particolare di politica imperialista, ma anche come di una caratteristica della vita
politica, sociale ed economica degli Stati con un passato coloniale nei quali la transizione
all'indipendenza ha coinciso con il trasferimento del potere politico dal governo dello Stato colonialista a
un regime locale sostenuto dalle classi sociali legate agli interessi stranieri. Ancora secondo Leys, il
trasferimento del potere alle nuove classi dominanti avrebbe, quindi, dato luogo alla nascita di una
forma di colonialismo interno dipendente dal sistema capitalistico che denuncia in sé l’impossibilità di
ogni velleità neocolonialista che prescinda dall’alleanza tra i regimi politici dei Paesi emergenti e quella
dei Paesi capitalisti ex coloniali.
55
Una massiva e incentivata operazione d’investimento che, questa volta,
non restituisce i vantaggi attesi e la migrazione cinese verso l’Italia è di
ciò il paradigma.
56
CAPITOLO III
COMUNICARE LA CINA
1. La Cina, la fabbrica del mondo
Osservata la trasformazione della società occidentale alla luce delle
modificazioni intervenute con l’affermarsi del capitalismo neoliberista e
della promozione di nuovi bisogni attraverso i mezzi di comunicazione
alla massa diffusisi con l’affermazione di internet e di tutte le nuove
tecnologie, va ora rivolto lo sguardo alla Cina. Il continente che,
divenuto la fabbrica del mondo, si sta imponendo sul mercato e la
finanza mondiali attraverso la riconversione e l’attualizzazione del
pensiero e delle filosofie tradizionali arcaiche di cui il Popolo cinese,
indipendentemente dal regime politico che nei millenni lo ha governato,
è rimasto depositario.
57
Affrontare il tema della funzione che hanno la legalità60 e la legittimità61,
in un contesto in cui l’uomo e il suo lavoro sono posti al centro dei
bisogni della società, richiede un approccio interdisciplinare e
comparativo che traccia, necessariamente, alcune linee nette tra ciò
che usualmente si fa e ciò che dovrebbe essere fatto. Si pone in
evidenza, quindi, come gli “sfruttati”, ancorché così non sembri nell’era
delle delocalizzazioni, non sono mai divenuti veramente e meramente
funzionali ai bisogni consumistici, ma si sono rafforzati divenendo i
principali, avveduti, produttori e fornitori di quanto continua a indebolire
il sistema occidentale. Reggono e sorreggono, con le loro braccia, la
decrescita, tutt’altro che felice, di un sistema obsoleto e decadente.
60 Legalità. Principio in base al quale alla legge statale è affidata la regolamentazione di importanti materie
attraverso la previsione della riserva di legge, cioè lo strumento che attribuisce alla sola legge (e agli atti
ad essa equiparati) l’onere di disciplinare una data materia. Essa è una regola che impedisce al
legislatore di lasciare che una data materia sia disciplinata da atti che stanno a un livello gerarchico più
basso della legge.
61 Legittimità. I criteri che presiedono la definizione di legittimità possono essere distinti fra: oggettivisti e
soggettivisti. Per gli oggettivisti: cosa è legittimo è definibile sulla base di criteri universalmente validi. La
definizione di ‘legittimo’ presiede una concettualizzazione razionale di regime politico ‘giusto’. La
legittimità è una proprietà intrinseca del suo oggetto. Per i soggettivisti cosa è legittimo è relativo
all’opinione degli individui soggetti ad un determinato potere. Non esiste, dunque, una concezione
sostantiva di “potere legittimo” che sia universalmente condivisibile. La legittimità è una proprietà della
relazione fra oggetto e soggetto. Le definizioni oggettiviste di legittimità in genere sono legate ad una
valutazione del rapporto di potere in capo ad un osservatore esterno, mentre le definizioni soggettiviste,
al contrario, concepiscono l’attribuzione della legittimità in capo a coloro che vi sono sottoposti: in
questo senso, il criterio di legittimità non può dirsi unico e condivisibile, bensì relativo allo specifico
contesto. Definizioni di tipo oggettivista si ritrovano generalmente in ambito di filosofia politica. I criteri di
definizione della legittimità sono, in questo caso, criteri morali. Un esempio classico di definizione
soggettivista di legittimità è, invece, quello offerta da Weber, per il quale la legittimità consiste nella
credenza della legittimità di un potere da parte di coloro che vi sono sottoposti. Un tipo ‘misto’ di
definizione di legittimità è, infine, quello proposto da Beetham (1991). Se per Beetham la legittimità di
un sistema politico è definibile tramite criteri oggettivi e quindi verificabile da un osservatore esterno, il
contenuto di questi criteri è soggettivo, varia, ovvero in base allo specifico contesto di riferimento. In
questo senso, la legittimità non è intesa come qualità di un ‘tipo’ di sistema politico – non è definita
tramite ‘valori’ universalmente validi – ma viene valutata in ogni singolo contesto in base al
soddisfacimento delle tre condizioni indicate. Pamela Pansardi, Università degli Studi di Pisa.
58
2. L’Arte della guerra e gli esperimenti di capitalismo alla cinese
Sun Tzu, parlando de “il vuoto e il sostanziale”, ammonisce e consiglia
con grande saggezza tanto i combattenti suoi coevi quanto i moderni
“guerrieri della finanza” cinese, i Lao Ban62:
Alcuni consigli relativi al campo di battaglia: è meglio occuparlo
per primi, e attendere che sia l’avversario a fare la prima mossa.
Allettare il nemico con la prospettiva di un vantaggio è un altro
utile espediente cui ricorrere. Ma, soprattutto, si cerchi di
muoversi in un terreno vergine, dove il nemico non possa
raggiungerci. Da lì prepareremo l’offensiva.63
L’ammonimento di Sun Tzu è un assunto che a tutt’oggi si rivela utile in
molteplici ambiti, incluso quello economico e sociale. Fu il principio che
animò e guidò Mao Zedong durante la Lunga Marcia e che nel 1976
contribuì a delineare l’orizzonte di Deng Xiaoping quando, all’indomani
della morte del Grande Timoniere, dichiarò che una “nuova Cina con le
porte aperte” si sarebbe affacciata sullo scenario internazionale.
Il tempo necessario a studiare il “terreno di scontro” era, dunque,
trascorso: un tempo relativo ma sufficiente a comprendere quali
asperità avrebbe incontrato la Cina nella sua silenziosa espansione e
come piegarle a proprio vantaggio.
Deng prefigurava una Cina che sarebbe divenuta non solo un
interlocutore militare più potente, ma anche un “continente aperto” in
62 Lao Ban (o Laoban): letteralmente “padrone”. Nella cultura cinese è un titolo molto importante che
nemmeno il comunismo ha contribuito a inficiare nel suo significato più profondo. Il Lao Ban, i Padrone,
è colui il quale è arrivato ad un gradino di rispetto assoluto ed al quale tutti debbono obbedienza e
timore reverenziale. Secondo il sito web ufficiale di “Associna”: “diventare Lao Ban è il sogno di tutti i
cinesi essere chiamati Lao Ban, padroni. Proprietari di ristoranti, negozi, bancarelle ambulanti di
abbigliamento e di cineserie varie. E i Lao Ban in Italia non fanno che aumentare, non solo: si spostano
da una parte all’altra per incrementare il giro d’affari e conquistare un’indispensabile stabilità
economica.” FONTE: http://www.associna.com/modules.php?file=article&name=News&sid=513.
63 Sun Tzu, L’arte della guerra – Edizione Pillole BUR 2007 p. 49.
59
grado di competere economicamente con i giganti dell’economia
mondiale che, di lì a qualche anno, si accingeva a divenire globale.
Il popolo cinese, forgiatosi nei millenni come un organismo pluricellulare
e armonioso di straordinaria compattezza, è sul “campo di battaglia”, su
quel “terreno sconosciuto” al quale Sun Tzu fa riferimento e oggi
rappresentato dell’economia di mercato e della concorrenza perfetta.
Questo popolo, che si comporta come un esercito perfettamente
addestrato, si è messo in posizione vittoriosa perché ha scoperto che il
modo per imporsi sull’Occidente è farsi più domande sui suoi “vizi”
piuttosto che emularne le pretese “virtù”.
L’operazione occidentale di penetrazione e il concomitante tentativo di
fare dei cinesi disciplinati “i servi obbedienti” del sistema occidentale
“democrazia-consumo” (in cui “la democrazia” risiede solo nella
possibilità di consumare tutto e tutti), se si era rivelata vincente negli
anni Ottanta, sul lungo termine si è però dimostrata fallimentare.
La pressione dell’Occidente nei confronti dei comunisti cinesi
affinché si convertano alle regole democratiche ricorda molto da
vicino le minacce dell’Occidente ai cinesi come ad altre
popolazioni:
spediremo
<<Infedeli,
all’inferno>>.
convertitevi
Ma
al cristianesimo
anche
in
passato
o vi
questo
atteggiamento non ha funzionato con la Cina, troppo grande e
troppo complessa per essere assoggettata all’Occidente. Anzi,
l’esperienza storica ci dice esattamente il contrario, e cioè che
qualsiasi potere esterno costituitosi in Cina negli ultimi secoli è
diventato, con il tempo, cinese. È stato così per i mongoli
dell’impero Yuan, i Manciù della dinastia Qing, e potrebbe essere
così anche per gli occidentali: se si imponessero sulla Cina, nel
giro di pochi decenni potrebbero diventare cinesi. Per di più, tutti i
conquistatori, dopo aver subito un processo di sinizzazione, sono
stati presi in contropiede dalla reazione cinese che ha sempre
60
finito per avere la meglio sugli ex-vincitori, portando ogni volta a
un ulteriore allargamento delle frontiere. […] Lo stesso è
accaduto in Occidente quando Roma, dopo aver conquistato la
64
Grecia, venne a sua volta conquistata dalla cultura greca.
I comunisti cinesi hanno dimostrato di saper essere degli ottimi
capitalisti senza uscire dalla loro ortodossia. I ritmi di crescita ne sono
un dato incontrovertibile.
La Cina torna a mostrare ritmi di crescita importanti nel penultimo
trimestre dell'anno. Il target di Pechino di un pil al 7,5% è ormai
molto vicino. Secondo i dati resi noti dall’istituto nazionale di
statistica cinese, il pil del terzo trimestre dell’anno è aumentato
del 7,8% rispetto al 7,5% del trimestre precedente. Il dato è in
linea con le attese del mercato, che sperava in un’accelerazione
della locomotiva cinese dopo i dati poco incoraggianti comunicati
questa settimana sull’inflazione e le esportazioni. E’ il risultato
migliore realizzato da inizio anno e questa volta è anche
confermato dai dati ufficiali. L’obiettivo di crescita al 7,5% del
governo cinese sembra ormai a portata di mano. Bene anche la
produzione industriale cinese, che nel mese di settembre è
aumentata del 10,2%, meglio delle attese (10,1%) ma meno del
mese precedente (10,4%). Le vendite al dettaglio sono invece
cresciute del 13,3%: il risultato è inferiore alle stime (13,6%) e
anche rispetto a quello del mese precedente (13,4%). Positivo
l’andamento delle borse cinesi, in particolare l’Hang Seng di
Hong Kong che sale dello 0,7%. L’indice azionario Shanghai
Composite ha guadagnato invece mezzo punto percentuale. Dai
minimi dell’anno di fine giugno scorso, è avvenuto un rimbalzo
del 13%, grazie anche alla speculazione sulla nuova free-trade
zone che dovrebbe attirare aziende estere e favorire una
maggiore liberalizzazione.65
64 Francesco Sisci, Chi ha paura della Cina – Ed.: TEA, Milano 2008, pp. 20-21.
65 Nicola D’Antuono, Forexinfo.it - 18 Ottobre 2013. FONTE: http://www.forexinfo.it/Cina-crescitaeconomica-balza-al-7.
61
Posto che è ormai provata la scelta compiuta dalla Cina di divenire
indispensabile al mondo (attraverso la reinterpretazione dell’economia
di mercato), quello occidentale in particolar modo, fornendogli le utilities
che richiede, ecco che il comunismo (cinese) diventa compatibile e
coesistente con il capitalismo che diviene funzionale alla nuova politica
economica di Stato.
[…] In una società che resta dunque piramidale, la promozione
politica e ideale del libero mercato non è solo una rivoluzione del
sistema comunista ma una trasformazione profonda del vecchio
sistema imperiale.[…]66,
in un sistema che, di fatto non è mai tramontato.
Il Maestro disse: <<Posseggo io la conoscenza? No, certamente.
Ma se una qualsiasi persona mi pone una questione, per quanto
incolta essa sia, l’affronto da ogni angolo sino a venirne a
capo>>67.
Forse i cinesi per primi non si sarebbero ritenuti capaci di raggiungere
un grado di autonomia e competenza tale da entrare – in un breve
lasso di tempo - nel ciclo della concettualizzazione e della
commercializzazione di tutti quei beni la cui produzione era stata, per
convenienza, delocalizzata in Cina. La strategia del governo di Pechino
ha visto oltre l’immediato e, infatti, dopo aver attratto nel continente
emergente la nuova frontiera produttiva del consumismo, ha fatto sì che
negli operai, asserviti agli interessi delle imprese nelle quali erano stati
occupati, sorgesse nell’intimo l’interesse di copiare i beni prodotti per
conto dei committenti.
66 F. Sisci, Chi ha paura della Cina – Ed.: TEA, Milano 2008.
67 Confucio, Massime. A cura di Massimo Santangelo – Ed.: Grandi Tascabili Economici Newton
CLASSICI-2010, pag.52.
62
I cinesi, il popolo han, dopo essersi, quindi, rivelati obbedienti e
instancabili come i soldati dell’esercito di Sun Tzu, si sono votati
all’autosfruttamento. Tale comportamento non deve essere letto
secondo la declinazione occidentale, come negativo, bensì come la via
(il Tao) per avere una vita onorevole. La millenaria filosofia confuciana
vede nello sforzo collettivo, quindi, la Via per conquistare l’affermazione
della persona in seno al proprio gruppo sociale ed è maggiormente
sentita e condivisa dalla parte dirigente e imprenditoriale del Paese.
63
3. Onestà e giustizia
Nella tradizione cinese va bene emergere ed eccellere: è il “come” lo si
fa che rimane il discrimine. I concetti di onestà e giustizia non trovano
identità o sono confrontabili con i loro omologhi della cultura e del diritto
occidentali. La citazione mette in luce questo contrasto:
Il Duca di She disse a Confucio: <<Nella nostra regione c’è un
uomo chiamato “l’onesto”; quando suo padre rubò una pecora,
egli testimoniò contro di lui>>. Il Maestro disse: <<Nella nostra
regione, invece, diverso è il concetto di onestà: il padre copre il
figlio; il figlio copre il padre. Questa è l’onestà>>.68
Il cammino che porta alla ricchezza l’uomo di successo, colui che
Confucio indica come “superiore”, non deve mai essere percorso con
cupidigia, arroganza, crudeltà o sete di potere, ma deve essere
finalizzato all’ottenimento di un bene prezioso, il rispetto e la dignità da
parte dei propri simili.
Confucio, quindi, termina la riflessione rivolta ai propri discepoli
evidenziando che “L’uomo superiore rimane identico a se stesso nella
miseria, mentre l’uomo dappoco nel bisogno si scatena”. La ricchezza e
l’ostentazione della stessa non valgono a nulla se prive di quel
fondamentale sentimento che fa dell’uomo un individuo in grado di
rimanere se stesso anche nella miseria.
Lo stesso percorso si può dire sia stato compiuto dai Lao Ban, gli
agguerriti, infaticabili imprenditori pensati e concettualizzati da Mao
Zedong che oggi dominano il mercato del manifatturiero europeo. Il
Grande Timoniere, già alla Conferenza di Bandong del 1958, parlò del
68 Confucio, Massime, a cura di Massimo Santangelo - Ed.: Grandi Tascabili Economici Newton, Classici.
Roma 2010, pag.62.
64
Terzo Mondo (del quale sentiva che la Cina faceva parte) in termini di
“un mondo terzo”, cioè dell’alternativa alla bipolarizzazione del mondo,
alla dualità del sistema URSS-USA. Questi nuovi imprenditori cinesi
sono cresciuti e stati addestrati da Deng Xiaoping nel laboratorio del
capitalismo: lo Zhejiang. L’area di espansione economica e laboratorio
di economia liberale e liberista al confine con Shangai.
Dagli
anni
’80
dello
scorso
secolo
questi
uomini
superiori
dell’imprenditoria stanno dilagando per l’Europa e l’Italia in particolare
ha conosciuto la loro capacità mimetica e l’efficace strategia di
affermazione, estrinsecatasi attraverso la colonizzazione di zone
produttive ad alto interesse strategico per assicurare alla Cina
l’espansione economica. Forti dell’esperienza delle Comuni popolari,
delle Unità Produttive di Base69 - nerbo e struttura del pensiero attivo
del neocomunismo alla cinese - sono stati capaci, in breve tempo, di
traslarsi, di replicarsi e di riqualificare la principale risorsa: il capitale
umano.
In breve, sollecitato dai dazi imposti per le importazioni verso l’Europa,
è iniziato il processo di delocalizzazione della produzione cinese nel
Vecchio Continente ed ecco come, e perché, ora si arricchiscono quelli
che si sarebbe preteso fossero rimasti degli “schiavi” al servizio
dell’edonismo e della debolezza della civiltà occidentale, ormai votata al
superfluo.
69 «È meglio costituire Comuni popolari. Sono molto più vantaggiose perché combinano industria,
agricoltura, commercio, educazione e affari militari. È un fatto che favorisce il compito della direzione» Mao Zedong, 1958.
FONTE: http://www.tuttocina.it/tuttocina/storia/comunipopolari.htm#.UfoibhY8jy0.
65
CAPITOLO IV
GENESI DELLE SOCIETÀ SEGRETE IN CINA70
Un’autentica interpretazione del concetto di legalità e di illegalità incide
nelle dinamiche di interazione della comunità migrante cinese in Italia e,
come in molti altri luoghi di precedente insediamento delle Tong, ne
condiziona
il
modello
imprenditoriale
e
produttivo
che
la
contraddistingue, caratterizzandone i tratti.
In tale prospettiva è d’uopo, dunque, approfondire le radici tradizionali,
culturali e storiche che muovono le dinamiche stesse all’interno della
società cinese in Cina.
1. La società cinese
La società cinese, organizzata sotto una burocrazia centrale, ha vissuto
fino alla fine del 1800 prevalentemente di un’economia di tipo agrario e
mercantile, influenzata dal pensiero filosofico confuciano del quale
anche il più semplice gesto della vita quotidiana era permeato.
Sia dal punto di vista sociale sia da quello politico, essa era divisa, a
seconda
del
tipo
di
lavoro
svolto,
in
quattro
grandi
classi
gerarchicamente ordinate. All’apice della scala sociale si collocavano i
70 La redazione del capitolo nasce principalmente dallo studio e dall’approfondimento analitico del saggio di
Fei-Ling Davis, Le società segrete in Cina 1840-1911 Forme primitive di lotta rivoluzionaria. L’analisi del
testo, secondo chi scrive, si rivela di importanza rilevante per comprendere l’attuale sistema di
connessioni che esistono e si consolidano all’interno delle comunità cinesi, delle Tong, occidentali. La
Cina attuale mantiene, infatti, molte più “dipendenze” culturali e tradizionali di quelle che possano
immaginarsi. Nulla di ciò che oggi accade a livello politico, economico e sociale è sconnesso dalla storia
del suo popolo. Comprendere quali siano stati i prodromi e per quali esigenze siano nate le Società
Segrete, può significare comprendere buona parte delle dinamiche relazionali che ancor oggi insistono
all’interno dei gruppi sociali cinesi e sostengono le attività e le strutture associative (sia legali che
illegali) con le quali “gli stranieri” si relazionano nei luoghi di nuova residenza dei migranti cinesi in
Occidente.
66
funzionari di Stato, cioè gli addetti ai lavori intellettuali pubblici. Al
secondo posto i contadini, addetti alle attività produttive essenziali.
Gli artigiani erano collocati al terzo posto: il lavoro manifatturiero,
sebbene non completamente autonomo per quanto riguardava la
produzione
e
l’approvvigionamento
delle
materie
prime,
quindi
dipendente in un certo qual modo dal lavoro dei contadini, godeva,
comunque, del rispetto del gruppo sociale dominante. Si trattava di un
settore lavorativo necessario che collocava la categoria in una
posizione di primazia rispetto a quello dei commercianti. Il commercio,
infatti, proprio perché, asseritamente, non esprimeva nessuna attitudine
personale e qualità manuale, era considerato un lavoro improduttivo e
sulla base di una scala di valore e culturale precedeva, ma di poco, la
moltitudine indistinta esclusa dalla categorizzazione ufficiale, cioè, una
classe sociale non categorizzata in cui confluivano i prestatori di servizi:
i medici, i musici, gli addetti agli spettacoli, i domestici, i servi, i
mendicanti, i saltimbanchi e i comici.
Alla suddivisione riconosciuta ufficialmente della società in quattro
classi, si affiancava una seconda che, sebbene ufficiosa, comprendeva
sei categorie: letterati appartenenti alla burocrazia, letterati non
appartenenti alla burocrazia, contadini, artigiani, mercanti e basso
popolo.
Nell’organizzazione statuale della Cina imperiale, dunque, le leggi
tradizionali disciplinavano, in modo invasivo, rigoroso e formale, ogni
aspetto della vita individuale degli appartenenti alle singole classi
giungendo a normare anche l’alimentazione, il tipo d’abbigliamento
67
consentito, le abitazioni, i mezzi di trasporto, i matrimoni, i funerali e la
forma di culto verso gli antenati che ogni categoria – secondo la
posizione sociale - avrebbe dovuto adottare. A fronte di una tale
inclinazione, la separazione e la gerarchia tra le classi sociali si
estrinsecava, di fatto, con toni più morbidi e, dunque, anche il
posizionamento della classe mercantile in fondo alla gerarchia sociale
non trovava corrispondenza con il reale ruolo che i mercanti
occupavano nella società. A far sì che questi fossero relegati agli ultimi
posti della scala sociale, infatti, non era la loro asserita incapacità a
produrre, bensì la pericolosità insita nell’attitudine a concludere
transazioni e ad arricchirsi sfuggendo al controllo dell’aristocrazia.
Un’operazione, questa, che consentiva loro di acquisire sempre
maggior potere rispetto alla burocrazia, corrotta e concussa, di palazzo.
L’atteggiamento sospettoso e di distacco della classe intellettuale nei
confronti di quella mercantile veniva, comunque, placato dalle
elargizioni e donazioni che i ricchi commercianti compivano nei loro
confronti, ma non era sufficiente a togliere completamente le ombre su
quali fossero i reali propositi e gli scopi di questi. Infatti, anche a fronte
di doni munifici, non veniva meno l’inquadramento dei mercanti nella
classe senza diritti del popolo basso o popolo minuto (chien-min).
I mercanti, dal canto loro, facevano corrispondere al progressivo
arricchimento
e
al
potere
economico
acquisito
l’affidamento
dell’educazione dei loro figli alle scuole confuciane che, come s’è detto,
erano le uniche che li avrebbero resi abili a emergere dalla propria
condizione e a inserirli nella classe dei letterati locali legati ai palazzi del
68
potere delle province. Inoltre le probabilità che ciò accadesse
crescevano di fronte alla creazione di una fitta rete di relazioni basate
su matrimoni di convenienza grazie ai quali i commercianti acquisivano
titoli accademici, nobiliari e il potere a questi correlato. La combinazione
degli interessi delle classi intellettuali con quelli della classe mercantile
avveniva anche in base a un semplice assunto, in apparenza
contrastante con le linee di principio della legislazione e della
categorizzazione delle classi sociali: la cultura, in sé, non bastava ad
assicurare l’intangibilità del ruolo, ma era necessario che a questa si
coniugasse anche un grado di agio economico tale da porre
l’intellettuale di palazzo in posizione di superiorità rispetto al proprio pari
concorrente.
Ai figli dei mercanti più abbienti nulla era, dunque, precluso. Essi, infatti,
entrarono, progressivamente e grazie agli apparentamenti di cui si
diceva sopra, a far parte di una classe intermedia di intellettuali. Avviati
dalle famiglie a una educazione confuciana che, anche se impartita in
forma privata, era simile a quella della classe intellettuale, acquisivano
la preparazione che consentiva loro di divenire notabili di rango inferiore
e di svolgere la propria attività di consiglieri all’interno delle magistrature
delle province.
L’affermazione tangibile del cambio di ruolo della nuova classe
intellettuale, non più di tipo esclusivamente dinastico, si sostanzia con
l’evoluzione di sintesi che assume la classe stessa, divenendo parte di
clan eterogenei che acquisiscono sempre maggior potere dalla seconda
metà del XIX secolo in poi. Cioè, da quando i notabili di rango inferiore
69
affermano il loro potere organizzando delle milizie locali, per lo più
private, per contrastare il dilagante fenomeno del brigantaggio.
I notabili di rango inferiore, provenienti dalla classe mercantile
(borghese), divengono dunque finanziatori e assumono un ruolo di
coordinamento militare: ciò permette loro, di fatto, l’uscita dal cono
d’ombra in cui erano vissuti nei secoli precedenti.
Un indicatore di questo fatto, cui la storiografia cinese che si occupa di
quel particolare periodo storico fa riferimento, si rinviene nel fatto che la
maggior parte dei governatori delle province, negli anni che seguirono il
soffocamento delle rivolte dei Taiping e dei Nien (1850-1871), erano
stati, in origine, proprio i capi di quelle milizie borghesi, cui fu affidato il
compito di reprimerle.
2. Confucianesimo, buddismo e taoismo
Porre attenzione alla radice filosofico ideologica della religiosità cinese
ha una profonda importanza e fornisce un’ulteriore angolatura dalla
quale osservare l’apparentemente incomprensibile agitarsi di un Paese
che, pur mantenendo la propria identità ben radicata nel passato, si sta
assicurando un ruolo economico di prima importanza nel panorama
geopolitico contemporaneo e futuro. Oggi la compresenza di divinità di
diversi culti religiosi all’interno dello stesso tempio e la contemporanea
celebrazione dei rispettivi culti, sintetizza, dando concretezza, la teoria
degli opposti coesistenti ripresa da Deng Xiaoping. Come coesistono
dei e antenati venerabili all’interno dei templi, così coesistono il
comunismo ateista e il capitalismo di Stato: un approccio culturale che
70
aiuta a comprendere con quali presupposti venga affrontato ogni ambito
del quotidiano dalla Cina.
Confucianesimo, buddismo e taoismo, ognuno per parte sua, hanno
contribuito a smuovere o sommuovere ciclicamente gli assetti politico
istituzionali nel sistema Cina e l’hanno fatto, per lo più, attraverso
guerre interne tra potentati. Iniziate, magari, come sommosse popolari
o come piccole rivoluzioni, proprio avvalendosi del vincolo del consenso
che le citate ideologie raccoglievano attorno a loro, si sono trasformate
in lotte dinastiche per la guida dell’impero.
L’esempio eclatante di come il monachesimo buddista e il significato
dell’associazionismo segreto che attorno ad esso si sarebbe sviluppato
abbiano assunto un potere nei confronti del popolo, giungendo,
addirittura, all’abbattimento della dinastia imperiale mongola Yüan, lo
troviamo storicizzato e datato al 1368 d.C. In quell’anno fu il monaco
buddista Chu Yuan-chang, il cui nome dinastico sarebbe divenuto
Hung-wu, a spodestare il vecchio imperatore, instaurando la dinastia
Ming.
La filosofia confuciana fu, almeno fino al 1841 (anno in cui terminò la
Guerra dell’oppio tra Cina e Inghilterra), l’ideologia prevalente nella
classe dirigente cinese: la burocrazia mandarinale. La ragione di tanta
fortuna è dovuta alla perfetta funzionalità che il pensiero confuciano
aveva nei confronti dello stato patrimoniale - agrario dal quale aveva
tratto le proprie origini. La forza di convinzione psicologica sull’uomo
della
società
arcaica
cinese
si
sostanziava
nell’umanesimo
paternalistico e, quindi, nel concetto di perfettibilità dell’individuo
71
attraverso un processo di autoeducazione che avrebbe, prima o poi,
esaltato e fatto prevalere il buono che all’interno di ogni persona
alberga. Un concetto di bontà assai orientato che presupponeva la
totale dedizione e l’asservimento dell’individuo all’uomo “superiore”.
Al concetto di antichità, che in Cina è sinonimo della sacralità
riconosciuta all’età dell’oro
71
, deve essere attribuito il valore di
fondamento legittimante dell’ortodossia confuciana sulla base del quale
i maestri insegnavano che alla condotta benevola e amorevole del
sovrano, ispirata ai Re saggi e quindi all’onere consapevole di lasciare
di sé un ricordo esemplare ai posteri, sarebbe dovuta corrispondere la
totale acquiescenza del popolo. A tal proposito e per citare solo un
esempio, il richiedente giustizia che si rivolgeva al magistrato
distrettuale (l’immediato portavoce dell’imperatore) doveva assumere
nei suoi confronti l’atteggiamento di devozione del figlio e rivolgersi a
questo con l’appellativo di “funzionario padre - madre”.
Ancorché il simbolismo dell’ideologia confuciana si avvalesse di forme
idiomatiche che, nel legittimare le funzioni istituzionali delle classi
superiori, richiamavano la chiara origine divina dell’imperatore, il Figlio
del Cielo, questo assicurava, egualmente, al popolo la possibilità di
sottrarsi all’autorità del sovrano attraverso il ke-ming: una sorta di
revoca del mandato a governare. Ciò poteva avvenire quando, e se,
l’esercizio del potere diveniva tirannia e, in siffatte circostanze,
71 Età dell'oro della cultura cinese: dagli storici è unanimemente attribuita dai alla Dinastia Tang. Anche se
la dinastia Tang è cessata ufficialmente nel 907, i suoi riverberi culturali e artistici influenzano tutto il
secolo e, in verità, non si spesero mai del tutto. I nomi delle dinastie Tang come Han, sono oggi
sinonimo dell'etnia cinese.
72
l’uccisione del tiranno non era più considerata un attentato, un delitto di
lesa maestà, bensì tirannicidio e quindi un atto lecito. Nel corso dei
secoli, e nell’epoca moderna in particolare, il pittogramma ke-ming
divenne sinonimo di rivoluzione.
L’educazione, nella formazione di un “popolo confuciano”, ha un ruolo
essenziale. A essa educazione è rinviata la responsabilità di garantire,
imponendo a ogni individuo di permanere nella propria classe di
appartenenza, la stabilità e la pace sociale. Laddove non vi sia come
apice del processo di realizzazione del Sé il perseguimento di obiettivi
economici, né da parte della classe mandarinale né dalla classe
dominata, in teoria, ma solo in teoria, non dovrebbero nascere moti di
aperto dissenso alimentati da obiettivi individualisti.
Come per ogni forma di pensiero, anche per la filosofia confuciana il
trascorrere del tempo s’è imposto come fattore determinante della sua
trasformazione. Innanzi alle nuove esigenze storiche e al riassetto degli
equilibri politici e socioeconomici, il mutamento della filosofia prevalente
s’è imposto e ha reso irrinunciabile l’attualizzazione delle forme
d’incidenza che l’essenza del pensiero confuciano stesso aveva sulla
classe dominante, col medesimo ritmo con cui questa classe ha dovuto
mutare il proprio modo di rapportarsi al popolo. Non sarebbe errato
affermare, quindi, che il neoconfucianesimo abbia rappresentato la
controriforma dell’ideologia filosofica religiosa della società cinese, ma
che si affermò in maniera radicale solo in epoca assai recente, cioè nel
XIX secolo, dopo che la Cina perse la guerra dell’oppio contro
l’Inghilterra. Una guerra scaturita dal rifiuto opposto dalla Cina
73
all’Inghilterra di importare l’oppio sulle terre dell’Impero Celeste e che,
sebbene la storiografia occidentale, e britannica in particolare, abbia
sempre trattato con fumosa colpevolezza, ha inciso considerevolmente
sugli assetti politico-economici che ne scaturirono. Dai trattati imposti
dall’Inghilterra, vittoriosa, alla Cina, fu chiara la percezione che il
neoconfucianesimo sarebbe servito come piattaforma perché l’ideologia
riformista, della quale già si era avvertita l’esigenza all’interno stesso
del governo, iniziasse ad affermarsi e a compiere il proprio iter.
Il neoconfucianesimo, ancorché divenne attuale e motore riformista
dopo il 1841, trae la propria origine dall’opera del filosofo Chu Hsi
vissuto all’epoca della dinastia Sung (960-1279 d.C.). I caratteri
materialisti della “nuova ideologia” l’hanno spesso vista contrapposta
all’idealismo della scuola tradizionale detta dei testi antichi, ma non
hanno impedito che nel pragmatismo a essa intrinseco, fossero
rinvenuti lo stimolo e la possibilità di un rinnovamento essenziali al
progresso, pur mantenendosi legati alla tradizione.
Posto che una delle caratteristiche fondamentali del confucianesimo
risiede nell’esaltazione del dilettante e del gentiluomo a dispetto dello
specialista e del tecnico, si può comprendere come l’attitudine al lavoro
concepito come pratica e l’arricchimento personale derivante da questo,
potessero essere visti con sfavore rispetto ad attività estemporanee e
artistiche quali la scrittura pittorica e la composizione di saggi politici,
militari, filosofici o di liriche. Ma nell’ottica di quest’opera di
modernizzazione, anche i seguaci del confucianesimo tradizionale
(altrimenti detto classico) compresero che, seppur ritenendo che
74
nell’ideologia classica si conservassero valori intrinseci, per quanto
riguardava l’azione politica dovesse, necessariamente, avvenire un
processo di implementazione e integrazione derivante dal progresso
tecnologico di derivazione occidentale, nel quale la necessità di vedere
inserita la Cina come partner diveniva una esigenza imprescindibile.
Una tale apertura, però, sarebbe dovuta avvenire a patto che questa
attualizzazione, principalmente etica e ideologica, ma data per
indispensabile strumento di adeguamento della Cina alla modernità,
avvenisse in continuità col passato e con gli antenati. Ecco, quindi, che
la possibilità della “coesistenza degli opposti”, connotazione tipica della
filosofia orientale, sovrasta il pensiero (prettamente occidentale)
dell’alternatività e dell’inconciliabilità di questi. Al confucianesimo dei
“testi antichi”, quindi, pur rimanendo alla base come T’i (la sostanza
morale), si affianca lo young: la componente neoconfuciana della
necessaria conoscenza delle tecniche occidentali.
Il percorso di affermazione del neoconfucianesimo troverà un ulteriore
input a seguito del primo processo ottocentesco di penetrazione
economica e di industrializzazione occidentale. Una circostanza storica,
questa, che non poteva, a questo punto, consentire nessun ritardo nella
sua gestione ma, e soprattutto, che non poteva essere contrastata con
la mera ideologia anticapitalista (che poi sarebbe tornata di prepotente
attualità con Mao Zedong, anche se accuratamente riformata e
coniugata al comunismo cinese) della quale il confucianesimo classico
era ancora permeato.
75
L’educazione finalizzata a legare le masse al confucianesimo correva
su un doppio binario, uno pubblico, cioè gestito e organizzato dal
popolo, e uno “privato”, in questo caso inteso come organizzato dal
governo; in questo modo si creava una differenza de facto non solo per
quello che riguarda la preparazione fornita dai due canali educativi, ma
già a monte per ciò che attiene la scelta degli allievi da avviare all’uno o
all’altro percorso e per le differenti prospettive occupazionali che,
conseguentemente, gli allievi dei due gruppi avevano riservate.
Il canale educativo qui definito pubblico era riservato alla classe
borghese e mercantile in costante propensione verso un’ascesa
sociale, comunque ostacolata e scoraggiata, mentre quello privato era
riservato a coloro che avrebbero assunto cariche istituzionali e
sarebbero poi divenuti la classe dirigente (mandarina) dell’impero.
Al primo gruppo, quello dedicato alla pubblicità dell’educazione,
appartenevano le scuole indipendenti, non governative. In questo
novero ricadevano le accademie, le scuole contadine e le scuole di
carità, dove l’insegnamento veniva impartito grazie alla cura della
nobiltà di provincia che ridestinava a tale scopo i fondi provenienti dal
reddito delle terre destinate ad uso scolastico72.
Il secondo gruppo di scuole, quelle governative, erano destinate invece,
ai figli del clan imperiale; agli eredi delle otto bandiere o ai figli di quelle
famiglie che trasmettevano cariche ereditarie.
Nell’educazione confuciana di livello elementare un compito non meno
importante era affidato alla famiglia. Si trattava di un ruolo che andava a
72 Hisiao Kung-Chuan, Rural China, Imperial control in the nineteenth century, University of Washington
Press.
76
sostituire quello della scuola pubblica, ma che piegava, con molta
efficacia, le coscienze degli allievi al disprezzo per tutte le attività legate
al
miglioramento
e
consolidamento
di
posizioni
economiche
incompatibili con la primazia dello stato o, meglio, delle classi
dominanti.
Il compito dei maestri confuciani fu, per quasi un millennio, quello di
mantenere immobile lo status sociale degli individui all’interno delle
classi. Su di loro gravò l’incarico di preservare il dominio sulla
coscienza collettiva dei potenti in modo che il popolo non acquisisse
mai la consapevolezza delle potenzialità che le stesse “compattezza” e
solidarietà che il confucianesimo promuoveva per le mansioni agrarie di
basso profilo, potessero divenire, se utilizzate altrimenti, lo strumento di
affrancamento e di evoluzione nella gestione economica della propria
vita. Tutti insieme, quindi, ma tutti poveri e obbedienti.
L’egemonia ideologica del confucianesimo, ancorché fosse quella
ufficialmente promossa e più largamente diffusa a ogni livello sociale,
comunque, venne di fatto contrastata. A essa si contrapposero, infatti,
come ideologie - religioni alternative, il buddismo e il taoismo. Sebbene
entrambe esaltassero la passività come la più alta delle virtù, in realtà
proponevano una concezione di tale atteggiamento assai diversa.
Il primo, il buddismo, si era dato una struttura organizzata e
raccomandava l’astinenza dalle fatiche, dai piaceri della vita, ed era
percepito dalle istituzioni come una seria minaccia politica.
Il taoismo invece professava un approccio alla quotidianità – sebbene
egualmente passivo - di tipo intimo, spontaneista e, in ragione di ciò,
77
proponeva il ritorno alla istintività della vita naturale seguendo il Tao (la
via). Il taoismo, che aveva una visione della vita sintetizzata
nell’immagine dell’uomo incorrotto come di “un blocco di legno non
intagliato”,
era
ritenuto
dalle
autorità
sì
pericoloso,
ma
solo
relativamente destabilizzante poiché la mancanza di organizzazione,
oltre che una debolezza organica e una scarsa diffusione territoriale
che connotava intrinsecamente il pensiero filosofico, ne rendevano i
seguaci facilmente controllabili.
L’adesione alla filosofia buddista, invece, imponeva ai propri seguaci
dei precetti che si attagliavano molto alle normali condizioni di vita del
popolo cinese, e che quindi erano molto più agevoli da seguire:
l’astinenza dai piaceri della vita, così come l’astinenza dal consumare
carne, non erano, infatti, per la maggioranza delle persone, un fatto di
scelta, ma piuttosto una condizione dettata dal “ciclo doloroso” imposto
dalla povertà. Fu anche per questo motivo che la filosofia buddista
suscitò un forte richiamo tra la popolazione, che in quei precetti si
riconosceva naturalmente. Questa ampia diffusione contribuì, così, a
minare la struttura verticistica del confucianesimo, che voleva il popolo
piegato all’autorità di chi gli era “gerarchicamente superiore”.
L’opposizione filosofica e militante al confucianesimo, ad opera del
buddismo e dal taoismo popolari, e la progressiva tendenza al formarsi
di
comunità
spontanee
spinsero
gli
accoliti
di
queste
due
ideologie/religioni a riunirsi e a organizzarsi in associazioni clandestine
(segrete) per sfuggire all’attività di controllo (e progressivamente
persecutoria) degli apparati di sicurezza imperiali e dei feudatari. A
78
porre in allarme le strutture statuali, in effetti, furono la numerosità dei
seguaci, segno di forza, la ricchezza dei templi e la rapidità di diffusione
del pensiero buddista - taoista che si poneva naturalmente in modo
antagonista al confucianesimo tradizionale. Il governo, dunque, reagì
vessando monasteri e monaci con saccheggi e rappresaglie che, lungi
dal farli desistere nella loro opera, li indussero invece a organizzare il
passaggio alla clandestinità delle strutture per rispondere a un’esigenza
di progressiva secretazione delle attività, inizialmente per necessità di
sopravvivenza. Le attività sovversive furono quindi una logica
conseguenza del mero mantenimento della condotta che era, appunto,
divenuta illecita.
Le azioni militari di cui venivano fatti oggetto i templi e i conventi
anziché condurre a un totale e definitivo affievolimento della forza delle
ideologie eterodosse ne aumentavano viepiù la popolarità, dando linfa
all’atteggiamento di sfida che i seguaci del buddismo e del taoismo
tradizionalmente dimostrano nei confronti delle istituzioni. Negli apparati
di governo – non a torto - cresceva il senso di impotenza nei confronti
dei monaci, rafforzati dal consenso e dalla solidarietà popolari: verso di
loro aumentavano le accuse di incitamento alla sedizione e alla rivolta.
I sospetti e i timori del governo cinese erano talmente fondati che, nel
1368 d.C., fu proprio un monaco buddista Chu Yuan-chang, a
organizzare la rivolta che portò alla deposizione dell’ultimo imperatore
mongolo della dinastia Yüan.
Hung-wu, nome dinastico assunto dal monaco all’atto della sua
intronizzazione, diventerà, sul finire del 1600, parte del nome di uno dei
79
più potenti sodalizi segreti e clandestini che attraversando i secoli è
arrivato sino a oggi mantenendo inalterata la capacità di riunire attorno
a sé le più potenti società segrete cinesi: la Lega di Hung (Hung Men)
o, come altrimenti la si trova menzionata nei testi, la Famiglia Hung.
Questa società è altrimenti nota ai con il nome di Triade o San Ho Hui.
Rimanendo nel solco della tradizione, la “Triade”, che avrebbe preteso
indicare quale suo fondatore il monaco Chu, già appartenente alla
Società del Loto Bianco, mutuò da quest’ultima, aggiornandolo secondo
i propri intenti, il motto della dinastia Ming: “Distruggiamo gli Yüan e
restauriamo i Sung”.
Motto che, al declino dei Ming e per consolidare lo spirito di coesione
all’interno della Triade, rafforzandone il legame con il passato, fu
trasformato in: “Distruggiamo i Ch’ing e restauriamo i Ming”.
3. Le società segrete in Cina.
I funzionari derivano il loro potere dalla legge,
le società segrete dal Popolo.
Proverbio cinese.
In Cina, la presenza delle società segrete come diffusissimo fenomeno
sociale rappresenta un continuum tradizionale e culturale che affonda le
proprie origini nella divisione, ma potrebbe anche essere definita una
frattura, tra le classi sociali. La divisione principale era quella tra la
classe dominante e la classe dominata, posto che ai livelli intermedi
non vi erano che poche frange di popolazione che, per lo più pagando
un altissimo prezzo, ricadevano sotto la sfera di protezione della nobiltà
provinciale. Alla base di tale dicotomia, che nei secoli si rivelerà il
motivo più accreditato e cogente per la netta contrapposizione tra classi
80
sociali, può essere rinvenuta la presenza di ideologie il cui fondamento
è, evidentemente, come si è tentato di accennare nel precedente
paragrafo, inconciliabile: da un lato il confucianesimo, come ideologia
ortodossa, paternalistica, cui si rifaceva la classe dominante e dall’altro
il buddismo e il taoismo, come ideologie eterodosse più vicine alla
classe dominata che, nell’incapacità di sottrarsi al ruolo “filiale”, al totale
asservimento nel compiacere il sovrano, subiva il controllo oppressivo e
lo sfruttamento da parte della nobiltà feudale che rappresentava, in
modo personalistico, corrotto e distorto, l’autorità imperiale.
All’origine della concettualizzazione delle società segrete, dunque, vi è
uno sfondo schiettamente ideologico. L’ideologia infatti, è la mappa del
potere e assegna a ognuno un posto, divenendo così la guida sulla
base della quale un individuo “sceglie” la strada della libertà o della
schiavitù.
Secondo Fei Ling Davis, l’ideologia […] può essere la giustificazione e
la razionalizzazione del potere costituito, o il suo rifiuto.
Per comprendere, dunque, come sia nata e si sia strutturata, nel corso
dei secoli, la più tradizionale, efficace e moderna delle associazioni
segrete cinesi, la Triade, è necessario ripercorrerne le origini partendo
dall’analisi della struttura sociale cinese, dal pensiero morale - filosofico
e dalla fondazione delle prime società segrete.
81
73
La città dei riti
Per parlare di società segrete si richiede, innanzi tutto, di dare una
spiegazione generale che fornisca gli elementi per comprendere, sulla
base delle conoscenze acquisite sino a oggi e senza innescare possibili
confusioni concettuali, quale sia la natura stessa di un tale fenomeno
associazionistico. Il primo passo da compiere, dunque, è di individuarne
le caratteristiche e gli elementi fondanti per dare di queste una
interpretazione storicizzata e corretta.
La prima caratteristica che contraddistingue la società segreta è la sua
natura volontaria, intesa nel senso che l’appartenenza a essa non è
dipendente, o condizionata, da particolari qualità personali o attribuzioni
degli associati. Le motivazioni che contribuiscono a indurre il candidato
all’ingresso in una società segreta possono derivare o da una libera
scelta o dalla pressione sociale che questi subisce.
La seconda caratteristica si rinviene nell’esclusività delle informazioni e
delle conoscenze di cui i membri sono depositari e che non sono,
73 Fei-Ling Davis, La città dei riti: illustrazione tratta dal saggio Le associazioni segrete in Cina 1840-1911.
Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971
82
proprio per il carattere di segretezza, accessibili agli estranei. Il
complesso delle conoscenze, relative all’esistenza del gruppo sociale
segreto, è legato al linguaggio, nonché alla ritualità di affiliazione, al
simbolismo magico e agli elementi esoterici. L’identità degli accoliti e le
funzioni pubblicamente dichiarate dal sodalizio formano uno scudo
protettivo contro l’ambiente circostante che, quindi, diviene “Altro”
rispetto al senso identitario che i partecipanti al gruppo sviluppano. Il
sodalizio è, dunque, strumento di differenziazione sociale, morale e
politico che identifica, connotandoli, gli iniziati in relazione alla società
esterna. Una società segreta si fonda sulla cultura arcana a cui
ricondurre i comportamenti tenuti da (e tra) i consociati, ponendosi
verso l’esterno, verso i profani, con condotte che secondo le normali
consuetudini di vita possono assumere una valenza delittuosa,
eterodossa o, quanto meno, di eccentricità.
La terza caratteristica che identifica la società segreta e la differenzia
dagli altri gruppi sociali chiusi, in qualche modo legati all’osservanza di
un segreto è che il segreto si pone a fondamento dell’esistenza del
sodalizio stesso divenendo, in alcuni casi, la sua ragion d’essere. Il
segreto, quindi, determina l’organizzazione, e la struttura di questi
sodalizi, secondo due modelli diversi. Il primo modello, che si riconduce
alla Gesellschaft74, così come viene definito da M. Duverger in The idea
74 In tedesco, Gesellschaft è un sostantivo che significa società. In sociologia è usato come aggettivo per
caratterizzare il contrasto con Gemeinschaft che implica "freddo", formale, associato più con la vita
urbana che con quella rurale. Nell’esegesi di Ferdinand Tönnies, al quale dobbiamo il saggio
Gesellschaft und Gemeinschaft, egli intende spiegare il cambiamento nel tempo delle società (in termini
organicistici) da un'organizzazione sociale informale e basata sugli scambi personali come, ad esempio,
quella di un villaggio a un'organizzazione artificiale più formale e basata sulle regole: fredda e
impersonale. Dove si trovano caratteristiche Gemeinschaft, le persone si conoscono e interagiscono tra
di loro come persone vere, anziché come meri ruoli in un vuoto sociale. È un interessante aspetto
83
of politics, e si rifà ad un modello di struttura cellulare, in cui
l’identificabilità dei membri è ridotta al minimo. Il secondo, tipico della
Gemeinschaft, è di tipo familiare, comunitario o protettivo e punta,
invece, alla identificabilità dei partecipanti alla comunità, al sodalizio,
nonché alla loro condivisione attiva di azioni tese al raggiungimento di
un disegno comune, globale. La particolarità di quest’ultima è che
richiede una struttura di tipo compartecipativo, articolata in settori, nella
quale tutti i membri lavorano nella conoscenza e consapevolezza
dell’esistenza gli uni degli altri e degli obiettivi globali che il sodalizio
intende perseguire. La tipicità di questa particolare coniugazione di
interessi connessi alla società segreta fa sì che i suoi affiliati non siano
presenti solo all’interno di essa, ma siano inseriti e operino per i fini di
questa penetrando le strutture esterne ad essa. È attraverso la
costruzione di un reticolo di protezioni dall’esterno che le società
segrete di questo secondo tipo possono assicurarsi ampi margini di
manovra e libertà di movimento.
La quarta connotazione, che contribuisce a identificare le società
segrete, deriva dalla componente umana di queste. Esse, infatti,
raccolgono un gruppo di soggetti che vivono o agiscono insieme. In tale
contesto, non è inusuale che esse abbiano beni in comune,
linguistico dove il termine comunità indica un gruppo di persone con la propria organizzazione sociale e
culturale all'interno di una società. La parola tedesca che significa comunità indica le caratteristiche
informali e personali delle comunità stessa. È un cambiamento da un sostantivo a un aggettivo e, per
mantenere questa distinzione, i sociologi hanno preferito usare la parola tedesca gemeinschaft come
aggettivo e la parola comunità (Gesellschaft) come sostantivo. Nella traduzione nella lingua italiana, la
Gemeinschaft non è una caratteristica che una comunità può avere o no, ma una caratteristica presente
in vario grado.
84
condividano spazi, siano organizzate secondo regole che i consociati
stessi scelgono e alle quali obbediscono volontariamente.
L’ultima, ma non meno importante, riflessione sulla natura delle società
segrete può apparire scontata, ma va fatta tenendo in considerazione
che esse esistono non solo perché ne esistono i membri ma,
soprattutto, perché esistono i non membri: i profani, appunto, che non
possono beneficiare del sistema solidaristico e di protezione che
l’affiliazione garantisce. Anche in ragione di questa considerazione è
necessario che la società segreta compia la scelta tra il conformarsi al
gruppo sociale ospite, oppure l’assumere, nei confronti di questo, un
atteggiamento ostile: la conformazione, l’adattamento, può essere
“strumentale o espressivo o l’uno e l’altro insieme”75, l’ostilità o l’aperta
opposizione al contesto sociale, invece, origineranno attività contra
legem destabilizzanti per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Al di là delle motivazioni filosofiche e culturali che, come sopra
specificato, non ebbero un ruolo marginale nel radicamento sociale
moderno
delle
filosofie
eterodosse
(buddismo
e
taoismo,
tradizionalmente connessi ai gruppi antagonisti), un forte stimolo a
uscire dalla legalità va rinvenuto nell’incremento della popolazione e nel
progressivo, proporzionato, ridursi dei mezzi di sostentamento. La
siccità, le inondazioni, le epidemie, le carestie e l’eccessiva
burocratizzazione contribuiscono all’innalzamento della soglia della
miseria nelle campagne, e vanno annoverati tra i fattori critici più
significativi di turbamento dell’ordine sociale; soprattutto tra la
75 Standford Lyman, Chinese secret societies in the Occident: notes and suggestions for research in the
sociology of secrecy, in “Canadian Review of Sociology and Anthropology”, 1-2, 1964, pp.79-102.
85
maggioranza della popolazione che, facente parte della classe
contadina, spesso rimaneva imprigionata dai debiti nonché dalle
ipoteche sui terreni e priva dei minimi mezzi di sostentamento.
Ad accusare maggiormente il riflesso di questa trasformazione furono i
giovani che, non intuendo per loro un futuro che li rendesse almeno
adeguati e validi rispetto ai loro padri, traevano dall’instabilità e dalla
mancanza di prospettive la motivazione e la giustificazione per
compiere scelte radicali. A parte rarissimi casi in cui qualche potente
locale decideva di adottare e prendere sotto la propria protezione
qualche giovane particolarmente dotato, curandone l’educazione e
l’erudizione (un dato talmente esiguo da non avere una rilevanza
statistica), la stragrande maggioranza dei giovani delle campagne
veniva abbandonata al proprio destino. I giovani, indirettamente sospinti
dalla miseria verso un destino di emarginazione e di illegalità, andavano
a ingrossare le file delle bande di banditi rurali o, altrimenti,
intraprendevano una disperata migrazione verso le più grandi città
mercantili. La terra, dunque, non costituiva più una garanzia o una
sicurezza di sopravvivenza per la famiglia e il contadino, così come il
piccolo potente locale che da questo non aveva più speranza di poter
trarre il proprio agio, non aveva più ragione alcuna di rimanervi legato.
Di qui la scelta di abbandonare il lavoro pesante e poco remunerativo
dei campi per affluire verso le città dove si riteneva fossero concentrate,
oltre le ricchezze, le opportunità di progressione sociale.
In questo contesto storico-economico diviene, dunque, chiaro quanto il
pensiero di impronta confuciana fosse sempre meno adeguato al XIX
86
secolo, in cui la Cina subiva le prime spinte di occidentalizzazione.
L’affermazione di una nuova classe di intellettuali in risposta alle
esigenze
di
industrializzazione
e
di
occidentalizzazione
pose
nell’ombra, evidenziandone l’obsolescenza, gli intellettuali confuciani, la
cui impronta educativa, basata sulle virtù del gentiluomo e dell’uomo di
cultura distaccato e disinteressato verso le basse passioni (il denaro e
l’opulenza), chiaramente contrastavano con i bisogni della nuova era
economica.
La
nuova
classe
intellettuale
e
dirigente
che
progressivamente sostituisce le ultime resistenze arcaiche è quindi
costituita dagli imprenditori che hanno potuto interagire con “gli
stranieri”, e che sono riusciti a dare ai propri figli un’educazione, una
formazione economica e culturale di tipo occidentale. A fianco a questa
nuova classe intellettuale si affermano, parimenti, i compradores 76 ,
degli imprenditori commerciali minori di origine antichissima, che
svolgevano la loro attività nei “porti convenzionati”. I compradores, in
cinese ya-tzu o wu-tzu,77 originariamente appartenevano a famiglie di
contrabbandieri e trafficanti che, sollecitati dalle opportunità sempre
maggiori legate ai commerci nei porti marittimi e fluviali, rivestendosi di
un ruolo utile agli operatori economici stranieri, si inserirono come
intermediari d’affari, ricavandone lauti guadagni, tanto da essere, poi,
l’unica categoria riconosciuta ufficialmente dal governo.
In un’ottica di dualismo concorrente, e non alternativo, tradizionale della
cultura cinese del neoconfucianesimo (ma più ancora delle filosofie
76 Compradores, parola di origine portoghese con la quale, inizialmente, erano indicati gli impiegati delle
ditte straniere di importazione ed esportazione.
77 Letteralmente: intermediari.
87
eterodosse che ne implementarono il pensiero), la piccola borghesia
antiburocratica e antimonopolistica (cioè la nuova classe commerciale
della quale era divenuta espressione anche la classe politica e dirigente
del paese), rinveniva la propria legittimazione a esistere, nonché alla
prosperità, al potere e alla forza finanziaria, nella connessione con
quelle stesse società segrete e clandestine che in origine le sostennero,
le protessero e ne alimentarono l’affermazione. Un esempio di come da
una pregressa, strutturata, illegalità trovi la ragion d’essere un nuovo
ordine politico può essere dunque rinvenuto quale conseguenza di una
storia fatta di ribellioni contro il sistema fiscale, di contrabbando
commerciale, di opposizione alla struttura statalista del sistema
burocratico - mercantilistico del commercio nella Cina confuciana che
relegava l’impresa nei ranghi meno rilevanti della scala sociale.
Alla luce di quanto precede, appare ormai chiaro che è la ricchezza, più
che i titoli accademici, a essere divenuta significativa per l’elevazione e
la progressione nella scala sociale, e come siano ora i mercanti, la
vecchia e vituperata “classe bassa”, a detenere il potere (Fai-Ling
Davis).
Poiché nelle città le opportunità di arricchimento erano sicuramente
maggiori, ecco che l’afflusso dei migranti assume consistenza sempre
maggiore
e
le
periferie
urbane
si
ampliano
erodendo,
progressivamente, le aree rurali a esse contermini. Questo fenomeno di
“erosione” pone in evidenza un’inversione dei ruoli di complementarità
che portarono le zone rurali a dipendere dalle città e non più le
88
popolazioni urbane a dipendere dai prodotti e dai beni forniti dalle
campagne.
Sul finire del XIX secolo e sino al 1912, il progressivo processo di
occidentalizzazione della Cina portò a un’espansione economica senza
precedenti che trasformò la classe commerciale e mercantile in
un’agguerrita avanguardia capitalista protezionista i cui interessi
andarono
a
coincidere
con
quelli
politici
dei
nazionalisti.
Contemporaneamente all’affermazione della borghesia la massa
indistinta dei lavoratori andava a costituire una classe di lavoratori
urbani, una classe di lavoratori salariati immigrati dalla campagna che
non trovava precedenti nella strutturazione sociale tradizionale, la cui
funzionalità alle esigenze del mercato costituiva l’ossatura del sistema
capitalistico. La nuova categoria di lavoratori urbani, sebbene attratta
nelle città dal salario assicurato dall’indotto dei commerci sempre più
remunerativi, non dismetteva totalmente le attività rurali legate alla
propria origine contadina, dando così luogo a una sorta di migrazione
stagionale durante i periodi dell’anno in cui la terra, e l’occupazione in
qualità di braccianti, concedeva ai contadini il tempo per integrare
sussidiariamente i guadagni necessari alla sopravvivenza.
Le
tre
classi
sopra
menzionate,
nuovi
intellettuali
(frustrati),
commercianti e proletariato (diseredati sociali e strati privi di ogni diritto
politico) avevano in comune la provenienza dai recessi più oscuri della
società cinese. I più fortunati tra loro, una esigua minoranza, riuscivano
o a collocarsi come compradores o a trovare un lavoro tecnico come
operai
nell’industria.
Gli
altri,
caduti
nell’abiezione,
divenivano
89
mendicanti o banditi o, ancora, entravano a far parte delle società
segrete.
Il reclutamento degli adepti delle società segrete, sul finire del 1800 e
nel primo ventennio del 1900, avveniva, per larga maggioranza, proprio
tra queste “colonie” di migranti che ingrossavano le file di un sotto neo proletariato urbano abituato a vivere nella estemporaneità di lavori
precari, spesso improvvisati, ma sempre svolti ai margini della legalità.
Facchinaggio,
piccolo
commercio
al
dettaglio,
spettacoli
di
intrattenimento e di divertimento di strada erano forme di occupazione
diffuse, ma quanto mai inadeguate a garantire la continuità di un
guadagno e la dignitosa sopravvivenza dei lavoratori e delle loro
famiglie.
La disgregazione della vecchia struttura sociale cinese e dell’arcaismo
sul quale fondava la propria ragion d’essere stava definitivamente
estinguendo quanto rimaneva del ciclo dinastico. In un proliferare di
rivolte contro la corruzione dei burocrati, contro le ultime vestigia del
potere costituito, e con l’avvento delle “nuove” classi sociali, sostenuto
dai sempre maggiori interessi stranieri in Cina, si stava innescando una
sfida tra le associazioni “volontarie”78, e le associazioni “ascrittive”, cioè
le famiglie e i grandi gruppi familiari allargati (hu) socialmente egemoni
sino a quel momento.
78 Tra le quali vanno indicate le società segrete propriamente dette.
90
4. Le associazioni di tipo volontario
Collocate ai margini della società cinese, le associazioni di tipo
volontario comprendevano i sodalizi corporativi che riunivano categorie
professionali quali, ad esempio i mercanti di fiori, gli artigiani o ancora,
quella dei raccoglitori di sterco umano79. Esse cercavano, con prudenza
e cautela, di mantenere una posizione di ambivalente equilibrio, tale da
consentire loro di muoversi tra la tolleranza delle autorità di governo e
le persecuzioni, cicliche e periodiche, che le stesse autorità
promuovevano nei loro confronti quando ritenevano che il potere da
loro acquisito potesse interferire con quello statuale.
Le associazioni volontarie non ascrittive, dunque, pur non essendo
accettate e non costituendo parte integrante della società, così come
descritta nel paragrafo precedente, erano, di fatto, un elemento molto
importante “dell’ordine sereno” nel quale si destreggiavano le società
segrete. Sin da tempi remoti, infatti, i sodalizi segreti si sono sempre
serviti delle organizzazioni corporative dei mestieri come efficaci
coperture per i loro interessi. Ai non “iniziati”, dunque, risultava, in
generale, impossibile distinguere quali associazioni fossero dell’uno o
dell’altro tipo. Anche per questa ragione, così come per le società
segrete, le associazioni di mestiere (anch’esse, comunque, “segrete”),
sebbene non avessero finalità eversive o clandestine di alcun tipo, non
sempre erano in grado di sottrarsi al controllo preventivo e all’attività
repressiva degli organi di polizia. Non si esclude che i rapporti e i
79 Fai-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed.
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971.
91
legami che si sviluppavano tra questi due tipi di associazioni volontarie
fossero, dal punto di vista strutturale e organizzativo, assai simili, se
non identici, tra loro.
A queste due tipologie di associazioni volontarie (le società segrete e le
“associazioni di categoria”), poi, si affiancava un terzo: le associazioni
religiose (o società religiose). Proprio in seno a questi sodalizi si
svilupperanno e consolideranno, nel corso dei secoli, alcune delle
associazioni segrete più potenti.
La filosofia e la religione cinesi sono state nel tempo oggetto di molte
ricerche, ma non uguale attenzione è stata rivolta ad analizzare le
istituzioni
religiose
e,
nello
specifico,
quelle
eterodosse.
Una
motivazione plausibile si rinviene nella mancanza di interesse che gli
storici ufficiali cinesi hanno, di norma, dimostrato nei confronti delle idee
e delle istituzioni che si collocavano al di fuori del confucianesimo. Va
poi specificato che il pensiero confuciano non può essere definito una
religione nel senso che, in Occidente, viene attribuito a questa parola;
nella lingua cinese, infatti, non esiste un vocabolo la cui neutralità non
sottenda un orientamento interpretativo della religione in quanto tale
(Fei Ling Davis). Per gli intellettuali cinesi dedicarsi allo studio della
religione, o delle religioni, equivaleva a dedicare il proprio tempo allo
studio delle false dottrine o, ancora, delle superstizioni, quindi ad
argomenti bassi e insignificanti. Ma, se da un lato gli intellettuali
assumevano un atteggiamento sprezzante e di rifiuto aprioristico nel
conoscere e svelare gli anfratti di tale mondo, di tutt’altro avviso erano
92
le istituzioni statuali che percepivano un segnale di pericolo nella
popolarità che i riti buddisti e taoisti riscuotevano.
Coscienti del potere che la forza dell’eterodossia era in grado di
esprimere organizzando e promuovendo l’opposizione politica e le
rivolte che ciclicamente si sviluppavano nelle province, le istituzioni non
perdevano occasione per porre sull’avviso il popolo sulla pericolosità e
le insidie delle sette eterodosse. Hsieh-chiao80, “sette depravate”; weichiao, “sette pseudoreligiose”; yin-chiao, “sette oscene”; yao-chiao,
“sette perverse”, sono solo alcuni dei nomi più suggestivi in voga tra la
burocrazia mandarinale per definire le associazioni eterodosse
religiose. Ai seguaci delle sette e delle associazioni, come ai membri
delle società segrete, veniva, quindi, attribuito il nome di fei: banditi.
Chiao-fei, dunque, erano i banditi “settari” mentre hui-fei erano i banditi
“associati”.
La trasformazione delle sette religiose in “associazioni politiche” fu un
fenomeno che connotò prevalentemente le province della Cina
settentrionale a dispetto di quelle meridionali. La Setta del Loto Bianco,
la Setta degli Otto Triagrammi, i Nien, i Boxers e molte altre ancora
erano note per essere, al contempo, società segrete e associazioni
religiose e i loro seguaci, se catturati, non ne facevano mistero alcuno.
La letteratura dei più insigni sinologi del XIX secolo, che approfondirono
il ruolo che questi sodalizi assunsero sul finire dell’era imperiale,
evidenzia come i burocrati e gli intellettuali ammonivano – se si vuole
non a torto - il popolo a non farsi attrarre verso dottrine pericolose:
80 In cinese, per tradurre il vocabolo “religione” si usa chiao, letteralmente insegnamento.
93
Le società che in origine avevano avuto carattere politico
divennero, in seguito, anche società religiose (e viceversa), per
l’afflusso di sangue nuovo o per il verificarsi di nuove circostanze;
alcune si estinsero o furono ridotte al silenzio, e in certi casi
rinacquero sotto altro nome e in altro luogo, dopo aver modificato
o meno la propria dottrina e la propria struttura organizzativa; le
associazioni più grosse si scissero e le diverse parti si
svilupparono in modo autonomo. I testi e i documenti di tutte
queste associazioni erano conservati, di solito, in forma
manoscritta, e spesso dovevano essere distrutti in fretta e furia…
È impossibile sapere quante sette esistano ancora, ma si dice
che nel 1896 i loro aderenti variassero, in media, da ventimila a
due milioni in ogni provincia.81
Le sette religiose e le società segrete che operavano nella Cina
meridionale, nello Zhejiang e a Wenzhou in particolar modo (centri dei
più floridi interessi commerciali e finanziari) facevano risalire le loro
origini all’associazione I Fratelli del Giardino dei Peschi o alla
leggendaria impresa dei Cinque monaci del monastero di Shaolin, e
non avevano, di norma, un’ascendenza religiosa. Anzi, in termini
moderni, si sarebbero potute definire “laiche” anche se, in alcune
pratiche, mantenevano un “punto di riferimento” religioso che si
sostanziava nell’evocazione rituale di un antenato o di una divinità
eterodossa.
Il
misticismo
delle
sette
eterodosse
della
Cina
settentrionale, dunque, era ripreso solo nelle manifestazioni esoteriche
e cabalistiche dei rituali di affiliazione che richiamavano le preghiere
ma, di fatto, risultavano totalmente svuotate dai contenuti trascendenti e
metafisici.
81
Mervyn Llevelyn Wynne, Triad and Tabut. A survey of the origin and diffusion of Chinese and
Mohamedan secret societies in the Malay Peninsula, A.D. 1800-1935.
94
Un esempio in tal senso, connotante per le società della Cina
meridionale, è la “perdita” del ruolo gerarchico di alcune figure cardine
per la religiosità delle società segrete del Nord; il veggente (ming-yen) e
i Nove Palazzi (chiu-kung) del Nirvana buddista che sono sostituiti da
gradi gerarchici tipici e caratterizzanti di ogni società.
La Lega di Hung e le Triadi discendono dal fenomeno noto come paimeng, l’associazionismo laico di mutuo soccorso che, come v’è stato
modo di riscontrare sopra, è alla base della spinta aggregativa delle
associazioni riconducibili alla borghesia composta da mercanti e da
altre categorie professionali emergenti e finanziariamente in grado di
condizionare, modificandolo, il destino politico di un continente
asincrono nella sua complessità.
La disamina di alcune componenti antropologiche e tradizionali nelle
pratiche rituali eterodosse “loggistiche”, aiuta nella comprensione di
come sia giunta a oggi quasi immutata la struttura organizzativa e
strategica delle Triadi, una tra le più moderne e, allo stesso tempo,
antiche associazioni del crimine organizzato asiatico. Essa deriva la
propria natura e il suo potere, oltre che dal processo di radicamento
territoriale, nonché culturale che ha collocato geograficamente la genesi
delle società segrete più potenti (associazioni criminali transnazionali
con interessi nella finanza mondiale) nel Sud del Paese, dalla
trasformazione concettuale del pai-meng in guanxi82.
82 Letteralmente relazione o rapporto incentrati su connessioni interpersonali che facilitano lo scambio di
favori e determinano, tra i soggetti coinvolti, un forte legame, fondato su vincoli di scambio e beneficio
reciproco il cui scopo è consolidare il ruolo del clan. Un gruppo sociale allargato la cui parentela non si
concreta solo nel vincolo di sangue, ma che trae la propria origine e struttura dal senso di appartenenza
e, spesso, dal comune impegno finanziario per sostenersi l’un l’altro.
95
Zhejiang, ma anche Fujian, Guangdong e Hainan sono, da allora, un
Sud speciale. Mao Zedong, infatti, dopo la rivoluzione, non trascurò di
osservarne le potenzialità facendone, oltre che delle zone franche
sottratte al comunismo ortodosso, un laboratorio di economia capitalista
nel quale forgiare i moderni laoban dai quali Deng Xiaoping, il piccolo
timoniere, trarrà la linfa per, poi, partire con la controffensiva del
neocolonialismo cinese. Una penetrazione economica antimperialista
fondata sui punti deboli e di forza dello stesso capitalismo e del
consumismo e la cui politica delle “porte aperte” sarà solo il primo
passo verso l’espansione di un sistema. Il Sud cinese è, quindi, sin da
quegli anni, il cardano “progredito” (s’intende nei confronti delle
province settentrionali che si connotano per le esigenze tipiche di una
società rurale e che, proprio per questo, esprimono, anche nella loro
esperienza associazionistica, il limite culturale che le vuole legate più
alla superstizione popolare fusa alla religiosità taoista e buddista che a
un pragmatismo economico) al centro delle rotte e degli interessi
commerciali delle più aggressive potenze economiche occidentali, dalle
quali la Cina ha potuto trarre tutto il beneficio che le deriva dalla propria
storia.
Sempre dal guanxi trae la propria ispirazione quella forma di
solidarismo etnico al quale i gruppi sociali migranti che provengono
dalla Cina fanno riferimento nel momento in cui il soggetto migrante è
scelto e collocato, ancora prima di lasciare la madre patria, in un
gruppo sociale di destinazione definito. Una comunità accogliente nella
quale, se già non ne è parte, entra e alla quale rimarranno legati lui e i
96
suoi discendenti. In questo caso si tratterà di un vincolo economico che
gli permetterà di onorare il debito nei confronti di chi ha sostenuto le
spese relative alla migrazione e, progressivamente, di elevare la propria
posizione sociale sino a porsi, egli stesso, come terminale finale di altri
analoghi viaggi.
5. La famiglia e l’associazione parentale.
L’unità di base del sistema parentale cinese è la chia, la famiglia. La
connotazione di questo gruppo sociale era e permane a tutt’oggi
patrilocale, virilocale e a discendenza patrilineare (Fei-Ling Davis). Il
ruolo della donna, non molto diverso dalla sua connotazione moderna,
che la vuole impegnata nelle mansioni domestiche, si sostanziava nella
gestione dei domestici, nel coltivare quelle arti ritenute consone: non la
scrittura pittografica, bensì la musica o il canto. Impossibilitata ad avere
ruoli decisionali, nel campo della gestione degli affari di famiglia non
esprimeva il sé nemmeno nell’educazione dei figli, in particolar modo se
maschi. Il suo ruolo poteva riemergere in qualità di tutrice solo in
assenza di eredi maschi in grado di adempiere ai lavori, alle
obbligazioni e alle attività routinarie della Chie: la famiglia.
La figura della donna assumeva una connotazione assai diversa nelle
famiglie, e in quelle stirpi, di estrazione sociale meno elevata (laddove
con questa espressione debba intendersi: con minori apparentamenti
importanti) ed economicamente svantaggiate. Infatti, sebbene la
struttura sociale familiare fosse viricentrica, molta attenzione va
conferita al ruolo, alla funzione, assegnata in seno all’istituzione alle
97
donne. Ad esse competeva un ruolo economicamente attivo e la loro
reale validità all’interno della stirpe, struttura sociale di riferimento e in
funzione della quale veniva compiuta ogni singola scelta di una
strategia
tesa
alla
massimizzazione
dei
benefici
comuni,
era
determinata dalla loro partecipazione al lavoro e alla produzione.
La famiglia riuniva in sé, generalmente, fino a un massimo di tre
generazioni: avi, genitori e figli. La Hu (stirpe) costituiva, invece, una
struttura di grado e livello superiore; si trattava, infatti, della famiglia
allargata che poteva comprendere sino a cinque generazioni legate da
vincolo di sangue. A queste cinque generazioni si aggiungevano, poi,
un novero di soggetti che, di fatto, entravano di diritto a farne parte: le
concubine, i fratellastri e le sorellastre con i coniugi rispettivi, i figli
adottivi e, in ultimo, sebbene costituenti parte del “patrimonio”, i
domestici. Questa unità più complessa, a sua volta, poteva essere
parte di un più articolato gruppo parentale al quale veniva dato il nome
di Tsu, la casata, nella quale confluivano le Fang, delle diramazioni,
allocate in villaggi o città diversi rispetto a quelli d’origine del clan.
A corrispondere, a volte contendendone l’egemonia, in ambito sia
politico sia territoriale col potere nuovo delle società segrete e delle
associazioni volontarie, la Cina mantiene saldo il proprio radicamento
verso la tradizione e gli antenati che, di questa, diventano i venerabili
numi tutelari cui riferirsi in ogni cerimonia o evento che richieda una
tutela al vincolo da parte della sfera spirituale.
La famiglia parentale ascrittiva pone in relazione tra loro i membri sulla
base del vincolo di consanguineità prendendolo come il fulcro della
98
propria ragion d’essere. La forma di socialità arcaica cinese, infatti, non
concepisce frammentazioni tra l’antenato e il discendente; il continuum
si pone come elemento connotante della potenza di un gruppo sociale i
cui vincoli solidaristici non consentono defezioni o interruzioni. Essi si
spingono molto oltre la necessità di adempiere, o di cogliere, occasioni
estemporanee
per
affermare,
e
affermarsi,
in
seno
o
in
contrapposizione a tutto ciò che non è famiglia.
Il nucleo familiare primario, così come la famiglia allargata (intesa nel
senso in cui è sopra descritta), nella Cina meridionale – e non è una
casualità - ancora oggi resta il punto di origine di moltissimi tra i
migranti che compongono le comunità insediate nei centri produttivi
dell’Occidente: era, e resta, un soggetto complesso e articolato che si
pone in relazione con le altre istituzioni alla guisa di un organismo
unitario. La stirpe, cioè il fitto reticolo di relazioni, connessioni parentali
e obbligazioni reciproche (solidaristiche) che uniscono i nuclei primari di
consanguinei, oltre a possedere terre proprie atte ad assicurare
l’autonomia alimentare agli appartenenti al gruppo, poteva vantare il
possesso di beni immobili comuni come, ad esempio, il tempio votivo
nel quale celebrare le cerimonie e le pratiche dedicate al culto degli
antenati, ma anche a ogni altro rito di inclusione dei nuovi giunti.
Grande attenzione era devoluta alla formazione morale e culturale dei
giovani per i quali erano attive una o più scuole che assicuravano, nella
continuità della tradizione, la trasmissione dei valori arcaici che
avrebbero permesso loro di inserirsi socialmente e di andare a
occupare ruoli fondamentali nelle amministrazioni delle province.
99
Al tribunale familiare “privato”, andava il compito di dirimere le
controversie tra singoli soggetti o nuclei familiari così detti primari. Oltre
a ciò, tra i compiti di rilevante importanza da esso assolti, vi era la
funzione consiliare che permetteva di orientare, e dirigere, l’intera
attività economica, sociale e politica delle famiglie appartenenti alla
stirpe stessa.
Per millenni, e sino alla fine dell’età imperiale, la struttura sociale sopra
descritta poté conservarsi immutata grazie a relazioni corruttili intessute
e mantenute giovandosi degli apparentamenti tra famiglie abbienti, che
attribuivano un ruolo prevalentemente politico economico all’istituto del
matrimonio, come ancora oggi accade nel guanxi. La corruzione e la
concussione minute, le regalie, le piccole agevolazioni, la scelta
assennata dei matrimoni erano (e in molte realtà continuano a essere)
strumenti ordinari attraverso i quali ampliare o, quanto meno,
confermare, un tenore di vita adeguato alle proprie esigenze.
La
situazione,
per
le
famiglie
“povere”,
sebbene
le
logiche
comportamentali richiamassero in toto quelle descritte, mutava
notevolmente. Le stirpi prive di fondi agricoli e di altre risorse
finanziarie, infatti, raramente riuscivano a mantenersi “unite” venendo,
quindi, assorbite da clan potenti, contribuendo, così, al consolidamento
di questi. A parte segni esteriori di un passato che era stato glorioso e
opulento, rappresentato, talvolta, dalle vestigia del tempietto votivo per
gli antenati, nulla più potevano ostentare se non lo spirito di coesione
derivante dal guanxi.
Per concludere, la stirpe (come la milizia di città o di villaggio) era
un potere a sé, che si affiancava al potere dei funzionari e dei
100
nobili di provincia. Era, in sostanza, uno stato nello Stato, che
possedeva – come già si è detto - il suo tribunale e le sue scuole,
i suoi servizi di assistenza e i suoi organi amministrativi, i suoi
templi e persino il suo archivio storico, il tsu-p’u, circondato da
un’alta muraglia che racchiudeva case e strade accentrate
materialmente e simbolicamente intorno alla sala degli antenati.
Tutte le controversie fra i membri di una stessa stirpe (eccettuati i
delitti di omicidio e di tradimento) erano giudicati dai tribunali
della
stirpe,
i
quali
–
come
i
notabili
di
provincia
-
rappresentavano la longa manus del potere centrale. Era cosa
abbastanza frequente che i tribunali della stirpe sfidassero
impunemente le sentenze emesse dal magistrato in sede
giurisdizionale, poiché quest’ultimo, il più delle volte, era poco
disposto a inimicarsi un potenziale sostenitore locale o era troppo
lontano dal luogo del delitto per poter reagire in modo efficace
alla sfida. Di conseguenza, la struttura organizzativa della stirpe
diventò, insieme alla milizia, l’arma più potente in mano ai notabili
di provincia e costituì, nella seconda metà del secolo XIX, un
efficace contrappeso al potere dei magistrati locali e al loro
defunto sistema del pao-chia.83
L’attualità e l’utilità nel processo di comprensione delle dinamiche sopra
evidenziate, ancorché sia chiaro il loro riferirsi a un’epoca remota, sono
tanto evidenti quanto paradigmatiche. Se tale dato viene coniugato con
le informazioni e l’esperienza d’interazione contemporanea e quotidiana
tra i gruppi sociali migranti costituitisi in Occidente a seguito di quella
che viene definita la “diaspora cinese” e i gruppi presenti nei territori
d’insediamento, assume una rilevanza importantissima nel gettare le
basi per la comprensione di alcuni fenomeni sociali d’integrazione e di
relazione.
83 Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria, Ed.
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.62.
101
Ancora oggi le prassi che caratterizzano i rapporti all’interno dei gruppi
migranti, improntati a esaltare i vincoli presupposti dalle relazioni
familiari, confermano queste dinamiche e, replicando il modello
tradizionale - arcaico all’interno della diaspora cinese nelle località
d’insediamento abitativo o nei siti in cui i soggetti economicamente attivi
“scelgono” di attivare le imprese, connotano quella realtà, a volte,
difficile da comprendere se osservata con un metodo d’analisi del
fenomeno occidentalista.
6. La Triade: le origini
Nei precedenti paragrafi sono stati brevemente accennati i presupposti,
storici, sociali e culturali, prodromici alla nascita delle società segrete e
delle associazioni (volontarie o ascrittive) in Cina. Si è evidenziato
quanto questi sodalizi, di fatto necessari, abbiano tratto la motivazione
a esistere dall’esigenza spontanea di creare una struttura socioassistenziale parallela e di organizzare, quindi, in modo orizzontale sia
la sussidiarietà sia la solidarietà, al mero fine di sopperire ai più
elementari bisogni del gruppo. Il Popolo, così come lo abbiamo visto
suddiviso da un rigido protocollo in classi sociali, si trovava, dunque, in
una sorta di ondivago limbo: una posizione nella quale, quando non gli
era permesso di vivere ignorato, veniva comunque esposto alle
vessazioni e alle persecuzioni delle istituzioni locali, il cui unico fine era
di preservare se stesse consolidando la propria prevalenza economica
e politica.
102
Il panorama nel quale si muovono, ancora oggi, le società segrete è,
dunque, assai vasto e variegato. Data la scarsità di materiale
disponibile a suggerire una mappatura di tutti i sodalizi esistenti e delle
molteplici forme da questi assunte, si ritiene più confacente servirsi di
un metodo d’analisi più generale, sintetizzando i dati disponibili e utili a
costruirne un tipo ideale. Data la mobilità e il decentramento dei sodalizi
in disamina, questo metodo appare come l’unico per tentare un
approfondimento
senza
incorrere
in
fuorvianti
prospettive
omogeneizzanti dalle quali sarebbe, poi, difficile discostarsi.
Il mimetismo fluido e l’attitudine al complesso polimorfismo di cui,
ancora oggi, le società segrete sono capaci, trae la propria origine dalla
necessità atavica di operare in clandestinità e compiendo spostamenti
continui in modo da non consentire al “nemico” di acquisire un novero di
informazioni utili a delinearne il profilo e l’organigramma. La capacità e
la propensione all’adattamento si autoalimentava, come ancora oggi
avviene, dal recepimento degli usi e delle consuetudini del territorio in
cui gli “affiliati” venivano accolti, nonché dall’interazione con gli iniziati
delle società “ufficiali” ospiti, cioè a dire dietro le quali si mascheravano
i fini del sodalizio clandestino. Quindi, quali che fossero le apparenti
diversità, la società segreta cinese mantenne sempre una struttura del
tutto simile a quella delle varie associazioni.
Le differenze geografiche alle quali si è già accennato assunsero
un’indubbia rilevanza in relazione alla composizione sociale delle
società segrete. Nello svolgimento di questo paragrafo il campo
d’analisi sarà opportunamente ristretto a quel gruppo di sodalizi la cui
103
fusione e cooperazione è giunta a noi con il nome di Lega di Hung o,
meglio, con l’appellativo di Triade84: una propaggine della Setta del Loto
Bianco la cui leggendaria genesi è da ricondurre ai monaci guerrieri del
monastero di Shaolin.
La leggenda sulla genesi della Triade è intrisa di magia e simbolismo
cabalistico esoterico. Il mito narra che agli inizi del Settecento nello
stato del Fukien, nel Nord della Cina, i monaci del monastero buddista
di Shaolin, noti per la fama di esperti guerrieri, misero le loro
competenze al servizio dell’imperatore K’ang-shi. Per comprendere
quanto ancora di quel passato sia attuale nelle odierne pratiche e
credenze, si deve sintetizzare la leggenda sull’origine della Triade:
L’imperatore chiese e ottenne il loro aiuto per spingere le fiere
tribù degli Eleuti, che minacciavano le frontiere settentrionali
della Cina. Al termine di una brillante e vittoriosa campagna, i
monaci fecero ritorno al convento carichi di onori, dopo aver
rifiutato tutti gli incarichi governativi che erano stati loro offerti.
Qualche tempo dopo, due ministri dell’imperatore, gelosi dell’alta
considerazione in cui i monaci erano tenuti dal sovrano, lo
istigarono a ucciderli, sostenendo che –dopo aver mostrato il loro
valore in battaglia- essi erano tornati al loro tempio fortificato al
solo scopo di fomentare la rivolta. In conseguenza di ciò, e con la
complicità e il tradimento di un monaco che, nella gerarchia del
pugilato, era chiamato il numero sette, il monastero di Shaolin fu
scoperto, incendiato e distrutto dalle truppe imperiali, che
uccisero la maggior parte degli occupanti. Con l’aiuto di una
magica nuvola gialla, inviata da Buddha, cinque degli ottocento
monaci riuscirono a fuggire. Durante il cammino si imbatterono in
vari prodigi: un turibolo magico con la scritta <<Rovesciare i
Ch’ing e restaurare i Ming>> (Fan-Ch’ing-Fu-Ming)
e con
l’ingiunzione <<Agite secondo la volontà del Cielo>> (Hsun-T’ien-
84 […] Il cui nome per gli adepti è “Società Segreta del Cielo, Terra, Uomo" (Tien-ti-jen).
104
Hsing-Tao); un’erba che, quando fu messa a bruciare nella
ciotola, si convertì in bastoncini profumati; dei magici sandali
d’erba che – dopo essersi trasformati miracolosamente in una
barca - li trasportarono al di là del fiume ; un ponte a due assi,
sotto il quale si trovarono tre pietre per guadare il fiume, sulle
quali
erano
scritte
le
parole
<<calma>>,
<<mare>>,
<<galleggiare>>, (Ting, Hai, Fou) e con l’aiuto delle quali
riuscirono a sfuggire alla sorveglianza delle guardie dei Ch’ing
che stazionavano sul ponte; una spada di legno di pesco e di
susino che sporgeva dal suolo e che fu usata dalla moglie e dalla
sorella di uno dei monaci per uccidere i soldati che li
inseguivano. Queste due eroiche donne si suicidarono subito
dopo, per non rivelare sotto l’effetto della tortura il luogo dove si
erano nascosti i monaci.
Questi ultimi cercarono rifugio in un monastero della provincia del
Kwangtung, dove furono presentati a cinque capi ribelli (i <<capi
dei cavalli>> o <<mercanti di cavalli>>), ex funzionari della
dinastia Ming. Questi cinque uomini diventarono i <<Cinque
Secondi
Antenati>>
(hou-tsu),
mentre
i
cinque
monaci
diventarono i <<Cinque Primi Antenati>> (ch’ien-tsu).85
85 Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed.
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pp.98-99.
105
86
Mappa del tempio di Kao-Chi
La leggenda continua enfatizzando la narrazione con una serie di
particolari dall’alto valore simbolico e magico che non trascurano di
connettersi alle pratiche invalse per “mascherare” le operazioni di
reclutamento degli adepti, le connessioni con le attività commerciali
nonché i rituali tipici per attribuire i gradi gerarchici nelle società segrete
che confluiranno in seno alla Triade.
Quasi a nobilitare e rendere “alto” lo scopo della volontà associativa,
l’origine del sodalizio con il suo nome primigenio sarà ricondotta alla
“resistenza” dei seguaci della dinastia Ming contro le persecuzioni
dell’imperatore Ch’ing. Non a caso la comparsa, nella narrazione
leggendaria, di un preteso discendente della dinastia Ming intento a
reclamare per sé il ruolo che il destino avrebbe voluto per lui nell’Impero
Celeste, muta la vocazione settaria e delinquenziale del sodalizio in una
86 Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme
primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.93.
106
missione sacra e legittima: la restaurazione degli imperatori han a
discapito degli usurpatori mancesi. La connotazione politica delle
finalità della società segreta, dunque, rispecchia e rafforza le
connessioni tra religiosità e potere di modo che, spesso, le rivolte
risultano sì popolari, ma con l’espressa matrice spirituale sotto la quale
si celano gli interessi che oggi chiameremmo “criminali” e “di loggia”
delle società stesse.
L’abate del monastero disse loro che un certo Chen Chin-nan
della Grotta della Cicogna Bianca (la leggenda non fornisce altri
particolari del luogo) stava raccogliendo truppe per rovesciare la
dinastia mancese dei Ch’ing. I monaci si recarono allora alla
grotta di Chen, e qui decisero di andare a Mu Yang (Città delle
Colline) nella provincia del Fukien, per stabilirvi il loro quartier
generale e reclutarvi patrioti decisi a scatenare la rivolta contro i
Ch’ing. Furono aperti negozi per occultare il lavoro di
reclutamento e per sistemarvi gli uomini fino a che fosse giunto il
momento di dare inizio alla rivolta. Un uomo robustissimo di
nome Wan Yun-lung, che si era dato alla macchia per aver
ucciso un uomo, si unì a loro e morì più tardi in un fallito tentativo
di ribellione che ebbe luogo nella provincia del Fukien. Un
ragazzo, di nome Chu Hung-ying87, sostenne di essere l’erede
legittimo della dinastia Ming e fu accettato in seno alla Triade,
che ne fece il suo <<delfino>>. Fallita la rivolta (scoppiata
probabilmente nel 1674 o nel 1794) i monaci si dispersero e
fondarono cinque logge <<maggiori>> nelle cinque province del
Fukien, del Kwangtung, dello Yunnan, dello Hunan e del
Chekiang, mentre gli altri cinque uomini (chiamati talvolta i
Cinque Generali Tigre) fondarono cinque logge <<minori>> nelle
vicine province del Kwangsi, del Szechwan, dello Hupei, del
Kiangsi-Honan e del Kansu. Le logge maggiori furono chiamate
87 Hung diventerà, in seguito, parte del nome che darà l’appellativo al più risalente sodalizio segreto: “Lega
di Hung” o “Famiglia di Hung”. La tradizione vuole che sia l’associazione clandestina da cui deriva la
Triade.
107
le <<cinque prime logge>> (Ch’ien Wu Fang), quelle minori le
88
<<cinque logge successive>> (Hou Wu Fang).
89
Mappa delle regioni d’origine delle Logge
La leggenda sull’origine storica della Triade presenta, nelle molteplici
forme in cui è stata tramandata, un notevole numero di elementi storici
che aiutano a collocarla temporalmente e a comprendere le motivazioni
sociali, economiche e politiche comuni alle classi meno abbienti, ma
anche alla nobiltà decaduta con l’avvento dei Ch’ing, che portarono il
popolo a porre in essere delle forme di autotutela in grado di
consentirgli di sopravvivere. Il ricorso alla coniazione di una società
segreta, la cui necessarietà viene ricondotta a “nobili” origini, e la
strutturazione della rete solidaristica che intorno a questa si sviluppa
(supportata dalla classe mercantile e commerciale sotto la facciata
dell’associazionismo volontario), consentirono di contenere le più acute
88 Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed.
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.99.
89 Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis: Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme
primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag. 101.
108
e feroci forme persecutorie da parte dei feudatari di provincia nei
confronti dei seguaci fedeli, ma sconfitti, della dinastia Ming. Costoro,
nel 1662, a seguito del sopravvento dei mancesi della dinastia Ch’ing,
dovettero riparare e trovare protezione nei monasteri buddisti che
diventarono, così, oltre che i centri nodali della resistenza contro lo
“straniero” mancese, gli obiettivi della feroce repressione Ch’ing.
La persecuzione dei fedeli e dei monaci buddisti, nella coscienza
popolare, rappresentò un ulteriore attacco alla cultura han e assunse,
immediatamente, la connotazione di una offensiva militare nonché di un
tentativo di depauperazione culturale, verso quello che, della dinastia
Ming - la sconfitta casata cinese -, era rimasto di caratterizzante per il
sentimento di identificazione e riconoscimento nazionale. In questo
periodo, dunque, si delinea la prima alleanza tra l’eterodossia religiosa
e le spinte nazionaliste che si sintetizza, quindi, nell’unico obiettivo cui
potesse essere attribuito un valore identitario: “Abbattere i Ch’ing per
restaurare i Ming”.
Ancor oggi è di grande importanza l’attribuzione sacra dell’origine della
Triade che, come s’è visto, si vuole discenda dalla “Setta del Loto
Bianco” (o Lega di Hung o, ancora, Famiglia di Hung). Ciò non tanto
perché i suoi accoliti dovevano essere legati da un vincolo spirituale,
quanto per il carattere suggestivo e aggregante - sintesi di misticismo e
superstizione – della cerimonia del rito d’iniziazione (la preghiera verso
alcune divinità buddiste come Kuan-yin o taoiste come Wu-sheng-laomu). Tale rito aveva un ruolo accomunante e, soprattutto nella Cina
109
settentrionale, consentiva di dare un carattere universalistico al
sodalizio.
A tal proposito non si può escludere, come ricorda Fei-Ling Davis nel
saggio sull’origine della Triade, che tali divinità religiose, così come il
ragazzo di nome Hung, siano state introdotte artificialmente per uno
scopo meramente politico, cioè per occultare gli scopi reali del sodalizio
dietro ad una parvenza di valori alti e largamente condivisi tra la
popolazione.
Nella Cina meridionale, invece, la stessa Triade assume caratteristiche
alquanto differenti. Non ci sono connessioni dirette con il buddismo o
con il taoismo e le gerarchie interne non hanno nomi riconducibili a
divinità ma invece, seppur mantenendosi legate alla tradizione dei
Cinque Vecchi Antenati, dei Cinque Nuovi Antenati e dei Cinque
Generali Tigre, sviluppano una propria scala gerarchica legata alla
funzione che il soggetto partecipante assume in seno alla società
segreta. Le propaggini triadiche che oggi operano su scala mondiale
nell’ambito del crimine e della gestione degli affari, anche leciti, si
informano più al laicismo della connotazione meridionale della società,
facendo dell’economia e dei traffici mercantili lautamente remunerativi,
e quindi soprattutto illeciti, il vero collante e lo scopo del sodalizio.
Il vecchio imperativo: “Non maltrattare i monaci buddisti e non prendersi
gioco di loro”, seppure rimanga in uso ancor oggi e costituisca parte
integrante del giuramento dei neofiti, in realtà appartiene alla tradizione
arcaica che tendeva più a proteggere i religiosi da un risentimento
110
popolare diffuso verso la loro opulenta oziosità che all’osservanza di un
principio spirituale realmente sentito.
La Triade, dunque, come altre società non ascrittive, ha uno scopo
mutualistico e assistenziale che, ancor oggi, si esprime esclusivamente
tra gli appartenenti al gruppo. Sebbene sino ad ora sia stato opportuno
ricondursi al “mito” per comprenderne la genesi, grazie all’analisi degli
appunti del tenente colonnello B. Favre 90 ci è dato acquisire alcune
informazioni fondamentali sulla formazione di un organismo segreto di
matrice mutualistica e assistenziale, analoga a quella della triade di cui
egli osserva acutamente i momenti topici.
La Società dell’Orchidea
d’oro venne costituita nei pressi di Tientsin attingendo la propria
compagine tra il contingente di militari in partenza per la guerra del
1916 e cioè in concomitanza con l’intervento cinese nel conflitto bellico
1914-1918. Lo scritto di Favre fornisce, dunque, un documento unico e
prezioso, considerata l’epoca relativamente recente in cui viene redatto,
in cui si evidenziano sia la hui (o pai-meng: solidarietà, spirito di
fratellanza), sia le dinamiche spontanee che determinano la nascita di
un’associazione
segreta
moderna,
che
però
segue
i
principi
organizzativi ortodossi e mutua la “procedura” da quella della Società
Cielo, Terra, Uomo.
Non si ritiene inappropriato dal punto di vista descrittivo, dunque, dare
ampio risalto allo scritto del Colonnello Favre, il quale, oltre a riferire i
90 B. Favre, autore del saggio: Les Sociétés secrètes en Chine. Origine. Rôle historique, Paris,
Maisonneuve, 1933. Favre, fu Tenente Colonnello dell’Esercito francese di stanza in Estremo Oriente e
fu decano presso l'Istituto franco-cinese dell’Università di Lyon.
111
fatti, compie un’analisi non astratta dal contesto socio temporale in cui i
fatti stessi si compiono:
Separati bruscamente dalle famiglie e dagli amici, preoccupati di
un avvenire carico di incognite, cinque vicini di baracca si erano
confidati i propri nomi, cognomi ed età e si erano messi a parlare
dell’avventura che stava per cominciare. [Si noti come il numero
cinque torni prepotentemente a fare la propria comparsa anche
nella narrazione di uno straniero quale Favre è] il più anziano dei
cinque disse all’improvviso: <<Nessuno sa quale sorte ci attende,
a quali pericoli andremo incontro. Ognuno di noi, da solo,
soccomberà; uniti, invece, potremo lottare, aiutarci a vicenda.
Facciamo anche noi quel che fecero –nel periodo dei Tre RegniHuien-te,
Kuan-Yu,
e
Chang-Fei,
i
quali
si
adottarono
reciprocamente come fratelli nel Giardino dei Peschi ed ebbero
un avvenire glorioso. Se non lo avessero fatto, sarebbero periti e
la Cina avrebbe continuato a soffrire le più terribili sventure>>.
<<Lo fanno tutti, -aggiunse un altro,- basta mettersi d’accordo. Io
so scrivere e posso preparare il contratto. Questa sera ci
riuniremo e pronunceremo il giuramento secondo i riti>>. E così
fu fatto. Sulla nave che li trasportava in Francia, i cinque amici si
legarono ad altri operai e procedettero ad altre iniziazioni. Al
momento dello sbarco a Marsiglia, il gruppo era composto da
cinquanta associati (decuplicazione del cinque): ognuno di loro
aveva un libricino, contenete la lista di tutti i confratelli in ordine di
età. Cominciarono subito le prime apprensioni: sarebbero stati
costretti a separarsi, alcuni sarebbero stati inviati al Nord, altri a
Ovest. Ma il giuramento li legava ormai per sempre. Dovunque
fossero andati, sarebbero rimasti sempre fratelli. E per
riconoscersi meglio, per distinguersi dalle altre società consimili
che erano sorte intorno a loro, scelsero per la loro società un
nome, un simbolo di buon augurio: <<L’Orchidea d’Oro>> […]. 91
La lettura dello scritto di Favre, che sintetizza e sviscera molto delle
tradizioni cinesi legate alle società segrete e in particolar modo a quelle
91 B. Favre, Les Sociétés secrètes en Chine. Origine. Rôle historique. Ed. Maisonneuve, Paris 1933.
112
triadiche - per come sono state studiate dalla metà del secolo scorso consente, in sintesi, di trovare tutti o quasi gli elementi descritti sino a
ora dalla letteratura arcaica e nei contratti associativi vincolanti per gli
associati a dette società (e, pertanto, anche alle associazioni categoriali
di lavoratori), rinvenuti negli archivi dei sodalizi stessi. In particolare si
può notare come la simbologia cabalistica, e la numerologia magica,
alla quale i fondatori della setta si richiamano, siano un passaggio
indefettibile della procedura attraverso la quale essa trae la propria
esistenza. Si noti, e non può dirsi una coincidenza, come i soldati in
procinto di partire per l’Europa, si riuniscano nel numero di cinque per
fondare la Società dell’Orchidea d’Oro.
Essi sono cinque, com’erano cinque i Vecchi Antenati e i Nuovi Antenati
e come sono cinque i Generali Tigre; la ripetitività del quorum
necessario a far muovere la spinta all’associarsi non è, dunque,
casuale.
La volontà collettiva si fonda, oltre che sull’affinità, anche sulla
condivisione di valori che, per beneficiare della protezione degli
antenati, devono essere comuni. Perché il gruppo possa strutturarsi e
iniziare a operare armoniosamente per l’interesse collettivo nulla deve
uscire dall’ortodossia eterodossa.
In questo specifico caso, la volontà di formare il sodalizio nasce da una
esigenza, la stessa che mosse i loro antenati a riunirsi nei templi
buddisti e taoisti: giungere a formare un gruppo solidale in grado di
esprimere al meglio quanto il guanxi, ancor più della hui o del pai-meng,
sintetizzasse. L’intreccio delle vite e dei destini diventa importante come
113
la propria vita, e la fratellanza “volontaria” è, comunque, l’espressione di
una necessità collettiva di “adottarsi reciprocamente” stabilendo un
vincolo, in forma contrattualistica, dal quale sottrarsi non è né
ipotizzabile né d’interesse per i consociati.
L’associazione volontaria di mutuo soccorso diventa contrattualmente
La Famiglia e, a tutti gli effetti, assimila e attua le regole che di questa
sono proprie. Da un tale vincolo non sono escluse neanche le donne
che, egualmente adottate, venivano destinate a svolgere lavori
domestici o a divenire le spose dei figli della fratellanza (Fei Ling
Davis). L’adozione per contratto pone l’iniziato di fronte a una serie di
obblighi alla violazione dei quali corrisponde l’applicazione di sanzioni
che spaziano dalla natura patrimoniale delle stesse a quella penale che
si sostanzia nella perdita della libertà personale (schiavizzazione), nella
mutilazione o, addirittura, nella soppressione fisica attraverso la
ritualizzazione della condanna a morte.
All’interno
dell’Orchidea
d’Oro,
i
legami
patrimoniali,
i
legami
economico-finanziari, i vincoli politico-amministrativi e di solidarietà
attiva sono, quindi, riconosciuti come elementi comuni: l’unica via per
sopravvivere all’incertezza di un viaggio verso l’ignoto in un continente
del quale quei soldati nulla sapevano. A fronte, dunque, di tale
aprioristica chiusura al “profano”, tutti potevano perdere la fragilità
derivante dall’individualità, fondendosi nel corpo unico dell’Io collettivo.
Dalla forza della tradizione che discendeva l’identità, la certezza di
tornare a casa e di rimanere, comunque, se stessi ovunque fossero
approdati.
114
7. L’affiliazione alla Triade
L’adesione del soggetto candidato, o cooptato, alla società della Triade
avveniva solo se questi poteva avere una utilità per la struttura stessa.
Nessuna preclusione o preferenza era gravata da pregiudizi di classe e
l’impegno richiesto al neofita si riduceva all’essere solo ciò che una
persona
è.
Nessuna
menzogna,
nessuna
finzione,
nessun
mascheramento era tollerato all’interno delle relazioni infra-loggistiche.
La fedeltà alla società, però, doveva essere assoluta.
Nelle Lezioni sulla filosofia della storia, G.W.F. Hegel definisce le leggi
statali
leggi
giuridiche
e
morali
e,
confrontandole,
se
non
contrapponendole, con le leggi interiori, cioè alla conoscenza
che il soggetto ha del contenuto del suo valore come della sua
propria interiorità, sottolinea come ha luogo essa stessa come
esteriore comando giuridico, mentre il diritto, dal canto suo,
assume l’apparenza della morale.92
Non sembra, dunque, inappropriato partire da questo punto per
approcciare quanto “diritto” vi sia nell’ordinamento giuridico 93 della
Triade, che non comprende esclusivamente norme penali e di
procedura, ma, anche i Lü-li, delle norme egualmente vincolanti, ma a
carattere etico. La differenziazione alla quale si fa riferimento, però, non
trovava una codificazione ufficiale né all’interno del sodalizio né (del
resto come sarebbe stato possibile?), dal diritto ufficiale. Essa fa parte
92 Georg Wilhelm Friederich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia - Ed. Aracne, Firenze 1947.
93
Si veda Fai Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta
rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971.
115
di quel diritto vivente che, in seno a detti contesti, esprime una cogenza
assi maggiore di ciò che è rinvenibile negli scritti.
La Società della Triade aveva e, secondo studi più recenti, mantiene un
binario normativo che vincola i propri accoliti: uno implica l’adesione dei
consociati al sistema di norme penali (con la relativa disciplina
procedurale alla quale richiamarsi per la loro applicazione), e il
secondo, a carattere squisitamente morale, al quale l’iniziato è vincolato
attraverso il rito di accoglimento durante il quale pronuncia i Che; i
giuramenti che, permeati di formule imprecatorie
94
, servivano a
trasfondere gli insegnamenti arcaici e ad addestrare moralmente,
modificando e uniformando, il pensiero dei neofiti.
Con la promessa implicita di vedere assolte tutte le inottemperanze che
lo stato centrale disattendeva in termini d’istruzione, assistenza ed
erogazione dei minimi servizi, la triade attraeva a sé gli affiliati, ma solo
attraverso il reticolo di minacce, la società segreta, li legava
indissolubilmente alla struttura.
La fede nell’efficienza e nell’efficacia della società, nonché una buona
dose di credenze popolari e superstizioni di varia natura, facevano sì
che il giuramento pronunciato si innestasse nella morale dell’individuo
che, qualora avesse disonorato il proprio impegno e disatteso gli
obblighi di solidarietà, segretezza o tradito i fini istituzionali della Triade,
sarebbe stato bersaglio di ogni sorta di nefandezze e vendetta da parte
degli spiriti degli antenati.
94 Ibidem
116
95
Certificato di appartenenza alla Loggia
Se taluno disobbedisce a questa regola –recita una delle formule che
compongono il Che- e dimentica i suoi doveri di fratellanza, sarà
considerato spergiuro: possa la folgore annientarlo, in qualsiasi punto
della terra egli si trovi. 96
L’accesso alla Triade, comunque, non avveniva a titolo gratuito, ma
prevedeva come impegno da parte dell’iniziando il versamento di una
quota di adesione per il quale era rilasciata idonea e regolare ricevuta,
nella quale non mancava il riferimento al dovere ad agire secondo
giustizia e al potere assoluto del Cielo (l’impero celeste da cui si fa
95 Illustrazione tratta dal saggio: Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta
rivoluzionaria - Fei-Ling Davis, Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag. 200.
96 William Stanton, The Triad society, cit, p. 118 Appendice.
117
discendere l’inizio del mito della Triade) verso il quale insisteva e
permaneva il dovere d’obbedienza.
97
Ricevuta di versamento
Come sopra v’è stato modo di specificare, la società della Triade aveva
un proprio ordinamento che s’ispirava, in modo equivalente, al Grande
Codice (Ta Ch’ing Lü-li) e possedeva, altresì, una sua versione del
97 Illustrazione tratta dal saggio Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta
rivoluzionaria. Fei-Ling Davis - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag. 201.
Traduzione:
Sala di I-hing – Riceviamo da [nome dell’iscritto] la somma [quantità di monete versate]. La società
rilascia questo biglietto come prova dell’avvenuto pagamento. Obbedisci al Cielo e comportati secondo
Giustizia! L’anno [espresso in caratteri ciclici] dei movimenti celesti …, il mese …, il giorno …
Autenticato con sigillo.
118
Sacro Editto98. L’interpretazione, dunque, delle clausole penali avveniva
in autonomia, ma rimaneva, comunque, vincolata e ispirata a tale
combinato disposto. Ecco, quindi, che una formula esatta non esiste
nemmeno oggi, anche se il senso tende a rimanere lo stesso pur
assumendo una diversa e tipica autenticità per ogni singola società che
partecipa alla costellazione triadica.
Ciò che resta fondamentale è la forma della maledizione. Il potenziale
spergiuro, o il traditore, sa che l’ira degli antenati o delle divinità lese
dalla condotta vietata sarà placata non da eventi paranormali (ai quali
tuti fingono di credere), ma dalla longa manus della società segreta. Più
banalmente, dai suoi sicari.
Nella Famiglia di Hung (o Lega di Hung) il codice normativo, che era
sottoscritto
dagli
affiliati
all’atto
dell’iniziazione
e
comprendeva
settantadue articoli. Lo Hung-chia Ch’i-shih-erh t’iao Lü-li, ispirato dal
Codice Ch’ing, aveva la finalità di definire le forme di reato in cui
l’adepto poteva incorrere e di comminare la relativa sanzione: colpi di
frusta, taglio degli orecchi fino alla morte per decapitazione. Nel corpus
legis della Triade, dunque, non si rinvenivano che poche tracce delle
sofisticate pene che il diritto ufficiale riservava a chi violava la legge,
pertanto l’indugio in uno smembramento o la sepoltura da vivo del
condannato, si deve ritenere che fossero, come oggi sono, una
“superflua perdita di tempo”. Nemmeno l’espulsione, quindi ciò che per
la norma statuale era rappresentato dall’esilio, veniva considerata un
pena perseguibile se non che riguardasse l’estromissione del soggetto
98
Si veda Fai-Ling-Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta
rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971.
119
dalla singola sezione, il che presuppone che questi venga accolto in
un’altra loggia. Il giuramento che l’iniziato sottoscrive all’atto del suo
accoglimento nella fratellanza, infatti, prevede d’essere sciolto solo con
l’intervento della morte del sottoscrittore stesso. 99 L’inflessibilità del
dettato normativo triadico estrinseca uno scopo diverso rispetto a quello
ufficiale bipartendosi: uno interno che tende a raggiungere la coesione
tra gli affiliati e che de facto delegittima ogni legge dello Stato e uno
esterno che garantisce di tenere uniti i fili di una trama, la società
segreta appunto, la cui capacità di penetrare, coprire e avvolgere ogni
attività di suo precipuo interesse, supera ogni altra organizzazione
criminale operante al mondo. Organizzata come un servizio segreto tra
i più moderni, la Triade opera da secoli cementando i rapporti tra i
consociati attraverso un movimento politico ideologico aggregante. Se
le cerimonie di affiliazione aumentano il senso di solidarietà tra i
confratelli legandoli drammaticamente ai valori culturali condivisi e
comuni, l’applicazione delle sanzioni per i traditori e i disertori
garantiscono una omogeneità e, al contempo, una bassa litigiosità in
nome del preminente valore della impermeabilità verso il mondo
esterno. Le sanzioni derivanti dalle norme interne, dunque, oltre a
garantire
l’impermeabilità
nei
confronti
dell’ordinamento
statale
delegittimandolo, si prefiggevano lo scopo di impedire che la
sprovvedutezza o la delazione di qualche fratello, consentisse
permeabilità alle spie della polizia. Il “codice” interno, colpisce con la
pena di morte non solo chi tradisce, ma, anche, chi introduce spie della
99 W. P. Morgan, Triad societies in Hong Kong – U.S. Government Press, 1960.
120
polizia durante le cerimonie d’iniziazione; chi denuncia alle autorità il
Presidente o il Maestro dell’incenso; ancora, chi compie sabotaggio nei
confronti dei sistemi di comunicazione tra le logge o riveli l’attività della
loggia stessa. Alla morte, non sfugge nemmeno chi denunci un
confratello che abbia ucciso per mandato della loggia e chiunque ponga
a repentaglio la copertura del proprio confratello facendolo identificare e
arrestare dalla polizia 100 (Gustaaf Schlegel101, The Hung Legue). Per
rendere un esempio di quanto il legame di fratellanza abbia importanza
all’interno di ogni singola società che costola della Triade, ecco che
l’ordinamento interno punisce con la morte chiunque compia incesto.
Laddove per incesto debbano intendersi la seduzione di una congiunta
(sorella, moglie) di un altro confratello. Il legame familiare, il guanxi,
sebbene la società sia laica e non ascrittiva, si comporta in tutto e per
tutto come se il vincolo sorto dalla sottoscrizione del contratto
associativo sia, a tutti gli effetti, un apparentamento di sangue con ogni
appartenente al sodalizio; il che include anche gli appartenenti al nucleo
familiare (propriamente detto) di questo (Fei Ling Davis).
Un aspetto interessante legato alla numerologia cabalistica investe,
oltre al rituale di affiliazione dell’ammittendo alla loggia, la gerarchia
funzionale interna all’intera Triade. Nella loggia, come nella società
cinese, infatti, il rango gli è conferito dalla sequenza di numeri che
permettono a chi ne entra in contatto di identificarne la posizione;
100 Gustaaf Schlegel (1840-1903), eminente sinologo, a lui si deve la compilazione della più accreditata
analisi sulla Lega di Hung che, nel 1893 venne pubblicata con il titolo di The Hung League.
L’osservazione diretta e la grande competenza nel raccogliere informazioni sulle abitudini e tradizioni
degli affiliati a questa società segreta, nota ai più con il nome di Triade, fa del lavoro di Schlegel l’opera
più autorevole e meglio organizzata del panorama scientifico sino a dopo la prima metà del XX secolo.
101 G. Schlegel, The Hung League – Edizione Banfield, 1893.
121
l’individuo conta a seconda del numero che gli viene attribuito a seguito
dei meriti raccolti e della fedeltà dimostrata ai fratelli della società
segreta.
Anche nell’ambito delle pene corporali, che non prevedono la morte del
condannato come esito finale, la numerologia è fondamentale. Citando,
ad esempio, la fustigazione, sappiamo che essa prevede un numero di
frustate preciso che non necessariamente viene eseguito percuotendo il
condannato nel numero di colpi previsto, ma gradua la gravità del reato
commesso assumendo, dunque, un ruolo simbolico. Le frustate
possono essere somministrate nel numero di: 18, 21, 36, 72, 108, 360.
Com’è facile notare tutti questi numeri sono divisibili per tre, il numero
che nella semiologia cinese definisce l’unione tra Cielo, Terra e Uomo,
dunque: la Triade.
La giustizia interna legata alle liti tra appartenenti alla stessa loggia, o a
logge diverse dello stesso Kung102, è un fatto interno.
Quando tra fratelli della Lega di Hung insorgono delle contese,
gravi o futili che siano, vi è il Consiglio per deciderle secondo
giustizia: non è permesso portare la questione dinanzi ai
magistrati. Se qualcuno infrange questa regola (ecco che al
precetto segue immediatamente la sanzione), il Consiglio
deciderà egualmente il caso e punirà chi ha promosso l’azione
dinanzi ai tribunali con 108 colpi di bastone.103
Il giudice del Consiglio supremo 104 –solitamente il Presidente o il
Maestro d’Incenso- era chiamato a pronunciarsi sulla disputa e, in virtù
102 Kung, letteralmente “palazzo”. L’uso di questa parola testimonia che la derivazione delle gerarchie ha
una matrice buddista e si riferisce, segnatamente, ai Nove Palazzi del Nirvana.
103 G. Schlegel, The Hung League – Ed. Banfield 1893.
104 L’esistenza di un Consiglio o di un Consiglio segreto è asseverata da G. Schlegel e da Fred Boyle (un
giornalista vissuto sul finire del 1800), nessuna altra traccia se ne trova in letteratura. Secondo Boyle,
poi, tra i tredici membri del consiglio vi era un quorum rappresentato da otto consiglieri. La
122
dell’autorità attribuitagli, talvolta poteva disporre che la pena inflitta al
responsabile dell’inottemperanza, del reato, fosse erogata e applicata a
un soggetto diverso da questi.
Ciò poteva accadere quando il responsabile della mancanza fosse stato
un soggetto di rilevante importanza per la loggia della Triade cui
apparteneva. In nome di un interesse superiore, dunque, poteva essere
suggerito un sostituto che –non necessariamente di rango inferiore o di
ruolo subalterno- espiava la pena in sua vece. Nulla di più e nulla di
meno, di un capro espiatorio.
8. Gerarchie e funzioni
Fornito un quadro generale sull’organizzazione strutturale della società
segreta Triade, compreso che il suo ruolo storico è sempre stato quello
preminente di convogliare le energie del dissenso e della lotta politica in
un’attività organica parallela completamente avulsa da quella della
società civile, si rende necessario, ora, comprendere ciò che nelle
descrizioni compiute da diversi autori, viene, talvolta rappresentato, in
modo così diverso tanto da dare l’impressione che essi non parlino
dello stesso sodalizio, ma di molteplici “Triade” completamente diverse
e scollegate l’una dall’altra. Ciò non significa che il dato non ha
acquisito carattere di scientificità, ma, al contrario, giunge a conferma
dell’assoluta autonomia che ha sempre connotato le singole logge e
che ha contribuito a impedire l’acquisizione, su di esse, di informazioni
numerologia non giunge a caso nemmeno qui: il numero otto rappresenta gli Otto Triagrammi della
tradizione triadica della Cina settentrionale, mentre il numero tredici rappresenta il numero delle
antiche province istituite dai Ming in Cina e che, con l’avvento della dinastia Manciù, raggi8ungeranno
il numero di diciotto.
123
che se fossero state coerenti e armonizzabili, ne avrebbero decretato la
disarticolazione già molti secoli fa. Un’autonomia che, legata alla
condizione del carattere di territorialità che connota tali sodalizi,
mantiene il legame con quel lato arcaico che ha –rispettando le tipicità
locali- reso sempre efficace ed effettiva, l’azione della struttura di
criminalità organizzata più risalente e meno conosciuta dei giorni nostri.
Di seguito, si riporta il modello gerarchico, ripartito per funzioni,
riconducibile all’analisi svolta dal sinologo Gustaaf Schlegel:
•
Ta-ko o Hsiang-chu: Presidente – letteralmente Grande Fratello o
Maestro d’Incenso.
•
Erh-ko: Vicepresidenti, nel numero di due - letteralmente Secondo
Fratello.
•
Hsien-sheng: Maestro, che nella tradizione triadica ha la valenza
che in inglese avrebbe l’appellativo Mister.
•
Hsien-feng: Avanguardie – solitamente erano due.
•
Hung-kung,
Il
Randello
Rosso,
cioè
il
responsabile
della
comminazione delle sanzioni disciplinari adottate dal Consiglio
Segreto.
•
I-shih: letteralmente I Consiglieri, nel numero di tredici. Si ritiene
che il numero sia stato imposto in memoria delle tredici province
cinesi sotto l’impero della dinastia dei Ming.
•
Ts’ao-hsieh, Wan-ti, T’ieh-pan, T’ou-shang-yu-hua-che: gli Agenti
che, letteralmente, secondo lo Schlegel, Agenti, Messaggeri,
Sandali di Paglia, Fratelli della Notte o, ancora, Quelli con i Fiori in
Testa.
•
Tai-ma: Agenti reclutatori, letteralmente Capi Cavallo.
•
Ssu-ta: Usceri, letteralmente I Quattro Grandi.
Rimanendo fedeli alla gerarchia che fornisce Schlegel, quindi, egli
vediamo che individua una tripartizione per gruppi di numeri, tra i capi: i
primi tre, Presidente, Vicepresidente e Maestro rientrano nella categoria
124
Shang-san o Lao-ta-ko, che, letteralmente tradotto, significa I Tre
Sommi. V’è da specificare che, subordinatamente all’ubicazione
territoriale e a seconda la lingua locale in cui si trova a operare la
loggia, il Presidente e i Vicepresidenti potevano avere altri appellativi
diversi, quali: Testa di Drago (Lung-t’ou), Gran Sovrintendente (Ta
Tsung-li) o, ancora, Comandante in Capo (Cheng-chui).
Nelle logge del Sud, poi, il Presidente era chiamato Shan Chu, Capo
della Montagna, oppure Hung-kung, cioè Randello Rosso e ciò poiché i
presidenti venivano scelti, preferibilmente, tra i ranghi dei preposti alle
sanzioni disciplinari; per l’appunto i randelli rossi.
I Tre Sommi erano gerarchicamente seguiti dai Chung-san o gli Erh-ko:
I Tre Intermedi. A questo novero appartenevano, tra gli altri, i Hsienfeng, le Avanguardie (o, anche, “Bandiera Rossa” o “Presentatore”), i
Hung-kung, il Randello Rosso o Ufficiale Combattente, dal quale,
vedremo poi, dipendeva la componente militare della Triade, e, infine, i
Kuei-shi, cioè i Consiglieri, i Tesorieri e i Vicetesorieri.
Hsiah-san o San-ti sono I Tre inferiori tra i quali vanno annoverati gli
Usceri, gli Agenti e i Messaggeri:
Questi uomini sono destinati ad andare in giro dappertutto, e
vivono un po’ qua, un po’ là. Quando si tratta di questioni
d’interesse generale [cioè di questioni riguardanti tutti i membri
della società segreta], essi vengono mandati in giro a riferire.105
A questi soggetti, dunque, spettava il compito di notificare ai confratelli
la convocazione delle assemblee o di raccogliere testimonianze e
delazioni che potessero risultare d’interesse per il Presidente o per I Tre
105 G. Schlegel, The Hung League. Estrapolazione dal testo recitato durante il rituale del giuramento degli
affiliati.
125
Sommi. Gustaaf Schlegel, nella disamina delle logge triadiche del Sud
non fa corrispondere a queste funzioni alcun grado gerarchico, ma da
altri autori, come si vedrà in seguito non meno attendibili, emerge che le
funzioni trovavano corrispondenza nel IX grado.
Sebbene Schlegel riporti la summenzionata divisione dei gradi
gerarchici all’interno della Lega di Hung, collocandola in un’epoca
relativamente recente e vicina al nostro tempo, in essa non compare la
totale identità numerologica con la ripartizione gerarchica e funzionale
che oggidì connota le attività della società segreta.
Per avere, dunque, un quadro completo non vanno trascurate le
classificazioni eseguite e fornite più di recente da F. Comber, nel saggio
Chinese secret societies in Malaya. A survey of the Triad Society from
1800 to 1900, pubblicato a New York nel 1959, e da W. P. Morgan nel
suo Triad societies in Hong Kong, stampato a cura del governo degli
Stati Uniti d’America nel 1960. In esso compare un’analisi di una “Cina
in migrazione”, ma suggerisce una chiave interpretativa dell’evoluzione
e della metamorfosi degli assetti della società segreta triadica in seno
alle comunità dei migranti.
La Triade, di fatto, oggi è una delle organizzazioni internazionali del
crimine meglio strutturate e a maggiore diffusione mondiale.
La scala gerarchica che Comber sintetizza è la seguente:
1. Maestro
dell’Incenso
2. Ventaglio Bianco
989
489
983
415
3. Avanguardia
992
126
4. Randello rosso
426
5. Pantofola di paglia
415
432
Dall’analisi di Comber emerge, poi, che alcune logge avevano adottato
una forma semplificata della simbologia numerico-gerarchica dei gradi
apicali in cui la sequenza dei numeri variava rispetto alla prima:
1. Presidente
108
2. Ventaglio Bianco
983
3. Avanguardia
992
Gli studi condotti da W.P. Morgan negli anni Cinquanta, Sessanta del
1900, invece, forniscono della gerarchia triadica una versione più
recente, ma formalmente poco diversa.
Dagli esiti delle indagini scientifiche e di polizia condotte nell’ambito
delle
attività
di lotta
al crimine
organizzato
transnazionale e
internazionale, si ritiene che essa sia la più vicina e rispondente agli
assetti dalla società segreta moderna:
1. San-Chu (Presidente)
489
2. Fu Shan Chu (Vicepresidente)
438
3. Heung Chu (Maestro dell’Incenso)
438
4.Sing Fung (Avanguardia)
438
5. Sheung Fa (Fiore106)
438
106 Secondo l’interpretazione che ne dà W.P. Morgan, nel sistema numerico dei gradi gerarchici all’interno
della Triade, non è chiaro quale fosse il ruolo dei Fiori. È probabile che questo fosse una qualifica
della quale erano insigniti i fratelli meritevoli che più a lungo, e fedelmente, avevano servito la loggia.
127
6. Hung Kwan (Randello rosso –
426
Bandiera rossa)
7. Pak Tse Sin (Ventaglio bianco)
415
8. Cho Hai (Sandalo di paglia)
432
9. Membro Ordinario
49
Giova, ora, accennare, ricorrendo a un esempio che lo confermi, che lo
statico dinamismo con il quale le logge triadiche, che operano in Europa
e in Italia, svolgono le proprie attività delittuose, non consta essere
mutato di molto nel corso dei secoli. Con lo sguardo fisso al passato e
ai riti tramandati dagli antenati, le nuove generazioni di affiliati applicano
le più moderne strategie e tecniche di penetrazione criminale
mantenendosi rigidamente ancorati al codice d’onore che ha permesso
al sodalizio di sopravvivere agli innumerevoli tentativi di interromperne
la continuità storica.
Se si volesse proporre un esempio dal quale desumere il senso sociale
della trasformazione statica della Triade, non sarebbe fuorviante
ricorrere al paragone con la struttura istituzionale della società cinese
legale ai tempi del neoconfucianesimo. Il processo di modernizzazione
in seno alla Triade, infatti, appare sovrapponibile a quello in cui
l’introduzione del neoconfucianesimo nella filosofia di stato consentì di
mutarne la forma senza che la sostanza avesse a risentirne. Una
trasformazione apparente che di fatto, aggiunge un pensiero nuovo, ma
non sostituisce quello preesistente; il
che non lascia presupporre
l’introduzione di alcuna tangibile innovazione.
128
Il significato mistico attribuito alla numerologia che disciplina la
relazione all’interno (e all’esterno) delle logge, si pone a garanzia,
dunque, del continuum ideologico tra presente e passato. Assume,
infatti, grande rilevanza dal punto di vista sociale nella misura in cui non
sovverte,
o
modifica,
quanto
di
generalmente
(ri)conosciuto,
contribuendo a rendere la Triade una struttura contigua e familiare al
popolo che ad essa si riferisce sicuramente per uscire dalla miseria, ma
anche dalla condizione di invisibilità che l’individuo subisce quando i
grandi
numeri,
cioè
l’appartenenza
ad
un
gruppo
sociale
di
considerevoli proporzioni, lo privano della soggettività.
L’uso dei numeri per l’identificazione del soggetto associato al ruolo
degli affiliati ha la funzione di far uscire dall’anonimato del nome e
rispecchia l’inflessibilità sostanziale della struttura portante del sodalizio
segreto. Dal punto di vista della sicurezza, poi, l’uso dei numeri
costituisce un’accortezza con la quale la Triade, pur rendendosi
disponibile alle istanze generali, persegue i propri fini celandosi ai
profani, ma identificandosi con le istanze del popolo “basso” senza,
però, tradire la vocazione settaria consolidata nel corso dei secoli.
A confermare quella che, per molti decenni, era rimasta solo un’ipotesi
investigativa in cui si paventava l’immobilismo dinamico della Triade,
giungono gli esiti delle indagini di Polizia Giudiziaria svolte dai servizi di
sicurezza in alcune zone dell’Italia centrale e settentrionale, a seguito di
delitti commessi in seno alla comunità etnica nazionale cinese da autori
connazionali. Si tratta di una fitta rete di connessioni e complicità
internazionali che evidenzia come, in Europa, i confini e le frontiere
129
interne non abbiano alcun significato per un gruppo sociale che è
solidale e coeso a prescindere dalla propria ubicazione territoriale.
[…] E una conferma arriva dal confidente Chen Chia Shiang, che
racconta agli investigatori dei legami fra i clan francesi e le
famiglie di Firenze. […] E per gli investigatori italiani arrivano
conferme di scenari relegati finora ai corsi di aggiornamento, ai
rapporti di polizia internazionale e ai saggi di criminologia. Ora
anche loro devono imparare a conoscere la struttura e la cultura
delle triadi cinesi, perché qualcosa di quel mondo è arrivato fino
a qui.[…] 107
L’acquisizione di informazioni di tale rilevanza ha, dunque, consentito di
acclarare che dove insistono degli insediamenti di cittadini cinopopolari
che hanno raggiunto, per numero di persone appartenenti al gruppo
sociale e densità abitativa rilevante, lì s’è attivato e, negli anni,
consolidato un processo di autoreferenzialità tipico che trova la sintesi
nel vocabolo, Tong: la piazza (ideale) dove la Famiglia (in senso
allargato) si incontra.
Tale processo nuovo per l’Italia è già noto in paesi come gli Stati Uniti
d’America e la Francia, dove, da più di un secolo, le comunità
cinopopolari
sono
strutturate
con
un
assetto
autoreferenziale,
impermeabile, al punto da escludere ed escludersi, dal contesto ospite.
Tale atteggiamento si sostanzia concretamente nella replica di una
tradizione
atavica
che
vede
il
popolo
cinese
improntato
all’autosufficienza, un’attitudine che, come s’è visto nel caso della
fondazione della società segreta dell’Orchidea d’Oro, ha consolidato
(esasperandolo) lo spirito nazionalista.
107 G. ROSSI-S.SPINA, I Boss di Chinatown – La mafia cinese in Italia (Le triadi danno i numeri) - Editore
Melampo, Milano 2008, pag.137.
130
L’esempio della società segreta coniata dai militari cinesi in partenza
per l’Europa dove sarebbero stati coinvolti nella prima guerra mondiale,
consente di sintetizzare quanto efficacemente il solidarismo orizzontale
proposto dai modelli della fratellanza triadica e del guanxi giocarono un
ruolo fondamentale nell’esperienza di quei soldati “lasciati soli” nella
missione europea.
L’isolamento dagli “stranieri”108 e l’autosufficienza come scelta politica
della vita nel gruppo sociale trovano significato nella necessarietà di
esaltare il gruppo in quanto tale e, con esso, livello di sicurezza della
struttura societaria rendendola, ancorché all’apparenza disgiunta,
estremamente coesa, solida tanto da non permettere che una
eventuale falla nel sistema delle relazioni tra gli affiliati, consenta di
scoprirne l’organigramma. Oggi è cosa nota che
I clan della mafia cinese hanno una struttura piramidale a
compartimenti stagni. Ogni gradino della scala gerarchica è
rigidamente separato dagli altri e spesso il volto del capo è ignoto
ai suoi stessi affiliati, la sua identità può essere individuata solo
con una sequenza di cifre. Al vertice di ogni Triade c’è il San
Chu, identificato col numero 489 e chiamato Testa del Dragone o
Signore della Montagna, che rimane in carica fino alla morte.
Sotto di lui c’è Fu San Chu, il vicario del capo, al quale è
assegnato il (numero) 438, numero che può essere attribuito
anche al Maestro d’Incenso (Hueng Chu), addetto alle cerimonie
d’iniziazione. Il 438 può indicare anche il Garante delle Alleanze
(Meng Zheng) e il Guardiano del Vento (Sin Fung), che
sovrintende alla sorveglianza. Le figure indicate con il numero
438 fanno parte dell’avanguardia dell’organizzazione e possono
essere insignite del titolo di <<doppio fiore>>, che si può
paragonare a quello di capomandamento di Cosa nostra e che
108 Straniero: vocabolo usato in accezione dispregiativa con il quale sono indicati i “non cinesi”: “Tutti gli
altri”. L’organizzazione della gerarchia sociale vuole lo straniero al di sotto del “popolo basso”.
131
svolge le mansioni di tesoriere. L’amministrazione finanziaria può
essere affidata anche al livello immediatamente inferiore, il 415,
chiamato anche Pak Tse Sik, ovvero Ventaglio di Carta. Il
Sandalo di Paglia (Cho Hai), ovvero il 432, ha invece il compito di
tenere i contatti tra i veri affiliati e quello di comunicare ai
sottoposti le decisioni del vertice del gruppo. […] Nella struttura
c’è poi il numero 426, Hung Kwan, ovvero il Guerriero, esperto di
combattimento e responsabile dell’ala militare. Infine, i Sey Kow
Jai, i membri ordinari (numero 49), che rappresentano il gradino
109
più basso della struttura.
Ma tale bagaglio di conoscenze ed esperienze, perché non rappresenti
un esercizio di pensiero, deve costantemente essere aggiornato
attraverso l’implementazione di dati dei migranti. Di quei dati, cioè,
relativi allo spostamento delle persone e degli interessi economici che
queste rappresentano.
9. Stato e Società segrete.
Il dualismo stato/società segrete, ha portato, nel corso dei secoli, le due
entità a intersecare i propri destini e a concorrere, l’uno con le altre, a
modificare gli assetti politici di un impero la cui frattura tra classi
dominanti e popolo non ha mai consentito di raggiungere una stabilità
politica. Un progetto che vedesse la pace interna come finalizzata ad
assicurare anche ai ceti più bassi una duratura stabilità economica che
consentisse loro di emergere dalla miseria, fatto di regole e strutture
sociali che ponessero gli interessi collettivi esaltati dal confucianesimo,
la filosofia di stato, non è mai divenuto prioritario rispetto alla gestione
del potere personale e locale secondo logiche corruttive e concussive.
109 G. ROSSI-S.SPINA, I Boss di Chinatown – La mafia cinese in Italia (Le triadi danno i numeri) - Editore
Melampo, Milano 2008, pp. 137-139.
132
Sebbene tali problematiche non fossero tipiche della realtà millenaria
cinese, lo spirito solidaristico e compartecipativo derivanti dall’influsso
del confucianesimo, prima e delle dottrine taoiste e buddiste poi,
divenute molto popolari nel basso popolo (perché di questo si
preoccupavano), contribuirono a consolidare la percezione che solo se
si fosse costruito uno stato alternativo allo Stato, si sarebbero potuti
veder garantiti il diritto alla sopravvivenza e ai minimi servizi dei quali le
strutture governative non percepivano nemmeno il bisogno. Ed ecco
che la percezione diffusa diede origine al proverbio: I funzionari
derivano il loro potere dalla legge, le società segrete dal Popolo.
Evidente segno che, a tutt’oggi, anche l’avvicendarsi dei sistemi politici,
comunismo maoista incluso, non hanno lasciato spazio a una nuova
percezione del rapporto tra classi sociali.
Gli elementi che contrappone le società segrete allo stato, oltre a quelli
citati, e ai mezzi di cui le prime si avvalgono per raggiungere fini di
equità sociale, sono la mobilità organizzativa che le connota. A dispetto
dello statico immobilismo (Fei-Ling Davis) impersonato dall’ortodossia
confuciana della struttura sociale categorizzata e della politica della
società ufficiale, nella quale tutto muta, ma nulla cambia, tale tipicità
emerge chiaramente dall’analisi sulla società segrete svolta agli inizi del
Novecento da Georg Simmel110.
110 Georg Simmel (1858-1918), filosofo neo-kantiano e sociologo, si pone l’interrogativo scientifico: “Cosa
è la società?” denotando una chiara assonanza con la domanda “Cos’è la natura” a cui E. Kant si
dedicò.
133
Nel saggio The Sociology, Simmel pone in evidenza come, nonostante
le evidenti differenze e l’assenza di legami tra le due istituzioni111 (così
è pure tra lo Stato e la Triade), la struttura e la forza di alcune società
segrete possa, sotto più aspetti, ricalcare, talvolta emulandola,
l’organizzazione statuale.
The one-sided intensification of general sociological features is
confirmed , finally, by the danger with which society at large
believes, rightly or wrongly, secret societies threaten it. Where
the over-all aim of the general society is strong (particularly
political)
centralization,
it
is
antagonistic
to
all
special
associations, quite irrespective of their contents and purposes.
Simply by being units, these groups compete with the principle of
centralization which alone wishes to have the prerogative of
fusing individuals into a unitary form.
The
preoccupation
of
the
central
power
with
‘special
associations’ runs through all of political history –a point which is
a relevant in many respects to the present investigations and has
already been stressed. A characteristic type of this preoccupation
is suggested, for instance, by the Swiss Convention of 1481,
according to which no separate alliances were permitted
between any of the confederated states. Another example is the
persecution of apprentices’ associations by the despotism of the
seventeenth and eighteenth centuries. A third is the tendency to
disenfranchised by the modern state.
The secret society greatly increases this this danger which the
special association presents to the surrounding totality. Man has
rarely a calm and rational attitude toward what he knows only
little or vaguely. Instead, his attitude consists in part levity, which
treats the unknown as if it did not exist, and in part in anxious
fantasy, which, on the contrary, inflates it into immense dangers
and terrors. The secret society, therefore, appears dangerous by
virtue of its mere secrecy. It is impossible to know whether a
111
Istituzione: è da intendersi l’ordinamento dei vari aspetti della vita collettiva che presuppone la loro
stabilità e accettazione, anche tacita, da parte dei consociati.
134
special association might not one day use its energies for
undesirable purposes, although they were gathered for legitimate
ones: this fear is the main source of the basic suspicion which
central powers have of all associations among their subjects.
In regard to groups which make it their principle to conceal
themselves, the suspicion that their secrecy hides dangers is all
112
the more readily suggested.
In questa particolare attitudine risiede, dunque, la pericolosità che i
governi hanno sempre ravvisato in tale tipo di associazioni e che hanno
portato a contrastarle giungendo sino alla persecuzione dei loro
membri.
In questo senso va, dunque, letto anche l’ossimoro in cui vivono le
società segrete cinesi rispetto allo stato: legalità e illegalità. La scelta, o
meglio, l’attitudine al mimetismo dimostrata dai sodalizi eterodossi, dice
Simmel, consente che le logge triadiche appaiono come la controfigura
della società ufficiale e, come tali, si avvalgano di strumenti e
metodologie molto simili, ma per fini diversi. Con ciò intendendo dire
che, nella coesistenza concorrente, tra le due istituzioni, benché vi
siano delle evidenti differenze che connotano, tipizzandole, le due
realtà come antitetiche, la Triade si dimostra orientata a sussumere
dallo stato quanto di questo possa essere utile alle proprie strategie e a
fare del popolo un debitore. Un tale processo, nel corso dei secoli è
giunto al punto di sostituirsi a quello statuale anche in tema di giustizia
e nell’erogazione dei servizi.
Una accattivante differenza, per il popolo, che pone il confine tra la
società ufficiale e la galassia delle sette segrete si rinviene in queste
112 G. Simmel, The Sociology of Georg Simmel, a cura di Kurt H. Wolff, the Free Press, 1950, GlencoeIllinois, pp. 375,376.
135
ultime che sin dagli albori si sono poste come esempio di democrazia
diretta. Al termine democrazia, però, non è confacente che sia attribuito
il significato al quale si è usi riferirsi nella cultura ellenica e, poi,
occidentale, ma solamente che vi si rinvengono tracce di una maggiore
compartecipazione e corresponsabilità nella gestione del potere,
nonché una maggiore elasticità nell’attribuzione delle cariche sociali e
dei ruoli di comando ai quali, secondo una visione meritocratica,
chiunque tra i confratelli, può ambire di raggiungere.
113
113 Avviso elettorale - Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis Le associazioni segrete in Cina
1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria, Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.164.
Traduzione:
Lista dei capi che la Società I-hing ritiene opportuno eleggere nel giorno …, nel mese …, e anno dei
movimenti celesti … [l’anno è espresso in caratteri ciclici].
Presidente: X
Vicepresidenti: X
Maestro: X
Avanguardie: X
Procuratore [Randello Rosso]: X
Consiglieri:
Tesoriere: X
Ricevitore: X
Vicericevitore: X, X
Agenti: X, X.
Poiché la nostra associazione ha deciso di designare i sopraindicati fratelli quali suoi capi e funzionari, è
giusto che i loro nomi siano resi pubblici.
Se vi sono, tra loro, uomini indegni del rango ad essi conferito, perché violano la legge o si comportano
in modo contrario alla giustizia , preghiamo ad uno ad uno tutti i membri della società di farsi avanti e di
136
L’ostentazione del metodo democratico settario secondo il quale la
progressione della carriera e ogni grado rispondevano a canoni elettivi,
non trova, ovviamente, corrispondenza nell’immobilismo organizzativo
della burocrazia dello Stato, ove l’ereditarietà e la potestà d’imperio
dell’imperatore, o dell’aristocrazia locale, costituivano, insieme alla
corruzione, l’unico principio sul quale fondare le progressioni di carriera
e l’acquisizione di titoli accademici o onorifici 114 . I funzionari di stato
erano nemici o servi a seconda dall’angolatura da cui era guardata la
loro posizione e, comunque, erano scelti o nominati, mentre il popolo
ricopriva il ruolo inerte di spettatore.
Nell’ideologia
eterodossa
delle
società
segrete,
invece,
la
partecipazione dei militanti alle scelte politiche costituiva non solo una
possibilità, ma un dovere morale. Un cardine strutturale sulla base del
quale la responsabilità ultima nella scelta delle strategie partiva e
ricadeva nella consapevolezza della scelta dei capi sia militari che
politici, del sodalizio stesso.
Fino a quale punto la democrazia elettiva in seno alla Triade si sia mai
realizzata è una questione diversa, ci dice Simmel, che si presterebbe a
un approfondimento dagli esiti incerti, ma rileva nella misura in cui
l’accento posto sull’egualitarismo tra i consociati contribuiva a rafforzare
il legame esistente tra i confratelli e a legarli indissolubilmente agli
interessi collettivi incarnati dalla società segreta. L’esaltazione, sino
dichiararlo, per evitare futuri guai all’associazione. I nomi indicati possono essere cambiati e altri fratelli
possono essere eletti al loro posto.
114 Nella società cinese del tempo, i titoli onorifici erano l’equivalente dei titoli nobiliari per l’aristocrazia
occidentale.
137
all’esasperazione, del sentimento di fedeltà richiesto ai membri nei
confronti della società e verso i capi liberamente eletti, costituisce un
atto responsabile, quindi, il prodotto della scelta politica compartecipata.
Un collante non privo di valenza per quel popolo di esclusi, solitamente
avvezzo a essere schiacciato dall’imperio del “Figlio del Cielo” e di
un’aristocrazia corrotta e poco controllabile.
Non va taciuto che un tentativo analogo di apertura verso quella politica
che oggidì verrebbe chiamata meritocratica, fu compiuto anche
dall’imperatore Wu nel VII secolo. Sebbene egli avesse istituito esami di
stato pubblici per accedere alle carriere pubbliche e palatina in
particolare, egli non riuscì a democraticizzare le procedure e tale
provvedimento –nel corso dei secoli successivi e sino alla fine dell’età
imperiale-
non
sortì
mai
il
risultato
atteso.
Il
processo
di
democratizzazione imperiale al quale era tesa la riforma, finalizzata
formalmente ad attingere nuova linfa tra i giovani più dotati e preparati
dell’impero, ebbe, invece, l’unico “merito” di immettere nei ranghi del
palazzo una nuova, e ulteriore, classe di privilegiati: l’aristocrazia
intellettuale confuciana.
Al consolidamento di quest’ultima, come si è visto, seguì la risposta
politica
spontanea
delle
ideologie
eterodosse,
finalizzate
all’aggregazione sociale del popolo derelitto. Una moltitudine che
confluì nel settarismo resistente organizzato secondo le filosofie
buddista e taoista che diede origine alla proliferazione di associazioni
volontarie di mutuo soccorso e, infine, alle sette e alle società segrete,
138
dunque, a fornire lo stato di nuovi motivi per legittimare repressioni e
persecuzioni.
La resistenza alle lusinghe, alle vessazioni e alle persecuzioni poste in
essere dalla polizia nei confronti dei membri delle società caduti in
mano nemica, danno dimostrazione, come stigmatizza James Hutson
nel saggio Chinese life on the Tibetan Foothills115, di quanta forza si
racchiudesse nel vincolo del giuramento di fedeltà -sottoscritto in forma
di contratto- alla causa comune.
Se qualche membro della setta fosse catturato, vi sarebbe il
pericolo che rivelasse i segreti dell’associazione; ma per quanto
riguarda gli appartenenti ad alcune bande di Lan Ta-shun, essi
sfidano le torture e mostrano il più completo disprezzo per la
morte. Non vi è funzionario che riesca a strappar loro un segreto,
né con la tortura, né con le lusinghe. Anche il trattamento più
severo non sembra aver alcun effetto sul resto della banda; anzi
si direbbe talvolta che, più elevato è il numero degli uccisi, più
aumentano gli effettivi del gruppo.116
Il legame che si sviluppa e progredisce a seguito della sottoscrizione
del contratto di affratellamento alla Loggia da parte del partecipante, ha
una doppia finalità: conferisce dignità alla persona facendola uscire
dall’anonimato e sostanzia un vincolo familiare.
115 James Hutson, Chinese life on the Tibetan Foothills - Edizione Kessinger Publishing, 2013. La prima
edizione del saggio venne pubblicata nel 1921 da Far Eastern Geographical Establishment of
Shangai. I contenuti, di grande puntualità, ne fanno, ancora oggi un saggio di riferimento nella
letteratura scientifica per quanti si approcciano allo studio delle tradizioni e delle relazioni sociali in
Cina; in particolar modo sviscerando le dinamiche infra loggistiche delle società segrete.
116 J. Hutson, Chinese life on the Tibetan Foothills - Edizione Kessinger Publishing, 2013.
139
117
Certificato di nomina del
“Sandalo di Paglia”
La Triade, ancorché sia stata e sia, com’è ovvio, su posizioni molto
distanti dallo stato, ripropone, soprattutto nell’organizzazione interna,
alcuni rapporti tipici mutuandoli dalla società legale. Di tali assonanze,
secondo Simmel possono, ritenersi, per estensione, proprie anche del
novero di sodalizi segreti che a questa guardano e fanno riferimento.
Le società triadiche, traendo ispirazione dall’organizzazione dello stato,
ne assorbono alcune metodologie di governo della comunità. In
117 Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme
primitive di lotta rivoluzionaria. Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.165. Il Certificato di
nomina a Sandalo di Paglia è l’atto con cui il soggetto assume l’impegno con la loggia di
appartenenza innanzi ai confratelli e davanti al Maestro d’Incenso.
Traduzione: Il giorno venti del nono mese dell’anno Yih-sze (1845), tutti i confratelli hanno
pubblicamente nominato il fratello Hu-nang alla carica di <<Sandalo di Paglia>> [agente].
Nell’adempimento dei suoi compiti, egli dovrà agire con lealtà e schiettezza, dovrà vincere l’egoismo e
non comportarsi in modo falso e ingannevole. Questo documento gli viene consegnato a titolo di
garanzia. Diploma rosso della società <<Rivolta dei patrioti>>. [Nel sigillo, che nell’originale è in
inchiostro rosso- sono incise le parole <<I-hing-kung-sze>>: Società della Rivolta dei patrioti].
140
particolar modo si tratta di quelle deputate a consolidare i rapporti
interni di relazione tra i consociati vincolandoli a sé attraverso un
sistema “precetto-sanzione” a fronte della commissione di alcuni tipi di
reati.
L’esempio più vicino a spiegare come la società ortodossa avesse
fornito spunto per regolare una materia di diritto, quello vivente, che
nella quotidianità delle relazioni infra loggia, poteva suscitare grosse liti,
afferisce il diritto di famiglia. Dato per assunto che il vincolo instauratosi
tra i confratelli delle società segrete all’atto dell’affiliazione era un
vincolo di apparentamento che, ancorché fittizio, ne decretava
l’ingresso in una famiglia, era posto all’origine di legami che, ancorché
simbolici, dispiegavano gli effetti tutt’altro che fittizi o formali.
Sulla base di quanto precede, si sa che le donne inserite nella società
segreta, in quanto mogli, madri o sorelle degli affiliati, venivano
identificate come sorelle dei membri effettivi maschili. Le mogli erano
chiamate cognate; i figli e le figlie nipoti e via via, ecco che nel gergo
triadico erano riproposti tutti i gradi della parentela legata al vincolo di
sangue.
All’ingresso nella nuova famiglia corrispondeva il rifiuto per ogni legame
precedente. Il candidato si presentava alle Porte di Hung come un
orfano e il disconoscimento della propria personale origine, si
sostanziava nella formula che questo recitava innanzi alla loggia: Sono
uno straniero, senza genitori, senza fratelli, senza sorelle; perciò vi
prego, d’ora in poi, di essere voi i miei genitori e i miei fratelli.
141
La creazione di questa nuova famiglia allargata determinava, e ancora
è così grazie al guanxi che si pone come collante ideologico e pratico
nelle relazioni sociali all’interno delle Tong, l’ampliamento degli obblighi
nei confronti della famiglia d’origine già tipica della tradizione arcaica
cinese. Di fronte all’effettività di una tale riorganizzazione strutturale
delle relazioni parentali, con chiari e imprescindibili riflessi anche della
vita privata del singolo confratello, diviene semplice comprendere
l’esigenza
–da
parte
delle
gerarchie
triadiche-
di
disciplinare
rigidamente le condotte dei familiari (con codici ad hoc per ogni loggia)
richiamando, per una migliore comprensione e assimilazione delle
stesse da parte dei destinatari, le ultra note norme dell’ordinamento
statuale, estendendone l’efficacia afflittiva delle sanzioni ai confratelli
responsabili di eventuali trasgressioni ai precetti fondamentali. Per
riprendere un esempio che richiami il vincolo di sangue che si viene a
creare con l’inclusione nel sodalizio segreto, si assiste all’enfatizzazione
dei rapporti di parentela simbolica118, prevedendo, quindi, l’estendersi
del tabù dell’incesto alle relazioni interpersonali tra i congiunti dei
confratelli.
118 Parentela simbolica: il vincolo di fratellanza che origina dall’atto della sottoscrizione del contratto
associativo con la Loggia, istituisce un legame di parentela, non affatto simbolico ma effettivo, tra gli
adepti.
142
In tale concorrenza e sussunzione di archetipi tra stato e mafia 119 ,
anche il così detto memorialismo occupa una posizione di rilievo: il culto
per le tradizioni arcaiche e per le gesta degli antenati vale tanto per un
soggetto quanto per l’altro. La ritualità funzionale al coinvolgimento e
alla fidelizzazione dell’iniziato è basata, come quella confuciana nei
confronti
dello
stato,
sulla
stessa
superstizione,
sulla
stessa
acquiescenza supina, di cui molto popolo è, a tutt’oggi, ancora vittima.
In buona sostanza, si tratta di una “liturgia laica” ostentata e richiamata,
quasi fosse una nota di folklore, durante i riti d’iniziazione o le cerimonie
ufficiali, delle quali i significati spirituali metafisici si sono persi per
lasciare luogo all’effettività degli obblighi derivanti dal vincolo instaurato.
Sebbene si sappia poco di certo sui riti, i tratti salienti sono ripercorsi ed
evidenziati da Maurice Freedman120 nel 1958, quando, redige il saggio
Lineage organization in Southearstern China; un lavoro, di analisi e
ricostruzione storica tra i più completi dal quale trarre il dato
sull’evoluzione dei sodalizi criminali cinesi nell’ultimo secolo.
10. L’organizzazione militare della Triade.
119
La mafia: data la definizione codicistica che troviamo nell’art. 416bis del Codice penale italiano,
appare appropriato, a questo punto, non avere remore nell’estendere il significato del sostantivo (non
quindi tipicamente italiano, perché in esso si rinvengono e identificano un novero di comportamenti
che nulla hanno a che vedere con la nazionalità del sodalizio) alle logge cinesi. Alla luce della
presenza del vincolo dell’omertà tra i consociati e il mondo altro (ne parla C.W. Heckethorn nel saggio
Secret societies of all ages and countries, II vol. – 1891); delle finalità criminali che le società segrete
hanno posto alla base della loro organizzazione ed esistenza; della disciplina militare che vincola gli
associati e i loro congiunti al sodalizio; del metus suscitato all’interno della società civile che
contribuisce a consolidarne la posizione di rispetto nonché la relazione accessiva col territorio sul
quale questo esercita il dominio e che contribuisce a determinarne il nome localmente.
120 Maurice Freedman, Lineage organization in Southearstern China, The Athlone Press, University of
London, 1958.
143
Dall’uscita dalle relazioni familiari e con l’ingresso nella famiglia della
Triade discendevano due conseguenze di non poca importanza: la
prima afferiva la fedeltà e la lealtà verso la società segreta che
subentrava in tutto alla vita precedente; la seconda afferiva l’impegno
economico, sociale e “militare” in favore del sodalizio.
L’analisi della linea organizzativa militare della Triade e delle società
segrete a essa legate, segue un percorso proprio che trova pochi
riferimenti in fonti certe e ciò nonostante è il retaggio più antico e fedele
alla tradizione. Un’eredità secolare che il sodalizio riceve dagli antenati
e che si replica a tutt’oggi, con la finalità di non disperderne il
patrimonio morale. Ancorché tale ambito sia meno conosciuto dei rituali
d’affiliazione e della vita politica della società segreta, esso giunge sino
ai nostri giorni, quasi immutato, traendo la propria forza dagli stessi
legami di fiducia e dai vincoli solidaristici che fanno, delle società
segrete dei gruppi sociali di tipo comunitario121.
Secondo tale interpretazione è la comunità, con i suoi codici d’onore e
le attenzioni verso i partecipanti, l’unica famiglia riconosciuta dagli
affiliati. Tentare di emanciparsi dal gruppo equivaleva a tradire il vincolo
sottoscritto nel contratto di adesione alla loggia, la cui forza era ed è
tuttora riaffermata solennemente in occasione di ogni assemblea o
cerimonia.
I capi della Triade si dimostrarono, sin dagli albori del sodalizio,
consapevoli che a tutela del vincolo di fedeltà non sarebbero bastati i
giuramenti, gli anatemi o le sanzioni minacciate a fronte delle violazioni
121 Si rimanda al concetto di Gemeinschaft in Tönnies, pag. 81.
144
dei precetti. La condizione di alterità rispetto al sistema legale, esigeva
quindi la presenza di un servizio di sicurezza che, non solo garantiva e
proteggeva le logge dai tentativi esterni di penetrazione, ma doveva
porsi come scopo quello di dare effettività alla norma; un corpo militare
di fedelissimi soldati ai quali devolvere il compito di reprimere le
defezioni e punire ogni violazione del codice.
Il servizio di sicurezza era retto da capi militari (per lo più i Randello
Rosso) che coordinavano gli armati e si raccordavano ai vertici delle
logge attraverso i Sandalo di Paglia, gli addetti alla raccolta di
informazioni e alla trasmissione degli ordini in modo da garantire che
l’impermeabilità della Triade non fosse in alcun modo violata attraverso
dei contatti e delle conoscenze dirette che potessero, anche
involontariamente, consentire alla polizia di comprendere struttura e
organigramma delle logge.
Per spiegare la composizione organica e l’inquadramento dell’ala
“combattente” della Triade – della quale poco è dato sapere
direttamente -, la letteratura in materia 122 trae spunto e prende a
paradigma la forma organizzativa delle bande armate (di fuorilegge) del
movimento dei Nien123.
122 Cit. in C. W. Heckethorn, F. Ling-Davis, B. Porter.
123 Nien, letteralmente: nodo, ma comunemente sta a indicare ogni intreccio e nella vulgata comune delle
logge, il sodalizio. Il movimento Nien era inizialmente costituito da bande erranti di uomini armati e
furono consegnate alla storia come manipoli di delinquenti comuni che, per un fine proprio, quindi,
almeno inizialmente, senza velleità politiche di alcun tipo (ladri, rapinatori, omicidi), si erano organizzate
sino a trasformarsi in bandiere di combattenti volontari con la vocazione settaria (tipica delle strutture
eterodosse e clandestine cinesi) per intraprendere azioni comuni finalizzate a sostenere una resistenza
politica contro i soprusi delle aristocrazie locali. Il movimento Nien richiama la mappa della Triade per
più di una ragione, ma la più evidente è da ricondursi alla simbologia numerologica a cui fa riferimento.
Cinque divisioni, Cinque bandiere e Cinque generali. È, dunque, questo tipo di organizzazione che fa
pensare a un attivo, quanto efficace, scambio di informazioni e metodologie organizzative della
resistenza tra i sodalizi del Nord e del Sud della Cina, nonché alla conseguente armonizzazione
145
Le ragioni per le quali s’è reputato affidabile e scientificamente
remunerativo ricorrere a questo paragone, non sono date unicamente
dalla
mancanza
di
dati
certi
sulla
mappa
della
Triade,
ma
dall’abbondanza di notizie e riscontri (Fei-Ling Davis) che indicano
esplicitamente quanto le bande dei Nien ebbero a ispirare la loro
struttura organizzativa e, nella Cina meridionale soprattutto, a giovarsi
degli spunti tratti dall’ordine interno delle logge triadiche con cui, per
ragioni di coesistenza su territori circoscritti, venivano in contatto. Una
circostanza nella quale l’intensa attività di scambio, fu tale da portare i
Nien a mutuare dalla Triade anche la mappa simbolica. Tale
operazione ha consentito di svelare quanto basta per uscire
dall’ignoranza e sapere di più su una società segreta atipica parallela
ugualmente invisibile.
La sovrapposizione e, talvolta, l’identificazione di questi due soggetti
ha, dunque, consentito di stigmatizzare circostanze che altrimenti
sarebbero cadute nell’oblio o non sarebbero mai emerse.
Sebbene la condivisione dei principi ideologici sia quasi del tutto
assenti, le tecniche di tutela del riserbo nei confronti del sodalizio,
invece, poggiano le loro fondamenta su solide pietre angolari: la
operativa delle attività tese al coordinamento delle azioni di opposizione e di contrasto allo Stato.
L’adozione del sistema organizzativo settario chiamato t’ang-chu, il Movimento Nien riuniva le proprie
bande, le unità operative -nuclei elementari militari delle divisioni a composizione variabile- attorno ad
un capo militare chiamato Ospite della Sala oppure Ospite della Loggia. A questa figura (elettiva), era
tributato il compito di organizzare e curare l’attuazione di una serie di attività su un territorio circoscritto
(un mandamento) che gli consentivano di autofinanziare gli acquartieramenti delle milizie attraverso
attività, ufficialmente considerate illegali –quali ad esempio il commercio indipendente-, ma non
necessariamente criminali) e restare autonomo nell’esercizio del potere di cui era stato insignito dai
consociati. La vera e propria attività criminale consisteva nella gestione del racket della prostituzione,
delle sale dove si praticava il gioco d’azzardo, nella rapina sistemica e in ogni altra forma di attività
remunerativa che, comunque, opponesse gli interessi del sodalizio a quelli della società ufficiale.
146
segretezza, il solidarismo, il mutuo soccorso (secondo lo spirito di
fratellanza a cui sono tenuti i consociati) e il vincolo delle coscienze
attraverso i rituali d’iniziazione e di affiliazione alle bande.
Da quanto appena affermato, si può desumere che, se è vero che i
metodi di contrasto allo stato e di resistenza verso l’oppressione
dell’aristocrazia di provincia estrinsecati dalla Triade e dai Nien, si
erano evoluti in modo omogeneo sia al Nord sia nel Sud del paese, di
pari passo anche le azioni con cui lo stato si opponeva a questi erano il
prodotto di un’osmosi operativa omogeneizzante. Nell’ottica orientale
della dualistica coesistenza delle antitesi, emerge come gli opposti
schieramenti, di fatto, combattessero, con simmetria, una guerra
asimmetrica.
Nella compagine Nien, dunque, si rinvenivano delle tattiche organizzate
e sistemiche di strategia militare indirizzate al contrasto delle istituzioni
statali che la rendevano simile alla Triade e che divennero note quando,
grazie alle investigazioni di polizia, quest’ultima estese i propri interessi
al di fuori della Cina. Un dominio, al contrario di quello domestico, dove
il muro d’omertà e la rete di connivenze s’infrangeva con la
contaminazione culturale dei paesi ospiti e una diversa effettività degli
ordinamenti giuridici.
Un esempio Nien del senso di fedeltà che gli affiliati potevano
dimostrare verso l’organizzazione d’appartenenza (del tutto orientato a
ricalcare quello dei confratelli della Triade) è rinvenibile nella
dichiarazione rilasciata da un miliziano catturato dalla polizia:
147
Risparmiate a voi la fatica e a me il dolore; persuadetevi che vi
sono uomini pronti a sacrificare la vita per una causa che darà la
felicità a questo paese per migliaia e migliaia di generazioni.
124
Il lavoro delle società segrete e delle compagini definite criminali era,
dunque, non solo orientato a gestire i traffici e a commettere delitti per
un proprio tornaconto, ma presupponeva un progetto politico a lungo
termine ([…] per migliaia e migliaia di generazioni […] ) il cui fine
tendeva al sovvertimento dello status quo in tutta la Cina. Il fine era,
anche, volto all’elevazione delle condizioni di vita generali e al
raggiungimento di una condizione che, oggi, definiremmo d’equità
sociale.
Dato per assunto che l’organizzazione territoriale, l’organizzazione
militare, le finalità politiche, la saldezza del vincolo associativo degli
affiliati e, fattore non trascurabile, la comunione dei riferimenti
numerologici magici legati alle funzioni dei capi e alle sezioni operative
del movimento Nien, trovano riscontro (quasi da poter essere
sovrapposti) con quelle della Triade, anche la pluralità delle istanze
solidariste che i due sodalizi promuovevano, e cercavano di perseguire,
inducono
a
pensare
che
tra
questi
esistesse
una
intensa
comunicazione e una cooperazione. Sono molteplici anche le tracce di
un effettivo scambio d’informazioni e della sinergizzazione delle azioni
militari che i movimenti Nien compivano nel Nord del paese con quelli
della società segreta Triade che operava nel centro e nel Sud della
Cina; un territorio del quale, il sodalizio aveva assunto il dominio e sul
124 C.W. Heckethorn, Secret Societies of all ages and Countries. Londra, 1897.
148
quale dispiegava un potere effettivo di assoluta preminenza rispetto a
quello dello stato.
L’esame dei metodi organizzativi dei Nien e delle società segrete del
Nord, aiuta a comprendere cosa sia la mappa della Triade. Si tratta di
un documento che non va letto unicamente in chiave di storicizzazione
del fenomeno, bensì come testo programmatico per il futuro sviluppo
degli obiettivi politici triadici dei quali, anche il miliziano del quale s’è
riportata la dichiarazione, non nega, ma anzi afferma, l’esistenza.
Le differenze tra la Triade e il movimento Nien esistono e, anche se non
sono marcate e non le rendono inconciliabili nei fini hanno impedito ai
due sodalizi di fondersi e di mantenere, allo stesso tempo, una sorta
d’individualità agendo di concerto e in concorso. La principale tra
queste è evidenziata nell’analisi che fa dei sodalizi Fei-Ling Davis e da
lì emerge chiara quando pone l’accento sulle mappe delle logge
triadiche. A differenza delle mappe organizzative Nien, quelle triadiche
erano strutturate per armonizzare le azioni delle unità operative, o se si
preferisce, delle bandiere125, su un territorio interprovinciale (perché tale
era la loro estensione territoriale di dominio triadico), mentre, per
quanto riguarda la seconda, essa agiva entro un limite territoriale
corrispondente a una sola provincia, senza esuberarne i confini.
125
Nel 1644 vi erano duecentosettantotto compagnie mancesi, centoventi compagnie mongole e
centosettanta compagnie cinesi, che formavano complessivamente un esercito di 169.000 uomini. Nel
1825, l’organico minimo di tale esercito – escluse le milizie volontarie di popolo- era salito a 293.391
uomini. Queste unità di combattimento erano suddivise per bandiere che, se paragonate all’assetto
moderno dell’inquadramento militare, corrispondono a dei Corpi d’Armata. Solo una bandiera era
sotto il comando diretto dell’imperatore, le altre quattro erano alle dipendenze di altrettanti principi.
(Fonte: Fei-Ling Davis)
149
Le molte analogie che sussistono tra le logge della Triade e la
compagine Nien da un lato e lo Stato dall’altro, meritano d’essere
quanto meno accennate. Ancorché all’apparenza possa sembrare
contraddittorio, dato che la storia e, non di meno, la cronaca, hanno
spesso rappresentato come nemici questi tre soggetti, comunque, è
interessante riscontrare quanto essi abbiano avuto in comune e quanto
abbiano ceduto o acquisito gli uni dagli altri nel corso dei secoli. Si tratta
di un patrimonio di sapere e conoscenza tradizionale di immenso
valore.
Ciò che rileva ai fini di questa ricerca afferisce le analogie emerse
dall’arte militare, strategiche e tattiche, che si sostanziano nelle
tecniche di raccolta delle informazioni, di spionaggio, di gestione delle
relazioni interpersonali e del combattimento sul campo, perché da esse
discendono gli attuali assetti dell’esercito ombra di cui dispongono le
logge della Triade.
Se analizzato da un punto di vista militare, si può certamente dire che la
progressione nelle dotazioni e nelle tecniche dei rispettivi eserciti è
sempre stata proporzionale, costante e attenta a mantenere l’equilibrio
tra le forze. È in particolar modo nella struttura operativa della Triade
che la filosofia militare sunzuista126, e, quindi, quella definita ortodossa
dallo stato, ha trovato il maggiore accoglimento. Nel linguaggio gergale
dei ranghi militari e nell’attribuire i nomi alle unità da combattimento,
infatti, è possibile rinvenire analogie e identità che, se non colte nella
126 Per sunzuismo si intende una dottrina la cui origine affonda le proprie radici nel pensiero filosofico
riconducibile del generale e stratega Sun Tzu. Vissuto probabilmente fra il VI e il V secolo a.C., a lui si
attribuisce uno dei più importanti trattati di strategia militare di tutti i tempi, L'arte della guerra.
150
logica democratica con cui le società segrete si sono sempre poste nei
confronti delle fasce più deboli del popolo, potrebbero lasciare
intendere che differenze non ve ne siano mai state se non prima del XV
secolo.
Le Tigri, i Draghi, e le altre formazioni i cui nomi tradizionali triadici
evocano leggende e miti mai sopiti, hanno, oltre a un chiaro riferimento
agli antenati, alle Cinque Commissioni militari Principali e alle Cinque
Bandiere dell’esercito regolare, uno scopo e un significato ben precisi:
non creare confusione nel reclutamento dei propri affiliati. Inserire dei
“soldati” in una struttura della quale conoscono la connotazione
operativa e le tecniche d’impiego, significava sfruttare a proprio
vantaggio l’addestramento curato dall’esercito, senza dare l’imbarazzo
ai confratelli di doversi adattare alle nuove usanze e alle regole proprie
del campo opposto.
La “milizia contadina”, per esempio, era organizzata come difesa
territoriale su base volontaria e, in quanto tale, disorganica 127 : un
efficace strumento bellico quando, riorganizzandosi su input del signore
locale, offriva il supporto richiesto al feudatario che la affiancava al
proprio esercito. Per renderne agevole l’impiego, la società segreta
mutuò l’inquadramento dei propri ranghi dalla composizione delle unità
combattenti di base. I ranghi flessibili, capaci di grande mimetismo e,
soprattutto estremamente mobili sul territorio (composti da un numero
variabile di combattenti compreso tra i dieci e i cento uomini),
permettevano di garantire quella certa capacità di fronteggiare
127
Il concetto di organica, nell’ambito militare, fa riferimento alla composizione dell’organigramma
d’inquadramento dei reparti in armi in seno all’esercito.
151
efficacemente ogni situazione, anche la più inaspettata, che rendeva la
Triade uno strumento militarmente efficace.
Alle società segrete si deve l’iniziativa di aver contribuito, ante litteram a
sovvertire l’arte militare del combattimento. Abbattendo regole che
sembravano inattaccabili per la loro tipicità, infatti, si sono orientate
verso tecniche d’ingaggio col nemico basate sull’estemporaneità e la
rapidità di azioni irregolari, gettano le basi per quelle che, oggidì,
vengono definite guerriglia o guerre asimmetriche128.
Nel cogliere le differenze, non va trascurato, poi, il ruolo dell’ideologia e
l’aspetto motivazionale della Triade e dell’organizzazione militare che
ad essa afferisce e che differisce da quella dello stato perché affonda le
proprie radici nel misticismo eterodosso delle sette buddiste e taoiste.
Le filosofie, poste a fondamento anche di altre strutture clandestine
consimili (la Lega di Hung e, appunto, i Nien), si sono rivelate un
collante sociale di non poca importanza.
Il favore del popolo compiacente, la capacità di disperdere e di
riaggregare le unità da combattimento sul campo, quindi il mimetismo e
la conoscenza delle arti di combattimento tramandate dai seguaci e
discendenti dei monaci Shaolin hanno costituito il punto di forza sul
quale incentrare ogni attività di resistenza politica e poi militare. La
Triade, che arruolava i propri soldati attingendo dalle masse di
diseredati e “senza nome” è il primo esempio di esercito popolare con
128
La guerra asimmetrica si connota per l’uso di tecniche non convenzionali di combattimento quali il
terrorismo e la guerriglia. L’asimmetria si sostanzia nella non corrispondenza dei metodi di tattica e
organica militare che gli opposti schieramenti in campo usano per perseguire la vittoria finale. Da un
lato un esercito regolare che segue degli schemi preordinarti con regole d’ingaggio riconosciute,
dall’altro la rimozione degli schemi in funzione dell’ottimizzazione delle risorse e l’ottenimento il
risultato auspicato.
152
reclutamento su base volontaria dal quale anche Mao trarrà ispirazione
per muovere contro la Repubblica.
In linea di principio, dunque, l’accesso al sodalizio non escludeva
nessuno. Potevano chiedere d’essere ammessi tutti: uomini e donne di
qualunque classe sociale e rango, ma il reclutamento non avveniva
esclusivamente per volontaria dell’adesione. Anzi, quando l’invito a
unirsi a una loggia non era accettato spontaneamente e il candidato si
rivelava di particolare interesse, subentrava la cooptazione. Se
nemmeno difronte alle lusinghe e alle promesse di un futuro “in
famiglia” il soggetto si mostrava interessato a unirsi al sodalizio, a
fungere da stimolo erano il ricatto o la minaccia di morte. La letteratura
che tratta dei metodi di reclutamento arcaici delle logge, rivela che, in
epoca nemmeno tanto remota, queste non fossero scevre neppure dal
rapimento, anche dei bambini. (Fei-Ling Davis)
La ramificazione capillare raggiunta della Triade sul territorio, la sua
attitudine a penetrare ogni istituzione e a servirsene per sopperire alle
esigenze primarie del popolo, surrogandosi alle istituzioni, ne ha fatto,
sin dagli albori, un mito e successivamente, l’interlocutore diretto e
privilegiato al quale rapportarsi per ottenere giustizia e servizi, e nel
quale far confluire il risentimento verso lo stato.
11. La penetrazione in Occidente. Un esercito antico al servizio di
un’organizzazione criminale all’avanguardia
A voler cogliere la tipicità che conferisce una connotazione moderna e
attuale al modo di operare delle formazioni combattenti della Triade
impegnate nelle attività delittuose e non più in episodi di resistenza
153
campale, essa può essere rinvenuta nella collaudata attitudine
all’asimmetria della tecnica di combattimento che questo sodalizio
conserva.
La non convenzionalità nel porsi sul panorama delle organizzazioni
criminali si esplicita in campi all’apparenza molto diversi tra i quali la
gestione degli affari connessi alle attività delittuose che colpiscono,
prevalentemente, gli interessi della vita quotidiana, all’interno delle
comunità migranti, del gruppo nazionale cinese.
Il Sud Europa, luogo d’insediamento dei migranti provenienti dalla
provincia dello Zhejiang è, di per sé, una realtà che avrebbe da tempo
dovuto mettere sull’avviso chi si occupa di sicurezza in campo
internazionale facendo trattare la diaspora cinese come un fenomeno
articolato, coordinato e complesso, guardandosi dal valutarlo come la
collazione di varie e isolate condotte attribuibili al disegno locale di
singoli attori.
Dagli inizi del XX secolo il nemico che la società segreta cinese si pone
l’obiettivo di colpire non è più lo stato Cina o la diseguaglianza sociale
che vede la classe dei derelitti in costante patimento, ma il sistema
internazionale della legalità. Un ostacolo che, quando non viene
penetrato, si interpone al raggiungimento degli interessi criminali e
extralegali che uniscono le logge triadiche che operano in maniera
globalizzata e sinergica in tutto il mondo. Un giro di affari che,
dimenticato il traffico dell’oppio del quale ha conservato a lungo il
monopolio, le assicura il ruolo di preminenza su una larga parte dei
profitti derivanti dal mercato che ruota attorno all’illegalità. Un settore
154
che si estende senza limite dalla tratta delle persone al traffico di droga
e di armi. Tale segmento si distingue per la gestione para legale delle
imprese operanti sotto l’apparente liceità garantitale dalle coperture di
istituzioni compiacenti il cui interesse è quello di favorire l’espandersi
delle are del mondo economicamente influenzabili e sulle quali
promuovere la penetrazione economica del “marchio giallo”.
Gli esempi di questa politica spregiudicata si rinvengono nell’ambito
della produzione di beni succedanei, falsi o contraffatti che vengono,
poi, commercializzati legalmente in tuto il mondo grazie alla rete
costituita col supporto delle ambasciate e degli addetti economici che in
esse operano.
Nel panorama delle mafie internazionali, la Triade spicca, evidenziando
una singolare sintesi (se si vuole, una concorrenza) d’interessi in cui
politica interna, estera ed economia in un anomalo solidarismo sono
funzionali agli interessi criminali. Quanto emerge in tema di complicità
occulte, non è più solo una teoria, ma è un dato riscontrato in più
occasioni sia da indagini di polizia giudiziaria che da fonti d’intelligence.
Gli scopi della società ortodossa cinese sono di complemento alle
finalità della struttura criminale eterodossa che ha mano libera per
promuovere i propri interessi sempreché ciò sia in parte funzionale agli
interessi collettivi.
Sotto l’insospettabile controllo della diplomazia oggi la Triade si giova di
una copertura legale fungendo, attraverso le Tong, da osservatorio e
avamposto privilegiato per la raccolta di informazioni utili al Gigante
Asiatico. Un’attività della quale si giova per porsi sui mercati
155
internazionali e nella società occidentale, come l’interlocutore in grado
di fornire tecnologie d’avanguardia e, molto più prosaicamente, tutto ciò
di cui il consumatore occidentale ha bisogno, al costo e nei tempi, a
questo più congeniali.
12. Come funziona una Tong in Italia
Le comunità nazionali che si formano a seguito della migrazione sono
strutturate e organizzate in modo da poter ospitare e collocare con
sistematicità i connazionali che vi affluiscono fino a garantire i
presupposti di sicurezza e logistica utili a formare la Tong.
La struttura interna di una Tong è concepita e informata ai principi di
massima efficienza, indipendenza e autonomia, di modo da mantenerla
non contaminabile dalla comunità autoctona che la ospita; una società
indicata dagli Han come la comunità degli “stranieri”.
Se volessimo trovare una metafora per spiegare cosa sia il sistema
organizzativo ed economico che rende peculiari gli insediamenti cinesi,
potremmo paragonarlo ad un tessuto impermeabile da un lato e
permeabile dall’altro, di cui quest’ultimo rivolto verso l’esterno della
Tong che consente di lasciare affluire, fagocitandolo al suo interno, tutto
quanto proviene dall’esterno, senza correre il rischio di nessuna
fuoriuscita verso la società dei “nasi grandi”, sinonimo di straniero.
La Tong è quindi un unicum solidale economicamente indipendente e
ha anche una sua rete di banche. Autonoma nei servizi, si giova di un
proprio sistema normativo, di giustizia e di polizia provvedendo al
156
proprio sostentamento per mezzo dell’autofinanziamento. Il parallelismo
con la Cosa Nostra, in questo, ambito è evidente.
Anche dal punto di vista sanitario la Tong non accetta di affidarsi alle
contaminazioni occidentali
129
; l’insediamento è, pertanto, un’entità
reale, presente, tangibile, ma che si rende e si presenta impenetrabile,
evanescente, inafferrabile agli occhi di chi vorrebbe sviscerarne le
dinamiche.
L’affiliazione implica che il cinese che farà da prestanome, il capo della
famiglia, si assuma l’onere di gestire l’impresa per conto della Loggia e
che per far ciò usufruisca dei capitali, anche provento illecito del traffico
di esseri umani o di droga, datigli a prestito dai parenti o dalla Triade:
un’obbligazione che lo impegna ad usufruire unicamente delle materie
prime e della manodopera che gli verranno fornite dalla rete del guanxi.
Il debitore, accettando il credito, accetta di entrare a far parte di un
network, di un sistema, protezionista e monopolista, nazionale per stare
nel quale gli è fatto obbligo di approvvigionarsi dei beni da commerciare
facendo esclusivo riferimento a grossisti connazionali indicatigli e
preventivamente stabiliti. In questi tratti si rinvengono marcate
similitudini con la gestione degli appalti e del racket con cui operano
anche le organizzazioni mafiose nostrane.
129 La medicina tradizionale. Il primo e unico ospedale cinese scoperto in Italia è stato individuato a Campi
Bisenzio (FI) nel 1998 in un sottotetto (mascherato) di un capannone industriale a seguito di indagini
svolte dai Carabinieri del Reparto Operativo di Trieste di concerto con la Compagnia locale. Al piano
terreno dell’immobile si trovava un opificio abusivo che, per la produzione di lavorati, si avvaleva di
manodopera illegale. Il lavoro era ripartito su turni da 18 ore giornaliere con 1 giorno di riposo al mese,
la fruibilità del quale, era subordinata alla disponibilità di un unico permesso di soggiorno. In caso di
“mancato rientro” la rappresaglia si abbatteva sugli operai/ostaggi rimasti in mano dell’imprenditore
cinese. (Si veda Atti d’indagine dei Carabinieri – RONO TS - Operazione “CHINA TOWN” 1997-1998).
157
I grossisti, a loro volta, comprano le merci da imprese controllate e
riconducibili alle stesse Triadi che, nel ciclo produttivo, sfruttano la forza
lavoro dei loro connazionali invisibili.
I laboratori e gli opifici clandestini sono la spina dorsale della Tong, vera
punta di diamante dell’imprenditoria etnica; si allineano dietro le
imprese cinesi “regolari” che operano legalmente in Italia e all’estero
producendo il 90% delle merci che giungono sui banchi di vendita dei
dettaglianti.
Una catena di operai, schiavi in clandestinità, dei quali è impensabile
riuscire a reperire una labile traccia d’esistenza130; operai impiegati in
sartorie industriali che, forti della manodopera a costo zero, sono in
grado di produrre a ciclo continuo anche merci qualitativamente non
inferiori a quelle prodotte e commercializzate dalle grosse industrie del
settore.
Questa strategia d’intossicazione del mercato ha sottilmente obbligato i
commercianti
italiani,
decisi
a
conservare
la
propria
attività
preservandola dalla crescente compressione dei consumi, ad orientarsi
verso i grossisti cinesi. Svanito così il timore e l’iniziale diffidenza, verso
una filiera illegale che fonda sullo sfruttamento dell’essere umano la
propria economia, gli italiani sono entrati nelle spire delle Tong
contribuendo a far affluire, attraverso il “tessuto permeabile”, ingenti
flussi di denaro che ne hanno sancito la dipendenza di fatto.
130 Operazione “CHINA TOWN”, 1997-98: scoperta fabbrica clandestina di vestiti in Campi Bisenzio (FI); i
clandestini, durante le 6 ore di riposo dal turno alla macchina per cucire, erano segregati in 6, senza
distinzione di sesso o età, in celle delle dimensioni di circa 3 metri per 2, a terra un pagliericcio che
ricopriva l’intera superficie del vano. Un barattolo di latta fungeva da cesso per tutti gli occupanti della
“cella” in tutto simile a quelle che vedremo nell’Appendice 2 della presente ricerca.
158
CAPITOLO V
FORME DI CRIMINALITÀ E PERCEZIONE
DEL FENOMENO CRIMINALE
1. Società e Diritto
Le esperienze locali che l’Italia e l’Europa, stanno vivendo, confermano
che il processo di sino-integrazione non avviene se non nella misura in
cui la sinizzazione si compia validando in toto quanto il migrante porta
con sé di sé.
Uno sconfinato esercito di giovani cinesi non ha fratelli né sorelle.
È il risultato di una severa politica di controllo delle nascite
avviata dal Partito comunista attraverso la guerra all’esplosione
demografica e l’imposizione di dure sanzioni alle coppie che
avevano più di un figlio. L’economia di mercato ha fatto ancora di
più: senza che nessuno li costringesse, Liu e sua moglie (e come
loro anche molte coppie moderne) hanno deciso di non avere
figli. E non rappresentano un’eccezione. Per le Coppie della loro
età e del loro reddito, la scelta <<zero figli>> dilaga. Dal 1990 ad
oggi, con l’esplosione del capitalismo, le nascite sono crollate del
30 per cento. In parte si tratta di una reazione speculare allo stile
di vita dei genitori, resi oltremodo protettivo dalla politica del figlio
unico: troppi sacrifici, troppa dedizione al prezioso discendente.
Al tempo stesso questo fenomeno è l’altra faccia del disimpegno
che ha accompagnato il decollo economico degli anni Novanta
seguito alla repressione dei moti studenteschi di piazza
Tienanmen. Liu ne è la prova. <<Prima facevo il giornalista
politico, ora preferisco scrivere di business. È più eccitante.
Credo che questo spostamento di interessi sia comune ai miei
coetanei.131
131 Federico Rampini, Il Secolo cinese – Edizioni Oscar Mondadori, 2009.
159
Ubi socíetas ibi ius è il broccardo che meglio aiuta a comprendere
quanto l’attitudine dell’essere umano a vivere socialmente organizzato,
imponga, necessariamente, che i comportamenti dei partecipanti al
gruppo sociale, i consociati, vengano, in qualche modo, disciplinati da
regole. Quali siano, poi, i modi attraverso i quali pervenire a una
“organizzazione stabile della società” che sia in grado di scegliere,
applicare e far rispettare le regole che da essa promanano, offre lo
spunto per un’ampia dissertazione che va ad attingere tanto
all’antropologia quanto al diritto pubblico, ma devierebbe troppo dalla
traccia che si intende seguire.
Per l’esperienza e l’evoluzione normo-giuridica europea e, per
estensione,
occidentale,
le
norme
costituiscono
un
reticolo.
Intersecandosi tra loro in una complementarità e funzionalità che le
interconnette, segnano, allo stesso tempo, l’estensione e il limite entro il
quale è necessario che rimangano circoscritte le libertà a cui si
richiamano sia la condotta individuale che quella collettiva dei
consociati perché queste non entrino in contrasto e non prevarichino
sulle intangibili libertà altrui. Chi arbitrariamente decide di ignorare le
norme e, quindi, violandole con comportamenti omissivi o attivi, assume
una posizione d’irregolarità, cioè antitetica ai fini che il gruppo intende
salvaguardare, andrà, necessariamente, a porsi in una posizione,
esterna, antagonista rispetto a questo ed alle libertà che la società
intende salvaguardare. Detto ciò, non possiamo ignorare quanto
appreso osservando alcuni modelli di società –quella cinese ad
esempio- in cui la solidità culturale e il modello della struttura sociale
160
veicolano il singolo verso un rapporto compartecipativo e solidale la cui
importanza, richiamata in precedenza e per altri motivi, pone, meglio di
altre in evidenzia la similitudine che può esistere tra alcuni gruppi sociali
organizzati e gli organismi viventi. Un sinergico e coordinato processo
di costante e progressivo mutamento teso alla realizzazione del fine
collettivo. Tale dato, connota le scelte sia su scala micro che su quella
macro decretando, inequivocabilmente, il successo del modello.
Edwin Sutherland132, elaborò una teoria generale del comportamento
criminale, insistendo sul fatto che esso viene appreso all'interno di un
ambiente sociale, un contesto in cui prendeva sempre più forma
l'approccio sociologico alla criminologia. Già dall’analisi dei dati in
possesso del Federal Bureau of Investigation (F.B.I.) e analizzati da
Sutherland, appariva chiaro che una tipologia di persona manifestava la
propensione a delinquere più di altre se proveniente da un determinato
contesto sociale. Questa tipologia coincideva con i dati ecologici della
scuola di Chicago, indi per cui si consolidò l'idea, allora del tutto
innovativa, che la criminalità avesse più a che fare con la sociologia che
con la biologia. Il pensiero di Sutherland subì l’influenza dalla Scuola di
sociologia di Chicago, soprattutto nei lavori sull'”interazionismo
132 Edwin Hardin Sutherland (1883-1950), è ancor oggi considerato uno dei massimi esponenti della
Scuola di sociologia criminale dell’Università di Chicago. La teoria criminologica che ha abbracciato
detta un approccio sociologico all'analisi criminalità. La teoria perfezionata da Sutherland nel 1947
compie una svolta importante e si allontana dalle teorie individualiste classiche di criminalità e di
delinquenza. La teoria sulle associazioni differenziali criminali che egli struttura vede il crimine come un
comportamento che si apprende attraverso le interazioni con i coetanei, familiari e gruppi sociali.
Sutherland fu, altresì, il primo ad introdurre l’espressione “reati dei colletti bianchi”, un’allocuzione che si
riferisce alle azioni delittuose commesse da coloro che appartengono ai settori più benestanti della
società.
161
simbolico”133. L'approccio metodologico sull’analisi delle “storie di vita”
fu usato da Sutherland per l’indagine scientifica rivolta ai reati predatori,
in particolare sul “ladro professionista”: un soggetto che abitualmente
delinque e del delitto fa la propria fonte di reddito. Infine, anche dal
concetto di conflitto culturale che si sviluppa nelle società multietniche e
interetniche.
Secondo la prospettiva teorica approcciata da Sutherland, ogni persona
può essere educata ad adottare qualsiasi comportamento sia in grado
di seguire. Il conflitto culturale diviene dunque lo strumento principale
per spiegare la criminalità e come il comportamento criminale venga
appreso con l'interazione con gli altri all'interno del gruppo di
appartenenza mediante un processo di comunicazione che include i
come (tecniche del comportamento criminale), e i perché (le motivazioni
intrinseche per sostenere quello che si fa). Tutto dipende da questo: se
i valori che apprendiamo sono prevalentemente favorevoli ad
atteggiamenti devianti, allora sarà molto probabile, che commetteremo
atti devianti; e viceversa se i comportamenti messi in condivisione sono
di tipo legalitario il comportamento che ne deriverà lo sarà a sua volta.
133 L'interazionismo simbolico è un orientamento teorico affermatosi nell'ambito della sociologia e della
psicologia sociale, soprattutto negli Stati Uniti, a partire dalla prima metà del Novecento. Il tratto
distintivo di questo indirizzo consiste nel porre al centro dell'analisi l'interazione sociale e
l'interpretazione che di questa danno quanti vi partecipano. In tale prospettiva acquistano centralità i
processi interpersonali tramite i quali gli individui si rapportano al proprio modo di pensare e a quello
che presumono essere dell'altro, per scegliere le linee di condotta da seguire. Al tempo stesso viene
dato risalto all'attività di simbolizzazione svolta dagli individui nel corso dell'interazione e allo sviluppo di
capacità interpretative delle proprie e delle altrui esperienze. I significati che vengono attribuiti a tali
esperienze derivano dalle definizioni che Ego e Alter danno delle “situazioni” in cui sono rispettivamente
coinvolti.
162
Questo non significa che, necessariamente, il soggetto cresciuto in un
ambiente ad intensità criminale commetterà solo atti illegali, ma che
manifesterà la propensione verso quegli atti sostenuti dalle definizioni
apprese.
La difficoltà d’integrazione che alcuni gruppi di migranti incontrano più
di altri, può essere appunto data dall’attitudine di questi a sentirsi un
Alter molto solidale; un “organismo” (la qual cosa per alcuni aspetti è
encomiabile, ma per altri molto meno), cioè che è in grado di proporre
nel processo d’insediamento territoriale la “replica” del modello sociale
di provenienza. Un contesto nel quale tendere a mantenere il
medesimo stile di vita e ad adottare norme interne assonanti con quelle
lasciate in patria senza tenere conto del contesto ospite. Raramente “un
modello” può essere replicato senza che insorgano delle frizioni; ecco
che, dunque, con le migrazioni e con il cambiamento che queste
portano all’interno dei gruppi sociali riceventi, si potrà assistere alla
trasformazione – su input eterogeno- dell’esigenza di disciplinare la
condotta privata e pubblica.
Atteso,
dunque,
che
i
cambiamenti
sociali
conseguiti
alla
trasformazione del modo di percepire se stessi in relazione con l’altro e
di comunicare ciò che di sé è ritenuto utile al fine di trovare un posto,
una funzione, nel gruppo sociale d’appartenenza, o del quale il soggetto
aspira di entrare a far parte, l’obiettivo è di analizzare come e perché in
taluni contesti possano innescarsi delle dinamiche tese a favorire
l’insorgere e lo sviluppo di comportamenti che, pur se “normali” da parte
163
di chi li assume, si pongono in modo antitetico rispetto ai fini collettivi,
assumendo il valore di comportamenti antisociali.
A tale proposito è interessante come Albert Cohen134, a cavallo degli
anni ’50, ’60 dello scorso secolo, analizza l’insorgere di alcune forme di
devianza sociale partendo dall’osservazione del mutamento delle
abitudini e delle esigenze del gruppo sociale. Egli, delineando la “Teoria
della sub cultura”, riconduce all’esplosione dei consumi la causa del
fenomeno che connota e bipartisce la società, modificandone i valori. Il
parallelismo con i mutamenti della società che enfatizza la validazione
attraverso ciò che il soggetto consuma è evidente. Secondo Cohen, la
classe media s’impone de facto come classe vincente introducendo il
concetto di “normalità” parametrato su se stessa e sulle proprie
abitudini correlandolo alla propria capacità economico-finanziaria di
consumare e il consumo, in quanto tale, diviene l’indicatore auto
validante. Ovviamente chi “non consuma” resta isolato e “in dietro”,
emarginato.
Anche se negli stessi anni, l’istruzione si afferma come un diritto per
tutti e, sebbene debba essere lo strumento per garantire pari
opportunità, si rivela, invece, un secondo discrimine. La massiccia
urbanizzazione compie, poi, la frattura definitiva tra chi ha i soldi da
spendere (e quindi può permettersi di vivere la normalità), e chi, nella
più assoluta indifferenza dei primi, vive l’esclusione. I gruppi sociali che
rimangono a vivere i centri storici, diventano sinonimo di povertà
134 Albert Kircidel Cohen, n. Boston, 15 giugno 1918. Laureato ad Harvard con una tesi sulla “Sostituzione
delle norme sociali con quelle sub culturali”, si dedicò allo studio delle devianze sociali con particolare
riferimento all’analisi degli ambienti sociali inferiori in cui il ruolo della sub-cultura si pone come principio
aggregante nelle baby gangs (bande giovanili).
164
intellettuale oltre che d’indigenza. Il disagio trasforma in sub urbia i
luoghi delimitati in cui vivono gli strati sociali subalterni. La teoria della
subcultura della delinquenza propone una visione di questa progressiva
affermazione di un’alterità e integra, nel suo approccio teorico, il
pensiero che Clifford Shaw, Henry McKay, Edwin Sutherland e Robert
K. Merton offrono, attraverso i loro studi.
Secondo Cohen, le sub culture si caratterizzano per atteggiamenti di
tipo non utilitario, prevaricatore e negativo; egli rileva che il
comportamento criminale è frequente nei giovani maschi che si
organizzano in bande. Analogie si rinverranno nel fenomeno criminale
etnico cinese con le stesse dinamiche e gli stessi fini. In tale agire non
viene identificata una apparente motivazione razionale; i devianti
provano soddisfazione nel causare disagio, tentano di oltraggiare i
valori delle classi medie della loro stessa comunità, per poi offrirsi,
dietro compenso, di svolgere il “lavoro sporco” per chi ha interesse ad
affermare e consolidare, anche attraverso il delitto, il potere personale
ed economico sul territorio.
La caratteristica delle bande alle quali si riferisce A. Cohen nel suo
studio, e che rimane ancor oggi attuale per i contesti nei quali si
formano questi sodalizi, è la versatilità. La capacità, cioè, di coinvolgere
forme diverse di delinquenza mosse da una spinta edonista e, al
contempo, prive di una programmazione nell’agire, di disegni a lungo
termine e che mantengono una connotazione fortemente autonomista.
Per Cohen, i giovani sono alla ricerca di uno status sociale e, posto che
non tutti possono competere con pari opportunità alla “scalata” come i
165
figli della classe media e che, in particolar modo, ai giovani delle classi
inferiori mancano molti vantaggi materiali e simbolici, ecco, dunque, che
si afferma una strada indipendente per il perseguimento della propria
validazione. Questa frustrazione da status è la motivazione che in
assenza di uno schema di riferimento, in assenza di una prospettiva di
miglioramento della propria condizione economica, conduce i giovani a
riunirsi in una “gang”.
È attraverso l’interpretazione freudiana della “reazione-formazione” (un
meccanismo difensivo per vincere l’ansia) che A. Cohen avanza l’idea
che ci si debba aspettare una reazione ostile ai valori delle classi medie
e la creazione di un nuovo sistema di valori non convenzionali, che
forniscono l'opportunità di avere uno status.
La soluzione delinquenziale, dunque, si consolida attraverso la
trasmissione dei valori da un giovane all'altro e da una generazione
all'altra, sviluppando una sub cultura delinquenziale permanente che
fornisce uno status a un comportamento negativo antisociale e
asociale.
La teoria di Edwin Sutherland, definita positivista procedurale, si occupa
sia del comportamento criminale (e non del sistema penale/giudiziario)
e del processo attraverso il quale un soggetto diventa deviante. Atteso
che i comportamenti umani possano essere categorizzati, questo
processo favorisce la strutturazione di un paradigma che aiuta ad
analizzare gli effetti di determinate condotte; a seguito di ciò emergerà
l’importanza delle condotte devianti assunte dai gruppi.
166
Si tratta di attività non in armonia con il diritto e, ancor meno, con la
consuetudine (che sovente concorre in maniera del tutto spontanea a
regolare la vita in seno a una società), che possono essere ricondotte
almeno a due “categorie devianti”. La prima categoria comprende la
condotta tenuta da un sodalizio che, per il perseguimento di obiettivi
della stessa natura economica o politica di quelli perseguiti lecitamente
dallo Stato, sceglie, per il conseguimento degli stessi, metodi illeciti o
criminali. La seconda, invece, si riferisce ad attività tese al
raggiungimento di obiettivi illeciti attraverso condotte altrettanto illecite.
È questo il caso della compagine criminale “professionale o per
tendenza” che, al fine di veder concretarsi i propri obiettivi, commette
delitti di sempre “maggior risultato” con un articolato di attività criminali
organizzate, funzionali e complesse.
Nel trattare la tensione a delinquere, sarà affrontato il tema della
devianza sociale, cercando di porre in evidenza l’importanza di alcuni
fattori, in ordine a comportamenti criminali che hanno come terreno di
coltura quegli stessi gruppi sociali emarginati chiusi (anche etnicamente
connotati e inseriti in gruppo sociale non preparato a una politica di
accoglienza) analizzati da Sutherland e Cohen. Prova ne sia che le
strategie adottate dalla politica dell’integrazione non educano i cittadini
all’interazione con ciò che appare “diverso”.
L’importanza posta nell’osservare il comportamento dei gruppi umani,
nell’ottica di una anche parziale comprensione del fenomeno, porta a
cogliere, ove ve ne siano, alcuni tratti tipici, gli stessi evidenziati da
Edwin Sutherland, sulla base dei quali i soggetti devianti si sentono
167
accumunati dal condividere il disagio. Dall’analisi di questo disagio,
sarebbe profittevole partire per cominciare a costruire un percorso
prima negativo, cioè di destrutturazione dell’isolamento, e poi positivo di
integrazione e di condivisione dei territori che, per la loro peculiarità,
vanno oggi ad assumere il valore di “frontiere”: luoghi d’incontro e
commistione.
Il ruolo e l’importanza che hanno avuto la presunzione, i preconcetti e
gli stereotipi, coniugati all’estemporaneità delle politiche d’integrazione,
è evidente.
Nel considerare il fenomeno migratorio nella sua fase finale di
ricollocamento territoriale, nonché nella sottovalutazione di alcune
peculiarità di natura culturale e antropologica, si sono rivelate
fondamentali nel favorire il consolidamento di condotte che potremo
definire atipiche. Comportamenti, cioè, che per i soggetti attori non
hanno in sé la connotazione di negatività manifesta, ma che vengono
percepiti dalle società ospiti e dal sistema giuridico autoctono.
Complessi di azioni “manifestamente criminali”, ma che tali non
appaiono agli occhi di chi li adotta, poiché appartengono al bagaglio
interiore e culturale del quale ogni migrante è depositario. Azioni che, a
volte, sono ritenute legittime in virtù di una “obbligazione di risultato”
poiché finalizzate a sostenere le esigenze del gruppo di appartenenza.
Il modello al quale qui ci si riferisce è quello delle comunità migranti a
forte identità nazionale come, ad esempio, quella cinese.
La spinta aggregativa dei migranti in fase d’insediamento sui territori
riceventi, non è unicamente un moto spontaneo e basato sull’identità
168
nazionale o sull’appartenenza dei soggetti a una data etnia, ma,
specialmente nel caso cinese, si fonda su una valutazione economica
in senso ampio. Tale logica ha avuto talvolta ragione delle politiche di
popolamento (più spesso di ripopolamento) di aree territoriali a ciò
destinate dalle istituzioni locali. Un’operazione così importante come
l’inurbamento dei nuovi residenti è, infatti, materia che porta in sé
l’imprescindibile necessità di favorire la costituzione di una società
integrata nella quale la pace e l’equità sociale si coniughino alla legalità.
Il che equivale a consolidare nei gruppi il grado di percezione della
sicurezza (della quale sempre più sembra sentirsi il bisogno) e richiede
l’intervento prodromico di scienziati dalla profonda conoscenza
antropologica delle comunità d’origine delle persone che andranno a
comporre i gruppi sociali d’aggregazione “volontaria” ed “emarginazione
involontaria”, e, di più, la capacità di una progettualità che tenga conto
non solo delle dinamiche relazionali dei soggetti all’interno dei gruppi
d’appartenenza e di questi ultimi tra di loro, ma anche dell’interazione
con le comunità autoctone.
Per giungere al risultato atteso, quindi, la gestione della politica
territoriale deve seguire una strategia preordinata tanto quanto lo è
quella delle compagini etniche che si vanno insediando.
L’attuazione di questo particolare progetto, segno evolutivo dei tempi, si
riflette e incide nel modo d’intendere il concetto di governance135 che
135 Definizione: “Lo sviluppo e la successiva evoluzione della teoria della governance, va rintracciata
nell’analisi delle attività intraprese dalle autorità politiche nel tentativo di modellare le strutture e i
processi socioeconomici. In Germania il termine in uso è Steuerungstheorie [teoria della direzione]
(Mayntz 1987). La parola inglese governance è stata per lungo tempo equiparata a governing,
l’elemento processuale del governare, rappresentando così la prospettiva complementare rispetto a
quella istituzionale negli studi dedicati al governo; quindi, governance venne utilizzato
approssimativamente quale sinonimo di politiche Steuerung [direzione politica]. Tuttavia, il termine
governance è stato utilizzato [di recente] in due ulteriori accezioni, entrambe distinte da guida o
169
rientra in quel novero d’incombenze da svolgersi, imprescindibilmente,
a cura di chi ha il compito politico di amministrare di quel territorio.
In tale quadro la collocazione sul territorio delle famiglie e degli
individui, andrebbe, quindi, accuratamente seguita con l’obiettivo di
limitare le precondizioni (principalmente isolamento, assenza di servizi
e percezione dell’abbandono) che si rivelerebbero in grado di
innescare,
legittimandoli,
i
comportamenti
autoreferenziali
e
d’esclusione. Attività sulla base delle quali è plausibile avvenga, poi,
quella frattura perniciosa tra i due “supposti” universi paralleli (o
antagonisti) territorialmente coesistenti.
Durante l’osservazione del laboratorio territoriale in Emilia Romagna è
emerso che l’uniformarsi a un sistema normativo condiviso, a una
legge, che ancorché perfettibile è volta a regolare i rapporti giuridici o,
più semplicemente, l’umano agire nella quotidianità, non è solo
un’attitudine innata che coinvolge spontaneamente i gruppi sociali,, ma
la risultanza di un coordinamento di funzioni sociali tra le quali assume
conduzione politica. […] Attualmente si ricorre a governance soprattutto per indicare un nuovo stile di
governo, distinto dal modello del controllo gerarchico e caratterizzato da un maggior grado di
cooperazione e dall’interazione tra lo stato e attori non-statuali all’interno di reti decisionali miste
pubblico/private. La governance, intesa come ‘alternativa al controllo gerarchico’ è stata studiata sul
piano della formulazione delle politiche a livello nazionale e sub- nazionale (Kooiman 1993; Rhodes
1997), nell’arena europea (Bulmer 1994), così come nell’ambito delle relazioni internazionali (Rosenau
e Czempiel 1992). Nel numero monografico dell’«International Social Science Journal» interamente
dedicato alla governance intesa come modalità di coordinamento non-gerarchiche (Unesco 1998), si fa
riferimento a un rapporto della Banca mondiale del 1989, e quindi al contesto internazionale. È evidente
in ogni caso che i tentativi di risoluzione collettiva di problemi al di fuori di modelli gerarchici di
decisione, osservabili empiricamente a livello europeo e internazionale, hanno contribuito in modo
consistente a questa prima reinterpretazione del termine governance. Il secondo «nuovo» significato
attribuito al concetto di governance è invece molto più generale e vanta una diversa genealogia.
Governance indica qui modalità distinte di coordinamento delle azioni individuali, intese come forme
primarie di costruzione dell’ordine sociale. Questo uso del termine sembra essere derivato
dall’economia dei costi di transazione, e in parti- colare dall’analisi del mercato e della gerarchia quali
forme alternative di organizzazione economica (Williamson 1979). La tipologia di Williamson è stata
rapidamente allargata fino ad includere altre forme di ordine sociale: i clan, le associazioni e,
soprattutto, le reti [networks] (Hollingsworth e Lindberg 1985; Powell 1990). La «scoperta» di forme di
coordinamento diverse non solo dalla gerarchia, ma anche dal mercato strettamente inteso, ha indotto
l’uso generalizzato del termine governance per indicare qualsiasi forma di coordinamento sociale –non
solo nell’economia, ma anche in altri ambiti. In questo modo, l’attenzione rivolta alle forme moderne
della governance, seguendo la seconda accezione del termine, ha suggerito una ulteriore distinzione
semantica.”
Renate Mayntz, Rivista italiana di scienza politica / a. XXIX, n. 1, aprile 1999.
170
rilevanza una corretta policy di formazione ed educazione del Popolo a
percepirsi come tale.
Le esperienze positive in tal senso, dunque, non mancano e sebbene
non risolvano del tutto i problemi, evidenziano come la pianificazione di
strategie territoriali sia possibile. Infatti, l'Assessorato Coesione e
Sicurezza sociale del Comune di Reggio Emilia, nell’ottica della
diffusione del concetto di legalità e di democrazia partecipata, ha
provveduto, nel 2008, all’istituzione di sportelli “dedicati” alla comunità
cinese. L’utenza, da allora, può, quindi, interloquire con l’Istituzione
fruendo della consulenza di mediatori culturali, di interpreti e traduttori a
loro dedicati e in grado di relazionarsi nella lingua madre. A questa
iniziativa è seguita la redazione di modulistica ad hoc e la pubblicazione
di materiale cartaceo tradotto nelle lingue dei migranti. 136 Lo scopo,
com’è facile intuire, è quello di favorire e di contribuire a consolidare la
predisposizione di piani di cooperazione tra gruppi etnici migranti e
quelli autoctoni, lenendo, laddove se ne fossero create, le frizioni
sociali.
136 Il Vademecum della buona convivenza in condominio, realizzato all'interno del progetto sperimentale “le
regole del gioco” promosso dall'Assessorato Coesione e Sicurezza sociale del Comune di Reggio
Emilia e co-finanziato dalla Regione Emilia-Romagna è disponibile nelle versioni in francese, inglese,
arabo e cinese. La formula editoriale bi-lingua è stata appositamente studiata per fare in modo che il
vademecum possa essere utile, oltre che per la sua funzione sociale, anche per l'avvicinamento degli
stranieri alla lingua italiana.
Il Vademecum affronta i principali temi della vita di condominio e
vengono illustrati casi tipici di conflitto tra vicini (rumori, parcheggi, pulizia, antenne, spazi comuni, ecc.)
indicando le possibili soluzioni.
Comprende inoltre un glossario con i principali termini utilizzati per le
attività di gestione del condominio e degli immobili, e un elenco delle Associazioni e dei servizi pubblici
che maggiormente sono attivi (anche verso gli stranieri) sui temi della casa, delle gestioni condominiali,
della
soluzione
dei
conflitti
di
vicinato
a
Reggio
Emilia.
http://www.municipio.re.it/retecivica/urp/retecivi.nsf/PESIdDoc/BA227A5C6877A7EFC125754B0030A38
C/$file/Vademecum%20della%20buona%20convivenza%20in%20condominio%20-%20Cinese.pdf
171
Attraverso la risoluzione dei problemi quotidiani si giunge a prevede la
costruzione di una nuova forma “sicurezza”: un bene comune che basa
la propria solidità strutturale sulla conoscenza e il rispetto reciproci.
2. Stato e controllo sociale
Zygmunt Bauman afferma che:
[…] lo Stato, per esempio. Ha fondato la propria ‘raison d’être’ e
la sua pretesa all’obbedienza dei cittadini sulla promessa di
proteggerli dalle minacce alla loro esistenza, […]. Quindi è
costretto – qualora non vi riesca - a spostare l’accento della
“protezione dalla paura” dai pericoli per la sicurezza sociale a
137
quelli per l’incolumità personale […].
Proseguendo sull’enfasi che genera tale assunto, potrebbe apparire del
tutto normale, quindi, esigere dallo Stato moderno che si impegni
concretamente a costruire, educando, la propria componente umana:
l’elemento indispensabile per perseguire, in un clima di partecipata
condivisione, gli indefettibili scopi collettivi che, come dice Bauman,
questo si pongono a fondamento e legittimazione della propria
esistenza.
L’importanza di questo concetto assume maggiore rilievo se si prende a
paradigma quanto
la
percezione
dell’insicurezza
influisca sulla
collettività, destabilizzandola. Infatti, indipendentemente da quale sia il
grado di sicurezza applicata138 conta solo se e come, essa sia percepita
dal contesto sociale cui è destinata.
137 Z. Bauman, Paura liquida – Editori Laterza, 2006.
138 Per sicurezza applicata deve intendersi il proliferare di norme; le manifestazioni esteriori; le strategie,
nonché l’adozione di dispositivi che attraverso un processo di capillare distribuzione di “occhi
tecnologici” sul territorio, fanno sì che il processo di “messa in sicurezza” si tramuti in una osservazione,
in controllo, costante anche a discapito delle libertà individuali. Le prime ad essere sacrificate in ragione
di una asserita generale e diffusa “massima sicurezza”.
172
Ed è proprio sulla base di ciò che si ribadisce, tanto nello studio della
“genesi” quanto degli “effetti” dei fenomeni criminali, la necessità della
condivisione dei fini della collettività, in cui lo Stato principalmente si
sostanzia attraverso la rimozione delle precondizioni; l’eliminazione
delle cause del disagio che ne sono all’origine. È quindi dalla
percezione del danno sociale che potrebbe derivare dal fatto delittuoso
e dalla comunicazione alla massa che sarà possibile attribuire il valore
d’indicatore al “livello di insicurezza percepito”, l’unico dato reale.
L’osservazione effettuata attraverso questo studio agevola la presa in
considerazione di un nuovo angolo prospettico dal quale osservare gli
eventi categorizzati come criminogeni o criminali che entrano in
contrasto con gli aspetti della quotidianità a seconda della fase
cronologica in cui questi si rilevano. In questa analisi, a fianco dei
concetti
di
sicurezza
sociale
e
sicurezza
percepita
dobbiamo
aggiungere quello di normalità. In quest’ambito, dare un significato al
vocabolo normalità si rivela imprescindibile tanto più se ci si vuole
occupare della sicurezza sociale sotto i molteplici aspetti che a questa
afferiscono. Normalità, quindi, può consentire un’interpretazione delle
alterazioni in pejus: elementi di criticità sociale che altri non sono, se
non indicatori attraverso i quali poter prevenire le crisi.
3. Immigrazione e percezione dei fenomeni criminali
Quando si decide di affrontare l’argomento sicurezza, può essere
fuorviante limitare la propria azione a elencare quali si ritiene possano,
o debbano, essere i fattori che contribuiscono a rendere “insicura” (a
173
volte, emergenziale) la vita nelle zone di insediamento dei migranti che,
talvolta, appaiono “grigie” in quanto non perfettamente conosciute e
pertanto in condizione di esposizione al crimine.
Oggi nuovamente le migrazioni si presentano come uno dei
fattori più visibili e controversi di cambiamento delle nostre
società. Negli spazi urbani, nel mercato del lavoro, nelle aule
scolastiche, nelle messe domenicali, nei circuiti delle attività
illegali, avvengono sostituzioni e mescolanze di vecchi e nuovi
protagonisti. E i nuovi arrivati sono quasi sempre più poveri di
quanti si erano già insediati in precedenza, oltre che diversi per
lingua, aspetto fisico, usanze, credenze e pratiche religiose. La
percezione diffusa è quella di uno sconvolgimento dell’ordine
sociale. Per alcuni, è l’alba di un mondo nuovo, all’insegna del
meticciato e della fratellanza universale; per i più, è l’inizio di
un’invasione. Nel complesso, i migranti rappresentano all’incirca,
il 3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 214 milioni
su oltre 6 miliardi di esseri umani (Caritas-Migrantes, 2010),
mentre per l’Europa a 27, la stima si aggira intorno ai 25 milioni
di migranti su 490 milioni di abitanti, dunque all’incirca il 5%. In
Italia i dati più recenti parlano di 5,3 milioni di persone, comprese
500.000 (stimate) in condizione irregolare. Si tratta di una quota
relativamente
ridotta
dell’umanità,
ma
aspetti
come
la
concentrazione in determinate aree di destinazione, la rapidità
della formazione di nuovi flussi, le modalità drammatiche di una
parte degli arrivi, accrescono il senso di smarrimento e di
minaccia.139
Tale percezione non è il sintomo di un fenomeno reale, vivo e presente.
L’osservazione del complesso di mutamenti avvenuti nelle città più
popolose negli ultimi trentacinque anni, fa sì che l’analisi su come
queste si siano modificate non trascuri di evidenziare quanto abbia
inciso, in particolar modo sul fattore “sicurezza percepita”, l’accoglienza
139
Maurizio Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale
sull'Immigrazione del Partito Democratico, pubblicato il 25 marzo 2011.
174
e l’insediamento dei migranti, ossia la modificazione del dato etnico in
seno alla popolazione. L’atteggiamento del singolo nel condurre la vita
nonché il modo di intendere quel complesso reticolo di relazioni che
costituiscono il fondamento dell’interazione nei gruppi sociali.
L’immigrazione, dunque, non è solo una questione di movimenti
di popolazione. E’ una vicenda ben più complessa, in cui
intervengono gli Stati riceventi, con le loro politiche di
categorizzazione degli stranieri più o meno graditi e di controllo
dei confini, le reazioni delle società nei confronti dei nuovi
arrivati, i paesi d’origine con la loro reputazione più o meno
positiva, e naturalmente i migranti stessi, impegnati nella ricerca
di smagliature e interstizi che consentano l’accesso ai territori in
cui sperano di trovare miglior fortuna che in patria.140
A seguito degli sconvolgimenti geopolitici che tra la metà degli anno ’80
e la metà dei ’90 hanno modificato gli equilibri europei ed asiatici e a
seguito delle ripercussioni economiche che questi hanno avuto sulle
singole persone o sui gruppi, ecco che forti spinte migratorie che hanno
interessato l’Italia facendone, se non una meta, quantomeno un luogo
di transito. In concomitanza all’arrivo dei primi migranti, tra i quali il
gruppo più numeroso fu quello albanese in fuga dall’ultimo regime
totalitario europeo, il “circo mediatico” si mise in moto stigmatizzando,
forse per la prima volta e attraverso una quantità abnorme di immagini,
lo svolgersi di una tragedia. In quei giorni, o meglio sarebbe dire “da
quei giorni”, i media italiani non mancarono un solo giorno d’evidenziare
qualunque differenza comportamentale e di dare rilievo a ogni azione
criminale commessa da un migrante contribuendo a creare l’assioma
140 M. Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del
Partito Democratico pubblicato il 25 marzo 2011.
175
“migrante-delinquente”.
Non
si può
certo
dire
che
il servizio
d’informazione pubblica, quindi, non abbia contribuito al modo
d’intendere e percepire la presenza dei migranti in Italia sollecitando, in
alcune frange di popolazione meno critiche e più influenzabili,
l’insorgere di istanze tese ad ottenere “sicurezza” attraverso l’adozione
di una politica di chiusura e conseguente respingimento, invece che di
strategie di accoglienza e d’integrazione dei migranti.
Va ribadito che non esistono Stati nazionali, per quanto
democratici, che non presidino le frontiere e non controllino gli
ingressi sul territorio nazionale, con le conseguenze relative:
richiesta di passaporti e permessi di soggiorno, complessi regimi
di
regolamentazione
dell’immigrazione,
procedure
di
trattenimento ed espulsione degli stranieri indesiderati, anche se
di fatto applicate solo ad una parte dei casi potenzialmente
pertinenti. Il problema consiste nel trovare un equilibrio tra la
sorveglianza dell’accesso al territorio nazionale, gli interessi che
dall’interno dei confini premono per l’apertura, il pacchetto di
diritti umani che dei paesi democratici, firmatari di solenni
convenzioni
internazionali,
richiedenti
asilo,
devono
rifugiati,
comunque
stranieri
garantire
residenti
a
anche
temporaneamente, compresi coloro che si trovano sprovvisti di
regolari autorizzazioni al soggiorno. […] L’innalzamento della
rigidità dei controlli ha poi un effetto facilmente prevedibile:
provoca un accrescimento della sofisticazione e del livello di
organizzazione criminale dell’industria dell’attraversamento delle
frontiere. Il fatto più grave, in questa spirale, è l’asservimento in
varie forme di prestazioni forzate di coloro che non possono
pagare il servizio. Favoreggiamento dell’immigrazione non
autorizzata e traffico di esseri umani sono fenomeni diversi, ma
di fatto risultano spesso intrecciati, tanto da poter essere
inquadrati come i due estremi di un’unica attività.141
141 M. Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del
Partito Democratico pubblicato il 25 marzo 2011.
176
Nel modificare la percezione dell’immagine del migrante si è sollecitata
la creazione nell’immaginario collettivo di un alieno, un soggetto al
quale attribuire secondo il sillogismo aristotelico, lo stigma preconcetto:
migrante-delinquente. È innegabile che molti tra i migranti che per primi
approcciarono al suolo italiano non esitarono a violare per assicurarsi
un immediato profitto e una condizione economica gratificante. Da lì
alla creazione mediatica del mostro il passo fu davvero breve e
contribuì a far sì che alla parola immigrazione corrisponda la
percezione di disagio, di una insicurezza latente, ma mai di un
potenziale umano o di una “opportunità” di sviluppo sociale complesso
e condiviso.
Lo sfruttamento criminale della condizione d’illegalità e di disagio
economico dei migranti iniziò già dai primi sbarchi degli anni Ottanta
dello scorso secolo. Uno sfruttamento che in alcune sue connotazioni
assunse la forma della schiavitù. Quel fenomeno sociale iniziato a
profilarsi all’orizzonte in una stagione storica assai complessa è andato
progressivamente a incidere su un panorama, su un teatro, che sino a
quegli anni s’era supposto immutabile. Sconvolgendo le false certezze
di intangibilità dei confini e protezione dei mercati a cui un’intera area
culturale era stata educata. Quando l’evento migratorio ha iniziato a
suggerire di sé la propria importanza attraverso il crescendo dei numeri
e delle percentuali alle quali sarebbe stato destinato, non si sono volute
vedere e riconoscere le implicazioni che da ciò sarebbero discese.
L’analisi svolta in quegli anni dalle Agenzie istituzionali italiane sul tema
177
ha dimostrato l’incapacità di leggere e valutare il mutare della storia,
degli eventi geopolitici ed economici.
Le migrazioni sono antiche quanto l’umanità, se è vero che tutti
abbiamo origini africane. Dalla ricerca archeologica, ai poemi
omerici, alle testimonianze bibliche, sappiamo che movimenti di
singoli e gruppi, scambi commerciali, colonizzazioni pacifiche e
invasioni cruente, hanno costruito la storia delle civiltà umane. La
sedentarietà
faticosamente
conquistata
nel
neolitico,
con
l’invenzione dell’agricoltura e la nascita delle prime forme urbane,
non è mai stata assoluta. Il movimento di popolazioni, nelle sue
varie forme e con diversi esiti, ha sempre accompagnato la
formazione di società stabili.142
Non emerse mai il dubbio sull’interpretazione di ciò che stava
accadendo, cioè che non ci si trovava innanzi a un fenomeno
estemporaneo, bensì all’inizio di un’era di nuove migrazioni.
L’Italia, per la sua posizione geografica, venne immediatamente
individuata come la banchina naturale del Mediterraneo. Prossima a
tutte quelle aree di crisi (quelle africane, quelle balcaniche e quelle
mediorientali), nelle quali aveva avuto parte nei processi di “sviluppo,
democratizzazione e pacificazione”.
Alla luce di quanto precede, può apparire, dunque, difficilmente
spiegabile la policy italiana che ha introdotto a una abnorme
proliferazione
normativa
tesa
a
coercire
e
punire
chi migra,
criminalizzando, addirittura, la condizione naturale dell’essere umano:
la propensione a migrare.
A chi si occupa di sicurezza dei gruppi sociali e di criticità afferenti la
pubblica sicurezza in contesti sociali etnicamente integrati è noto che la
142 M. Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del
Partito Democratico pubblicato il 25 marzo 2011.
178
strutturazione di strategie preventive, ancorché si riveli un percorso
tanto dispendioso quanto incerto negli esiti è il migliore degli
investimenti.
Non per questo, però, la lusinga di perseguire vie più populiste e
svantaggiose economicamente, cioè l’intervento normativo e poi
giudiziario nei confronti degli autori di reati, induce a riorganizzare il
criterio di rilevanza dei valori dai quali una società trae la propria forza.
Una tale presa di coscienza di fronte all’insorgere delle problematiche
relative all’integrazione interverrebbe “negativamente” non consentendo
più ad alcune entità di perseguire, proficuamente, le speculazioni
politico-mediatiche che poco, o nulla, hanno a che fare con la reale
soluzione del problema.
Prevenire per governare, cioè per non dover intervenire in condizioni di
emergenza è l’opzione principale che meno appartiene alla strategia del
potere che si nutre della “cultura dell’emergenza” 143.
Nell’ultimo ventennio non sono stati pochi i governi che, ricorrendo a
tale
strategia
dell’emergenza,
al
collaudato
stratagemma
dell’allarmismo mediatico, hanno reso accettabili, se non addirittura
spinto l’opinione pubblica a richiedere scelte drastiche di limitazione
delle libertà, il cui unico esito è stato di sostituire al concetto di “pubblica
sicurezza” quello di controllo sociale.
Un esempio tangibile di questo processo, cioè di come si possono
ridurre progressivamente le libertà del singolo e quelle collettive,
143 Appare ovvio che, per le lobby, sia più remunerativo intervenire a posteriori e nella più assoluta
emergenza poiché un tale clima è più facile attingere a stanziamenti straordinari di fondi attraverso i
quali arginare in modo vieppiù più tecnologico e spersonalizzante, il dilagare di fenomeni, più o meno,
terrorizzanti.
179
giungendo poi alla legittimazione, alla normalizzazione di quella che
David Lyon, e i più noti scienziati anglosassoni esperti in sociologia
della sicurezza, definiscono la legiferazione d’urgenza. Il vero prodotto
che è seguito ai fatti dell’11 settembre 2001.
Attraverso l’uso di questo strumento è inevitabile che si pervenga alla
“compressione di libertà individuali” alle quali, in un clima di normalità
(ed ecco come risulta chiaro ed evidente, ora più che sopra, pervenire
ad una definizione convenzionale del concetto di normalità) nessuno
avrebbe rinunciato.144
La riflessione sulla compressione dei diritti adesso dovrebbe farsi più
approfondita e suggerirci lo spunto per comprendere quanto poco sia
cambiato l’esercizio “potere” nel corso dei secoli. Sono cambiati gli
ordinamenti politici, sono cambiati i sovrani e sono cambiate le persone
da governare, ma non è cambiato il potere che è rimasto lo “strumento
di controllo sociale” nelle mani di chi esercita l’imperio. Uno strumento
che spesso sfugge al controllo del popolo che ne è il titolare e che,
delegandone l’esercizio, ma non con la “vigile fiducia” che spetterebbe
al cittadino nel suo ruolo istituzionale di controllore, bensì con il
rassegnato “affidamento” più proprio al “suddito”. Le libertà sacrificate in
ragione di un’asserita emergenza sicurezza, ancorché condivisa e
giustificabile da un supposto interesse superiore, sono troppo spesso
perse per sempre e da tutti.145
Come abbiamo visto in Italia nel caso dei migranti
144 Si veda David Lyon, Massima Sicurezza – Ed. Raffaello Cortina Editore, 2005.
140 Ibidem
180
[…] Le società contemporanee producono rischi su vasta scala
proprio perché intervengono in maniera così decisiva sulla vita
biologica e sulla vita sociale, impiegando a tale scopo tutta una
serie di tecnologie. La gestione del rischio rappresenta un
aspetto fondamentale della attività di governo. Dopo la Guerra
fredda degli anni Cinquanta e Sessanta, la concezione
dominante era che la sicurezza nei confronti del rischio di
un’aggressione esterna (da parte dell’Unione Sovietica contro gli
Stati Uniti) potesse essere garantita mediante strumenti tecnici e
militari. Sono così proliferate le tecnologie della sicurezza e, con
esse, due convinzioni fondamentali: la prima, che la “massima
sicurezza” rappresenti un obiettivo auspicabile e, la seconda, che
può essere perseguita adottando tecnologie sempre più
facilmente reperibili sul mercato.146
La fragilità alla quale espone la produzione di rischi è quella di rendere
invisibili le minacce reali che, per loro connotazione, sono latenti o
vestono i panni accattivanti di imperdibili opportunità e accessibili
possibilità.
Il percorso artificiale di sovrapposizione e d’identificazione tra i distinti
processi di controllo/sorveglianza e di sicurezza è, ormai, un “fatto” ed è
in toto inserito nel quadro più generale della giustificata compressione
dei diritti. Volitivamente dismesso il diritto a essere liberi in uno Stato
libero, a vantaggio di una procedura di controllo della quale gli stessi
controllori, ormai, sembrano aver perso di vista lo scopo è il più classico
degli scenari che prelude all’affermazione del “potere della forza”.
Chiarito che la sicurezza non è l’esaltazione del potere, né il controllo e,
ancor meno lo è la soppressione progressiva delle libertà, le istituzioni
al fine di prevenire l’insorgere di un fenomeno critico, devono dedicare
146 D. Lyon, Massima Sicurezza – Ed. Raffaello Cortina Editore, 2005, p.42.
181
le proprie energie all’assunzione delle informazioni e alla raccolta del
dato. Questo “sapere” generale, deve essere processato in virtù
dell’adozione di policy improntate alla social safety.
4. Criminalità: forme e asimmetrie di un sistema alternativo
Ogni qual volta ci troviamo ad analizzare o a commentare eventi
attraverso i quali emergono, sempre previste, ma fatalmente sempre
inattese, le tracce tangibili dell’insorgenza, o della persistenza, di
fenomeni criminali con i quali la quotidianità ci chiede di convivere, per
quanto l’approccio cerchi di mantenersi il più possibile scientifico e
obiettivo, non si fa altro che incrementare la teorizzazione sulle
ipotetiche cause dei “disagi sociali” senza intervenire alla radice. Senza
voler osservare che i gruppi sociali nascono, crescono e maturano –alla
guisa di un organismo vivente– sotto gli occhi di tutti e che si nutrono di
un “novero di congiunture e imponderabili eventi” sui quali nessuno
sembra potere o volere intervenire.
Laddove possibile, la società sembra si preoccupi più di assolvere
immediatamente tutti e tutto da quelle responsabilità che, invece, sono
oggettive e ben attribuibili. Si pensi a quante energie giustamente si
profondano –talvolta in un clima di caccia alle streghe- nel perseguire i
tecnici progettisti, ingegneri e architetti, per il crollo, anche a seguito di
eventi naturali, di stabili che cagionino la perdita di vite umane; senza,
però, che nulla si muova o venga eccepito nei confronti dei “tecnici della
sicurezza” quando falliscono nella loro “arte” contribuendo in modo
egualmente dannoso alle implosioni, agli attriti, del “sistema società”.
182
Quello con cui s’instaura il confronto non è un terremoto che danneggia
strutturalmente edifici o che uccide sotto le macerie. Il danno e le
vittime, sparpagliate su un territorio ampio, derivano dalla non volontà di
gestire un fenomeno assai complesso da cui derivano criticità e frizioni
sociali. Trattando gli eventi criminali con “fatalismo” o, peggio,
riconducendoli
a
sconosciuti
fattori
antropologici
e
culturali
automaticamente le istituzioni assolvono se stesse dall’inerzia e
impreparazione. La giustificazione più usata è che queste emergenze
insorgono per “germinazione spontanea”, sotto gli occhi attoniti del
mondo, senza che questo possa in qualche modo intervenire.
Quando ci si trova di fronte agli effetti quotidiani dell’interazione tra
crimine e legalità ci si trova, in buona sostanza, innanzi alla normalità.
Un mondo nel quale vivere sicuri, ma non controllati, dovrebbe
rappresentare lo standard. In questo ipotetico mondo, a guidare il
Legislatore nelle sue scelte in tema di sicurezza, sono i processi
d’approfondimento deduttivi legati alla declinazione di informazioni,
talvolta parziali e frammentarie, più votate a rispettare l’orientamento
ideologico di chi le commissiona che la connessione alla realtà del
fenomeno.
La
scientificità
del
dato
l’attendibilità
del
quale
non
deve,
necessariamente, affondare le proprie radici nell’arida rappresentazione
della socialità che si desume dall’analisi statistica dei fenomeni,
sarebbe dunque auspicabile derivasse dallo studio del fenomeno dal
quale è bene che emergano gli umori percettivi prima che gli eventi
tipizzanti di un territorio assumano la connotazione dell’irreversibilità.
183
Il problema risiede, dunque, nell’adozione di una chiave di lettura
falsata, di fatto legata meramente all’individuazione (e non alla
soluzione del problema, ma al disegno di politicizzazione dello stesso)
di indicatori parzialmente attendibili sulla base dei quali è divenuta
prassi concettualizzare le soluzioni e teorizzare rimedi che però, da soli,
non sono in grado di risolvere le problematiche esasperate in quelle
“culture criminali” che, non essendo state analizzate con il pragmatismo
e la scientificità riservati ad altre emergenze, rimangono il “problema sul
campo”. La politica della sicurezza basata su questo modo di
approcciare “il problema” è essa stessa il maggiore dei problemi da
affrontare e risolvere.
5. Criminali, per scelta?
Sulla base della teoria della sub cultura si può, forse, affermare che sia
l’istinto, coniugato alla volontà di raggiungere un fine, porta gli uomini a
scegliere la condotta attraverso la quale concretizzare il risultato atteso.
Ma è lo stesso istinto volto alla conservazione e alla sopravvivenza che
sembra permanga come giustificazione alla base anche dell’eversione
dai principi su cui si vorrebbe venisse organizzata l’aggregazione
all’interno di uno Stato?
L’essere umano non è criminale per “istinto” (così come non è sommo
bene) ma sceglie di delinquere personalmente, anche sulla base di
condizioni ambientali o di frustrazioni (talvolta solo percepite, ma in
quanto tali dotate di effettività). Come evidenziato da Sutherland, sono
le condizioni che connotano gli scenari e l’ambiente in cui viene a
184
trovarsi
il
soggetto
che
lo
possono
condurre
ad
assumere
comportamenti devianti (e anche criminali). Avvertendo il senso
d’abbandono da parte dello Stato, cede di fronte alla propensione di
riorganizzare la propria socialità e di procurarsi ciò che percepisce
irrinunciabile
e
ingiustamente
preclusogli
per
assicurarsi
la
sopravvivenza. Una sopravvivenza che non è solo ed esclusivamente
quella fisica, ma afferisce al ruolo sociale nel quale assume una
posizione centrale la relazione.
Sulla base della percezione di ciò che ritiene necessario per sé,
l’individuo struttura e impegna l’intelletto fino al punto di determinarsi a
scegliere quella che ritiene essere l’unica via perseguibile in grado di
assicurargli un percorso altro per giungere al riconoscimento sociale.
Detto percorso è, spesso, in antitesi a quello ritenuto valido, quindi
lecito, dalla generalità dei consociati. Nel far ciò, però, compie un
singolare processo di standardizzazione dei comportamenti, non sfugge
cioè alla coazione che lo spinge verso la “necessarietà della regola”,
normando, così, anche i comportamenti devianti che si prefigge di
perseguire. Tutte le organizzazioni criminali ne sono testimonianza.
Ecco, dunque, che un “codice” alternativo, ma egualmente vincolante,
sostituisce quello condiviso, promosso dalla società nella sua forma
organizzata da quello Stato (status) al quale sente di non appartenere.
Innanzi a tale evidenza, risulta più immediato, tanto per chi è deputato a
prevenire i comportamenti devianti che per chi li persegue, far risalire le
motivazioni della trasgressione -l’origine della condotta antisociale che
185
in questo caso viene, propriamente, indicata come “criminale”- a fattori
esterni, indipendenti e sempre ragionevolmente validi.
Tra chi in assenza di rivendicazioni sociali riconducibili a supposti
soprusi e, per contro, ben uniformato e ben collocato all’interno del
vincolo del “bisogno/desiderio”, sceglie di procurarsi il feticcio attraverso
attività delittuose che non lo inglobino nello schema lavoro-reddito, e chi
delinque, ancorché inserito nella società ufficialmente organizzata, per
preservare una propria posizione di vantaggio, non v’è molta differenza
se non per la categoria alla quale vengono ricondotti i reati perpetrati:
delinquenza comune e white collars.
6. Le enclave criminali, isole da riconquistare
La programmazione del complesso di scelte, proprie di una politica
volta a garantire la sicurezza interna, che gli Stati compiono al fine di
opporre un contrasto efficace alle attività della criminalità, sia comune
sia organizzata, e la sempre maggiore tendenza ad analizzare le cause
che condizionano, modificandoli, gli usi relazionali all’interno dei gruppi
umani in cui tali devianze sociali prendono piede, divengono sempre più
urgenti. Talvolta il ritardo istituzionale nel provvedere a organizzare
questo settore ad alto rischio di emergenza sociale è deputato a
ingenerare nei consociati un senso di sfiducia; si tratta di una fragilità
epidemica che si diffonde e alla quale corrisponde, simmetricamente,
un’azione progressiva più agguerrita e determinata delle compagini
criminali che abitano questo “organismo”.
186
I gruppi sociali, così come i singoli individui, sono resi vulnerabili dalla
percezione che essi hanno dell’isolamento (anche se non effettivo, ma,
come abbiamo visto, egualmente reale in quanto “percepito”), al punto
che nei gruppi stessi si consolidano e vengono avvallati più facilmente i
comportamenti devianti, contigui a chi si dimostra “il più forte sul
campo”, sino ad avere esiti che strutturano l’anti-socialità facendola
divenire “sistema” e favoriscono la formazione di un humus fertile e
omogeneo ove la metastasi criminogena ha modo di nutrirsi e
prosperare. In tale quadro è fondamentale che si riesca a determinare e
comprendere, anche solo per deduzione, come e in cosa, sia mutata la
società, privilegiando, nell’osservazione, le aspettative disattese degli
individui che la compongono, nonché il modo che questi hanno di
relazionarsi tra loro.
La costante evoluzione delle scienze sociali e giuridiche, effettivamente,
ha di recente riconosciuto –specialmente nella galassia anglosassonel’utilità pratica, oltre che teorica, che deriva dallo studio analitico dei
prodromi ai fenomeni criminali. Tale via è stata scelta non solo
nell’intento di quantificarne “il danno sociale” che si rivela operazione
funzionale all’attribuzione di un valore oggettivo sulla base del quale
preordinare una strategia (anche economicamente vantaggiosa) atta a
reprimerne le manifestazioni criminali e contenerne gli effetti, o
coercirne gli autori, ma anche, o soprattutto, per rielaborare la strategia
difensiva militante, condivisa e compartecipata che è propria di un
Popolo libero.
187
L’efficacia e la bontà di una tale politica di prevenzione -lo si ripete,
quando non degenera in controllo sociale- è rinvenibile e computabile,
sulla base stessa degli sforzi, responsabili e partecipati, volti ad
identificare ed isolarne i “germi” della devianza; comportamenti cioè ai
quali ricondurre l'origine della condotta criminogena: le così dette
precondizioni.
Tale volontà ben si può sintetizzare e tradurre in un obiettivo condiviso
che pretenderebbe, attraverso un attento screening dei comportamenti
reiterati e più ricorrenti in determinati contesti, anche definibili
patologici, di impedire la formazione e il radicamento delle precondizioni
socio-degenerative poste alla base della formazione di micro/macro
comunità con indici criminogeni e delinquenziali di tutto rilievo.
Per precondizioni vanno intese tutte quelle sottaciute presunzioni,
quelle disattenzioni compiute nell’ambito della policy della sicurezza
sociale che permettono alle sub urbia di venire a esistenza, radicandosi
come realtà alternative al sistema sociale regolato dal Diritto. Territori in
cui è troppo poco remunerativo affrontare il discorso prevenzione e ai
quali è riservato il destino di trasformarsi in laboratori sociali
d’integrazione nei quali si sviluppano, spontanee, strutture parallele o di
“legalità alternativa”.
Per moderne sub urbia si intendono quei luoghi dove, di fatto, viene
favorita la concentrazione abitativa di nuclei familiari con evidenti
sintomi di disagio sociale che può concretarsi nella propensione
all’insofferenza verso le regole dello Stato, alla devianza. Luoghi dove
la strategia dell’emarginazione è istituzionalizzata e perseguita con la
188
creazione, all’interno delle città, di quartieri “impermeabili” in cui è più
facile relegare e controllare i borderline o gli outsider che promuoverne
il recupero e l’inserimento.
In queste “cittadelle” s’insediano comunità in cui gli individui subiscono
il collocamento, così come, in altre occasioni, taluno di loro ha subito
esperienze carcerarie o di comunità riabilitative. La realtà si sviluppano
le relazioni e i processi di socializzazione devoluti a progetti rieducativi
etero-indotti esaltano quelle problematiche che, in ultimo, si scoprono
essere l’unico comune denominatore sulla base del quale s’incardina il
rapporto
di
relazione/interazione
sociale.
Una
autoreferenzialità
impermeabile a influenze esterne propositive.
Il senso di appartenenza, quindi, è spesso riconosciuto e avvertito, non
tanto perché esiste un motore di aggregazione basato sulla
condivisione di una progettualità di un fine futuro, ma, al contrario,
affonda nel passato; nell’esperienza “condivisa” in cui affonda l’origine
di un vincolo. In tali contesti, il vincolo si identifica nell’aver conosciuto
una situazione di disagio che, di per se stessa rappresenta un collante
significativo sulla base del quale fondare e strutturare la compagine
criminale. Si tratta di un vissuto aggregante, di un’esperienza comune
da confrontare, esaltare e schierare in opposizione e contrasto a quello
della società “normale”: la società in cui chi è “diverso da” è percepito
come una potenziale minaccia. (A. Cohen)
Questa presa di coscienza di appartenenza porta alla coniazione di un
modello di riferimento alternativo ma altrettanto rigido rispetto a quello
189
da cui traggono il “proprio” ordine gli Stati e la società normale dalla
quale sono esclusi o si sentono esclusi.
La coscienza di essere riconosciuti “Altro” (Alter, E. Sutherlan) è
avvertito come un valore da preservare e condividere. Un esempio di
tale assetto proviene dalla terminologia gergale che i sodalizi criminali
usano per stigmatizzare il “loro essere altro”, ma validi e valenti. Gli
“uomini d’onore” per la mafia; i balentes, cioè i valorosi, nella criminalità
sarda; il “sandalo di paglia” nella criminalità cinese ed è così per tutte
quelle società nelle quali l’essere stati espulsi o posti ai margini dal
mondo
omologato
è
la
condizione
introduttiva
all’essere
orgogliosamente “Altro”.
7. Genesi del gruppo deviante
Nel corso della ricerca è emerso che le società segrete cinesi, sebbene
non siano di per sé, o necessariamente, dei sodalizi criminali,
impongono all’affiliato un grado di emarginazione, di chiusura verso
l’esterno, connotandolo all’interno del gruppo. Ciò aiuta il consociato a
raggiungere livelli di responsabilità e di vertice che hanno nomi che
evocano creature celesti e mitologiche tratte, per lo più, dalla tradizione
arcaica o dalla filosofia confuciana e buddista. Si tratta di un’elevazione
di fatto delle strategie di auto-validazione e di accreditamento che
avviene attraverso il linguaggio e il simbolismo dai più conosciuti e
comprensibili unicamente dai confratelli.
Il vincolo di affiliazione e l’accettazione delle regole che da questo
discendono è forte al punto tale da originare quel senso di
190
“indispensabilità”, proprio della regola giuridica (con tanto di precetto e
sanzione in caso di violazione del dettato in esso contenuto), sulla base
del quale il gruppo sociale fonda la propria ragion d’essere.
È così quindi che si assiste al passaggio, dall’improvvisazione di atti
“delittuosi” estemporanei, in genere tesi all’affermazione del “sé”
rispetto “all’Io collettivo”, all’organizzazione dell’attività criminale o,
meglio, alla riorganizzazione del gruppo in una società parallela e
asincrona in cui la convivenza forzata, su porzioni di territorio eterodelimitate, costituisce lo start up verso la legittimazione a esistere e
agire.
Dal punto di vista antropologico, questo processo introduttivo e
organizzativo è assimilabile alla nascita di una fratria147, di una famiglia
nella quale è possibile riconoscere un capo, una élite, dei soldati e,
infine, dei gregari. Una struttura alla quale affidare la trasformazione
dell’interesse privato in un fine collettivo supportato da valori condivisi
che
per
le
connotazioni
di
base
che
li
caratterizzano
e
contraddistinguono, sono definibili antisociali e, talora, criminogeni.
L’esempio di una tale struttura sociale è facilmente rinvenibile all’interno
degli opifici gestiti dai Lao Ban. In Prato, ad esempio, la struttura
organizzativa della fabbrica a gestione cinese si connota per il rapporto
che il lavoratore ha con l’impresa che, come in Cina, si sostituisce in
tutto all’organizzazione statale. La violazione dei precetti che regolano i
turni di lavoro, il trasferimento di denaro in Patria attraverso canali non
interni alla Tong, la rivendicazione di una equa retribuzione per il lavoro
147 Fratria: unità sociale elementare basata sull’interazione di gruppi familiari diversi. Diverse fratrie
formano un clan o una tribù (Paul H. Stahl).
191
o la delazione a persone esterne al gruppo cinese di particolari che ne
svelano le dinamiche, costituiscono dei veri e propri reati che il gruppo
stesso, l’associazione (segreta) di fatto vincolata alla rete solidaristica
del guanxi e alla fratellanza di cui il migrante entra a far parte all’atto del
suo inserimento lavorativo, vengono perseguite con sanzioni, anche
cruente a seconda della gravità dell’infrazione commessa, emanate da
un organo giurisdizionale interno, una “cupola”, verso la quale il rispetto
e la deferenza degli affiliati è totale ed il cui giudizio è inappellabile.
Una socialità questa che non ha la percezione di sé come criminale
poiché valida e traferisce all’estero, insieme al migrate, un sistema di
vita e di relazioni tradizionale e, pertanto, “normale”.
Il processo di formazione del gruppo deviante supportato dagli evidenti
e positivi risultati economici derivanti dall’affermazione dell’interesse e
del facile guadagno che questo consente (fondato sull’esaltazione
“dell’io a dispetto degli altri”), rafforza la convinzione nel consociato che
lo Stato, ed ogni sua regola, siano nemici ai quali resistere opponendo
una condotta positiva: il guanxi. La solidarietà anche criminale
nell’esaltazione dell’Io collettivo.
Astrattezza e generalità non difettano alla regola che vincola,
assoggetta e contraddistingue gli affiliati. L’omertosa complicità del
sodalizio criminale si sostanzia, dunque, nell’affermazione di una regola
vincente poiché economicamente vantaggiosa.
Da qui deriva il convincimento che le risposte e gli strumenti per
enucleare una tattica ottimale su “come intervenire”, efficacemente, per
prevenire e arginare la “deriva criminale” nei contesti metropolitani, non
192
vadano cercati esclusivamente nel rinforzo ai mezzi di controllo sociale
e repressione, bensì scaturiscano dall’analisi attenta dei contesti sociali
e dall’attività preventiva che le Agenzie territoriali riescono a porre in
essere attraverso controlli e ispezioni148.
8. La territorializzazione
Il processo in trattazione, definito di territorializzazione, implica una fase
d’insediamento che, come abbiamo già evidenziato in precedenza,
prescinde dalla volontà dell’attore. Si tratta di un provvedimento
autoritario sul quale il destinatario non ha voce in capitolo. Collocato in
un luogo da un’autorità alla quale spetta istituzionalmente il compito di
organizzare geograficamente i gruppi umani. Questa fase, molto
delicata e che dovrebbe essere vigilata dalle autorità del paese
d’insediamento che con le conoscenze e la consapevolezza avrebbe la
possibilità di intervenire onde evitare processi di ghettizzazione, è
determinante, poiché sarebbe grado di scongiurare il radicamento
nell’individuo del convincimento (anche inconscio) di essere stato,
alternativamente, o inserito o emarginato. Comunque, allocato in un
contesto che non ha scelto e dal quale non vi sono risultati attesi se non
quelli del mantenimento in una condizione di diversità, di alterità.
Tenendo a mente quali sono i risultati delle indagini di polizia sul traffico
internazionale di migranti cinesi, si oggettiva un dato: il cinese che parte
dal villaggio d’origine alla volta dell’Europa non conosce la propria
destinazione, ma è l’unico a non saperla. Infatti, l’organizzatore del
148 Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica della Prefettura Ufficio del Governo di Prato,
Tavolo di coordinamento delle attività di polizia promosso dal questore dott. D. Savi.
193
“viaggio”, la struttura criminale internazionale alla quale viene affidato il
trasferimento del soggetto è già in contatto con il referente europeo che
si occuperà del suo collocamento di una Tong preesistente e strutturata
per riceverlo. Un luogo individuato e circoscritto del quale il gruppo
sociale, valendosi delle precondizioni ottimali a generare devianze di
cui abbiamo detto sopra, sente di essere divenuto dominus.
Lo scopo, quindi, dello studio scientifico delle attività criminali è
oggettivare, per quanto ciò sia possibile, una griglia analitica volta a
individuare quali siano le analogie da osservare, gli indicatori da
riconoscere, per prevenire, la nascita di queste aggregazioni, ossia per
impedire che si consolidino “zone franche” di territorio nelle quali sia
consentito lo sclerotizzarsi di processi comportamentali criminogeni:
una delle patologie “dell’organismo società”.
9. Condotte sociali e percezione della loro antigiuridicità
È
importante
evidenziare
come
nell’ambito
della
ricerca,
il
comportamento non debba essere necessariamente analizzato e
interpretato sempre con il medesimo metro giuridico, sociale e
antropologico, con la medesima matrice, ma debba, anzi, rispecchiare
quelle che sono le rispondenze e le propensioni sociali in cui si sviluppa
l’osservazione.
Con il mutare del modo e del grado d’intensità di percepire i seppur
ondivaghi significati con cui intendere bene e male, e, parimenti, ciò che
è giusto o ingiusto, è opportuno che muti l’attenzione verso le istanze
della società, cercando di cogliere la direzione verso la quale si
194
orientano i comportamenti collettivi ritenuti “conformanti”, socialmente
validi.
A una tale ricettività si può giungere solo attraverso il monitoraggio dei
segnali spontanei, rilevabili ricorrendo all’impiego di metodologie
ritenute, di volta in volta, le più pertinenti.
È stato acquisito quindi un dato che seppur relativo, conduce a una
percezione condivisa e allarmante della relatività dell’evento che
storicamente è contestualizzato; ciò che oggi è visto come una
minaccia sociale, lesiva dei diritti dell’uomo e dei lavoratori, quindi,
dell’ordine e della sicurezza pubblica, potrebbe in breve risultare
rispondente alle mutate esigenze di mercato e sociali tanto da portare
alla modifica della normativa in tal senso.
L’assolutizzazione di taluni “valori” che oggi fungono da indicatori e
assumono un ruolo determinante serve a tramutare i fatti in storia, così
come a trasformare “l’insicurezza percepita” in pericolo reale. Si tratta,
in sostanza, di condotte che nel corso degli anni assumono valenze
diverse tanto da sollecitare il Legislatore, via via che i tempi lo
richiedono, a qualificarle ora come criminose e socialmente censurabili,
ora a decretarne l’irrilevanza.
Una riflessione va fatta sull’iter di depenalizzazione del falso in bilancio.
10. Cos’è il reato? Le ‘matrici’ criminali
Nel principiare la disamina delle diverse “matrici criminali”, cioè a dire
dei variegati modi di delinquere, che ci si propone di analizzare, appare,
fin d’ora, opportuno fare chiarezza circa l’uso di una terminologia
195
strettamente connessa al diritto. Ci si prefigge, infatti, di tracciare una
linea guida, asciutta e al contempo efficace, che consenta di
comprendere i tecnicismi dei quali il testo si avvarrà senza però
trascurarne le sfumature. Quelle zone grigie lessicali che linguaggi
simili usati in contesti contermini (come lo sono il diritto e la sociologia
della
devianza),
ingenerano.
Fraintendimenti
o
generalizzazioni
perniciose che rendono i diversi linguaggi, del Diritto e dell’analisi
sociale, talvolta ostici nel comunicare. Tale forzo è richiesto, dunque, al
mero fine di evitare fuorvianti interpretazioni.
Iniziamo, quindi, proponendo la definizione che la dottrina penalistica
italiana prevalente dà del reato e che consiste nella violazione di un
precetto dell’ordinamento giuridico-penale, la cui nota fondante è il
contrasto, l’opposizione col diritto. Questa contraddizione viene indicata
col termine ‘antigiuridicità’ ed anche illiceità. 149 O, anche Si definisce
reato quel comportamento umano volontario, che si concretizza in
un’azione o omissione tesa a ledere un bene tutelato giuridicamente e a
cui l’Ordinamento giuridico fa discendere l’irrogazione di una pena del
tipo della sanzione penale.150
In assonanza, dunque, con la dottrina di Francesco Antolisei che
definisce il reato “ogni fatto al quale l’ordinamento giuridico ricongiunge
come conseguenza una pena” è necessario porre delle precisazioni che
aiutino a riconoscere quanto queste definizioni siano prettamente
“formali” in quanto si fermano a connotare i “segni esteriori che
149 Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Dott. A Giuffrè Editore, Milano, 2000, p.194.
150 FONTE: http://www.studiocataldi.it/guide-diritto-penale/ilreato.asp
196
caratterizzano l’illecito penale”, ma, sempre attingendo da Antolisei,
comprenderemo come
[…] la scienza giuridica non può esimersi dal fornire del reato
anche
una
determinazione
sostanziale,
giacché
essa
è
necessaria per comprenderne l’effettiva natura ed anche per
avere un orientamento nell’interpretazione della legge […]
che obbedisce a criteri di generalità e astrattezza; criteri dai quali, si
vorrebbe, che la norma si giovasse per non subire condizionamenti
etici, politici e sociali. Una teorizzazione purtroppo smentita dai fatti
legislativi degli ultimi decenni che si sono caratterizzati per una
proliferazione normativa ad personam.
La Costituzione italiana onde non escludere nessuno dall’effettività
della norma che prevede un comportamento come ipotesi di reato,
stabilisce, all’art. 27, che: “La responsabilità penale è personale”.151
Sarà, quindi, proprio l’ordinamento a tutelare il principio che incardina
“sulla persona” la responsabilità penale:
Da tale principio consegue che tutte le persone fisiche possono
essere considerate soggetti attivi del reato (l’età, le situazioni di
anormalità psico-fisica e le immunità non escludono la
sussistenza del reato, ma incidono solo ed esclusivamente
sull’applicabilità o meno della sanzione penale) e quindi
assoggettabili alla sanzione penale mentre restano escluse
(almeno sino ad oggi) da responsabilità penale le persone
giuridiche.
152
Intesa in tal senso, la norma è oltremodo chiara nell’intendere la natura
“strettamente personale della responsabilità nel reato” e ciò implica che
nessuno possa essere considerato responsabile, quindi reo, per un
151 art. 27 Costituzione della Repubblica Italiana.
152 F. Antolisei, Manuale di diritto penale.
197
fatto compiuto da altre persone. Il che, seppur oggi possa apparire
scontato, sino al principiare del secolo scorso, tanto ovvio non era
ritenuto.
Lo scopo principale della giustizia penale era, secondo l’interpretazione
che dava la scuola classica (nel XIX secolo), di cui Cesare Beccaria e
Jeremy Bentham sono considerati i padri e massimi esponenti, di
fungere da deterrente per la popolazione, vista la concezione razionale
ed edonistica dell'uomo. Il fattore “deterrenza”, quindi, sia se rivolto
verso l’iniziativa criminale individuale che verso quella nelle sue forme
associate è l'unica giustificazione alla punizione, ma, secondo il
pensiero di Bentham è “un male in sé”. Un tale orientamento deriva
dalla tradizione filosofica e del diritto anglosassoni, dei quale buona
parte della filosofia sociale di quegli anni è permeata. È in questo
secolo che si struttura l’attualissimo concetto secondo il quale la
punizione denota efficacia e quindi assolve al fattore deterrenza, se in
essa si rinvengono certezza, celerità e “severità proporzionata”. Ciò che
discende dalla violazione della norma, deve obbedire al principio di
proporzionalità
e
non
all’arbitrio
punitivo.
Nella
fase
della
concettualizzazione della sanzione posta a tutela dell’interesse tutelato
dalla norma, inizia, dunque, a farsi strada il principio per cui tra, “delitto
e pena”, deve vigere una relazione proporzionale e non prevalere
l’affermazione del potere punitivo del sovrano. A fronte della tutela
esercitata dal precetto nei confronti dell’interesse (sociale) protetto dalla
norma, la sanzione in essa contenuta deve (come tutt’oggi) essere
proporzionale e non eccedente il “piacere del crimine”.
198
Alla proporzionalità, si aggiunge anche il concetto di ufficializzazione,
attraverso il “due process of law” cioè la stigmatizzazione della
“uguaglianza” dei soggetti giudicati innanzi alla legge. Punizioni e
procedure da questo momento devono essere determinate con
puntualità, in modo da circoscrivere l'enorme discrezionalità di cui
giudici godevano. Razionalizzazione delle procedure, divisione dei reati
per tipo, per gravità, distinzione tra reati privati e pubblici sono passi
progressivi e concorrenti nel rendere il Diritto una scienza sociale
consapevole del ruolo del soggetto cui sono destinati.
Questi principi, dei quali sono permeati i codici contemporanei, redatti o
emendati successivamente al secondo conflitto mondiale, sono la prima
forma di garanzia che lo Stato rivolge alla tutela dei consociati.
Stabilito quindi cosa si debba intendere per violazione della norma
penale e quale siano i limiti e la funzione della sanzione, è ora d’uopo
prendere in considerazione il distinguo e la classificazione che
espressamente il codice fa all’interno della voce “reato”. Un sostantivo
generale sotto il quale vanno rinvenuti dei distinguo. L’articolo 39 del
codice penale, infatti, compie la prima, e fondamentale, distinzione per
comprendere che non ogni violazione alla Legge penale ha eguale
impatto e incidenza negli effetti sociali: I reati si distinguono in delitti e
contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi
rispettivamente stabilite da questo codice.
Il criterio formale sulla base del quale il Legislatore ha scelto di operare
la distinzione tra queste due categorie è, dunque, quello che il codice
penale stesso indica all’art. 17: “Pene principali: specie. Le pene
199
principali stabilite per i delitti sono: 1) la morte (abrogata); 2) l’ergastolo;
3) la reclusione; 4) la multa. Le pene principali stabilite per le
contravvenzioni sono: 1) l’arresto; 2) l’ammenda.” 153
e come è
desumibile dalla sola lettura del titolo, tale distinzione si basa sulla
“pena prevista” per il soggetto che, violando il precetto, incorre nella
sanzione prevista dalla norma. Così si apprende che i delitti sono puniti
con una pena fortemente incisiva che prevede la limitazione della
libertà personale per un adeguato lasso di tempo (che dovrebbe essere
congruo alla rieducazione del soggetto) e con il pagamento di una
somma, la multa
154
, a cui viene riconosciuta una funzione sia
rieducativa che risarcitoria per il danno cagionato nei confronti
dell’interesse di cui lo Stato si pone come garante nei confronti dei
consociati. Le contravvenzioni, diversamente, sono punibili con
l’arresto, una tipologia di pena assai più lieve perché di minore afflittività
(che raramente sfocia in una detenzione), perché l’interesse della
Norma violata e le azioni commesse per incorrere in tale reato, hanno
un minore impatto sociale perché recepite con meno clamor
153 Corte costituzionale, sentenza 28 aprile 1994, n. 168, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
presente articolo nella parte in cui non esclude l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore
imputabile. Secondo l’evoluzione dei principi normativi seguita al diverso modo di sentire sociale della
pena come mezzo rieducativo e nei confronti della sacralità della vita umana stigmatizzata dalla
Costituzione, ecco che il Legislatore ha abolito la pena di morte che è stata soppressa e sostituita con
l’ergastolo.
154 La multa è una pena pecuniaria, che in Italia è prevista per i delitti, secondo l’Art. 24 del Codice Penale
e consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore 50 euro, né superiore a 50.000
euro. Per i delitti determinati da motivi di lucro, ovvero vantaggio patrimoniale, proprio o altrui, se la
legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da euro 50 a euro
25.000. Per taluni delitti è prevista la sola pena della multa, mentre per altri la multa si applica
alternativamente o congiuntamente alla pena della reclusione; inoltre la reclusione fino a 6 mesi può
essere sostituita dal giudice con la multa, ad eccezione di alcuni casi espressamente previsti dalla
legge.
200
dall’opinione pubblica. Anche nelle contravvenzioni è prevista una pena
pecuniaria che è chiamata ammenda155.
Attesa, dunque, l’importanza che assumono il complesso di azioni, le
attività, che vengono poste in essere per commettere il reato, sia esso
un delitto o una contravvenzione, ha senso individuare il “grado di
gravità” del fatto. È da tale gradualità, infatti, che al Giudice provengono
anche gli strumenti che gli permettono di emettere una sentenza che
non sia solo commisurata e giusta rispetto al fatto commesso, ma non
avulsa dal contesto storico e sociale in cui l’evento è stato commesso A
ciò si deve anche aggiungere che il ruolo pubblicamente assunto
dall’imputato, non più e non solo come uno dei principali imprenditori
incidenti sull’economia italiana, ma anche e soprattutto come uomo
politico, aggrava la valutazione della sua condotta. 156
155 L’ammenda è una pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni, che consiste nel pagamento di una
somma di denaro allo Stato, secondo l’Art.26 del Codice Penale. La cifra da pagare va da un minimo di
inferiore a 20 euro ad un massimo di 10.000 euro. Nella determinazione dell’ammontare
dell’ammenda il giudice deve tener conto dell’eventuale concorso di più circostanze aggravanti e anche
delle condizioni economiche del contravventore; per questi motivi può aumentarla fino al triplo o ridurla
fino ad un terzo, qualora ritenga che la misura massima sia inefficace e quella minima sia
eccessivamente gravosa. Inoltre può ammettere che l’ammenda venga pagata in rate mensili, in
numero non inferiore a 3 e non superiore a 30, d’importo non inferiore a 15 euro. Per alcune
contravvenzioni è prevista la sola pena dell’ammenda, per altri l’ammenda si applica alternativamente o
congiuntamente alla pena dell’arresto; inoltre l’arresto fino a 3 mesi può essere sostituito dal giudice
con l’ammenda, salvo alcuni casi.
156 Motivazioni della sentenza 22/2013 del 1 agosto 2013 della Corte Suprema di Cassazione; in linea con
i giudizi di primo, di secondo grado essa riconosce responsabile dei reati ascrittigli l’imputato Silvio
Berlusconi: «è stato ritenuto ideatore, organizzatore del sistema (...) creato anche per poter più
facilmente occultare l'evasione». L’imputato, in tale contesto, è stato giudicato tenendo in
considerazione, oltre la norma, il ruolo politico ricoperto (quindi una circostanza additiva in grado di
influire eticamente e moralmente sul delitto commesso), ritenuto strumento basilare del quale si è
avvalso per affermarsi come «ideatore» e «organizzatore del sistema» creato per frodare il Fisco e
«operante in vaste aree del mondo, attraverso numerosi soggetti, società fittizie di proprietà di
Berlusconi o di fatto facenti capo a Fininvest». Per il Giudice «l'oggettiva gravità del fatto deriva dalla
complessità» di tale sistema e dal ruolo pubblico ricoperto dall’imputato all’epoca dei fatti commessi: “È
appena il caso di rilevare, al riguardo, come la conservazione della pena accessoria in parola -peraltro
in ambiti più ristretti
rispetto alla normativa (pre)vigente- risulti pienamente giustificata a fronte
201
In apparente disaccordo, quindi, con quanto affermato dall’Antolisei,
ecco che le modalità, l’etica e l’ambito d’attuazione nel quale viene
portato a compimento un disegno criminoso, assumono una valenza
determinante
nell’ambito
della
giurisprudenza.
Hanno
rilievo
e
implicano, sicuramente, l’analisi delle condotte, svolta dal giudice, che
connotano e caratterizzano le azioni dei rei. Il processo di
categorizzazione sulla base del quale una condotta umana è qualificata
antisociale, illegale o criminale per la sua pericolosità, è l’esito di una
sintesi di fattori certi, che vanno dalla violazione delle norme alle
contingenze ambientali e situazionali (ad esempio la storicizzazione
dell’evento) che in quanto tali, non possono che essere complementari.
11. Criminalità e le sue forme espressive
(Criminalità semplice, criminalità occasionale, criminalità comune,
criminalità organizzata, criminalità mafiosa e criminalità eversiva)157
Il numero di soggetti che partecipano alla realizzazione di un reato
costituisce di per sé la connotazione che, anche da sola, è in grado di
modificare la natura stessa del reato e va ad aggiungersi alla varietà di
“modi” per perseguire obiettivi criminali. Non mancano nemmeno
alcune procedure che, nel tentativo di raggiungere lo stesso obiettivo, si
propongono di registrare e categorizzare i delitti partendo dall’analisi
degli effetti cagionati. Ma la differenziazione dei singoli eventi e la loro
riconduzione a un contesto preciso, non è affidata esclusivamente alla
dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i doveri di probità e fedeltà
all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus publicum.
157 La criminalità eversiva è, per definizione, di “matrice” politica/ideologica e per la peculiarità del
complesso di attività che richiedono l’esecuzione del disegno criminoso, ricade nell’ambito dei reati
plurimi e/o associativi.
202
scientificità di un’attività d’analisi e alla schedatura dei fatti attraverso la
quale si conviene associare a una posizione data quel dato fenomeno
delittuoso, ma ad una serie di tipicità comuni che, ritenute rilevanti,
coerenti e concordanti nell’esaltare le peculiarità delle precondizioni e
della condotta, assumono il ruolo di indicatori. Si tratta di evidenze sulla
base delle quali è possibile individuare i fattori sociali devianti
criminogeni utili a ricondurre l’evento criminoso a una categoria. È, al
contempo, necessario dare un’interpretazione puntuale al complesso di
tutte quelle attività che, anche se in sé non sono propriamente criminali
ma criminogene, e che troppo spesso sono generalizzate e banalizzate
con l’allocuzione a matrice criminale, possono far discendere e
sviluppare condotte gravemente lesive dell’ordine e della sicurezza
pubblica.
La realizzazione del reato può avvenire ad opera di una persona
sola o di più persone. Nel secondo caso si ha quella che i pratici
medievali chiamavano societas sceleris e che ora, generalmente
denominata compartecipazione al reato o compartecipazione
criminosa, è designata dal nostro codice con l’espressione
<<concorso di persone nel reato>>. È questa, senza dubbio, una
delle materie più spinose del diritto penale. Allorché nel reato si
verifica una molteplicità di compartecipi o soci, bisogna anzitutto
distinguere due ipotesi. Esistono non pochi reati che per la loro
intrinseca natura non possono essere commessi se non da due o
più persone, come, ad es., l’incesto, la rissa, la cospirazione
politica. In tali situazioni la pluralità di agenti è indispensabile per
l’esistenza del reato. […] Nella direttiva della dottrina tradizionale
il codice Zanardelli distingueva la compartecipazione in primaria
e secondaria, e, quindi, in fisica (o materiale) e psichica (o
morale). La compartecipazione primaria nel concorso fisico era
denominata <<correità>>; la secondaria <<complicità>>. Al
concorso
psichico
si
dava
generalmente
il
nome
di
203
<<istigazione>>.
Distinguendo
i
compartecipi
primari
dai
compartecipi secondari, il codice del 1889 stabiliva per gli uni e
per gli altri un trattamento penale diverso. […] Il codice attuale ha
messo da parte le distinzioni che figuravano nel precedente ed
ha adottato in linea generale il criterio di una eguale
responsabilità per ogni persona che comunque abbia partecipato
al reato, disponendo all’articolo 110 (Pena per coloro che
concorrono nel reato) che: “Quando più persone concorrono nel
medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo
stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti.
158
Nel leggere l’interpretazione che dei reati plurisoggettivi fornisce
l’Antolisei e l’enunciato della norma del codice, appare evidente che si
tratti di un’ipotesi nella quale il Legislatore non intende solo porre
l’attenzione
sulla
centralità
del
numero
delle
persone
nella
compartecipazione alla condotta prevista dalla Legge come reato, ma
anche, e di più, sulla concetto di corresponsabilità. Sulla disgiunta e
indipendente determinazione da cui discende l’applicazione della pena
prevista per il reato commesso “in concorso”. Nella volontà di
commettere il crimine non è, dunque, necessario che i correi
addivengano ad alcun previo accordo; il Legislatore, infatti, commina ad
ognuno di essi la pena prevista dal reato senza che coloro che vi
concorrono siano necessariamente uniti in un sodalizio, cioè in una
organizzazione strutturata di tipo associativo. Per ognuno di loro si
tratta di un percorso criminale autonomo, per il quale non è data per
assunta l’esistenza di uno stabile disegno comune.159
158 F. Antolisei, Manuale di Diritto penale, Milano Dott. A. Giuffrè Editore – 2000, pp. 545-547.
159 SU 22.11.00, Sormani, CP 01,2998.
204
12. La criminalità semplice, occasionale e comune
Al mero fine di ottenere una consecuzione logica e non certo una
graduazione gerarchica delle condotte delittuose, è conveniente partire
con la considerazione dell’episodio criminale usualmente definito
semplice, occasionale e, ancora, d’impeto. Tale definizione trae la
propria origine in ragione dell’unicità ed estemporaneità della
motivazione che si pone all’origine della condotta tenuta dal reo. La
semplicità e l’occasionalità sono, dunque, qualificazioni proprie di tutti
quei delitti “situazionali” che, con poca probabilità, potrebbero essere
reiterati.
L’azione delittuosa “semplice”, oltre ad indicare un indubbio disagio
dell’autore e la scelta del soggetto di porsi al di fuori delle regole del
gruppo sociale nel cagionare un evento scellerato, resta connessa al
particolare momento in cui il reato è perpetrato.
Per quanto riguarda l’ordinazione di delitti di particolare gravità ed
efferatezza (ad esempio, l’omicidio), va tenuto conto dei parametri di
valutazione giudiziari (il pericolo della reiterazione del reato) e
criminologici (la dinamica con cui l’evento è stato portato a
compimento) che fanno ricadere le condotte (non professionali o seriali,
quindi non dettate da lucro o turba psichica) in un alveo di
“eccezionalità” in cui è allocato l’evento stesso.
L’omicidio per vendetta o con movente passionale è, ad esempio, il tipo
di reato situazionale che denota la sfiducia dell’autore nel sistema
punitivo istituzionalizzato e chi vi incorre pretende di vedere riparato il
torto subito, erogando egli stesso la “sanzione”.
205
L’autore, di solito, agisce sotto la spinta passionale dell’impeto.
Ancorché la gravità del delitto non sia in discussione, il pericolo della
reiterazione del reato, però, si affievolisce all’atto della soppressione del
soggetto ritenuto responsabile della condizione di malessere e di
frustrazione. Altrettanto si può affermare per quanto riguarda l’acquisto
(non la cessione e quindi il commercio) di una dose di sostanza
stupefacente
o
psicotropa
commercializzazione
(che
sistematica
e
ben
si
dal traffico
differenzia
di droghe)
dalla
per
un’esigenza terapeutica personale.
Un discorso diverso va fatto per quella forma di criminalità conosciuta
con l’aggettivazione: comune. Una forma di delinquenza che, non
estemporanea, può essere inquadrata nel complesso di un’attività
(quindi un complesso di azioni coordinate e protratte nel tempo)
continuativa, ma che manca della struttura dell’organizzazione. La
criminalità comune è un tipo di devianza che tende a comparire e far
emergere il disagio di cui trattano Sutherland e Cohen, ponendosi alla
base di una successiva evoluzione criminale del contesto deviante in
cui insorgono. Quella di cui parliamo è, forse, la prima e più spontanea
forma di “disobbedienza” alle regole sociali che si radica in porzioni di
territorio emarginate e autoreferenziali al punto da considerarsi
“franche”; sottratte, cioè, ai processi d’integrazione e di vigilanza dove
chi vi vive ha già, tacitamente accettato. È appena il caso di richiamare
il paragrafo soprastante nel quale più approfonditamente si è trattato
del processo di “ghettizzazione” di soggetti a rischio in riserve di disagio
ritenute “degradate”. La cosa d’interesse è che queste aree, in realtà,
206
sono già tali prima ancora che le sperimentazioni e le alchimie sulle
strategie di popolamento naufraghino miseramente .
L’utilità marginale che promana dal dimostrare la validità di talune teorie
divenute scelte effettive e la volontà di affermare che non manca
“l’impegno collettivo al recupero dei soggetti devianti”, supera la
propensione alla devianza stessa (una tendenza che scaturisce dalle
problematiche socio economiche che si rivelano, spesso, unico collante
di queste comunità di degrado umano). Pur rimanendo lontani da ogni
forma di generalizzazione, potremo notare che i residenti di queste
aree, solo perché tali, si trovano innanzi un destino segnato, sono
“condannati” ad assumere ruoli definiti: ostaggi in mano alla
delinquenza, oppure compartecipi monadi di articolate strategie
criminali che hanno la finalità di acquisire il dominio sui territori. La
particolarità del dato che emerge, in questo caso, è assolutamente
interessante, si assiste ad una inversione dei valori socialmente
riconosciuti di “giusto-sbagliato” e “legittimo-illegittimo”. Infatti, il
comportamento “antisociale” è dato dalla violazione della norma non
scritta, ma di fatto generalmente riconosciuta e accettata per “buona”,
che
asseconda
le
violazioni
della
Legge,
riconoscendo
nell’ottemperanza al potere statuale la potenzialità a “disgregare” il
vincolo che lega i partecipanti al gruppo emarginato, al ghetto in cui
sono stati costretti.
Lontano, quindi, dal riconoscere alle esigenze ed alle finalità legali dei
residenti la necessaria dignità ed il diritto alla protezione degli interessi
legittimi, “l’ordine costituito” cessa d’essere tale e di imporsi attraverso
207
l’esercizio
della
confermandosi
potestà
sordo
alla
cui
sarebbe
logica
tenuto.
scientifica
e
In
realtà
esso,
mantenendo
un
atteggiamento assolutamente autoreferenziale, “stalla”. Involvendo su
se stesso, lo Stato, abbandona i territori alla perversione di rapporti
sociali aberranti più tipici delle comunità primordiali che di aree
organizzate da uno Stato.
Nel comportamento borderline o criminogeno degli abitanti di questi
ghetti, risiede la normalità dell’agire e, in buona sostanza, la
quotidianità. La criminalità comune non regola secondo principi ferrei i
rapporti tra i consociati, ma, facendo leva sul “comune denominatore”,
costituisce l’ispirazione per cui nelle “società criminali di base”, le
singole attività divengono spesso una compartecipazione spontanea. Si
tratta di una collaborazione di tipo economico (non eminentemente
finanziario) che nasce per lo più dalla assuefazione, dalla contiguità, del
soggetto al fenomeno criminale che diviene una certezza, la struttura
portante sulla quale basare lo sviluppo locale che, va detto, raramente
assurge a parte di un disegno “organizzativo”. Ad essa manca, per lo
più, il fattore temporale durante il quale viene preordinata “la
commissione di più delitti” e la ripartizione dei ruoli determinati per il
raggiungimento di un fine condiviso. Tipicità questa dell’associazione a
delinquere.
208
13. La criminalità organizzata
Il vincolo associativo nella condotta criminale modifica sostanzialmente
il genus del sodalizio, riconducendolo alla categoria che include la
criminalità organizzata.
Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere
più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano
l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a
sette anni. Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena
è della reclusione da uno a cinque anni. I capi soggiacciono alla
stessa pena stabilita per i promotori. Se gli associati scorrono in
armi le campagne o le pubbliche vie si applica la reclusione da
cinque a quindici anni. La pena è aumentata se il numero degli
associati è di dieci o più. Se l’associazione è diretta a
commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602,
nonché all’articolo 12, comma 3 bis, del testo unico concernente
la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, si
applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi previsti
dal primo comma e da quattro a nove anni nei casi previsti dal
secondo comma.160
L’ambiente, le dinamiche e le precondizioni situazionali o sociali che si
trovano alla base della così detta “criminalità organizzata”, trovano il
fondamento e muovono da ragioni diverse, ma non incompatibili o
concettualmente distanti, da quelle che motivano ed armano il crimine
non organizzato? Quello che abbiamo indicato come “comune” e
disorganico.
Nell’analizzare le complesse fasi organizzative ed operative in cui si
sostanziano le esternazioni della delinquenza organizzata, potremo
accorgerci che gli obiettivi sono perseguiti attraverso l’esecuzione di
160 Art. 416 codice penale italiano.
209
disegni criminali definiti che vengono concepiti, muovono e si
sviluppano, attorno ad una motivazione qualificata, quasi fosse uno
“scopo ideale” che diviene il fine, individuato con determinatezza, per
cui associarsi ed al quale tendere.
Il coordinamento strategico (politico e militare) delle operazioni svolte
dalla
compagine
criminale,
estrinseca,
poi,
doti
manageriali
ragguardevoli per cui ad ogni associato vengono attribuiti un ruolo
sociale
ed
una
mission.
Questa
ripartizione
prevede,
quindi,
l’organizzazione delle risorse umane e logistiche in modo da portare a
compimento la strutturazione di una compagine criminale, di un
“sodalizio” (come spesso viene chiamato), nel quale gli obiettivi medio
tempore e le strategie per raggiungerli, divengono lo “scopo sociale”
dell’impresa criminale che è e rimane quindi criminogena.
Le associazioni, i clan criminali di questo tipo, hanno come obiettivo
quello di creare benessere, cioè di elevare il tenore di vita dei soggetti
che le governano e che vi partecipano, preferibilmente aumentando
esponenzialmente il proprio condizionamento sul territorio dove
risiedono.
Questo
fine
diviene
tanto
più
raggiungibile,
quanto
aumenta
l’acquisizione e la capitalizzazione di liquidità o utilità, mediante le quali
alimentare, partecipandovi, i mercati illegali. Le organizzazioni, infatti,
operano investimenti, alla guisa di qualsiasi altra impresa, partecipando
finanziariamente ai traffici internazionali di armi, di stupefacenti, di
esseri umani e di ogni altra merce che –su un qualsiasi mercato–
210
obbedisca alla semplice legge della domanda e dell’offerta e che,
quindi, possa essere considerata di facile smercio.
La particolarità dell’associazione a delinquere, che meglio esprime le
peculiarità della criminalità organizzata, sta nella competenza con cui le
scelte economiche vengono compiute. Si pensi a quanta attenzione
possa essere posta da un sodalizio criminale nella scelta dei vettori ai
quali affidare il proprio commercio. La merce deve preferibilmente
essere infiltrata e veicolata seguendo rotte gestite legalmente, delle
quali salvaguardare il rigore della gestione al fine di massimizzarne il
profitto.
La possibilità del perseguimento di utili maggiori derivante dalla caduta
degli storici confini che dividevano l’Europa ha innescato un fenomeno
spontaneo d’integrazione e di compartecipazione “al delitto” (o, più
corretto, ai delitti), tra le maggiori organizzazioni criminali. Anticipando e
superando di gran lunga, per slancio ed efficacia, le istituzioni
giudiziarie dei singoli stati europei (a cui ne viene affidato il contrasto)
che, ancor oggi non hanno completamente armonizzato il proprio Diritto
né ottimizzato le risorse umane devolute alla sicurezza, i sodalizi
criminali continentali hanno preso ad operare alla guisa dei trafficanti di
droga centramericani. Per esempio, i contrabbandieri d’armamenti
dell’Est Europa o centrafricani hanno superato ogni sorta d’intolleranza
razziale e tra loro non rilevano assolutamente più l’origine o la
nazionalità di provenienza del partner. Di fronte all’efficacia dimostrata
sul campo dalle strutture internazionali del crimine di matrice interetnica
tutto viene relativizzato. Attraverso una stretta cooperazione conosciuta
211
al grande pubblico con il nome di “cartello”, la criminalità organizzata
internazionale, pur non assumendo i tratti tipici della “mafia”, impone
regole ai mercati non solo illegali.
Il profitto che proviene dai “traffici” è denaro contante da “ripulire”. Non
tutte le società di comodo in paesi offshore o le finanziarie di copertura
riescono a garantire l’insospettabilità delle transazioni e quindi, per
giungere al medesimo scopo, la criminalità internazionale ha dovuto
divenire lo sponsor occulto (ma nemmeno tanto) di alcuni Stati,
istituzionalizzando così il money laundering e ponendosi in grado di
condizionare le politiche interne ed internazionali di governi. Alla guida
di stati nazionali fragili con economie influenzabili o inesistenti, la
penetrazione economica criminale ha fatto sì che nella geopolitica
recente queste forme statuali iniziassero ad essere indicate come “stati
canaglia”.
14. Le bande criminali etniche
Se è importante considerare come nasce la criminalità organizzata e,
soprattutto, dove trova il terreno di coltura ideale per radicarsi è utile
vedere se vi sono degli indicatori che rivelino l’esistenza delle
precondizioni idonee a far sorgere ed evolvere un sedimento umano
criminogeno così complesso e strutturato, nonché se siano ravvisabili
delle convergenze o dei punti di tangenza, con pregressi percorsi
delinquenziali riferibili alla criminalità comune.
Nel corso degli ultimi decenni in Italia è emerso un nuovo fenomeno
criminale organizzato che non si occupa solo della gestione dei flussi
212
migratori illegali, ma anche della collocazione e dello sfruttamento dei
clandestini sul territorio nazionale. La presenza di un numero sempre
maggiore
di
immigrati,
ancorché
illegali,
ha
contribuito
significativamente a modificare la componente umana del gruppo
sociale. È in questo segmento che, dalla metà degli anni Novanta del
1900, entrano a pieno titolo le bande criminali etniche.
L'esperienza investigativa e giudiziaria, maturata soprattutto a
partire dalla seconda metà degli anni novanta, consente di
ricostruire le caratteristiche fondamentali delle organizzazioni
criminali che gestiscono il traffico degli esseri umani verso il
nostro Paese. In questo nuovo mercato criminale, i sodalizi che
vi operano si differenziano tra loro in base ad una serie di fattori,
tra i quali: le dimensioni, la capacità di agire in uno ovvero
contemporaneamente in più territori e in più mercati illeciti, la
capacità di utilizzare una o più rotte clandestine e, infine, la
capacità di fornire uno o più servizi illeciti specifici. […] se a
medio livello Le organizzazioni criminali etniche gestiscono i
flussi migratori illegali provenienti dall'Asia (es. Filippine, Cina),
dal Sub-continente indiano (es. Bangladesh, Sri Lanka) e
dall'Africa. Le persone vengono trasferite da un continente ad un
altro non solo in virtù della stipulazione di un contratto illecito di
trasporto (immigrazione clandestina), ma anche per essere
successivamente sfruttate dal punto di vista sessuale, del lavoro
forzato, della bassa manovalanza criminale e dell'accattonaggio
(tratta)., ecco che al livello massimo, però
[…] Le
organizzazioni etniche non partecipano né alla fase del trasporto
dei clandestini né a quella successiva del loro attraversamento
del confine. Dopo averli reclutati, debitamente «istruiti» ed avviati
alla partenza del viaggio, gli emissari dei queste organizzazioni
riprendono
i
clandestini
nel
territorio
di
destinazione,
li
consegnano ai parenti ovvero ai loro «padroni», ricevendo in
cambio
la
quantità
di
denaro
pari
al
prezzo
stabilito
anticipatamente. Per di più, […] I capi svolgono specifiche
azioni, quali: gestiscono i capitali, stabilendo i prezzi e, nella
213
maggior parte dei casi, finanziando i costi del processo
migratorio; scelgono i fornitori di determinati servizi illeciti
(organizzazioni criminali di medio livello) e con essi stipulano le
condizioni contrattuali, operative e finanziarie, di subappalto di
tali servizi; stabiliscono accordi di collaborazione con altri sodalizi
criminali di alto livello sia per lo scambio di servizi, sia ad
esempio, per la compravendita di clandestini; decidono l'avvio di
un'azione conflittuale con altri sodalizi criminali di alto livello, nel
caso in cui vengano violati i patti stabiliti, come nel caso, per
esempio, del furto di un carico di clandestini;
relazioni
con
persone
del
mondo
politico,
gestiscono le
burocratico,
diplomatico, imprenditoriale e finanziario, soprattutto attraverso il
compimento di azioni corruttive; […].161
L’affermazione di un gruppo etnico in migrazione su un territorio
contribuisce, dunque, alla creazione di realtà aggregate che si fondano
principalmente su un collante di tipo nazionale. Queste realtà, però,
oltre a creare un virtuoso bacino di rinnovamento in cui gli usi e costumi
migrati si coniugano, attraverso l’interazione spontanea e/o indotta, con
quelli del gruppo sociale autoctono, favorisce l’insorgere di una
“resistenza” (di alcuni tra consociati) tesa ad avversare quanto non
comprendono, o non li favorisca, della società civile che li ospita.
I gruppi criminali in antagonismo, coesi nell’autoreferenzialità, rifiutano
un’idea di legalità lontana da quella in cui sono cresciuti sconfessando
le aspettative sulle quali essi fondarono, migrando, la speranza di un
futuro migliore. Serbi, bosniaci, bulgari, romeni, moldovi, albanesi e, in
particolar modo i cinesi, tendono strenuamente a far sopravvivere nelle
terre d’adozione quei principi che regolano la loro vita negli stati dai
quali provengono.
161 Camera dei Deputati, Doc. XXIII n.49, Roma, 2000.
214
L’integrazione non nasce spontaneamente a seguito della mera
accoglienza del popolo migrante, ma è un processo graduale; un
percorso assistito che vede, nella condivisione dei principi ispiratori che
regolano i rapporti umani all’interno del gruppo sociale ricevente, il
vettore sul quale far scorrere i primi segnali, le prime funi alle quali
assicurare, per il futuro, quel patrimonio sociale ed economico da
preservare
e
implementare,
con
politiche
di
cooperazione
transfrontaliere.
Va
specificato
cosa,
oggi,
debba
intendersi per frontiera.
In
contrapposizione al vecchio concetto di confine, sono frontiere tutti quei
territori di convivenza e commistione sui quali interagiscono le diverse
comunità nazionali che s’incontrano.
Non è assolutamente improbabile, dunque, che, come sostiene la
Scuola di Chicago, anche alla base della spinta aggregativa che unisce
le bande in base all’etnia di provenienza, vi sia una condizione di
emarginazione. Ma, di più, è necessario comprendere se e in che
modo, queste siano la circoscritta manifestazione del problema locale o
se possano essere in grado di operare su un piano internazionale. Il
fatto che la matrice etnica sia una garanzia di costante relazione e
interazione tra gli affiliati e la madre patria, fornisce una risposta
implicita,
ma
non
per
questo
scontata.
Non
è
raro
che
l’internazionalizzazione delle azioni delittuose si osservi comunità
omologhe ospiti in paesi stranieri. È questo il caso della stretta
collaborazione che è emersa dalle indagini della Questura di Prato del
2008 che ha accertato l’esistenza di una stretta e consolidata
215
collaborazione tra i gruppi di criminalità cinese italiani e quelli francesi.
L’uso di “scambiarsi favori” si sostanzia nello scambio di prostitute da
destinare alle sale massaggio 162 , col favoreggiamento personale in
favore di ricercati o latitanti, nell’estorsione di danaro in danno di
connazionali debitori, fino a giungere alla rapina o, ancora, all’omicidio
su commissione.163
In altri casi, invece, l’internazionalizzazione dell’impresa criminale
avviene proprio con riferimento a strutture consorelle che operano nella
madre patria e con le quali l’intesa e la fiducia, si sviluppano in base al
medesimo luogo di origine. Alla conoscenza e conoscibilità diretta di
familiari –che spesso si trovano inconsapevolmente a fare da
garanti/ostaggi per la buona riuscita degli affari- si aggiunge lo spirito
cameratesco che inevitabilmente nasce tra i paesani.164
La conoscenza dell’una e dell’altra realtà (quella di provenienza e
quella d’origine) da parte degli appartenenti al sodalizio criminale,
nonché i forti legami consortili e familiari che stanno alla base delle
relazioni sociali sono un collante importantissimo e divengono il centro
nodale attorno al quale si sviluppano i traffici criminali e le conseguenti
sinergie economiche.
A titolo d’esempio si può citare il traffico internazionale di esseri umani
organizzato e gestito dalla Triade cinese e al modo, sempre
rispondente al “modello cinese”, che hanno dimostrato di avere le Tong
162 Migration, Prostitution and Human Trafficking, the voice of Chinese Women, Min Liu, Criminology Asian
Studies Sociology. Ed.: Transaction Publishers, New Brunswick (U.S.A.) and London (UK) – 2011.
163 Stralcio dell’intervista al Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato dott. Francesco Nannucci,
Dirigente la Squadra Mobile di Prato. Appendice 1, intervista n.4.
164 I.M.D., Dragoni e lupare, Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra leggenda e realtà - I.M.D. Dario
Flaccovio Editore, Palermo, 2011.
216
per penetrare e sostituirsi alle economie implose degli stati occidentali
“colonizzati dal sistema Cina”. Un fenomeno di cui si sa sempre troppo
poco e che non dà risposte, ma suscita interrogativi di sempre
maggiore respiro.
[…] Ad esempio, lì, nella zona del Macrolotto uno dei problemi
per le indagini che ne abbiamo fatte molte e ce ne abbiamo
anche in corso sono le rapine nelle aziende cinesi. Cioè, di notte,
entrano queste bande, anche abbastanza violente, picchiano
legano e portano via tutto quello che trovano; telefoni, computer
e denaro contante che ce n’è sempre tanto. E molti non
denunciano perché hanno tanto denaro contante a nero e non
vogliono, quindi, far apparire. Molti non denunciano inizialmente,
ma ora non l’ho più riscontrato, anche per sfiducia; cioè noi
avevamo avuto un periodo in cui tanti cinesi ci venivano a dire:
“No, ma io non denuncio perché intanto, poi, non ho fiducia nella
giustizia italiana e questi vengono scarcerati e non gli fate
niente”. E noi dobbiamo spiegargli che la ratio della denuncia non
doveva essere solo questa, ma situazioni più complesse e
articolate, però non è facile perché loro preferiscono rivolgersi
alle loro Associazioni. Noi abbiamo quattro, cinque Associazioni
forti qua a Prato che sono associazioni tipo: Associazione del
Fujiang, perché sono i cinesi che vengono dal Fujiang;
Associazione Amici dello Zhejiang, quelli che vengono dallo
Zhejiang; Associazione dell’Amicizia che riassume le esigenze di
più gruppi e diversi; poi abbiamo l’Associazione Buddista, che ha
una parvenza più religiosa, ma anche lì trattano di tutto, cioè
preferiscono avere una “giustizia” dalle loro associazioni che da
noi. Molto spesso.
D.: Hanno dei legulei, degli jurisdicenti…?
R.: Esatto, esatto… Hanno queste “figure” che fanno un po’ da
mediatori, pacieri e persone che danno e dettano legge fra di
loro. Fanno una giustizia spicciola, diretta sul buon senso più che
sull’applicazione di norme o cose varie. Oppure, abbiamo anche
delle intercettazioni di qualche indagine, dove parlano proprio di
un problema sorto fra due gruppi rivali che si sono affrontati e il
217
figlio di una persona cinese molto importante a Prato ha subito
delle lesioni brutte e allora dice “Ma che facciamo?”; no
rivolgiamoci a lui, si rivolgono a questo Capo dell’Associazione
che chiama questi dell’altra parte, fanno una trattativa, pagano
dei soldi e tutto torna apposto e problemi non ce n’è più stati.
Quindi, una situazione dove a fronte di, mi ricordo di questo
ragazzo che fu preso a sprangate, insomma, quindi una cosa
abbastanza violenta, poi tutto risolto e fra i due gruppi non c’è
stato più problemi di scontri né niente; quindi, quello che ha detto
lui, ha avuto una forza probabilmente più pregnante di un giudice
italiano. Però, comunque, le questioni tendono molto a risolverle
in questo senso.
D.: C’è un’effettività della sentenza?
R.: c’è una concretezza, si, sicuramente della sanzione più forte
della nostra. Mi dispiace dirlo, però a volte…
D.: Che ci dispiaccia dirlo, si, però…
R.: Ma non solo per i cittadini cinesi per tutti vale…insomma, da
noi…[…]. 165
La criminalità organizzata cinese non è riconducibile alla semplice e
istintiva propensione a replicare usi e costumi di una terra lontana (che
in Italia si rivelano sicuramente criminali, propri di quella delinquenza
“disorganizzata” di cui si è trattato precedentemente), ma agisce
all’interno di una programmazione e di un disegno strategico
preordinato anche all’interno delle comunità di nuovo insediamento.
[…] Per ora noi stiamo alla finestra, controlliamo e cerchiamo di
capire cosa hanno intenzione di fare e abbiamo fatto
immediatamente capire che non devono e non possono operare
con loro regole o loro idee; ci sono delle norme ben precise e le
devono rispettare anche perché qua loro sono molto giustizialisti.
Tendono molto a farsi una giustizia loro, spicciola, diretta anche
pericolosa, come attività, insomma, riscontriamo tutti i giorni che,
165 Stralcio intervista al dottor Francesco Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente
la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Appendice 1, intervista n.4.
218
giusto per rientrare anche un po’ in quella che era il suo quesito,
delitti dove ci sono cinesi vittime ce n’è tantissimi. Sono anche
denunciati, si si, molti sono anche denunciati. Non tutti, ma tanti
sono anche denunciati, io in nove anni quasi che sto qua ho
notato molto questo cambiamento, cioè sono arrivato nella
situazione in cui non veniva denunciato niente a una situazione
dive, man mano, viene il rapporto e la fiducia nelle Istituzioni è
maggiore quindi si denunciano. Credo che si arrivi a denunciare
forse il 50% di quello che succede, ma comunque a fronte di
quasi zero iniziale arrivare ora al 50% è già un “risultato” […].
166
Un altro esempio differente, per alcuni versi in controtendenza rispetto
all’esperienza cinese, proviene dalle storie criminali delle bande dei
paramilitari dell’ex Jugoslavia. Con il loro operato e principalmente con
la gestione del traffico di armi e di droga da e per, la ex Jugoslavia,
sono state in grado non solo di avere un ruolo centrale nella storia
criminale di Stati contermini, ma, attraverso il potere economico
finanziario acquisito con le attività delittuose, di finanziare, di
sponsorizzare, l’esponente della compagine politica –del clan- più
favorevole ai propri obiettivi finali sino a ripensare se stessi elevando il
proprio rango penetrando la politica, condizionando i governi e sino ad
assicurarsi il potere di incidere direttamente, sulla politica dell’intera
area balcanica e mediterranea in generale.
In tale processo,
[…] Ovviamente esistono
delle
differenze
sostanziali
fra
situazioni in cui una certa misura di attività illecite è tollerata, e
situazioni in cui attori criminali arrivano alla “cattura” delle
istituzioni pubbliche. La differenza è esprimibile in termini di
autonomia
dello
stato
e
del
proprio
apparato
rispetto
166 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011. Appendice 1, intervista n.3.
219
all’espandersi di interessi criminali, o comunque di pratiche
extralegali. La compresenza <<stato debole>> e <<proibizione>>
è una mistura che nutre le dinamiche di collasso e facilita la
cattura da parte del crimine organizzato. Si apre così un’ulteriore
fase, che si potrebbe definire trasformativa o di emersione. Essa
riguarda il passaggio degli attori criminali alla piena legalità e alla
legittimità domestica e internazionale. Dunque, si tratta tanto di
ripulire i bassi fondi, diventati impresentabili, di eliminare le
prove, di adottare il giusto protocollo comunicativo, di rimpiazzare
gli occhiali da sole con occhiali da vista dotati di montature d’oro
leggere, di passare dai fuoristrada blindati scortati da auto civetta
alle mercedes blu di stato scortate da compagnie di sicurezza
privata, il più delle volte internazionali.167
In Italia, sono sempre più evidenti alcune delle interconnessioni che
stigmatizzano sia il sinallagma che la complementarità, degli interessi
tra la vis criminale e la politica. Un’alleanza, questa, finalizzata ad
aumentare il controllo sociale.
Nel ventennio che va dagli anni ’70 agli anni ’90 dello scorso secolo, e
bene lo evidenzia Paul Ginsborg, v’è ormai più che qualche fondato
indizio che fa supporre come lo Stato si sia servito del nemico per
sopravvivere a se stesso. Di come organizzazioni criminali di primo
livello, quali la banda della Magliana, l’anonima sequestri sarda e le
compagini terroristiche posano essere state uno strumento di
destabilizzazione interna funzionale, paradossalmente, a corroborare il
potere. L’asse portante di un percorso che, secondo chi lo aveva
preordinato, sarebbe dovuto sfociare nell’affermazione del potere forte
al quale affidare il compito di riportare, attraverso la compressione dei
diritti e delle libertà, l’ordine in un Paese in cui la struttura democratica
167 Francesco Strazzari, Notte Balcanica. Guerre, crimine, stati falliti alle soglie dell’Europa, Ed.: Il Mulino –
Bologna 2008.
220
poteva essere ritenuta in serio pericolo; un baratro effettivo costituito
dall’incombenza di una crisi economica dissimulata dall’avvento del
consumismo e dei suoi strumenti finanziari.
Alla domanda posta all’inizio del paragrafo e, cioè, se vi è la possibilità
che la delinquenza comune condivida con la criminalità organizzata un
minimo comune denominatore e se la criminalità comune oltre che
essere strumentale e gregaria a essa, possa compiere il salto
qualitativo per divenire, a sua volta, un sodalizio organizzato, appare
acclarato che la risposta sia positiva.
La trasformazione, di fatto, dipende dal momento storico, dalla
complessità delle frizioni sociali e dal frame time in cui intende
completare il perseguimento degli obiettivi che si è data ma, e
soprattutto, da quanto interesse vi sia a che questa compia tale balzo.
Le precondizioni e gli indicatori coheniani che rivelano l’attitudine del
delinquente comune, spesso isolato o solo gregario nel sodalizio
organizzato, a coalizzarsi e a evolvere, sono comunemente rinvenibili
nella storia del delinquente di grosso calibro.
A monte della maggior parte dei percorsi criminali si trovano, quasi a
fattor comune, storie di frustrazione, di degrado culturale ed economico,
il senso di emarginazione e di ghettizzazione nel quale vive chi muove i
propri passi nelle sub urbia e che muove gli abitanti di queste verso il
riscatto sociale.
Un affrancamento inteso, troppo spesso e unicamente, come un
arricchimento che gli consenta di imporsi all’attenzione del proprio
gruppo sociale e divenire “temuto” quindi rispettato.
221
Questo desiderio di “miglioramento” passa, con una rarissima
possibilità di perseguire tali obiettivi emeriti in condizioni di legalità
attraverso la via più breve che conduce al delitto: all’apprensione
indiscriminata
della
cosa
che
possa
servire
a
dimostrare
l’affrancamento dell’individuo dalla miseria dalla quale proviene.
Se tale condotta è fruttuosa, ancorché degenere, e viene, al contempo
supportata dall’attitudine e da doti manageriali, ecco che il soggetto
criminale si rivela intelligente e, avvalendosi spesso di un naturale
carisma che gli promana dalla scaltrezza e dall’abilità a rimanere
impunito, organizza, indirizza, e monopolizza le attività dei singoli
delinquenti “indipendenti”, strutturandole di modo da attuare il più
elementare
dei
principi
economici:
accrescere
il
rendimento
minimizzando i rischi.
E’ così, quindi, che il gruppo criminale spontaneo, composto da
“monadi occasionalmente cooperanti”, diviene un sodalizio alle
dipendenze di un leader che, se si dimostra in grado di gestire non solo
le attività criminali strictu sensu, ma anche le relazioni politiche con il
potere che regola la vita nell’universo criminale metropolitano e può
condurlo a livelli di pericolosità sociale e di turbativa dell’ordine pubblico
ragguardevoli ancorché diventi egli stesso “strumento del potere”.
Due esempi, uno legato all’evoluzione di un gruppo criminale semplice
italiano e l’altro etnico, aiuteranno a dare concretezza a quanto detto
sin qui circa la genesi e la trasformazione della criminalità semplice in
criminalità organizzata.
222
L’esperienza investigativa della Procura della Repubblica di Venezia,
negli anni Novanta dello scorso secolo, ha identificato prima e sconfitto
poi, quel fenomeno criminale ricco di connessioni e contiguità con il
potere politico e con le mafie nazionali, nonché internazionali, che lo
facevano apparire invincibile: la così detta mala del Brenta.
L’excursus criminale di Felice Maniero, che all’inizio degli anni Ottanta
era
da
considerarsi
un
delinquente
comune
dedito
quasi
esclusivamente alla commissione di reati contro il patrimonio e a
qualche piccola rapina o estorsione, pone in evidenza come egli inizi a
intrattenere e gestire relazioni politiche con altri delinquenti del territorio
e come si affermi su questi attraverso l’esercizio di un’azione criminosa
sempre più ardita, allargando, progressivamente, la propria influenza
sulla zona limitrofa a quella di sua residenza, il così detto piovese.168
In quegli anni, però, le provincie di Padova e di Venezia, con particolare
riferimento alla zona della Riviera del Brenta, vengono scelte dalle
istituzioni come zona dove inviare al soggiorno con obbligo di dimora,
ex Legge 27 dicembre 1956 n.1423169, i personaggi di spicco dei clan
mafiosi calabresi e siciliani. La delinquenza locale, quella della quale
Maniero 170 era esponente, riesce a intessere con essi le relazioni
necessarie ad acquisire il knowhow indispensabile a compiere un ‘salto
di qualità’ affermandosi quindi sul sugli altri sodalizi criminali del
territorio. L’organizzazione criminale veneta intesse, altresì, relazioni
influenti nell’ex Jugoslavia divenendo contigua (o strumentale) agli
168 Piove di Sacco – cittadina posta sulla riviera del fiume Brenta sotto la provincia di Padova.
169 Legge 27 dicembre 1956, n. 1423 - Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la
sicurezza e per la pubblica moralità.
170 ‘Felicetto’ era il soprannome con il quale era chiamato.
223
interessi dei più eminenti sodalizi criminali balcanici e mafiosi italiani
consentendo ai clan Santapaola e Fidanzati di rafforzarsi ulteriormente
in nuove zone d’espansione.
La strategia operativa attuata da Felice Maniero consente al suo clan di
imporsi sul mercato internazionale delle armi e della droga come un
interlocutore autonomo e indipendente giovandosi di appoggi politici e
interagendo alla pari e senza preclusioni ideologiche tanto con ex
brigatisti rossi che con eversori di estrema destra. Egli intimida,
manipola e domina legandosi ai servizi segreti delle parti in guerra nei
Balcani assicurando a sé e al proprio ‘stato maggiore’ oltre a lauti
guadagni immediati, la fruibilità di eventuali territori dove vivere
(all’occorrenza) una latitanza.
I legami fra nazionalismo armato e criminalità organizzata italiana
sono ben documentati: gli emissari di Cosa Nostra si sentivano al
sicuro lungo le coste dalmate. Giambattista Licata –uno dei
massimi esponenti del clan siciliano dei Fidanzati e della mafia
del brenta, radicata nell’Italia del Nord- aveva il suo quartier
generale vicino a Rijeka/Fiume: disponeva di passaporto croato e
operava in connessione con noti esponenti dell’estrema destra
italiana.
Intercettando
Licata,
gli
investigatori
veneziani
smantellarono un canale illegale di approvvigionamento di armi
del valore stimato di circa 50 milioni di dollari. Le armi erano state
spedite via nave da Israele ai porti croati.171
La “mala del Brenta” fu, dunque, un esempio di come la criminalità
semplice abbia potuto trasformare la propria struttura in una tra le
espressioni di maggior rilievo del crimine organizzato italiano.
Servendosi di metodi propri dei clan mafiosi per svolgere le proprie
171 F. Strazzari, Notte Balcanica. Guerre, crimine, stati falliti alle soglie dell’Europa, Ed.: Il Mulino –
Bologna 2008.
224
attività delittuose, divenne a sua volta mafia senza che, però, nessuno
potesse coglierne le peculiarità connotanti in itinere e contestare, in
sede processuale, il reato associativo di cui all’art. 416bis.
Un fenomeno analogo può essere rinvenuto anche tra le organizzazioni
criminali straniere presenti in Italia. La c.d. mafia cinese, infatti,
particolarmente strutturata e radicata su aree geografiche, sta
trasformando i territori d’insediamento dei gruppi migranti, in avamposti,
in basi operative dalle quali poter muovere i passi per una penetrazione
criminale.
Il trafficking e lo smuggling sono, ancora oggi, attività delittuose tipiche
e maggiormente riconducibili alle organizzazioni criminali etniche, in
particolar modo a quelle cinesi. Alla commissione di tali reati sono
connessi altri delitti che possono essere definiti funzionali: la
falsificazione di documenti, i sequestri di persona in danno delle
persone trafficate e le estorsioni nei confronti dei parenti o dei
committenti che hanno richiesto l’introduzione del clandestino. Il
radicamento sul territorio delle Tong ha portato, poi, le organizzazioni
malavitose etniche ad attivare dei servizi legati alla tradizione che nei
territori ospiti assumono la veste di fenomeni squisitamente criminali.
Organizzando il gioco d’azzardo e la prostituzione su canali diversificati
a seconda se questi siano diretti a sopperire alle esigenze dei propri
connazionali o a quelle del mercato degli stranieri, le logge triadiche si
sono assunte l’impegno di garantire al migrante una continuità -anche
nelle attività di svago- con il paese d’origine. Al contrario della mala del
Brenta, le organizzazioni criminali cinesi evitano con ogni mezzo di
225
emergere dall’anonimato in cui consumano i delitti che, almeno sino a
oggi, sono perpetrati all’interno e solo in danno degli appartenenti al
gruppo etnico.
La criminalità cinese è strutturata su più livelli: le bande giovanili,
le organizzazioni criminali e le Triadi (formata in modo complesso
e con la caratteristica di infiltrarsi in altre organizzazioni).
Capasso le descrive in modo dettagliato: “Esistono i Draghi
senza testa e senza coda che rappresentano i giovani, di solito
minorenni
particolarmente
feroci,
specializzati
in
omicidi,
sequestri, estorsioni e inviati a commetterli anche in luoghi
diversi dal territorio di appartenenza. Poi ci sono i Draghi con la
testa e con la coda, termine che definisce le organizzazioni
criminali. […] È necessario sapere che la caratteristica di queste
associazioni è il guanxi, termine che indica la rete di rapporti che
i cinesi stringono tra loro o per vincoli familiari o perché legati da
interessi economici comuni. Queste associazioni, dislocate
soprattutto nell’Italia
dividendosi
i
centrale e settentrionale,
compiti,
per
esempio
è
stata
si
alleano
scoperta
un’organizzazione il cui unico incarico era quello di nascondere i
cadaveri, o si contrastano dando vita a guerre tra clan per
contendersi il predominio su un territorio. 172
Non ci sono guerre o faide che si consumino in modo plateale
coinvolgendo la comunità autoctona e ciò per non attrarre l’attenzione
delle istituzioni ponendo così a rischio la segretezza dell’organizzazione
criminale d’appartenenza. Quando, e se, ciò accade è perché le
contingenze l’hanno reso inevitabile.
Una caratteristica delle organizzazioni illegali cinesi emersa in
modo evidente dalle diverse inchieste condotte in Italia è che
cercano di rimanere il più possibile celate, evitando di compiere
azioni eclatanti nei confronti degli autoctoni. L’attività criminale è
172 In, Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso, Sostituto
Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu, pp.2,3.
226
circoscritta all’interno delle loro comunità. L’attività criminale è
173
circoscritta all’interno delle loro comunità.
La tipologia di reati in cui maggiormente si distingue e che sorregge la
comunità cinese in Italia resta contenuta nell’ambito squisitamente
economico finanziario. La contraffazione di marchi legati a beni di largo
consumo e l’evasione fiscale costituiscono l’ossatura delle attività
illecite e allo stesso tempo pongono in connessione la criminalità cinese
con il tessuto sociale ospite.
L’operazione Cian Liu, che significa “fiume di denaro”, vide
coinvolte otto regioni (Toscana, Lombardia, Piemonte, Veneto,
Emilia Romagna, Lazio, Campania, Sicilia), con più di cento
indagati, ventiquattro arresti tra cittadini italiani e cinesi, e
soprattutto il sequestro di settantatré aziende, centottantuno beni
immobili, centosessantasei macchine di lusso e una quantità
enorme di denaro: quasi tre miliardi di euro che tra il 2006 e il
2009 lasciarono illecitamente l’Italia per ingrassare ‘oscure casse
cinesi’174.175
L’esempio
descrive
un’associazione
per
delinquere
che,
come
vedremo, ha intessuto alleanze tanto salde da contribuire a consolidare
il muro di omertà che protegge la struttura loggistica delle attività
d’impresa cinesi all’estero e nella quale si rinvengono i presupposti, le
caratteristiche e le finalità riassunti nel testo dell’art. 416 bis del c.p.
L’accusa formulata dal sostituto procuratore della repubblica di
Firenze Pietro Suchan, esperto e già impegnato altre volte in
indagini
sulle
organizzazioni
criminali
cinesi
(come
173 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario
Flaccovio Editore, Palermo, 2011, p.159.
174 Oscure casse cinesi: Riccardo Stagliano articolo nel Venerdì di Repubblica del 6 agosto 2010.
175 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario
Flaccovio Editore, Palermo, 2011, p.157.
227
nell’operazione “Gladioli rossi”), fu chiara: associazione per
176
delinquere di stampo mafioso […].
L’assenza di una approfondita conoscenza della realtà sociale e delle
strutture interne al fenomeno associazionistico cinese nella sua
connotazione reale, che richiama l’atavica tradizione delle società
segrete – si veda il capitolo , pose le basi per una reinterpretazione
originale da parte del giudice per le indagini preliminari che, pur
mantenendo il capo d’imputazione ai massimi livelli di attenzione per
l’allarme sociale suscitato dai delitti commessi dagli appartenenti al
sodalizio criminale, derubricò l’ascrizione in […] associazione per
delinquere semplice, finalizzata però alla commissione di gravissimi
reati come il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite quali il
traffico di clandestini, la contraffazione [di marchi] e l’evasione
fiscale.177
L’importanza del fenomeno in ambito nazionale ha fatto sì che gli organi
di governo, sulla scorta delle numerose risultanze d’indagine e
giudiziarie, abbiano mutato l’approccio nei confronti delle connessioni
esistenti tra le attività economiche e i gli interessi criminali etnici, infatti
Le analisi avviate dalla Commissione antimafia sui dati raccolti
dalle
varie
forze
dell’ordine
hanno
delineato
alcune
caratteristiche di queste organizzazioni: sono in grado di
diversificare le loro attività illecite, godono dell’appoggio della
comunità autoctona, dispongono di ingenti capitali , restano
defilate per non attirare l’attenzione delle forze di polizia e si
accreditano socialmente attraverso le vie lecite (Associazioni
culturali), oltre che illecite. Da queste analisi risulta che i criminali
176 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario
Flaccovio Editore, Palermo, 2011, p.157.
177 Ibidem, pp.157-158.
228
cinesi utilizzano sistemi non convenzionali per il trasferimento di
fondi all’estero; concentrano competenze e funzioni, anche di
tipo economico, nelle zone d’origine; investono nelle aree
economiche più remunerative (per esempio, la zona vesuviana
consente loro di avere un florido mercato tessile, di livello mediobasso, che è controllato dalla camorra e caratterizzato da una
fortissima domanda); non disdegnano l’uso della violenza e
dell’intimidazione se ritenute necessarie.178
Genera perplessità, nonostante quanto acclarato, la tendenza da parte
di referenti istituzionali, nonché dell’associazionismo cinese in Italia, a
relativizzare e a circoscrivere all’ambito dell’episodicità un sistema
economico e di condurre gli affari che è stato dimostrato essere il
fondamento e la solidità della base economica delle imprese cinesi in
Italia:
La signora Liu ZhiYuan, esponente dell’Associna, sostiene che
una cosa è parlare di affari illeciti, un’altra di triadi e di mafia
cinese. […] le persone coinvolte nell’operazione “Cian Liu” hanno
sicuramente utilizzato un metodo illegale e finanziariamente
criminale per gestire il proprio giro d’affari, ma non li si può certo
paragonare a dei Totò Riina d’Oriente. A suo dire, se alcuni
cinesi in Italia si comportano da malviventi non sono quelli che
provengono dallo Zhejiang, ma gli immigrati del Fujian e del sud
della Cina, alcuni dei quali non rispettano il rigido controllo
delle famiglie già insediate.179
La difesa maldestra, quella della signora Liu ZhiYuoan, pone in risalto,
invece, l’atavismo culturale di alcune pratiche che presuppongono il
controllo, il vincolo e la gerarchizzazione delle relazioni nei rapporti dei
gruppi familiari (come visto nel capitolo IV, paragrafo La famiglia e le
178 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario
Flaccovio Editore, Palermo, 2011, pp.159,160.
179 Ibidem, p.158.
229
associazioni parentali): il guanxi. Il razzismo infra nazionale, poi,
nemmeno viene dissimulato nella dicotomia: han e non han.
15. La criminalità mafiosa
Quando si parla di mafia o si affronta, in generale, il tema della
criminalità, così detta di stampo mafioso, non è difficile che si ricorra a
delle immagini stereotipate. La mafia, la Cosa Nostra, con la sua
struttura sospesa tra l’arcaico e il postmoderno è il soggetto di
riferimento. Una compagine criminale che agendo sotto la spinta del
profitto attrae nelle proprie logiche tutto quanto possa consentirle di
acquisire potere: la vera finalità, il reale tesoro, di cui si nutre per
sopravvivere e, spesso sostituendosi ad esso, vincere sullo Stato.
Il mafioso, nell’iconografia classica è rappresentato da un individuo
“lombrosiano” con la lupara in spalla e la coppola in testa, che si
interpone tra la Legge e i diritti attraverso l’affermazione della forza
bruta quale strumento di controllo del territorio. La mafia che per un
lungo tempo le cronache hanno insegnato a conoscere è stata solo
questo:
l’affermazione
della
forza
in
dispregio
del
diritto.
Un’organizzazione di etimologia rurale, verticistica e brutale, in grado di
condizionare ogni aspetto della vita, anche nelle città. Ma ciò fino a
quando, nei primi decenni del secolo scorso, attraverso una escalation
di tipo sociale ed economico, non si è sostituita alle istituzioni
diventando, così, la coprotagonista della vita politica dello Sato.
Si può sorridere all’idea di un criminale, dal volto duro come la
pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano
un’immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i
230
deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorridere, come
di un cerimoniale arcaico, o considerarla una vera e propria
pressa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio,
che impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte
della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa
mai di essere preti. Né mafiosi.180
Consapevoli e dominati da tale, inquietante, definizione di cosa
significhi essere un mafioso, non è difficile comprendere che la
criminalità mafiosa ha incidenze sempre più importanti sia in ambito
metropolitano che internazionale e la sua azione criminale può essere
ricondotta al concetto operativo della criminalità organizzata in senso
proprio.
La mafia incide sulla vita criminale metropolitana e condiziona la
quotidianità dei consociati. La strategia mafiosa, seppur esuli dalle
logiche operative dei sodalizi riconducibili alla criminalità organizzata, li
gestisce al pari di ogni altro aspetto della polis. Essa, infatti, ha
dimostrato che la sua forza fondante risiede nell’attitudine a penetrare e
occupare i gangli vitali delle attività socio politiche ed economiche in
ottemperanza a una logica di “illegalità condizionata”. Lo scopo rimane
quello di sottrarre alle istituzioni alcune aree di territorio sulle quali la
“Cosa Nostra” diviene essa stessa istituzione.
A tal proposito è utile richiamare l’art. 416 ter del codice penale che
affronta il tema del condizionamento dello strumento democratico
elettorale che attraverso il “voto di scambio”, il sodalizio è in grado di
gestire.
180 Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra - Edizioni Rizzoli,
Milano 1991.
231
L’Articolo 416 bis del codice penale così recita:
(omissis) L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne
fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo
associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà
che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo
diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività
economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi
pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per
altri. (omissis)
Leggendo il testo estrapolato dall’art. 416 bis c.p., risulta agevole
individuare e comprendere le diversità che insistono tra i due tipi di
associazionismo criminale: quello organizzato e quello mafioso.
Nella criminalità organizzata non mafiosa, le strutture operative hanno
un impianto legato alla mera dominazione dei fatti criminali e tendono
alla gestione degli stessi in accordo con altre strutture affini sino a
ritagliarsi delle frange di potere “militare” condizionato e subordinato
all’immediata acquisizione di un potere economico in grado di sopperire
alle esigenze del gruppo stesso ed eventualmente deputato a
incrementare ricchezza investibile per l’ampliamento e l’accrescimento
del potere malavitoso stesso. Un investimento d’impresa propriamente
detto.
La Cosa Nostra, come si ricordava poco sopra, aggredisce lo Stato
interponendosi essa stessa come soggetto di garanzia e punto di
riferimento per la tutela dei bisogni dei cittadini. Delegittimando lo Stato,
condiziona le Istituzioni al punto da far coincidere gli interessi di queste
con quelli criminali.
La mafia, con metodologie varie che vanno dall’intimidazione, alla
concussione, alla promessa, sempre mantenuta, di utilità di ogni tipo è
232
sempre più in grado di condizionare il territorio che assoggetta alla
logica di una legalità alternativa.
Riconoscendo l’impossibilità a sottrarsi all’indefettibilità e all’efficacia del
potere mafioso, ecco che interi gruppi sociali scelgono di essergli
contigui, contribuendo, così, a legittimarne l’esistenza e facendola
divenire l’espressione della volontà democratica della popolazione di un
territorio.
Le “Agenzie di controllo sociale”181 (polizia e magistratura), nonché le
cronache giudiziarie che da esse assumono le informazioni dalle quali
trarre le notizie, hanno preso a parlare, con sempre maggior frequenza,
di mafie internazionali, riferendosi, però, con tale allocuzione, a
fenomeni più propriamente riconducibili al, non meno grave, crimine
organizzato. La criminologia moderna pone un freno in tale direzione e,
per quanto riguarda le mafie internazionali, tenendosi lontana dalla
parola “mafia” (per le implicazioni sociologiche dalle quali questo
termine non può prescindere), fa, piuttosto, riferimento a due modelli
criminali definiti: il crimine organizzato transnazionale e il crimine
organizzato internazionale.
La criminalità organizzata transnazionale si connota per la ricerca
d’interazione con sodalizi consimili in terra straniera. Il fine è di rendere
sempre più efficaci i traffici illegali ottimizzando logistica e risorse, e di
sfruttare al meglio le discrasie che esistono tra i sistemi normativi in
vigore negli stati coinvolti dalle attività delittuose.
181 Si veda Gabrio Forti; Roberto Redaelli, La rappresentazione televisiva del crimine: la ricerca
criminologica in atti del convegno “La televisione del crimine”, Edizioni V&P Università, Milano, 2005.
233
Per quanto attiene, invece, la criminalità organizzata internazionale,
essa si connota sulla base dell’articolazione e della collocazione che il
sodalizio criminale riesce a effettuare negli Stati dove opera e diversi da
quello di origine. Un esempio in tal senso lo fornisce la Triade. Essa,
pur mantenendo la sua “testa” in Cina, si colloca, attraverso la
fondazione di proprie logge, ovunque vi sia un interesse a che queste
operino solidalmente per i fini collettivi del sodalizio.
Dagli studi sul fenomeno effettuati dal Ministero degli Interni e scaturiti a
seguito delle risultanze d’indagine compiute in questo ambito, emerge
che le organizzazioni criminali non italiane agiscono sul territorio
secondo due diritture ben definite: da un lato risentendo dell’influenza
criminale del paese d’origine e mantenendo inalterate le regole che le
contraddistinguono -la criminalità cinese ne è un esempio- e, dall’altro,
come hanno fatto la criminalità organizzata serba e albanese,
intessendo relazioni e coniugando i propri interessi con organizzazioni
criminali storiche italiane, quali: la ‘ndrangheta, la sacra corona, la
camorra e la Cosa Nostra (si veda pag.210).182
Nei rapporti dell’Antimafia che analizzano tali peculiari atteggiamenti
criminali, si legge, infatti, che dal punto di vista operativo i due diversi
modi di atteggiarsi, vengono ricondotti alle categorie di “aperto-chiuso”.
Si parla di gruppi criminali aperti quando questi interagiscono con quelli
del territorio ospitante: si pensi alla criminalità organizzata magrebina, a
quella russa e romena che, proprio in virtù di una minore chiusura, si
182
Per sopperire a tale nuovo assetto e colmare le lacune anche lessicali, la “Commissione bilaterale
d’inchiesta sul fenomeno mafioso” durante la XVI legislatura ha mutato la propria denominazione in
Commissione bilaterale di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre organizzazioni criminali,
anche straniere.
234
rendono permeabili anche alle attività di contrasto delle istituzioni
perdendo, in qualche modo, pericolosità sociale.
Si parla, invece, di organizzazioni criminali chiuse laddove le
manifestazioni criminali –di altissima pericolosità sociale- tendono a
rimanere circoscritte e a consumarsi all’interno di un ambito etnico. Ad
esempio le estorsioni, i sequestri di persona e gli omicidi che si
consumino “nell’intimità” di una Chinatown (quindi coperti dall’omertà,
dall’impermeabilità, della comunità etnocentrica-autoreferenziale), non
emergono se non quando la platealità del fatto di reato non può essere
nascosta perché avviene sotto gli occhi degli stranieri.
Sebbene gli organi d’informazioni abusino di terminologie giudiziarie
evocanti la mafiosità di organizzazioni criminali straniere (mafia cinese,
mafia russa, mafia rumena, mafia bulgara) a livello di Terzo Grado di
Giudizio è ancora nullo il dato che definisce questi sodalizi:
tecnicamente mafiosi. Le sentenze definitive –unici indicatori affidabili non si sono ancora espresse in tal senso, stigmatizzando la mafiosità
delle organizzazioni criminali straniere in ordine al dettato dell’art. 416
bis del codice penale.
È da ritenersi, tuttavia, un indicatore significativo che la “Commissione
bilaterale d’inchiesta sul fenomeno mafioso”, durante la XVI legislatura,
abbia mutato, ampliandola, la propria denominazione in Commissione
bilaterale di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre
organizzazioni criminali, anche straniere. L’aggiunta della dicitura
“anche straniere” è, di fatto, la presa d’atto che il crimine, così come le
sue metodologie attuative, ricada ormai a pieno titolo all’interno dei
235
fenomeni globali e globalizzanti, tanto da renderne indispensabile la
trattazione in sede di Commissione Antimafia.
16. Matrice politica e ideologica: la criminalità sovversiva
La criminalità politica sovversiva, o eversiva come viene usualmente e
convenzionalmente indicato quel novero di attività delittuose supportate
da un movente ideologico, ha come scopo finale quello di modificare, o
addirittura sovvertire attraverso l’uso della violenza, l’assetto di un
ordinamento economico e statuale. La sovversione, per la tipologia dei
delitti commessi nel concretarne il disegno finale e per la peculiarità
degli attori nei reati connessi, raccoglie attorno a sé una particolare
branca della criminalità che, per la sua insospettabilità, offre i maggiori
problemi alle agenzie di controllo.
Anche nella disamina dei punti salienti relativi alle organizzazioni
criminali di matrice politica, non mancano gli argomenti per evidenziare
il parallelismo con l’origine storica delle società segrete cinesi e, quindi,
delle logge triadiche. Nella Cina imperiale, infatti, si rinvengono
numerosi esempi di come attraverso la sostituzione della filosofia
confuciana con quella buddista e taoista le società segrete, le
organizzazioni terroristiche di allora, affermano il loro potere tra il
Popolo e sul Popolo organizzando il dissenso e l’avversione verso
quella tipologia di potere che veniva identificato come elitario e distante
dai bisogni primari delle persone.
Rendendone condivisibili gli ideali e le finalità, furono organizzate in
varie parti del Paese rivolte e insurrezioni di chiara matrice politica
236
eversiva
e
che
assunsero
efficacia
attraverso
concomitante
strutturazione di un reticolo di logge (che oggi chiameremmo cellule
operative) le quali, sinergicamente, si muovevano nella direzione
condivisa di una rivoluzione.
Nel motto originale della Loggia del Loto Bianco, che ancora oggi
sopravvive all’evoluzione socio-criminale della Triade arcaica, si legge
la connessione tra la funzionalità criminale alla logica politica:
Rovesciare i Ch’ing e restaurare i Ming (Fan-Ch’ing-Fu-Ming).
L’Art. 270 del codice penale italiano definisce le Associazioni
sovversive:
Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce,
organizza o dirige associazioni dirette e idonee a sovvertire
violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello
Stato ovvero a sopprimere violentemente l’ordinamento politico e
giuridico dello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dieci
anni.
Chiunque partecipa alle associazioni di cui al primo comma è
punito con la reclusione da uno a tre anni. Le pene sono
aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome
o forma simulata, le associazioni di cui al primo comma, delle
quali sia stato ordinato lo scioglimento.
Articolo così modificato dalla L. 25 gennaio 2006 sui reati di
opinione.
Quando l’analisi afferisce la criminalità politica, è opportuno considerare
che non è la condotta in sé a determinare come verrà qualificato il
gesto che, nel quadro di una violazione al codice penale è e rimane un
delitto, ma sarà invece l’esito delle attività ostili, del conflitto
asimmetrico che si incardina, nei confronti del soggetto verso cui le
attività delittuose sono preordinate.
237
La matrice politica di gesti ritenuti criminali non promana da un
ambiente tipico, omogeneo o da un gruppo sociale dato (come quelli
analizzati precedentemente da Cohen e Sutherland) verso il quale
concentrare, eventualmente, il controllo, la sorveglianza di polizia,
l’analisi sociologica e l’azione di prevenzione e sicurezza propria dello
Stato, ma è assolutamente trasversale in quanto raccoglie attorno a sé
un disagio esistenziale del pensiero che diventa ideologia.
Il crimine politico non persegue utilità individuali particolari o
economico-finanziarie, ma ha il tratto distintivo del pensiero frustrato di
chi agisce per sovvertire uno status quo divenuto ormai intollerabile.
Una parte dichiara unilateralmente guerra a un pensiero avversario
ortodosso e riconosce nei mezzi tipici dei conflitti bellici l’unica via per
raggiungere lo scopo. Un altro esempio, questo, che lega l’efficacia del
pensiero resistente ed eterodosso dei primi monaci guerrieri buddisti
che concettualizzarono, secondo categorie alterative, un nuovo ordine
sociale da sostituire a quello in essere.
È una visione che riprende anche von Clausewitz nel XIX secolo
quando definisce la guerra come una fase naturale del proseguimento
della politica. Che la guerra, poi, sia un interna a uno Stato o
internazionale non differisce se non per il metodo che viene scelto e
seguito dai belligeranti. La tipicità della guerra che si svolge attraverso
l’impiego del terrorismo è oggi identificata nella locuzione: guerra
asimmetrica183.
183 Per definire la guerra asimmetrica è necessario preventivamente definire il concetto di asimmetria.
Questo compito può essere svolto basandosi sull’etimologia stessa della parola (a-syn-métron), ovvero
“incommensurabile”, “non reciprocamente misurabile”. Non si tratta quindi di una qualunque semplice
disuguaglianza, ma di una vera e propria incomparabilità. Tale “incomparabilità”, se applicata alla
238
Alla base della sovversione, dunque, si trova, spesso, la rilettura di
fenomeni che hanno dato luogo a criticità sociali. Una crisi
occupazionale,
l’inflazione,
un
provvedimento
giurisdizionale
asseritamente iniquo o, ancora, un forte sentimento di contrasto
ideologico verso un gruppo politico considerato “dominante” possono
essere fattori idonei ad amplificare le frizioni e destabilizzare l’ordine
costituito. Compromettere la percezione del senso di giustizia sociale
su cui lo Stato fonda il proprio operare è, tra gli altri, un ulteriore spunto
cui il terrorismo s’ispira.
Le strategie di autotutela che gli stati preordinano in tema di lotta alla
criminalità, dimostrano dei limiti nel caso in cui entri in gioco la matrice
politica.
É
davvero
difficile
prevenire
l’eventuale
insorgere,
lo
svilupparsi, di fenomeni “antagonisti e asimmetrici”; al più si può
pensare e confidare in una solerte azione persecutoria e repressiva
dopo che l’evento criminale s’è consumato.
Ricostruire lo scheletro operativo di una fazione politica in lotta con
strumenti criminali, (laddove si rinvenga una qualche utilità che vada al
di là della mera volontà di conoscere o riconoscere il fenomeno) è una
operazione che appartiene più al lavoro dello storico e del sociologo
che del giurista e del poliziotto.
guerra definita sulla base della concezione clausewitziana che vuole il gesto come la naturale
prosecuzione della politica, non potrà che manifestarsi sotto forma di disparità fra i diversi fronti del
conflitto comprendendo anche quelli interni allo Stato o internazionali non “convenzionali”, ossia tra due
o più eserciti di Paesi diversi.
FONTE: www.difesa.it Ministero della Difesa. Asimmetria e trasformazione della guerra. Spazio, tempo
ed energia nel nuovo contesto bellico. Autori: maggiore Ruggero Cucchini e dott. Stefano Ruzza.
239
L’associazione per delinquere finalizzata alla sovversione di un
ordinamento è, di fatto, una “organizzazione militare del dissenso
politico”; organizzata per perseguire il proprio obiettivo strategico con
logiche di rigorosa attenzione alla dissimulazione della propria
esistenza e alla raccolta di consensi tra coloro i quali percepiscono
come ingiusta, frustrante, ingiusta la condizione di soggezione
all’imperio dello stato.
La migliore strategia difensiva che questi sodalizi hanno affinato con il
trascorrere degli anni, e forti delle esperienze dei vecchi gruppi
terroristici, è, anche in questo caso, assimilabile a quella dalla Triade
cinese che fonda la propria solidità sulla segretezza dell’identità degli
associati e, spesso, sulla impermeabilità di ogni gruppo operativo
rispetto alle altre logge/cellule cooperanti.
L’esperienza millenaria triadica conferma come la non conoscenza
diretta dei membri di una unità operativa consorella, possa essere
considerata un’arma efficace atta ad impedire che, in caso di cattura di
un militante, possano essere rivelate informazioni in grado di
compromettere l’intera struttura organizzativa e le identità dei correi.
Il vero punto di forza, quindi, di questo tipo di attività criminale, lo
abbiamo detto, risiede nell’attitudine alla mimetizzazione e alla
mutazione del proprio assetto esteriore in funzione di una maggiore
efficienza operativa. La semplicità di allestimento e smobilitazione dei
covi (si pensi al caso Lioce184, la base era un computer palmare che la
184 Nadia Desdemona Lioce, ex esponente dei Nuclei Comunisti Combattenti (Ncc), è stata arrestata nel
2003 dopo una irreperibilità che perdurava dal 1995. Il suo nome venne inserito nell'ordinanza di
custodia emessa nei confronti di Alessandro Geri, accusato di essere il telefonista che rivendicò
l'omicidio D'Antona. Secondo la Procura, N. Desdemona Lioce avrebbe fatto parte del gruppo che ha
240
terrorista portava con sé all’interno di una borsetta) e la duttilità delle
strategie spesso attuate da un solo militante, non costituiscono un
problema, se non per chi deve combatterle.
Il progresso tecnologico e delle telecomunicazioni è un supporto
consolidato al crimine politico internazionale, ma, allo stesso tempo,
permette di alzare il velo e rendere pubbliche anche le istanze di
democrazia e libertà che taluni governi vorrebbero fossero riconducibili
a fenomeni di pura illegalità. Le proteste di Piazza Tienanmen, la
Primavera araba e la Rivolta dei gelsomini ne sono la dimostrazione.
I media, poi internet e i telefoni cellulari palmari stanno rivoluzionando
la rivoluzione.
segnato la fase di ricostruzione delle Brigate Rosse.
Dopo l'omicidio D'Antona, il suo nome ricompare
sulle cronache il 2 marzo 2003 quando Nadia Desdemona Lioce venne arrestata a seguito del conflitto
a fuoco sul treno Roma-Arezzo nel corso del quale morirono il sovrintendente di polizia Emanuele Petri
e il brigatista Mario Galesi.
241
CAPITOLO VI
I MEDIA, UNA FINESTRA SUL MONDO
LA COSTRUZIONE DELLA REALTÀ
1. Quod non est in “media”, non est in mundo
Nel complesso delle trasformazioni che afferiscono il modo di
rappresentare la realtà, appare evidente quanta importanza abbia
assunto la narrazione, la comunicazione mediatica dell’evento. Oggidì,
infatti, non è sufficiente che un evento si verifichi perché abbia
rilevanza, ma è imprescindibile che esso sia veicolato e proposto
all’opinione pubblica nella veste più idonea a suscitare interesse e in
modo da risultare accattivante. Ciò implica che spesso la diffusione di
una notizia non avvenga per ottemperare al dovere d’informare e al
diritto a essere informati ma per obbedire alle leggi del marketing.
Il diritto di essere informati, cioè a essere posti a conoscenza di quanto
di rilevante accade nel mondo, sembra essere stato sostituito dalla
corsa alla divulgazione compulsiva di tutti fatti –soprattutto di corollario
e che talvolta poco hanno a che fare con il dovere di informare– i quali,
per la loro scarsa importanza, soddisfano la curiosità e non l’esigenza
di sapere. Non notizie, ma un crogiuolo di voci che, rivelandosi poco più
di pettegolezzi, sono comunque in grado di condizionare la quotidianità
dei gruppi sociali stimolando, o scoraggiando, il desiderio e la necessità
di mutare il modo di mettersi in relazione con “l’Altro”.
Si parla di un comportamento collettivo orientato verso una maggiore, o
minore, attenzione al fenomeno posto sotto la lente d’ingrandimento.
242
I media, oggi, sembrano aver assunto il valore di indicatori del
fenomeno criminale. Il fatto esiste se essi ne parlano e diventa tanto più
rilevante quanto più se ne parla: non esistono più periferie, almeno per
quanto riguarda l’informazione.
La “processazione” dell’informazione e la costruzione della notizia sono
mutate. Nell’informare raramente vengono forniti quegli elementi validi a
sollecitare nel destinatario la formazione di un’opinione critica; al
contrario, sembra essere divenuta autocelebrativa, fine a se stessa, e
proiettata a creare una “storia” lasciata aperta che può essere
eventualmente ripresa e rilanciata per fronteggiare un calo d’ascolti. La
notizia, così trasformata, sarà funzionale dunque a diffondere nuovi
messaggi d’allarme che, ormai, sembrano essere divenuti una droga
del teledipendente.
In Italia, il ruolo d’informatore “per eccellenza” è ancora appannaggio
della televisione e sembra che, almeno per qualche anno, nessuno sarà
in grado di modificare nei telespettatori la “coazione a ricevere”, dagli
show verità, l’input a agire o reagire. Il web che spopola nel mondo ed è
stato in grado di sollevare rivoluzioni, non è recepito appieno come un
servizio e trattato con familiare confidenza, ma anzi è ancora percepito
come uno strumento ludico o prettamente di lavoro.
Le nuove
generazioni, tuttavia, dimostrano una sempre maggiore familiarità tanto
da utilizzarlo come strumento comparativo e di confronto globale.
Questa facilità di trasmettere l’informazione, che in alcuni casi assume
la forma della disinformazione185porta alla conoscibilità dei fatti e alla
185
H. Michael Sweenney: la disinformazione è un'informazione falsa o inesatta che viene diffusa
deliberatamente. Certe volte viene chiamata anche con il sinonimo di black propaganda. Essa può
243
proiezione della loro eco senza che questi si affermino come tali nel
contesto quotidiano.
Nel contribuire a rendere estremamente difficoltosa la percezione della
reale dimensione dei fatti di interesse sociale, i media hanno minato
quella antica consapevolezza sulla fisicità e tangibilità di un evento.
L’opinione pubblica, dunque, non viene più a conoscenza della notizia o
del fatto in sé e, sollevata dall’impegno di affinare la capacità critica di
valutazione di ciò che le viene riferito, si pone supina di fronte alla
rappresentazione della realtà, del virtualmente vero.
La televisione è il più importante narratore di storie nella società
contemporanea e ha la possibilità di raggiungere un gran numero
di destinatari, assumendo funzioni che, in passato, erano assolte
dalla narrazione epica, dal teatro, dalla pittura, dalla letteratura,
ma anche prestando caratteri nuovi e specifici.186
Il fenomeno mediato dal mezzo d’informazione, quindi, elargisce il suo
sapere al riparo da ogni confronto o da confutazioni giovandosi
includere la distribuzione di documenti, di manoscritti e di fotografie falsificati, o la diffusione di
pettegolezzi maliziosi e informazioni costruite a tavolino. La disinformazione non va invece confusa con
l'informazione falsa o inaccurata in modo non intenzionale. La disinformazione viene realizzata in vari
modi. Ecco alcuni esempi: una notizia di cronaca potenzialmente pericolosa può essere ignorata dai
mass media. La maggior parte delle persone crede che qualcosa che non è stato riportato dai media
semplicemente non esiste; una notizia di cronaca può essere presentata come un'accusa priva di
fondamento, specialmente da qualcuno che ha autorità. Le persone che godono di largo consenso o
ricoprono posizioni importanti in politica, nell'economia o in ambito militare possono fare leva sulla loro
reputazione per etichettare un fatto come falso e ridicolo; una copertura massiccia da parte dei media di
un evento importante può creare una distrazione sufficiente per deviare l'attenzione della gente da un
problema reale; una diceria che non viene né smentita né confermata può generare confusione e dubbi
in un pubblico vasto. Un individuo o un gruppo di persone possono essere costrette o pagate per fornire
informazioni false che danno vita a false notizie di cronaca. L’uso della disinformazione nell’intelligece
militare ha lo scopo di fornire notizie false al nemico che le troverà, comunque, verosimili; serve anche
per orientare un pensiero collettivo piegandolo a uno scopo politico (Le armi chimiche di Saddam
Hussein). L’intelligence civile usa la disinformazione per orientare i mercati internazionali; a tal riguardo
è assai frequente nelle c.d. guerre economiche.
186 Si veda Fiske, Hartley, 1978; Carey, 1988.
244
dell’unidirezionalità della comunicazione che pone l’interlocutore
nell’impossibilità di obiettare, negare o interagire.
2. Criminalità e media: la spettacolarizzazione del delitto.
L’attività di informazione svolta da alcune testate giornalistiche, anche
televisive, nell’ambito del giornalismo d’inchiesta e di denuncia, pone in
evidenza che il servizio pubblico è ancora attento a suscitare l’interesse
verso fenomeni che possono avere rilevanza sociale e criminale e che
prescinde dalla spettacolarizzazione del delitto.
Relativamente al topic della ricerca è da sottolineare quanto i redattori
di alcuni tra i programmi televisivi d’approfondimento, si siano dimostrati
sensibili e utili a permettere la conoscibilità, non solo al grande
pubblico, ma anche alle agenzie di sicurezza, degli aspetti critici della
situazione in cui la comunità cinese vive e lavora in Italia e nel distretto
industriale di Prato in particolare. 187 La divulgazione per immagini e
l’approfondimento sul fenomeno in essere e di alcuni gravi fatti di
cronaca, quali il decesso di sei operai in un rogo sviluppatosi il giorno 1
dicembre 2013 all’interno di un laboratorio tessile di Prato gestito da un
Lao
Ban,
ha
consentito
che
emergesse
una
situazione
di
discriminazione e sfruttamento delle persone, ormai sclerotizzata e
ignorata dai più. L’asservimento dell’operaio cinese all’impresa, le
condizioni igienico sanitarie in cui queste persone sono costrette a
vivere e lo stato di alienazione conseguente alla segregazione
all’interno di immobili con finestre oscurate è una realtà che è entrata
187 “Annozero”, LA7. Puntata del 9.01.2010; Piazza Pulita, LA7. Puntata 11.10.2013, A. Dal Lago;
245
nelle case italiane grazie alle immagini raccolte dai reporter. Tale
restituzione alla realtà ha imposto al pubblico di prendere atto e
consapevolezza di una realtà spesso volutamente ignorata: non sapere
come e dove un processo di produzione avvenga può rendere meno
colpevolizzante l’acquisto di beni da filiere sulle quali non c’è chiarezza
o contezza di legalità ed eticità.
Dalla registrazione d’immagini e quindi dall’evidenza sono quindi
scaturite denunce all’autorità giudiziaria relative a casi di interesse che
hanno consentito alle agenzie di sicurezza di approfondire e dare la
giusta connotazione a ciò che poteva apparare solo eticamente e
moralmente riprovevole.
La funzione che i media assolvono nella diffusione della notizia, quindi
nell’amplificazione o nella relativizzazione dei fatti di reato, non ha poca
importanza e ciò tenuto conto che la percezione della gravità di un
evento è, da sola, in grado di aumentare la sensazione di insicurezza
tra i consociati e ciò implica che la domanda di controllo/sicurezza
possa aumentare.
Il concetto di gravità mediatica, dunque, si insinua e orienta l’opinione
pubblica rendendo più complesso
[…] verificare il rapporto tra la rappresentazione giornalistica del
crimine e la configurazione che questo fenomeno assume nella
prospettiva criminologica e politico-criminale[…] 188
A
fronte
di
un’informazione
di
stimolo
sociale,
v’è
poi
una
spettacolarizzazione del pruriginoso che si nutre non della denuncia di
188 Sulla questione, si veda Gabrio FORTI; Roberto REDAELLI, La ricerca criminologica in La televisione
del crimine (Atti del Convegno), p.168. Editore V&P, Milano 2005.
246
fatti, bensì dell’attrazione che il morboso riesce a suscitare tra gli
spettatori.
Grave è dunque il ruolo e la responsabilità che i mass media si
assumono
nella
formazione
dell’opinione
collettiva
della
devianza, se è vero che altresì tra i fattori diretti di effettività di cui
si avvale il paradigma di osservanza delle norme è da
annoverare anche il grado e il tipo di informazione del
destinatario e fra quelli di rinforzo, la rilevanza sociale dello
scopo e la legittimità morale del legislatore così come
socialmente percepite. E solo se il processo sociale di definizione
della criminalità converge in termini di sinergia e non di
alternatività con il processo istituzionale di definizione del
penalmente rilevante, si può sperare che il sistema penale
funzioni. Ciò significa infatti, nella prospettiva che rileva ai fini
della presente indagine, una corrispondenza tra le scelte di
criminalizzazione già attuate o in atto e il consenso sociale di cui
esse godono, requisito quest’ultimo, che –come ormai dovrebbe
essere chiaro- non può identificarsi con quello che la dottrina
chiama consenso artificiale, consenso cioè precario, non
duraturo in quanto artificialmente prodotto a favore di modelli di
legislazione penale segnati dall’ipertrofismo, dal simbolismo e
conseguentemente dall’ineffettività.189
È palese che alcuni programmi apparentemente dedicati all’analisi
criminologica compiano un processo di semplificazione del fatto
criminale, rendendolo funzionale non tanto a diffondere l’informazione,
quanto, piuttosto, alla pubblicizzazione, come fossero la stessa cosa,
della politica della sicurezza o di un prodotto di largo consumo.
Sarà compresa meglio l’importanza del processo di trasformazione e
rielaborazione che porta il fatto di reato a diventare notizia, quando
l’analisi verterà sulla percezione che i gruppi sociali hanno di se stessi e
189 Si veda Marta BEROLINO, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato in La
televisione del crimine (Atti del convegno), Editore V&P, Milano 2005, pp.198-199.
247
di cosa possa porre in pericolo la normalità, cioè l’alterazione della
quotidianità nella misura in cui, questa, rappresenti perdita di sicurezza.
Il proliferare del taglio scandalistico e sensazionalistico dei titoli
d’apertura con cui i telespettatori o gli utenti del web vengono attratti nel
vortice dell’informazione, ha indotto taluni a tralasciare lo stimolo
all’educazione alla criticità nell’approccio al sapere, cioè, a tralasciare
la naturale spinta a conoscere di più e meglio. Spesso, purtroppo le
espressioni artificiali di sintesi con cui viene elaborata la cronaca
evitano al cliente/spettatore di considerare, nella generale valutazione
del messaggio recepito, le cause del fenomeno al quale la notizia fa
riferimento.
[…] la selezione delle notizie sul crimine, soprattutto attraverso i
giornali, avviene secondo diversi criteri: di tipo quantitativo alcuni,
di natura qualitativa altri. Quanto a quelli quantitativi, un primo
effetto distorsivo è costituito dal fatto che la frequenza dei
resoconti criminali non dipende dalla frequenza del reato oggetto
della notizia. Un secondo effetto distorsivo è rappresentato dal
fatto dall’enfasi che caratterizza le notizie relative ad alcune
tipologie di reato. Essa varia infatti a seconda della dimensione
pubblica o privata del reato. Così, particolarmente enfatizzati
sono i reati che attengono alla sfera individuale e privata dei
soggetti, al punto da creare troppo spesso nella collettività l’idea
che si tratti di reati ampiamente diffusi e pericolosi.190
In tale solco risulta che la relativa rilevanza data ai reati aventi come
vittima la società e l’interesse pubblico in senso stretto (ad es.: il
danneggiamento o la soppressione di beni di pubblica utilità), sebbene
siano quelli maggiormente commessi, porta a ritenere che questi non
190 Si veda Marta BEROLINO, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato in La
televisione del crimine (Atti del convegno), Editore V&P, Milano 2005. pp.201-202
248
abbiano incidenza e non siano idonei a creare allarme sociale e solo
perché non creano audience.
Nella narrazione mediatica dei particolari scabrosi che le storie criminali
sottendono,
si
compie
un
paradosso:
l’inversione
della
curva
dell’attenzione verso la soggettività. La vittima dell’atto criminale, infatti,
rimane schiacciata, sbiadita e relativizzata sullo sfondo della notizia,
mentre le telecamere mettono a fuoco l’autore del delitto tralasciando,
però, di dedicare attenzione all’ambiente, alle concause e alle
motivazioni in cui questi è cresciuto e nel quale si sono sviluppate e
sostanziate le attività criminose.
A conferma dell’analisi svolta, a fronte del decesso dei sette operai
nell’incendio del dicembre 2013 nella fabbrica di Prato, la notizia non fu
il fatto in sé, cioè la morte di sette lavoratori dovuta a negligenza sul
lavoro dalla parte datoriale, ma che le vittime erano cinesi. Questo
particolare, evidente, ha anche spostato l’attenzione e la sensibilità
dello spettatore sulle diversità del modus vivendi di una comunità etnica
senza, però, stimolare la comprensione delle abitudini “altre” di questo
gruppo sociale che non sono censurabili a prescindere, ma lo diventano
in Italia, dove il dettato normativo in materia di sicurezza sui luoghi di
lavoro e di urbanistica, disciplina altrimenti. Il risultato ottenuto è un
sentimento generale di discriminazione.
Il panorama nel quale si stagliano i format che nel palinsesto si
occupano della cronaca “criminale” è vasto e si intensifica sempre di
più,
al
pari
della
propensione
del
pubblico
a
rendersi
spettatore/investigatore/giudice davanti allo schermo.
249
L’esito di tale, massiva, intrusione nella privacy, porta con sé una
apparente confidenza con gli argomenti trattati e induce a una
tendenziale eccessiva “semplificazione” della materia. Provocando
distorte e perverse interpretazioni, non solo del fatto in sé, ma
dell’articolato dettato normativo sulla base del quale operano le
competenti autorità. Questa presunzione di competenza contribuisce a
diffondere una sensazione di sfiducia nelle istituzioni alle quali viene
imputato di non saper risolvere i casi di “maggior allarme sociale”.
In questo capitolo abbiamo visto che l’analisi sugli indicatori dei
fenomeni criminali non può essere solamente indirizzata a cogliere le
emergenze criminali, ma passa attraverso un monitoraggio dei gruppi
sociali, della loro organizzazione e attraverso la diffusione delle notizie
in grado di orientare la percezione del problema nella comunità.
Qualunque sia il crimine di cui si intenda parlare, sia se commesso dal
singolo in modo isolato che da un numero di rei in concorso o in
associazione, vi sono dei fattori che tendono a delineare un comune
denominatore che afferisce all'ambiente in cui maturano le condotte
antigiuridiche.
Le storie criminali hanno a fattore comune il senso, la percezione, del
disagio in cui nascono. Si può trattare di un disagio sociale, economico
o, ancora, di una frustrazione politica, ma pur sempre di disagio si
tratta.
Sempre a fattor comune, troviamo la scelta che l’individuo compie sul
“come agire” per perseguire i fini che lo affranchino da una frustrazione
e, a tal riguardo, sappiamo che la persona può sempre scegliere se e
250
come agire, consapevole del fatto che, poi, dovrà rendere conto della
propria condotta dinnanzi alla Legge, dinnanzi al Popolo.
Alfred
Schütz
191
,
interprete
del
programma
di
“sociologia
comprendente” di Weber, radicato nella visione moderna degli uomini
come creature guidate da fini, si dedicò a smascherare l’autoinganno
che si manifesta nella formula, troppo spesso utilizzata: l’ho fatto a
causa di sostenendo che le azioni degli esseri umani nel perseguire i
propri fini, andrebbero più correttamente descritte in termini di: “L’ho
fatto al fine di”.
Non c’è, dunque, assoluzione per chi viola la legge che il Popolo si è
dato e ricade in capo al Popolo stesso il compito di vigilare sul rispetto
della volontà espressa e manifestata nelle forme che egli stesso, in
quanto Legge vivente, si consente.
191 Alfred Schütz (filosofo e sociologo austriaco), deriva la sua formazione sociologica da uno studio della
metodologia weberiana, della quale compie un riesame critico. Formatosi alla scuola Husserl, teorizza
la fenomenologia del mondo sociale coniugando la sociologia comprendente, evidenziando l'importanza
dell'approccio weberiano come tentativo di comprendere i significati oggettivi dell'azione del singolo e
come elaborazione di modelli adeguati allo specifico oggetto di studio. La teoria sociologica di S. integra
l'impostazione fenomenologica e quella weberiana avvicinandosi anche alle posizioni degli interazionisti
simbolici (Mead, Cooley e Thomas). Propone schematizzazioni delle forme di vita quotidiana in termini
di "tipi ideali" attraverso l’analisi sull'azione sociale e sui diversi motivi che portano l'individuo ad agire,
sulle sue modalità di relazione e sui suoi aspetti sociali come possibilità di conoscenza di se stesso
attraverso gli altri.
251
CAPITOLO VII
LA CRISI E IL MERCATO DEL LAVORO DEI LAOBAN.
ENORMI PROFITTI TRA LEGALITA’ E ILLEGALITA’
L’analisi svolta in questo capitolo non si pone unicamente l’obiettivo di
analizzare il carattere emergenziale della crisi economica che ha
investito ogni settore delle attività produttive in Italia, ma vorrà trarne
spunto per compiere una più ampia riflessione su come questa si sia
coniugata con alcuni aspetti all’accresciuta autonomia delle politiche
occupazionali e lo sfruttamento dei lavoratori. Da tale contesto
emergerà che la flessione dell’attenzione e la contrazione delle tutele
nei confronti delle garanzie poste dal Legislatore a tutela della classe
operaia, nonché l’incidenza della variabile “illegalità”, si siano
dimostrate funzionali unicamente alla nuova interpretazione del modello
di occupazione improntato alla “flessibilità” dell’impiego (in nome
dell’incremento dell’occupazione stessa) della manodopera. La crescita,
la maggiore concorrenza tra imprenditori e lo sviluppo del settore delle
esportazioni sono ormai solo degli slogan, ma vengono posti come
obiettivi da raggiungere per superare la “crisi”. Di fatto, però, restano
unicamente delle parole a effetto, specialmente per quanto riguarda il
settore delle piccole e medie imprese che operano nella stretta legalità
e che sono ritenute, ormai a torto, “la spina dorsale” dell’economia
italiana.
I fatti, come vedremo nei casi pratici analizzati nel prosieguo,
dimostrano invece che la crisi è superata più agevolmente da quelle
imprese che eludendo il fisco, sfruttando la classe operaia e
252
asservendo le condizioni di debolezza dell’essere umano alla logica del
profitto, si fanno interpreti di una economia illegale e, talvolta, criminale.
1. La nuova ‘classe operaia’
La crescente disoccupazione involontaria tra i lavoratori (autoctoni) è un
effetto della tendenza, sempre maggiore, allo sfruttamento della nuova
“classe operaia”. Oggi, infatti,
[…] sono i migranti provenienti dai paesi poveri a rivestire quel
ruolo di "classi pericolose" che centocinquant'anni fa era
riservato alla classe operaia.192
In Italia, prima con l’arrivo degli operai cinesi e poi con l’affermazione
delle imprese etnicamente connotate, s’è andata a colmare la domanda
d’occupazione in alcuni specifici distretti produttivi.
Nel caso di specie, sarà considerato come questo fenomeno abbia
inciso sul settore del tessile e del pronto moda che, sino agli anni
Ottanta dello scorso secolo, era gestito quasi esclusivamente da
imprenditori della provincia di Prato con il coinvolgimento massivo, nelle
varie fasi della lavorazione dei manufatti, di buona parte della
manodopera locale.
A fronte di una contrazione delle commesse e di una sempre minore
produttività da parte delle imprese tessili così dette storiche del pratese,
l’osservazione critica pone in evidenza come una nuova categoria di
imprenditori abbia colto l’opportunità di proporre al mercato un’efficace,
seppur discutibile, alternativa al concetto di produzione. Si tratta dei Lao
Ban, di padroni, di manager, rimasti indenni da questo fenomeno ai
192 A. Dal Lago, Non persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999.
253
quali la riduzione del volume di affari (soprattutto connessi al mercato
estero della grande distribuzione), non ha nuociuto, ma, anzi, li ha
avvantaggiati, favorendoli, nel proporre in Occidente metodi e ritmi di
lavoro che si pensavano propri dello sfruttamento, della sottocultura del
lavoro. Le corazzate dell’imprenditoria spregiudicata e concorrenziale
sono i laboratori artigianali e gli opifici (anche clandestini) di proprietà e
gestiti da imprenditori cinesi che, grazie all’impiego di mano d’opera
formata a una diversa concezione del lavoro e capace di produrre il
maggiore quantitativo di beni richiesti dal mercato, si sono affermati in
settori produttivi ritenuti, erroneamente, appannaggio della moda Made
in Italy prodotta in Italia. Nel prosieguo si comprenderà quanto
l’allocuzione Made in Italy prodotto in Italia, non è inutilmente
ridondante, ma è una specificazione che le caratteristiche del mercato
impongono nei confronti di quei prodotti, egualmente Made in Italy, ma
che di italiano non hanno più molto a parte alcuni passaggi della
lavorazione.
L’industria del tessile nel distretto pratese che di qui in poi assumerà il
valore di paradigma per la ricerca, si è rivelato il segmento produttivo
nel quale, in assoluta controtendenza rispetto al trend nazionale i Lao
Ban, hanno affermato l’attitudine a soddisfare le istanze del mercato
interno e anche ad imprimergli nuova energia ampliandolo verso
l’estero. Per i migranti cinesi, essere divenuti dei Lao Ban, ha un
significato atavico e intrinseco, una valenza culturale di validazione
sociale. Un tanto emerge chiaramente proprio dal testo di un articolo
254
apparso sul sito ufficiale dell’Associazione “Italia-Cina” nel mese di
settembre del 2007
[…] il sogno di tutti i cinesi essere chiamati Lao Ban, padroni.
Proprietari
di
ristoranti,
negozi,
bancarelle
ambulanti
di
abbigliamento e di cineserie varie. E i Lao Ban in Italia non fanno
che aumentare, non solo: si spostano da una parte all’altra per
incrementare il giro d’affari e conquistare un’indispensabile
stabilità economica.193
La produzione di quantitativi considerevoli di beni di largo consumo; lo
sviluppo e l’implementazione del giro di affari dimostrano come il
migrante proveniente dalla Cina, sia questi un operaio o un
imprenditore, abbia esportato oltre a se stesso, anche un modello di
vita. Con i cinesi, approda in Occidente una concezione di vita, di
relazione e lavorativa, nella quale domina l’autoreferenzialità delle
consuetudini. Nella impermeabilità delle Tong si alimenta e si consolida
l’autoreferenzialità a dispetto del tessuto sociale ospitante. In esse
rimangono dominanti, dunque, gli usi nazionali connessi alla filosofia
confuciana, integrati col solidarismo collettivista del comunismo maoista
prevalendo sulla disciplina del lavoro e sull’etica dei Paesi di adozione.
Le imprese gestite da imprenditori locali della vecchia scuola, cioè in
regime di legalità e nel rispetto della norma, hanno continuato a
ripiegarsi su se stesse e a perdere la capacità di stare sul mercato, i
laboratori e gli opifici etnici cinesi hanno prosperato inducendo talune
correnti di economisti e giuslavoristi a riconsiderare la bontà
(l’efficienza) delle conquiste e delle garanzie offerte ai lavoratori in tema
di sicurezza, di orari da trascorrere sulla linea di produzione e di tutele
193 Fonte: sito ufficiale Associazione Italia-Cina (http://www.associna.com).
255
sindacali
in
generale,
delle
quali
si
registra
un
significativo
affievolimento.
Se un tale patrimonio di civiltà giuridica non vuole smarrirsi a beneficio
esclusivo dell’aumento dei profitti, a dover essere posto in discussione
è proprio il metodo in virtù del quale gli assetti nel distretto pratese sono
stati modificati. Questo nuovo metodo che passa attraverso la
licitazione del processo di asservimento dell’uomo all’azienda che,
nell’immaginario collettivo del gruppo ivi occupato, si identifica con la
realizzazione del Sé attraverso un processo d’affermazione dell’Io
collettivo a prezzo della rinuncia implicita alla valorizzazione del
lavoratore in quanto essere umano e, quindi, portatore di diritti
inalienabili.
La riflessione dalla quale partire riguarda, dunque, la perdita della
centralità dell’uomo rispetto all’affermazione del suo ruolo di bene
economico (manodopera) nella produzione e confezione dei manufatti.
Per far ciò, però, bisogna formulare una considerazione che non
trascuri di delineare con chiarezza come e perché i primi immigrati
cinesi siano giunti nella provincia di Prato e lì si sono insediati.
Tutto cominciò all’inizio degli anni Novanta, quando i primi
immigrati cinesi provenienti dalla provincia dello Zhejiang, e in
particolare da Wenzhou, arrivarono a Prato attratti dalla sua fama
di polo manifatturiero operoso. Quegli immigrati –scarsa cultura e
scarse competenze- cominciarono a cucire magliette e vestiti per
conto delle piccole aziende di abbigliamento locali, concentrate
nelle zone di Iolo, Tavola, Poggio a Caiano e Seano. Erano
terzisti, o come si dice in gergo ‘façonisti’, con scarsa tecnologia
–qualche macchina da cucire usata, sistemata in uno scantinatoe due sole garanzie da offrire, velocità di consegna e basso
costo della manodopera, che ben presto consentirono di
256
conquistare spazi di mercato. Nei periodi <<caldi>> i cinesi erano
disponibili a lavorare giorno e notte, senza orari e senza
garanzie, dietro compensi (a cottimo) di gran lunga inferiori alla
194
media, per inseguire un rapido riscatto economico e sociale.
La parzialità della prospettiva d’analisi, o il pregiudizio, emergono
chiaramente dalle prime parole della citazione, quando si tendono a
considerare gli operai terzisti provenienti dallo Zhejiang e da Wenzhou,
città
e
porto
commerciale
della
Cina
meridionale
da
secoli
economicamente dinamica, di ‘scarsa cultura e scarse competenze’195.
I fatti hanno ampiamente dimostrato, invece, che generalizzare sulle
competenze di questi migranti (“da sfruttare”), non è stata, come del
resto lo sono le generalizzazioni, la giusta chiave di lettura del
fenomeno. I migranti, infatti, non si sono dimostrati degli sprovveduti,
ma, anzi, hanno dimostrato di essere la competente avanguardia di un
antichissimo nuovo pensiero-lavoro; il prodromo di una rivoluzione
dell’etica del lavoro il cui fine si riassume nella odierna penetrazione
economica, una colonizzazione efficace.
Pensare al Sud-Est della Cina come a una zona arretrata e a Wenzhou,
in particolare, come alla sua massima espressione è significato essere
stati precipitati nel macroscopico fraintendimento verso il quale la
strategia
cinese
della
disinformazione
globale,
in
funzione
dell’attrazione degli investimenti economici internazionali, aveva attratto
il mondo. Da qualche decennio, infatti, questo porto si era riaffermato
quale centro privilegiato di investimenti speculativi degli imprenditori
occidentali e, in particolare italiani, che l’avevano “scelto” come terra di
194 Silvia Pieraccini, L’assedio cinese. Il distretto senza regole degli abito low cost di Prato. Edizioni
Gruppo 24ORE, Roma 2010, pag.4.
195 Ibidem p.5.
257
conquista
per
l’internazionalizzazione
delle
loro
imprese
da
delocalizzare in Cina cogliendone solo il momentaneo vantaggio
dell’abbattimento dei costi di produzione e per l’aumento dei margini di
profitto.
Tradizionalmente all’avanguardia nel settore dell’imprenditoria privata,
lo Zhejiang (e quindi Wenzhou), che già fu laboratorio economico
capitalista sotto l’impero di Mao, ha formato un “esercito” di manager
preparati a interagire secondo i canoni dell’economia occidentale, e di
lavoratori specializzati che, proprio grazie agli imprenditori che avevano
tentato la via di una colonizzazione industriale della Cina, erano
divenuti competitivi anche (o soprattutto) nella produzione dei prodotti di
nicchia del made in Italy.
[…] Il wenzhunese è una persona che pensa solo agli affari,
pensa solo a come può guadagnare; sacrifica tutta la sua
esistenza a questo. I rapporti di relazione padre-figlio sono
improntati a questa regola. Ora lo dico senza offesa, no…
seguendo la volgata comune, dicono dei wuenzhunesi un po’
come spesso in tempi andati, a me non mi piace ovviamente,
“sono gli ebrei della Cina”. Sono i danarosi, sono… quindi questo
elemento culturale, cioè di non scavare a fondo su questa
presenza sul territorio… “Chi sono questi che stanno qui? Da
dove vengono e lì come sono considerati?” È stata totalmente
non presa in considerazione. Cioè, questi, quando arrivano, “ti
mangiano” se vogliono. Hanno un livello culturale del lavoro
elevatissimo; non sono, come qualcuno ha immaginato, gli
straccioni con il sacchetto e la borsa di cartone; questi sono gli
artefici della prima potenza economica mondiale; hanno un
orgoglio del lavoro e del successo che è inimmaginabile ed ecco
258
che questa è la ragione per cui hanno completamente sostituito
quell’ambito economico in cui si sono insediati.[…]
196
2. Il “Modello Cina”: economia, migrazione e criminalità
Sebbene all’interno dello stato cinese si fosse radicato un modello
economico e politico del tutto singolare (soprattutto se osservato da
Occidente) e permanessero in vigore le rigidità del comunismo maoista,
ben presto è emerso come questo status quo non abbia influito sulla
sua declinazione con una politica estera aggressiva e liberista
improntata sul capitalismo di Stato.
Un tale assetto non ha trascurato l’implementazione degli affari della
criminalità organizzata locale che, in funzione e in prospettiva
dell’ampliamento delle zone di influenza commerciale ed economica
cinesi, aveva immediatamente ripristinato i propri canali, anche illegali,
di collegamento e connessione con l’Occidente. Il compito devoluto alle
organizzazioni criminali che a Wenzhou hanno sempre avuto la loro
base operativa - molte delle quali legate a vario titolo alla Triade o alla
sua logica - è stato quello di disciplinare e ordinare lungo le rotte della
migrazione clandestina, il desiderio di miglioramento economico e del
tenore di vita, dei propri connazionali.
Avviati verso le mete occidentali dove poteva essere remunerativo
soddisfare la crescente domanda di manodopera low cost, i maggiorenti
delle comunità cinesi “storiche” ivi insediati, iniziano a diventarne i
referenti europei delle organizzazioni dedite al traffico di esseri umani.
196 Stralcio intervista ad Andrea Frattani, già Assessore alla Multiculturalità del Comune di Prato dal 2002
al 2009. Si veda Appendice 1 intervista n.5.
259
Occupandosi di raccogliere e coniugare la domanda con l’offerta di
collocamento dei lavoratori (clandestini), questi allestiscono i primi
centri di raccolta e smistamento dove i committenti dei viaggi (talvolta
parenti) che intendono servirsi dei migranti, possono riscattare e
prelevare i “quantitativi” desiderati della pregiatissima “merce umana”.
In ciò interviene anche un aspetto che ai più è sempre sfuggito:
Il professor Liu Xiaoxi, direttore generale del Dipartimento di
ricerca macroeconomica all’Ufficio di ricerca del Consiglio degli
affari di stato, cioè il governo cinese, mi spiega: “I miei servizi
non si dedicano a operazioni di spionaggio ma piuttosto
all’informazione aperta, alla vigilanza economica su grande
scala. […] La ricerca dell’informazione economica si organizza
secondo tre canali: gli istituti di ricerca economica propriamente
detta, le organizzazioni non governative e le istituzioni private.
Con
una
quarantina
di
ricercatori
centralizziamo
queste
informazioni per permettere al governo di delineare i grandi
orientamenti per il futuro.”197
Appare plausibile che il fenomeno migratorio dovrà essere riletto non
solo come un atto volitivo del singolo, ma anche, e talvolta, come
l’operazione preordinata, strategica, avviata dal PCC198 che prevede il
trasferimento di capitale umano teso alla raccolta di informazioni utili a
favorire la progressiva espansione del così detto modello Cina.
Quando si parla di ‘modello Cina’ ci si riferisce al modello di
sviluppo economico cinese, in una certa misura al suo sistema
politico e in una misura minore alla cultura (il cosiddetto ‘soft
power’). […] un modello Cina può essere riscontrato in ambito
economico, politico e culturale; in ciascuno di questi settori vi
sono elementi originali, esclusivamente legati al particolare
197 Roger Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton
Compton Editori, Roma, 2011, p.245.
198 P.C.C., Partito Comunista Cinese.
260
contesto del paese, che se però esaminati nel loro insieme non
costituiscono un modello generale, che sia esportabile e
replicabile in altri paesi a causa delle loro peculiarità.
Il tratto distintivo del ‘modello Cina’ risiede nella capacità di
integrare con un alto tasso di flessibilità gli elementi importanti,
piuttosto che nell’esportazione delle proprie caratteristiche. La
Cina ha importato modelli culturali dall’estero sin dagli anni
Settanta del XIX secolo e dal cosiddetto ‘movimento per
l’autorafforzamento’ del tardo periodo Qing; e sin da allora il
paese è andato alla ricerca di svariati modelli, di diverse
tecnologie, pratiche, istituzioni e idee in varie parti del mondo. Ha
importato ciò che ha ritenuto più adeguato e l’ha saldato alla
propria tradizione culturale, creando così un ibrido unico. Posto
quindi che si possa parlare dell’esistenza di un ‘modello Cina’, si
fa riferimento a questo ibrido in cui degli elementi di origine
straniera si sono fusi con il retroterra culturale tradizionale del
paese. Ad esempio, l’odierno sistema politico cinese è
caratterizzato da una combinazione di leninismo sovietico e
confucianesimo cinese con elementi del neo-autoritarismo
dell’Asia orientale, del corporativismo latino-americano e del
socialismo europeo, unitamente ad alcuni concetti ‘indigeni’
elaborati dai leader politici della Repubblica popolare cinese
(Rpc), Mao
Zedong, Deng Xiaoping e Hu Jintao. Si tratta
dunque di un sistema politico ibrido, tuttora in evoluzione,
eclettico e unico nel suo genere.
Anche il sistema economico risulta analogamente eterogeneo,
costituito da elementi dell’economia pianificata di tradizione
sovietica ed elementi dello ‘Stato sviluppista’ proprio dell’Asia
orientale, riscontrabili in particolare nella politica industriale, negli
stretti legami tra governo e mondo degli affari, e nella fusione
delle grandi imprese in conglomerati, chiamati ‘jiutan’. […] ci si
trova di fronte a un modello economico contraddistinto dal
capitalismo di Stato, da investimenti mirati e dal protezionismo, a
cui si combinano le forze di mercato e l’internazionalizzazione
dell’economia
determinata
dalla
globalizzazione.
Troviamo
quindi, anche in questo settore, un modello ibrido ed eclettico, le
261
cui
caratteristiche sono
per
la maggior
parte importate
199
dall’estero.
Il fenomeno migratorio e i numeri per i quali esso incide sono, dunque,
l’apice di un iceberg sul quale è ovvio che cada l’attenzione. A ben
vedere, si tratta di una rivisitazione della strategia militare sunzuista di
occupazione e penetrazione di territori applicata all’economia che non
muove eserciti in armi, ma colloca la Cina nel suo complesso, come
cardano irrinunciabile della motilità dei mercati e, ancor più, della
quotidianità delle famiglie occidentali di consumatori. Tutte in crisi, ma
tutte determinate a non privarsi di nulla.
Il generale Daniel Schaeffer, ex addetto alla difesa a Pechino, ha
descritto con precisione, durante un colloquio a Parigi, la ‘pratica
dell’intelligence economica cinese nell’acquisizione delle alte
tecnologie’. […] ha elencato i ‘modi operandi cinesi’ meritevoli di
essere presi in esame per captare le informazioni capitali di cui si
nutrono l’informazione cinese e i suoi attori.200
Tra i nove punti stigmatizzati nella relazione del generale Schaeffer il
punto n.8 (L’appoggio sulla fibra nazionale) coglie appieno l’importanza
del fattore migrazione e evidenzia come anche il guanxi sia un fattore
fondamentale nella acquisizione e circolazione delle informazioni.
L’appoggio sulla fibra nazionale. È il vasto mondo dei cinesi
d’oltremare, gli ‘huaoqiao’, le cui relazioni con il Paese d’origine
restano solide. Si tratta anche di relazioni, di guanxi, regionali.
Queste giocano un ruolo anche nel campo della criminalità
organizzata, come testimoniano alcuni settori nelle mani delle
etnie teochew e wenzhou, ma naturalmente non la maggior parte
di questi. Queste relazioni vengono usate per lo spionaggio,
199 David Shanbaugh, Dentro il ‘modello Cina’ – Quadro politico e sviluppo economico, intervento
effettuato al convegno svoltosi a Roma il 3 novembre 2010 (traduzione degli atti di Aurelio Insisa).
200 R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton
Editori, Roma, 2011, p.249-251.
262
come si è constatato nel caso della talpa della CIA, Larry Wu Tai
Chin, negli anni Ottanta, o come sospetta (e sottolinea) il
generale Schaeffer, nell’affaire dello studioso sino-cambogiano di
Strasburgo. […] Molte di queste tecniche meritano la definizione
di ‘stratagemma della lampreda’, come vengono a volte
chiamate. […] Lo stratagemma della lampreda (ba mu man ji –
l’anguilla a otto occhi) è così chiamato perché questo pesce
viscido e verdastro si mimetizza nel paesaggio marino, si attacca
alle rocce e poi, quando ha pazientemente scelto la sua preda, le
si avvicina il più possibile e si incolla su di essa, prima di
aspirarne il sangue con i molteplici orefizi… una bella metafora
per le tecniche di spionaggio cinesi.201
In questa guerra non si conquistano avamposti militari né postazioni
strategiche, essa si manifesta attraverso la promozione di una nuova
forma di colonialismo, quello economico.
Il fenomeno espansionista del “capitale umano cinese” va quindi riletto
come progetto strategico teso a inserirsi, penetrandoli dal basso, nei
gangli economici dell’obsoleto e indebolito sistema capitalistico
occidentale. Un modello vecchio fiaccato dall’indebitamento che,
nell’intento di aumentare i consumi, ha decretato una dipendenza
dell’uomo, divenuto ormai solo consumatore, di beni la cui inutilità è
inversamente proporzionale solo al desiderio di possederli.
3. Migranti e lavoro
Le rotte della migrazione che avevano costituito sul finire del XIX secolo
il ponte con gli Stati Uniti d’America e l’Australia, ora si diramano verso
l’Europa, verso un continente che da immemore è sempre stato in
relazione con la Cina e con il quale persiste una connessione fondata
201 R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton
Editori, Roma, 2011, pp.250-251.
263
sulla complementarità, sugli scambi commerciali e sull’interazione
culturale.
Oggi, quindi, è l’Occidente a costituire un’opportunità ed ecco che entra
nel panorama orientale come un bacino economico nel quale la
domanda di manodopera incontra l’offerta low cost degli operai cinesi.
Una opportunità, dunque, che è posta in evidenza dalla propensione
verso una progressiva contrazione del costo del lavoro, un indicatore,
questo, di certo non sfuggito all’occhio attento del colosso orientale,
pronto a piegare al capitalismo di Stato e senza mutare se stesso, gli
effetti dell’incombente crisi del “modello-sistema” capitalista liberista
anglosassone. La migrazione è la Via che consentirà a questi migranti
istituzionalizzati di cogliere la vittoria, il proprio miracolo economico, sul
terreno del nemico imperialista.
L’operaio cinese, come il manager della new economy, non nascono
d’improvviso, ma sono il prodotto delle riforme strutturali già avviate da
Mao Zedong e, successivamente, raccolte con maggior coraggio e
vigore Deng Xiaoping dopo la morte di Mao.
La politica della porta aperta ha, di certo, attratto verso la Cina cospicui
investimenti, ma ha fatto sì che molti cinesi, sul finire del secolo scorso,
fattisi migranti, abbiano avuto la possibilità di raccogliere la sfida di un
riscatto economico e sociale che in Cina non sarebbe ancora stato
possibile ottenere. Per la stragrande maggioranza di questi il
“passaggio” in Occidente è stato la tappa necessaria per sfuggire alle
misere condizioni di vita delle zone di provenienza e l’opportunità di
264
accumulare il denaro necessario a consentire un onorevole ritorno in
patria.
Non tutti i cinesi giunti in Europa, e in Italia in particolare, infatti, hanno
l’intenzione o la necessità di rimanervi stabilmente. Il lavoratore in
condizione di clandestinità, come emerge da molte interviste di polizia
acquisite durante indagini tese a infrenare il fenomeno dello
sfruttamento della manodopera degli immigrati, rimane asservito al Lao
Ban e all’impresa gestita da questi, solo per il tempo necessario a
sanare il debito contratto per il trasferimento in Italia e ad accumulare le
risorse finanziarie necessarie ad avviare una propria attività al ritorno in
patria. Tali liquidità sono trasferite in Cina da una rete di risparmio
interna alla Tong stessa e che funge da servizio bancario, illegale.
L’avvicendamento della forza lavoro riguarda i più, mentre la
stabilizzazione e la radicazione delle famiglie è un fenomeno assai
ridotto e riguarda solo chi offre all’organizzazione le necessarie
garanzie e suscita interesse per l’attitudine a condurre i propri affari.
Gli imprenditori cinesi, inseritisi silenziosamente nelle recessioni di
settore, hanno dimostrato di essere in grado di sfruttare il “ventre molle”
di una branca della produzione tipicamente italiana che già ben
conoscevano e della quale i segnali di crisi erano stati ampiamente
raccolti in una Cina attenta a invogliare l’ondata di delocalizzazioni.
L’analisi svolta dalla Cina su se stessa evidenzia che
Nonostante la grave crisi internazionale che ha investito tutte le
economie del mondo dalla fine del 2008 e per tutto il 2009, la
Cina è uno dei paesi che ha saputo (e potuto grazie alla
propulsione del governo centrale) reagire con maggiore rapidità
alle difficoltà dei mercati, mantenendo elevato il proprio livello di
265
crescita, sino a diventare alla fine del 2010 la seconda potenza
economica mondiale con interessanti previsioni di crescita per il
2011. Proprio tale solidità dell’economia cinese continua ad
attrarre investimenti esteri del tipo green field e, soprattutto negli
ultimi anni, a stimolare operazioni di fusione ed acquisizione […]
202
Va nella stessa direzione con l’eguale finalità di continuare ad attrarre
verso la Cina investimenti e competenze, il saggio di Suisheng Zhao, il
quale si spinge oltre l’analisi sopra citata dettagliando come:
La Cina ha superato il Giappone diventando la seconda
economia del mondo nel 2010. Di conseguenza, proprio mentre
alcuni studiosi cinesi iniziavano a sostenere la nascita di un
‘modello Cina’ che aveva funzionato meglio per la Cina e altri
paesi
emergenti
rispetto
al
modello
di
modernizzazione
occidentale, alcuni esperti occidentali cominciavano a guardare
con preoccupazione al modello di capitalismo di Stato cinese in
grado di mettere in crisi quello di stampo occidentale: la Cina <<
non si trova ad affrontare tutta una serie di problemi che hanno
investito i paesi occidentali in seguito allo scoppio della crisi
finanziaria:
giganteschi
disoccupazione
e
debiti
impasse
pubblici,
politica>>.
alti
livelli
[…]
di
Secondo
Fukuyama203, negli anni Novanta, subito dopo la fine della guerra
fredda, gli Stati Uniti occupavano una posizione di predominio. Il
modello di democrazia americano era largamente emulato,
anche se non sempre amato; la tecnologia statunitense
imperversava
nel
mondo
e
il
capitalismo
di
stampo
‘anglosassone’, caratterizzato da una limitata regolamentazione
del mercato, era visto come l’orizzonte del futuro. […] un
decennio più tardi, mentre la crisi di Wall Street poneva fine
all’idea che si potesse affidare ai mercati il compito di autoregolamentarsi, l’ammirazione spontanea nutrita in passato dai
cinesi per tutto ciò che fosse americano ha lasciato il passo a
202 Giovanni Pisacane e Daniele Zibetti, Acquisizioni e fusioni in Cina. Guida pratica all’M&A per gli
operatori italiani. Ed. Italia Oggi-Milano Finanza, 2011.
203 Francis Fukuyama, US democracy has little to teach China in “Financial Times”, 17 gennaio 2011.
266
una visione molto più sfumata e critica delle debolezze degli
Stati Uniti –che, per alcuni, sfiorava il disprezzo.
204
La politica di sviluppo della Cina da Deng Xiaoping in poi, ha puntato,
con l’applicazione di sgravi fiscali per gli investitori e facilitazioni nella
costituzione di società in partecipazione con quelle statalizzate, ad
attrarre gli investimenti stranieri e, con essi, le competenze che
giungevano, per poi rinvestire all’estero le liquidità ottenute.
Attraverso una diversificazione mirata degli investimenti nei settori
merceologici e di mercato, in flessione in Occidente, le migrazioni
organizzate furono di certo una parte importante di una strategia che
nulla aveva d’improvvisato e la cui finalità era di spostare la produzione
mantenendone la gestione più vicino al destinatario finale. Una sorta di
“chilometro zero” che ha consentito negli anni, e ancora oggi consente,
di superare le barriere poste dal protezionismo introdotto attraverso
l’istituzione di dazi doganali, e, allo stesso tempo, di riqualificare il bene
–che rimane, in effetti, lo stesso prodotto in Cina- apponendovi un
marchio di manifattura familiare, sinonimo di pregio e utile a rassicurare
il consumatore.
Quella che agli industriali delocalizzanti appariva, dunque, come
l’opportunità di sfruttare la percepita arretratezza di un popolo e
l’indigenza nella quale viveva, era stata, invece, letta da Pechino come
un interessante segnale: l’allerta che annunciava l’esigenza degli
investitori stranieri di espandersi e, portando occupazione in Oriente,
contrarre il costo del lavoro in patria.
204 Suisheng Zhao, Il ‘Modello Cina’ e la sua sostenibilità in “Il modello Cina. Quadro politico e sviluppo
economico, di Marina Miranda e Alessandra Spalletta, Università La Sapienza, Roma – AGI CHINA24 L’asino d’oro edizioni, 2011.
267
Cercando e creando nuove opportunità che permettessero di
mantenere in attivo le aziende, l’avvento imminente della crisi del
sistema occidentale era così annunciato.
Come zona d’insediamento per la migrazione, quindi, l’area produttiva
del distretto pratese era, anche se indirettamente, quella più
conosciuta. La consapevolezza, poi, che il bagaglio esperenziale con
cui il migrante giungeva in Occidente potesse essere un fattore
d’interesse per l’imprenditoria tessile locale, lo rendeva consapevole
della relativa facilità con cui sarebbe stato occupato e inserito nella
catena produttiva.
Nelle imprese italiane che avevano conosciuto la realtà imprenditoriale
in Cina, il lavoro del contoterzista e del cottimista erano già parte di un
bagaglio e, al contempo, costituivano una risorsa dalla quale attingere a
piene mani. La sola innovazione “vantaggiosa” si rinveniva nella
sostituzione della più costosa manodopera locale con quella fresca e
con poche pretese, proveniente dalla Cina.
L’operaio cinese, nella maggior parte dei casi vincolato da un contratto
part time a un datore di lavoro connazionale, il più delle volte un
prestanome riconducibile all’imprenditore italiano che lo aveva inserito
nella catena produttiva, era chiamato a sostenere ritmi di lavoro full time
assolutamente concorrenziali.
Il
Lao
Ban,
non
perdendo
l’autonomia
e
l’iniziativa
proprie
dell’imprenditorialità cinese, coglieva l’opportunità di competere con se
stesso producendo e ponendo in commercio per conto proprio il
medesimo bene che confezionava per il committente. Così facendo,
268
poteva disporre di una parte di quella parte di produzione in eccesso
rispetto alla commessa e, ponendola in commercio con un proprio
marchio o con un marchio contraffatto, acquisiva, progressivamente,
una sempre maggiore autonomia e sicurezza eliminando alla fonte il
rischio dell’invenduto e delle giacenze.
L’opportunità di bypassare gli intermediari che si interponevano tra la
fase produttiva e la grande distribuzione giunse quasi immediatamente
e, con questa, l’apertura di magazzini e di punti vendita per grossisti
nelle aree di maggiore smercio che consentì l’accesso ai mercati più
floridi.
In questo caso, a funzionare come un ingranaggio perfetto fu l’invisibile
rete di connessioni relazionali e solidaristiche che l’appartenenza
nazionale, il guanxi, alimenta facendo di ogni comunità una cellula
operativa connessa alle altre; un rilevatore sensibile di bisogni e delle
esigenze del territorio sul quale insiste.
La problematica che evidenzia, però, questa grande concorrenzialità
dei laboratori e, in generale, delle imprese con gestione etnica è data
dall’inclinazione di queste a operare in regime di illegalità. Sottrarsi agli
obblighi e alle specifiche della normativa in tema di lavoro, complice –
se si vuole- l’inerzia o i ritardi nelle verifiche e nei controlli da parte delle
strutture istituzionali a ciò devolute è la norma.
Questa tendenza a eludere o, in alcuni casi, a ignorare, per quanto sia
possibile o utile, il quadro normativo in tema di legislazione sul lavoro
che disciplina i rispettivi ambiti d’impiego, fa la differenza in termini di
produttività. A tale propensione devono, quindi, essere sommate
269
l’esiguità numerica e la scarsa efficacia dei controlli da parte delle
autorità preposte alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori. Una
deficienza, questa, che è attribuita a un effettivo problema d’interazione
e di comprensione linguistica, nonché alla penuria di organico.
A più di trent’anni dall’insediamento della prima comunità di lavoratori
cinesi, però, la presenza sporadica di uffici d’intermediazione culturale
in seno alle camere di commercio e di raccordo tra le comunità a livello
socio-assistenziale
che
connota
troppi
comuni
investiti
dalla
problematica, assume più la forma dell’alibi, utile a entrambe le parti,
per sottrarsi agli obblighi previsti dalla Legge.
Il dato, che emerge da questa inerzia è, dunque, inquietante e lo è nella
misura in cui agevola la strutturazione e il consolidamento di condotte
spregiudicate che gettano le basi per un malinteso senso di libera
concorrenza
nel
perseguire
fini
economici
e
nell’affrontare
illegittimamente le sfide imprenditoriali.
I ritmi di lavoro ai quali sono chiamati gli operai dai Lao Ban,
stigmatizza di fatto la possibilità di replicare un modello (con qualche
piccola rivisitazione) a cui il lavoratore deve sottostare: come produce in
Cina così deve produrre in Italia.
[…] una delle cose che mi stupì all’inizio della mia attività
investigativa a Prato, era che nelle intercettazioni telefoniche
emergeva che parlavano di “stranieri”; i cinesi che
parlavano di stranieri, gli stranieri siamo noi, insomma. E
questo inizialmente per me era una cosa atipica; chi segue le
indagini sui cinesi da anni mi dice: “No, guardi dottore è così da
sempre, per cui siamo considerati…” noi siamo gli stranieri,
siamo stranieri non solo come etnia, ma siamo stranieri
anche come legislazione, siamo stranieri come attività di
270
lavoro, siamo stranieri come regole, cioè siamo noi gli atipici
rispetto alla loro tipicità. Quindi, loro portano qua il loro
mondo, le loro attività. […] Molti lavorano, un’altra cosa che ho
notato, la notte; cioè, lavorano tanto in orari notturni. Perché
c’eravamo resi conto, ora poi, con la tecnologia anche televisiva
che è cambiata la situazione si è modificata, ma molti lavoravano
la notte perché lavoravano con le televisioni accese, con la
parabola che prendeva i canali cinesi. Il telegiornale cinese, la
televisione cinese e quindi “lavoravano col fuso orario” della
televisione cinese che guardavano mentre lavoravano.
205
Si tratta, dunque, di una coazione a ripetere funzionale all’impresa che
può giovarsi di un surplus di energia lavoro alla quale attingere, ma che
incide sul lavoro stesso in termini di scarsa sicurezza sociale nella
misura in cui alla migrazione segue la penetrazione di attività
economiche etniche secondo schemi e prassi di fatto incontrollabili.
4. La sicurezza sociale
Al concetto di sicurezza sociale va data dunque un’accezione
comprensiva dei due concetti che, in lingua inglese, sono espressi dai
vocaboli safety e security: protezione sociale e pubblica sicurezza. Un
processo di gestione delle relazioni nel e del gruppo sociale che non
riguarda solo la pubblica sicurezza, cioè il lato delittuoso delle azioni
commesse dagli affiliati alle Triadi, ma anche, se non prevalentemente,
quello della prevenzione e correzione delle plurime condotte extralegali
e illegali che si consumano, diuturnamente, negli ambienti domestici o
nei luoghi di lavoro, oasi di illegalità che sfuggono agli organi di
205 Stralcio intervista al dottor Francesco Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato,
dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1
intervista n.4.
271
controllo perché normalizzate dalla reiterazione indisturbata delle
condotte stesse.
L’endemica scarsità di risorse umane da destinare al controllo delle
attività d’impresa sul territorio, denunciata dai rappresentanti delle
istituzioni a giustificazione dell’esiguità del numero di controlli svolti su
ditte e imprese nel biennio 2009-2011 e le oggettive difficoltà nel fare
incontrare le diverse culture di provenienza sono l’effetto di una politica
dell’accoglienza e dell’integrazione che non ha tenuto conto della
diversità culturale dell’approccio al lavoro. Il convenire sull’indefettibilità
dell’osservanza della norma, si è tradotto nella licitazione di fatto di un
modus vivendi autoimmunizzatosi al Diritto.
Infatti, la pericolosa e generale flessione del rispetto delle tutele poste
dal legislatore internazionale e italiano a salvaguardare i diritti umani e
dei lavoratori, sono, insieme ai lavoratori stessi, le prime vittime di una
discriminazione che vede controllate solo le imprese gestite da
imprenditori italiani e le maestranze, ivi occupate, garantite da eventuali
abusi.
Le concorrenti imprese cinesi, invece, asseritamente protette dalla
difficoltà d’approccio e dall’incomprensibile idioma, spesso operano sul
mercato
occupando
lavoratori
immigrati
clandestinamente
mantenendoli in un regime di costante sfruttamento e talvolta anche
segregati.
La parte di ricerca sul campo svolta nella provincia di Prato è stata
improntata all’acquisizione di informazioni utili a sviluppare l’indagine
scientifica e si è fondato principalmente sul contatto col territorio e con
272
chi, di questo, ne vive in prima persona le problematiche. Questo
approccio
ha
consentito
di
prendere
contezza,
attraverso
la
partecipazione diretta ad attività di controllo svolte dalle forze di polizia
e degli enti preposti consistiti in accessi e verifiche presso laboratori
tessili di manifattura del pronto moda gestiti da imprenditori cinesi.
Ingresso del laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
Ingresso del laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 che evidenzia l’oscuramento del vetro che isola
gli operai dall’esterno dell’opificio
Il contatto diretto con gli operatori e con i loro coadiutori, quali gli
interpreti e mediatori culturali, ha poi favorito l’impiego dello snowball
273
sampling che ha permesso di raccogliere dati oggettivi e unici nel loro
genere perché attinti direttamente da fonti che, altrimenti, difficilmente si
sarebbero dimostrate proclivi ad avere contatti con persone non
appartenenti alle istituzioni.
Quanto emerge dalle interviste, evidenzia che nel collaborare o
svolgere
la
propria
prestazione
professionale
per
conto
dei
rappresentanti delle istituzioni italiane, i cinesi acquisiscono un ruolo di
alterità rispetto al gruppo sociale di appartenenza che li allontana
perché su di loro cala l’ombra del sospetto tradimento.
Nonostante l’impegno profuso da queste figure professionali sia quello
di comporre e agevolare la comunicazione tra le due comunità/realtà
(asincrone), i loro sforzi costituiscono una grave violazione del guanxi:
una falla nel sistema Cina. Viene immediatamente meno, quindi, quella
forma di fiducia, di solidarismo e di mutuo soccorso che, mantenendo
attivi i legami tradizionali atavici, impermeabilizza e consolida l’autocollocazione cinese in una condizione di alterità rispetto alla comunità
e, quindi, nei confronti della legalità eterodossa e di chiunque non è
han.
[…] quando io sono arrivato a Prato ho impattato questa
situazione molto particolare dell’etnia cinese sotto vari aspetti,
sotto vari profili. Quello che mi ha indotto di buttarmi un
momentino a corpo morto nell’andare ad approfondire questi
aspetti è stata, certamente, la grandissima pressione mediatica;
le grandissime pressioni che venivano dai cittadini, “gruppi
organizzati di cittadini”, che esprimevano le doglianze più
disparate relativamente al tipo di convivenza con la comunità
“cinopopolare”, legata - essenzialmente - a situazioni di disagio
nell’ambito dei quartieri dove l’insediamento dei cinesi è stato più
274
massivo quindi. La così detta Chinatown pratese, ma anche a
ridosso di tutti gli insediamenti produttivi gestiti da cinesi.[…]
206
Di seguito sono riportati degli stralci di interviste a dalle interpreti che
cooperano con le agenzie del territorio e che aiutano a comprendere,
richiamando le loro stesse esperienze di vita e di migrazione (diverse
tra loro), come concretamente sia vissuta la contaminazione di un
cinese che intrattiene rapporti e si relaziona stabilmente con gli
appartenenti alla comunità italiana.
È indicativo che l’interprete detta “ANGELA”, seppure da diversi mesi
collabori con le istituzioni chieda che il suo nome cinese non venga
reso pubblico. Nel descrivere la propria posizione, Angela pone in
evidenza come i suoi connazionali la guardino con sospetto e le
attribuiscano un ruolo di spia o di delatrice.
[…] qualche, qualche, qualche cinese anche incazzato, titolare,
incazzato… […] con me, si… però qualche cinese titolare
arrabbiare anche con noi interprete… perché quando viene
controllo pensare mandare noi. Hai capito?
[…] Si, si… pensavo mandato io. Capito?! Poi operai dipendenti,
qualche dipendente onesta dice vissuto, ho lavorato sei mese…
però titolare solo fare bugia, dice non è lavorato qua allora anche
dice io tratto te male per loro, capito!? 207
L’intervista rilasciata da Angela pone in evidenza come la propensione
a orientare la propria vita diversamente rispetto ai connazionali e il fatto
che abbia accettato, o addirittura promosso, rapporti e relazioni sociali
206 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011, Si veda Appendice 1 intervista n.3.
207 Stralcio dell’intervista all’interprete “Angela”, Prato 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista n.1.
275
con persone che sono al di fuori della ristretta cerchia della comunità
cinese, l’abbia resa invisa agli appartenenti alla Tong.
L’ammissione di una interazione con soggetti esterni pone la donna,
all’atto della registrazione dell’intervista, in uno stato di afflizione palese,
quasi lei per prima si sentisse responsabile di una defezione, di un
tradimento. Di fatto Angela sa di essere incorsa in una violazione a
obblighi non scritti ai quali ogni cinese è vincolato per il solo fatto di
essere parte della comunità.
L’intervista prosegue con il coinvolgimento della seconda interprete
presente all’operazione di polizia. Dopo aver osservato a lungo da
distante la conversazione avvenuta con Angela è la donna stessa ad
avvicinarsi e a iniziare una conversazione. Monica, questo il nome
italiano con il quale si presenta, dapprima interloquisce sulla situazione
in generale e sui controlli che si stanno svolgendo, poi chiede di essere
intervistata e non ha ritrosie nel rivelare il proprio nome cinese: Wu Zen
Mej. Dalle sue parole emerge una posizione parzialmente diversa da
quella di Angela; Wu Zen Mej, infatti, dimostra apertura e la
consapevolezza del ruolo che gioca quale interprete attribuendo alla
propria figura professionale una connotazione di mediazione culturale
tra la comunità autoctona e quella cinese.
Sono MONICA, mio nome cinese è WU ZEN MEJ, io faccio
interprete con Vigili Urbani. Mio ruolo è quando vanno a fare i
controlli interforze nei laboratori, cioè vengo… a fare interprete
per i miei connazionali e praticamente devo chiedere le domande
che mi viene posto dai vari Enti e tradurre da cinese a italiano
per loro, per i vari Enti e poi… e poi praticamente, inizialmente
credevo di essere vista male, no?! Perché faccio questo lavoro,
sembra che sono contro i cinesi. E poi, andando a fare, ho
276
dimostrato cioè, diversamente… riesco anche a fare capire,
però… magari, cioè… davanti me, mi dicono che sembra che
aiuto loro, magari in realtà loro pensano che noi siamo,
comunque, della parte dei.. della Polizia…
208
Resta evidente, comunque, che la posizione di raccordo tra i gruppi
sociali non sia cosa semplice e venga percepita dagli imprenditori
cinesi, dalla comunità in generale, come frattura dell’omertà e della
solidarietà che il guanxi presuppone.
Lo sforzo di Monica è volto a far percepire ai suoi connazionali che le
regole vigenti nello Stato italiano sono diverse da quelle in Cina, ma
che vanno, comunque, rispettate. Da quanto riferisce Monica, emerge
anche che la violazione delle norme da parte degli imprenditori cinesi è
una scelta di strategia economica. La consapevolezza di violare le leggi
è strumentale e funzionale all’aumento dei profitti d’impresa:
[…] Si, cerco di spiegare, però la realtà è difficile cambiare[...]
Secondo me anche loro capiscono, però se mettono tutto in
regola, cioè, non c’è guadagno è difficile continuare il mestiere…
Per questo continuano, cioè anche se viene controllato questo
laboratorio, questi vanno in altri posti e riaprono… magari , cioè,
c’è un continuo… perché i controlli sono già da un po’, no!? I
cinesi, secondo me, quelli che sono stati controllati capiscono
che oramai devono integrare, però è difficile! Certi stanno
iniziando[…]
Wu Zen Mej, nel definire il proprio ruolo di mediatore tra la comunità
cinese e quella autoctona ammette che a confronto ci sono due mondi:
Si, due mondi… perché i cinesi non sono integrati … Un po’
perché è anche la cultura, poi perché se vieni integrato non si
sopravvive! 209 […] Eh, si, loro affittano la casa, mettono tutti in
208 Stralcio dell’intervista all’interprete “Angela”, Prato 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista n.2.
209 Si ritiene significativo che a stigmatizzare l’assenza di volontà all’integrazione non sia un soggetto
appartenente alla comunità locale storica, bensì alla comunità migrante. Il percorso d’integrazione è un
277
regola come italiani no… come, perché “pratesi” tutti i
“confezionisti” italiani hanno chiuso perché non si sopravvive…
se continua così anche… credo che anche loro no ce la fanno
210
[…]
La disponibilità a raccontarsi e la loquacità di Monica sono il segno
della consapevolezza di quanto impegnarsi a essere diversamente
cinesi conferisca ai gruppi sociali coesistenti sul territorio, opportunità
reciproche. Allo stesso tempo, però, non ha timori di denunciare,
confermare e circostanziare, quanto la chiusura della comunità cinese
possa essere strumentale per gli scopi economici e imprenditoriali del
Lao Ban. Di come la diversità delle usanze e la lingua possano divenire
una scelta politica delle imprese etniche che cercano in tutti i modi di
sottrarsi alla rete di controlli da parte degli organismi a ciò devoluti.
Trova, quindi, conferma nelle dichiarazioni della donna, la tesi secondo
la quale le incomprensioni linguistiche tra imprenditori cinesi e autorità
italiane non sono effettive, ma, spesso, sono la scusa per non
ottemperare agli obblighi e sfuggire alle responsabilità derivanti dalla
violazione di questi.
Per Wu Zen Mej il vantaggio economico nei confronti delle imprese
italiane concorrenti risiede essenzialmente nella violazione sistematica
della norma, nello sfruttamento e nell’asservimento dei lavoratori agli
interessi dell’azienda.
processo bilaterale e la mediazione tra culture diverse non può trovare sfogo in una sostanziale
realizzazione qualora manchi la volontà a cooperare e a mettere in sinergia le rispettive risorse in un
progetto comune di sviluppo del territorio che dovrebbe essere visto e percepito come il patrimonio
comune.
210 Stralcio dell’intervista all’interprete Monica, Prato 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista n.2.
278
5. Gli Enti di vigilanza e controllo
L’ipotesi paventata da Monica, cioè che sussista una doppia velocità
nella valutazione e nel controllo delle attività degli opifici, trova riscontro
anche nelle interviste ottenute dai funzionari delle diverse agenzie
territoriali di vigilanza impegnati nei controlli e nelle verifiche ai luoghi di
lavoro che seguono.
L’approccio, il tenore informale e colloquiale con il quale sono stati
avvicinati gli interlocutori e raccolte le interviste, ha consentito una
maggiore apertura da parte dei soggetti coinvolti nella ricerca, dando
così modo a costoro di sviscerare le problematiche e di condividere le
frustrazioni professionali che in quanto pubblici impiegati, essi vivono
nello svolgere il proprio servizio e nel vederlo, talvolta, vanificato.
Seppur evidenziando le difficoltà quotidiane, spesso soverchianti e
penalizzanti, l’obiettivo dei funzionari permane quello di ricondurre,
almeno in linea di massima, alla legalità una metodologia di lavoro, il
modello Cina, che, malgrado si basi sullo sfruttamento dell’essere
umano, non incontra alcuna difficoltà a radicarsi nei territori
d’insediamento delle comunità e a contaminare anche le imprese
virtuose giovandosi, spesso, della solidarietà delle rappresentanze
istituzionali cinesi e della forza che le “Associazioni” etniche esprimono
su di esse. Le Associazioni, si desume da quanto dichiarato da
funzionari degli organi di polizia, ripropongono almeno in parte e in
chiave attuale, l’essenza del vincolo solidaristico consortile già
analizzato durante l’analisi svolta sulle Società segrete: essere parte
del gruppo equivale a essere parte di una “fratellanza che tutela”.
279
[…] Un Consolato, Consolato Generale di Firenze, con cui c’era
una… una difficoltà d’interlocuzione, una sorta un po’ di “muro di
gomma” relativamente all’aspetto immigratorio e quindi il
meccanismo che appariva era quella, era quella… di questa
copiosa comunità che si era insediata e che viveva pressoché
totalmente
al
di
fuori
delle
regole
cioè,
non
avevano
assolutamente assorbito alcun tipo di “regola” e, in maniera più o
meno palese, erano condizionati da, un po’ dai “maggiorenti”
della comunità; dai “loro punti di riferimento” essenzialmente
coagulati nell’ambito delle varie Associazioni. La più forte,
probabilmente, è quella “dell’Amicizia”. E quindi, per il cittadino
cinese l’imprenditore cinese sembrava, che il porsi in quella
maniera, quindi produrre al di fuori di ogni regola di natura fiscale
di spendersi sul territorio accumulando rifiuti dove capitava nella
maniera più… proprio… senza porsi alcun tipo di problema.
Vivere i rapporti nell’ambito delle loro residenze con, con… che
so io… quello che mi è rimasto impresso è il pesce appeso ad
essiccare, piuttosto che i polli accanto alla… al confinante,
davano un quadro effettivamente di una situazione che faceva,
la faceva apparire una sorta di “zona franca”, con una incapacità
di poter portare… cioè, di creare la giusta deterrenza, il giusto
incanalamento
di,
di
questa
comunità.
Quindi,
passaggi
funzionali a una pur lenta e graduale, comprensione e quindi
recupero a quelli che sono i canoni della vita sociale nell’ambito
di una città. E questo mi ha fatto un attimino riflettere su quello
che, obiettivamente, si poteva fare; cioè, che tipo di incroci di
incastri, si potevano fare per creare, per dare, un’immagine,
invece, di uno Stato che esiste, che vuole “spendersi” e che
vuole “recuperare”, magari anche, il “cammino perduto”.[…] 211
L’esigenza di ricondurre alla legalità il territorio, quindi, non perde mai
d’importanza e costituisce l’obiettivo principale delle istituzioni.
Nel corso dell’intervista svolta al dottor Francesco Nannucci, dirigente
la Squadra Mobile della Questura di Prato, si pone in evidenza la
211 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3.
280
grande disinvoltura con la quale alcuni Stati dell’Unione Europea
rilasciano visti e Permessi di soggiorno. È evidente la successiva facilità
con quale, successivamente all’acquisizione del titolo, avvengono le
migrazioni interne tra le comunità cinesi negli Stati comunitari.
Noi a Prato troviamo tanti “regolari” con Permessi di Soggiorno
non rilasciati da noi (inteso dalla Questura di Prato), ma rilasciati
da Questure italiane o autorità estere. Abbiamo cittadini cinesi
con permessi di soggiorno portoghesi, francesi, spagnoli, inglesi
pochissimi, qualcheduno inizia ad esserci con documenti della
Repubblica Ceca, dell’Est Europa, dell’ex Est Europa e questo è
sintomatico del fatto che loro vengono in area Schengen e
entrano in varie zone dell’area Schengen e poi vengono a
lavorare, a stabilizzarsi economicamente a stabilirsi su Prato.
Prato attira molto i cinesi.
212
Il funzionario di polizia, già nelle prime battute dell’intervista, pone
immediatamente l’accento sulla motivazione principale che rende Prato
un centro d’interesse per i cinesi; la città toscana rappresenta, infatti,
per importanza dell’economia etnica e per il numero di presenze, la
seconda Tong europea dopo quella storica di Parigi.
Il numero di imprese cinesi operanti o, comunque, attive nel pratese
che viene riferito è l’ulteriore dato, forse quello che maggiormente dà
contezza della reale situazione economica della comunità e della sua
importanza, proviene dai registri della Camera di Commercio di Prato
[…] Noi abbiamo, a differenza dell’articolo che è uscito oggi, l’ho
fotocopiato, e GlobalTime parla di tremila aziende cinesi, in realtà
noi
Camera
di
Commercio,
ne
abbiamo
quasi
quattromilacinquecento; quindi abbiamo anche una difficoltà nel
fare i controlli. E ripeto, quattromilacinquecento, non tutte sono
212
Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la
Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4.
281
aziende cinesi legate solo al territorio di Prato, ma anche ad altre
realtà nazionali e internazionali perché questi cinesi arrivano
dalla Spagna, arrivano dal Portogallo hanno aziende qua con le
difficoltà che poi ci sono anche per noi qui anche a livello fiscale
di controlli e tutto il resto. Poi la mobilità dei cinesi; troviamo a
volte nelle discoteche dei cinesi, ragazzi, che per esempio, cinesi
partono da Napoli e vengono a ballare una sera a Prato e poi
ritornano a Napoli. Per dirla la semplicità con cui si muovono che
fuoriesce un po’ dai nostri canoni e modi di pensare. Questo
perché lo dico? Lo dico perché il dato dei cinesi a Prato è un dato
difficilmente
quantizzabile,
difficilmente
calcolabile,
difficilmente… è difficile dire quanti sono i cinesi a Prato. Tanti.
Fra regolari, clandestini e tutto il resto tantissimi; Global Times
scrive che sono il 25% della popolazione pratese, penso che sia
una “dato” molto vicino a quello reale.[…] 213
La presenza del numero di cittadini cinesi che vivono stabilmente,
saltuariamente o che hanno, comunque, a vario titolo interessi a
gravitare
nel pratese
non
è,
dunque,
quantificabile.
L’aspetto
interessante che si coglie nell’intervista rilasciata dal dottor F. Nannucci,
discende dall’attenzione con la quale sono stati approfonditi ambiti
d’analisi del fenomeno territoriale d’insediamento cinese.
Il dato dal quale emerge con chiarezza è l’interesse dei migranti a
vivere stabilmente il territorio e si rinviene nella crescente propensione
delle donne a servirsi delle strutture sanitarie per far nascere i propri
figli. Un segno non trascurabile dal quale comprendere che l’intenzione
non è più solo quella di rimanere in Italia per il tempo strettamente
necessario al proprio interesse economico finanziario immediato, ma di
213 Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la
Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4.
282
creare progettualità; un saldo legame con il territorio anche disertando
la medicina tradizionale e affidandosi alle strutture sanitarie locali.
[…] Due anni fa feci un piccolo studio, un’analisi, vidi che
all’ospedale di Prato un bambino su quattro che nasce è cinese.
Un bambino su quattro vuol dire che il 25% dei bambini che
nascono all’ospedale di Prato sono di origine cinese. Non so
quante realtà in Italia ci siano dove in un ospedale nasce il 25% è
straniero dei bambini che nasce, insomma, quindi è un dato che
non va sottovalutato. Quando parlo a volte, mi son trovato in
una scuola, a parlare di “diaspora cinese”, un termine forse
improprio, però la diaspora cinese la vedo come… non come
una diaspora che si studia nelle scuole, siamo abituati… ma
una situazione dove è più una via di mezzo tra una diaspora
e una colonizzazione, cioè abbiamo questi grossi gruppi
cinesi, non so se lei ha fatto… una zona, un viaggio nella nostra
zona cinese, Via Pistoiese questa zona qua, ma è una zona
impressionante; la cartellonistica è tutta in cinese, siamo in
un mondo completamente diverso tipico degli insediamenti
cinesi. Io non parlo mai di Chinatown, perché non è un termine
che mi piace moltissimo, cioè una zona Chinatown in una città
non mi piace, ma parlo di “zone ad alta densità cinese […].214
L’analisi del dirigente di Polizia di Stato è molto obiettiva, interessante
nella misura in cui evidenzia anche la propensione delle istituzioni a
superare gli stereotipi e i pregiudizi che fornirebbero una chiave di
lettura semplicistica e ghettizzante della comunità cinese, ma non si
astiene dal cogliere e valutare i segnali di chiusura e autoreferenzialità,
purtroppo tipici della tradizione Han.
[…] E… in queste zone, l’italiano si sente a disagio è fuori da
ogni luogo, però si percepisce che non è una situazione di un
popolo che arriva; è un popolo che probabilmente viene via
dal suo Paese per tanti motivi, però ha anche l’intelligenza di
214 Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la
Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4.
283
sapersi piantare bene, radicare bene in una certa zona e
215
attirarla alle proprie regole.[…]
L’esistenza del doppio canale, già annunciata da Monica e confermata
dai rapporti di polizia, diversifica le categorie d’impresa cinesi rispetto a
quelle italiane ed è ufficialmente riconosciuta. A tal proposito, di seguito
si riportano anche le interviste rese dai funzionari della Direzione
Provinciale del Lavoro (DPL), dell’Istituto Nazionale contro gli Infortuni
sul Lavoro (INAIL) e dell’Azienda Sanitaria Locale (ASL) di Prato,
raccolte durante un accesso ispettivo a un laboratorio di manifattura
tessile gestito da imprenditori cinesi.
Le interviste alla dott.ssa Costanza Bellini, Ispettore del Lavoro della
Direzione Provinciale del Lavoro di Prato e alla dott.ssa Maria Vittoria
Taverna, funzionario di vigilanza dell’INPS pratese, descrivono un
accesso ispettivo:
Allora, quindi… L’accesso ispettivo consiste, quindi, nell’entrare
in questi locali che vengono chiaramente prima identificati o da
parte della Polizia Municipale oppure da parte della Questura o
dei Carabinieri delle Tenenze varie che possono essere qua…
Montemurlo oppure Prato delle zone della provincia di Prato. Una
volta identificato l’obiettivo viene, chiaramente, fatto un acceso
quindi, preferibilmente tutti insieme perché l’importante è dare la
“fotografia” del momento, proprio nell’entrata quando i lavoratori
”sfruttati” chiaramente, vengono trovati al lavoro, quindi il
“momento fondamentale” è trovare al lavoro, all’impiego, al
lavoro di questa “manodopera” cinese. Tendenzialmente si cerca
di… – compatibilmente con quel che accade – perché, certe
volte, sono chiusi, non aprono, di notte sono, ovviamente, con
lucchetti vari quindi non sempre è facile entrare insieme per
vedere questa ‘fotografia’. Comunque, una volta entrati e ‘messa
215 Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la
Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4.
284
in sicurezza la situazione’, vengono identificate tutte le persone
chiaramente
con
l’interprete
cinese
di
cui
abbiamo
necessariamente bisogno e a quel punto viene poi, vengono
redatti i vari verbali. Tutti per le loro competenze redigono questi
verbali e poi, al seguito dei quali, ci sarà la presentazione di
documentazione presso i vari Uffici che hanno partecipato
all’accesso e, poi, la redazione delle sanzioni, insomma, se ci
216
sono violazione che ovviamente troviamo sempre.
È interessante apprendere come sia stato modificato il lato operativo in
ordine alla comunicazioni delle notizie di reato e per quanto riguarda
l’escussione di eventuali operai.
Allora, è molto difficile riconvocarlo perché se troviamo un
clandestino, normalmente quindi seguono poi le procedure di
Legge e quindi il ‘foto segnalamento’ 217 e tutti i rilievi che
vengono fatti o alle Tenenze dei carabinieri oppure presso le
locali questure. Quindi a quel punto è fondamentale sentirli di
solito durante l’accesso per il fatto che poi, dopo, li “perdiamo”.
Spesso e volentieri vengono “sentiti” dai carabinieri magari anche
alla tenenza se non possono essere “sentiti” sul posto, quindi
vengono escussi.
Dichiarano?
Dichiarano? Si… diciamo che spesso si. Il clandestino, invece
dichiara. Devo dire la verità, forse meno del dipendente assunto
che di solito, invece, tende a ritrattare o comunque a dire l’inizio
del rapporto di lavoro sempre inferiore rispetto anche alla
regolarità che poi presenta. Quindi, se ha cominciato nel 2011 a
gennaio, dice che ha cominciato ad aprile; ecco questo è, anche
se è regolare. È proprio una paura del dipendente.
216
Stralcio intervista ispettore del lavoro Direzione Provinciale del Lavoro di Prato dott.ssa C. Bellini;
funzionario di vigilanza INPS dott.ssa M.V. Taverna. Si veda Appendice 1 intervista n.7.
217 ‘Foto segnalamento’, si tratta di una procedura di identificazione svolta dagli operatori di polizia tesa
ad attribuire una identità certa al soggetto che viene rintracciato. Tale attività può essere svolta per
fini amministrativi, come nel caso della violazione degli obblighi connessi alla posizione di migrante,
oppure per ragioni di polizia giudiziaria, nel qual caso la finalità è di attribuire al soggetto autore di un
reato un’immagine che concorra, insieme al rilevamento delle impronte papillari, ad attribuire
un’identità certa che non consenta errori nell’imputazione di fatti dai quali derivino delle responsabilità
penali a questi connessi.
285
Diciamo che c’è una compartecipazione all’impresa criminale
anche da parte del dipendente?
Sicuramente, si. Forse questo si, si può dire… Si, però il
clandestino io ho notato che parla […]
Interviene il funzionario di Vigilanza dell’INPS, dott.ssa Maria
Vittoria Taverna:
Si, il clandestino parla. Generalmente cosa succede; se ci sono i
carabinieri li sentono loro a sommarie informazioni218 quindi gli fa
‘paura’ la divisa. Se invece non ci sono i carabinieri, li sentiamo
noi dell’INPS perché, non essendo polizia giudiziaria, ma polizia
amministrativa
li
possiamo
ascoltare
senza
la
presenza
dell’avvocato. E quindi, a quel punto, ci raccontano. Parlano!
Quindi vi avvale di questo tipo di attribuzioni per…
Si, per forza! …si cerca di perfezionare il tutto e poi noi dobbiamo
fare il calcolo dei contributi, chiaro. Noi lo possiamo fare solo
successivamente. All’inizio noi raccogliamo le dichiarazioni e
sappiamo quando ha inizio il rapporto di lavoro, dopo di che
viene controllata e confrontata la dichiarazione con quelle che
sono le scritture sui “libri obbligatori”; il “LUL” (Libro unico del
Lavoro)
per esempio. Confrontiamo per vedere se quanto
dichiarato, la data dell’inizio del rapporto dichiarato, è lo stesso
che risulta dal LUL; dopo di che se non corrispondono, facciamo
noi gli “addebiti” relativi.
Tutta l’evasione contributiva?
Si tutta l’evasione contributiva.
Poi, il cinese, ha una “prerogativa”… ad esempio, anche se sono
dipendenti a tempo indeterminato, loro cosa fanno? Loro
dichiarano al massimo una o due giornate di lavoro a settimana e
pochissime ore, anche se noi sappiamo benissimo che lavorano
anche sei giorni alla settimana, se non sette, e addirittura per
oltre dieci ore di lavoro al giorno. Dieci, dodici ore al giorno in
media.
Cioè c’è una evasione contributiva?
Enorme, enorme! Spropositata…
218 Sommarie informazioni testimoniali da parte della polizia giudiziaria, art. 351 codice di procedura
penale.
286
Che è un danno…
È un danno per tutto e poi cosa succede che c’è un enorme
sfruttamento del personale in quanto, poi, al personale non gli
vengono
dati
gli
importi
relativi
all’attività
svolta,
ma
generalmente, dato che vivono, dormono, mangiano all’interno
dei “magazzini”, il datore di lavoro si trattiene una parte dello
stipendio dove (dal quale) si “paga” tutte le spese; e per il
mantenimento “normale” e, eventualmente, se “questi” li hanno
fatti venire dalla Cina. Se sono loro che li han fatti venire dalla
Cina… quindi si trattengono soldi.
Quindi…
Per questo che
non mettono (computano)
le
ore che
effettivamente lavorano; queste persone, ma ne mettono molte di
meno in modo da non pagarci i contributi. Però li fanno lavorare
“un’ira di Dio”. Quindi sono “sfruttati al massimo”. Infatti non
hanno quasi mai i documenti. I documenti gli vengono levati,
soprattutto al clandestino, che agli altri.
Ai clandestini la prima cosa che gli succede, gli viene levato
subito il documento…
I documenti li avete trovati qualche volta a seguito delle
ispezioni?
No, quello dei clandestini, si trovano solo se hanno voglia di farsi
rimpatriare… Allora si fanno trovare con il documento, con il
passaporto, perché almeno così possono essere “presi” e
rimpatriati
in
Cina.
Se
non
vogliono
essere
rimpatriati,
naturalmente, non hanno nessun tipo di documento e poiché il
cinese… chi lo dice che è cinese!? Solo perché ha gli occhi a
mandorla? Non è mica detto, eh!? … Lo sono, eh… eh… ma non
è dimostrato…
Interviene nuovamente la Dott.ssa Costanza Bellini:
Per quanto riguarda le normative sulla sicurezza sul lavoro?
Per quanto riguarda la sicurezza, in questo caso è la ASSL, si,
però in questo caso è la competenza della ASSL… spesso,
anche oggi, in questo caso c’è anche la ASSL che, per quanto
riguarda la sicurezza sui luoghi di lavoro, interviene. La Direzione
Provinciale del Lavoro si occupa dell’edilizia…
287
Voi applicate il Regolamento Comunale?
Si, si, ma in questo caso sono i Vigili, a questo punto sono i Vigili
della Polizia Municipale e non noi… non noi.
In questo caso la Comunicazione di Notizia di reato?
Si però in questo caso, qui a Prato, funziona con i vari “patti” che
ci sono; i vari tavoli che ci sono… dove tutti gli Enti presenziano.
C’è un Verbale Unico 219 , il così detto “Verbale di sequestro
generale” che appunto sta redigendo la Dottoressa della Polizia
Municipale dove dà atto di tutte le operazioni che vengono
compiute ogni volta da tutti i vari funzionari che hanno
partecipato. Quindi, ognuno per la propria competenza, dà atto di
quello che ha fatto e a quel punto il sequestro dell’immobile
perché c’è la “promiscuità” tra… chiaramente il lavoro e il dormire
insomma, come si vede spesso ci sono questi loculo dove si
dorme, si mangia e poi la macchina da cucire sotto, c…
Quante postazioni di lavoro avete trovato oggi?
Eh, oggi mi sembra nella mia… ventitré forse in totale su due
ditte;
quindi
ventitré
macchine
da
cucire
che
vengono
sequestrate e gli vengono messi i sigilli e poi ulteriormente…
Il funzionario di vigilanza dell’INPS, dott.ssa Maria Vittoria
Taverna, aggiunge, poi che i
Lavoratori dichiarati dal titolare nessuno nella nostra; poi, invece,
almeno due siamo riusciti a trovarli, ma senz’altro ne sono molto
di più… l’ideale sarebbe venirci di notte è più probabile che di
notte si trova qualcosa di più. Di giorno, a quest’ora, trovi meno…
Lavorano soprattutto di notte, però gli accessi li facciamo anche
di notte (qui le voci della Taverna e della Bellini si
sovrappongono) e troviamo…
Operate anche in tempo di notte?
Si, si, si
219 Il verbale unico (Verbale di sequestro generale) costituisce uno strumento di sintesi attraverso il quale
avviene la stigmatizzazione delle operazioni svolte dai vari organi di polizia e vigilanza sociale. Un
documento unico con il quale è data comunicazione all’autorità giudiziaria (un pool di magistrati che si
occupa di perseguire reati in materia di lavoro e violazione delle norme sull’urbanistica della Procura
della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Prato) della situazione così come “fotografata” all’atto
dell’intervento, per i successivi adempimenti di Legge.
288
In tempo di notte l’accesso viene fatto con l’Ordinanza del
magistrato?
No, no, no… sempre d’iniziativa da parte dei vigili, della questura
(sotto si sente la Bellini che ripete “di questo tavolo”…) o dei vari
Enti che fanno delle “proposte”… La particolarità delle Ditte
cinesi è il lavoro notturno, qui si lavora sempre di notte; un’altra
particolarità è la continua apertura, la continua apertura e
chiusura di Ditte. Giornalmente in Camera di Commercio
vengono aperte un numero incredibile di ditte e vengono chiuse
perché quando noi facciamo i controlli “dopo poco la ditta cessa
e riapre sotto altro nome”, sotto un altro titolare. Quindi, quando
noi facciamo questi controlli troviamo quasi sempre, poi, le
stesse facce, la stessa gente e così si evita di pagare sanzioni,
verbali.
Vi avvalete di interpreti, di mediatori culturali?
…no, l’INPS non ha interpreti perché pare che non abbia i mezzi
finanziari per procurarci un interprete […]ci avvaliamo degli
interpreti di altri Enti. Ogni volta che usciamo, in base alla
grandezza dell’obiettivo, partecipa uno, due, tre interpreti
dipende, perché si decide preventivamente quali sono le Ditte da
andare a controllare. Quindi si fanno le visure; si sa quante ditte
ci sono all’interno (dei capannoni) e quindi, quando si arriva, si
portano un tot un numero di interpreti adeguati… non sempre,
comunque…
I controlli sono?
…efficaci ed efficienti… non sappiamo quali sono i risultati di
questi controlli; se effettivamente hanno una funzione deterrente
[…]deterrente no, basta vedere quanti continuano a farne… Il
fatto che continuino ad arrivare, vuol dire che non c’è deterrenza
se no, probabilmente, andrebbero in un’altra zona. Il fatto che
qua continuano ad arrivare e noi continuiamo a trovare
clandestini, anzi, ora è un periodo che son di nuovo aumentati i
clandestini, vuol dire che non c’è deterrenza. Perché se ci fosse
deterrenza, eh…
289
Il quadro che emerge del fenomeno dalla narrazione degli Ispettori è
una fotografia dello stato dell’arte tutt’altro che rassicurante. Da queste
parole giunge anche la conferma di una incomunicabilità non solo tra i
gruppi sociali, ma anche tra gli operatori sul territorio e i vertici nazionali
delle Agenzie di controllo.
[…] Quindi, analizzato quello che facevamo, come lo facevamo e
il tipo di risultato che “portavamo a casa” di un’attività comunque
intensa che già veniva svolta, ho pensato di creare questo
d’intesa con il Prefetto con cui c’era un… come dire, una sinergia
totale, tant’è che la riunione, la, la prima riunione, l’abbiamo
proprio fatta in Prefettura ed era una riunione eminentemente
tecnica, sedendoci a un tavolo con tutte le Amministrazioni del
territorio. Abbiamo tentato di fare una ricognizione palese,
interrogandoci, per tentare di capire quale delle Amministrazioni
potesse detenere le procedure di carattere Amministrativo, di
carattere Penale che potessero essere le “più incisive possibili”
per iniziare a fare questa “grossa, forte, affermazione di presenza
dello Stato sul territorio” affinché si potesse, come dire, creare il
giusto rapporto di deterrenza; si potesse comunicare che
l’infrazione non paga, cioè vivere al di fuori delle regole non
paga, perché “lo Stato è in grado di importi” il rispetto delle
regole. E questa ricognizione eh… come dire, è stata utile,
sconcertante per taluni versi, proprio in virtù del fatto che alcune
Amministrazioni, importantissime nell’ambito della… della…
controllo di questi fenomeni, in particolare dei fenomeni di
sfruttamento del lavoro clandestino, di avviamento e di
sfruttamento del lavoro clandestino, vivessero la fenomenologia
non in una logica emergenziale, come – viceversa – i canali forze
polizia e anche i canali, comunque, amministrativi del territorio,
ormai accreditavano, perché la massività della presenza,
effettivamente, toccava aspetti di carattere emergenziale, bensì
come un’attività… “una delle attività” deputate alle competenze di
“quell’Amministrazione”.
290
Le faccio un caso tipico, che forse è stato quello più eclatante…
tipo
la
Direzione
Provinciale
del
Lavoro
che
riceveva
dall’Amministrazione Centrale gli “obiettivi annuali”, cioè gli input
, “sganciati” da un’analisi, vera, di quelle che erano le
fenomenologie del territorio. Perché se, a livello di verifica il
D.P.L. riceveva, che so io, il controllo di benzinai e parrucchieri a
fronte di 4.500 (quattromilacinquecento) aziende cinesi sul
territorio, obiettivamente, qualcosa che non quadrava c’era…
c’era questa distonia, disassamento, a livello di obiettivi.[…] 220
Non
viene
dunque
taciuta
nemmeno
la
consapevolezza
che
l’impermeabilità verso le regole sociali dello Stato che, colpevolmente e
in qualche modo sconnesso dal territorio, consente l’affermarsi della
condizione di auto-emarginazione della comunità cinese. Una scelta, un
atto cosciente e consapevole, la cui utilità è di eludere il reticolo
normativo che, laddove venisse rispettato, non consentirebbe di
realizzare l’extraprofitto necessario a mantenere la posizione dominante
in termini di competitività, nei confronti delle imprese (anche cinesi) che
operano lecitamente.
L’intervista che segue è stata rilasciata da Lorenzo ALPI, tecnico della
prevenzione dell’ASSL n 4 di PRATO - Servizio Prevenzione Igiene e
Sicurezza nei luoghi di lavoro. Si tratta di una descrizione della
situazione che solleva definitivamente il velo sui rischi, spesso ignorati,
ai quali i lavoratori sono esposti quotidianamente. Da questa istantanea
emergono condizioni di vita igienico-sanitarie allarmanti in cui queste
persone vivono e lavorano.
220 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3.
291
Le dichiarazioni spontanee rese dai lavoratori all’atto del loro rintraccio
da parte degli organi di polizia, confermano che non appena questi
prendono coscienza di avere dei diritti, in parte, li esercitano.
Nei nostri interventi con “l’interforze”, normalmente riscontriamo
reati relativi a quelle che sono la normativa, il Decreto Legislativo
81/08, sulla prevenzione infortuni e l’igiene dei luoghi di lavoro.
Sostanzialmente [si sottintende nelle ditte cinesi ispezionate]
manca tutta la documentazione. Quelli, insomma, più contestati.
Manca
tutta
la
documentazione
relativa
al
Servizio
di
Prevenzione e Protezione Interno: alla nomina degli addetti ai
“pronto soccorso” e la Gestione dell’Emergenza; alla nomina del
responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dai Rischi,
nonché, nello specifico, anche reati connessi a quelle che sono
normalmente l’impianto elettrico - che è molto carente - ed alla
pulizia dei locali. In alcune parti abbiamo trovato anche, pur
essendo macchine semplici, sono macchine da cucire, reati
relativi alla “sicurezza delle macchine” in quanto non c’era il
“Carter di protezione” sulla puleggia che trasporta il “moto” dal
motore alla macchina da cucire.
Per quanto riguarda le unità abitative che si trovano all’interno…?
Quelle lì non siamo competenti noi…
Ma è usuale trovarle?
È sempre, sempre a questa maniera; è sempre così. È un dato di
fatto!
Secondo lei qui quante persone trovano lavoro?
Ma qui, ci possono trovare lavoro una, in tutte e due le Ditte, a
secondo, anche una ventina di persone; perché le camere ci
sono e ci sono anche un cospicuo numero di macchine da cucire
e taglia e cuci, comunque…221
221 Stralcio intervista al tecnico della prevenzione dell’ASSL n 4 di PRATO -Servizio Prevenzione Igiene e
Sicurezza nei luoghi di lavoro- Lorenzo ALPI. Si veda Appendice 1 intervista n.8.
292
Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
Laboratorio e suddivisione degli spazi tra le due ditte coesistenti nel capannone
Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
Particolare che evidenzia le condizione di manutenzione di una macchina da cucire
293
Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
Particolare che evidenzia la violazione alla normativa sanitaria sugli impianti elettrici
6. Il “Tavolo Savi”. Strumenti normativi e Nucleo Interforze
Le difficoltà oggettive di eseguire i controlli alle imprese e la diffusa
propensione degli imprenditori a eludere ogni forma di controllo da
parte degli organi preposti, convincono le autorità locali sull’opportunità
di
trasformare
radicalmente
l’approccio
verso
la
problematica,
solitamente attagliato su controlli svolti dai singoli uffici in maniera
isolata e per settori di competenza, promuovendo la cooperazione e la
complementarità tra le specifiche attribuzioni dei soggetti operanti.
Questa procedura dal 2007 diviene prassi con la costituzione di un
Nucleo Interforze, un pool, con a capo alcuni magistrati esperti in reati
ambientali e urbanistici della Procura della Repubblica di Prato, ma che
coordina le attività delle agenzie di sicurezza sul territorio.
294
[…] ho tentato di studiare quella che era la qualità della risposta
che gli “apparati” avevano fornito, cercando di verificare, di
storicizzare, quindi di tornare indietro di due/tre anni facendo una
comparazione dei dati legati ai servizi svolti; che impostazione
era stata data; quali risultati, effettivamente, erano stati raggiunti.
Perché l’impegno nel contrasto, essenzialmente e per quanto
riguarda la Questura ai profili dell’immigrazione clandestina, era
iniziato da tempo. Quindi, una presenza sul territorio a livello di
servizi, anche svolti in termini più o meno congiunti o pianificati,
con altre Forze di Polizia, è un dato che c’era. Quello che poco
veniva analizzato era, effettivamente, il risultato. S’era di fronte a
una sorta di empaces sotto il profilo della “operatività vera” dei
provvedimenti espulsivi che venivano assunti.[…]222
Per consentire l’attuazione della strategia scelta e rendere operativo il
Nucleo, diviene essenziale la predisposizione di un reticolo di norme in
grado di dare operatività alla policy scelta in tema di sicurezza sociale e
a tal fine risulta essenziale la predisposizione e l’approvazione di norme
locali, nonché dei relativi regolamenti attuativi, utili a rendere il più
possibile efficace l’azione svolta in copresenza dai funzionari delle
diverse Agenzie territoriali.
[…] E quindi, dopo aver fatto una ricognizione di dettaglio di tutte
le Norme applicabili per, per ciascun attore che era presente al
“tavolo”,
abbiamo
fatto
una
selezione,
uno
studio,
un
approfondimento e devo dire, in particolare, qui è stata preziosa
la Polizia Municipale perché per quanto riguarda il controllo sulle
attività produttive, che è un po’ il nocciolo duro della situazione e
in questi capannoni come lei, non so se le è capitato di vedere o
di visitarne qualcuno, ma “praticamente si mangia, si dorme e
si… ci sono un po’ di sepolti vivi per qualche anno fin
quando il clandestino non si affranca dagli oneri” che deve
liquidare all’organizzazione che l’ha portato o, in ogni caso,
222 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista 3.
295
“alle
intese
che
ha
assunto
in
madrepatria”
con
l’imprenditore “a cui si è offerto”, è veramente una
situazione che dire “scabrosa” è sicuramente riduttivo
perché
parliamo
di
condizioni
di
vita
assolutamente
allucinanti.
Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
servizio igienico che serve circa cinquanta tra operai e familiari
Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
Alloggio interno all’opificio per operai e familiari
296
Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
Bambino all’interno della cucina improvvisata che serve i dipendenti dell’opificio
E quindi i passaggi che abbiamo fatto di seguito sono stati…
cioè, innanzitutto, come dire, si è realizzata una disponibilità,
un’attenzione; cioè le Amministrazioni
così come sono state
“stimolate” in questo modo, perché poi il mese dopo abbiamo
rifatto una riunione cominciando a lanciare qualche ipotesi di
modifica, di miglioramento, di quelle che potessero essere, che
potesse essere la situazione derivante dall’analisi iniziale e
abbiamo
iniziato
a
lavorare
su
vasta
scala
con
una
programmazione, con una programmazione… importante e,
onestamente, anche molto visibile perché il discorso della
“visibilità dei nostri servizi”, l’abbiamo stimata come “necessaria”
per iniziare a “lanciare questo tipo di messaggio”. Infatti, il mese
di maggio del 2008 è stato un mese di lavoro intensissimo, anche
molto grosso; abbiamo controllato tantissime aziende finanche
con blocchi di aziende e con l’impiego di operatori in maniera
proprio molto visibile, anche con l’aiuto del Ministero che ci ha
mandato rinforzi esterni… e “il fatto che iniziavamo a colpire
interessi precisi” e che “il messaggio fosse passato” è partito
dalle reazioni, “un po’ scomposte”, da parte del Console
297
Generale che nel maggio del… nel maggio del 2008 ha iniziato a
lamentarsi, a dolersi della tipologia dell’intervento, della tipologia
della nostra attività, della… dei numeri impressionanti che
trovavamo; perché, ricordo, probabilmente era, era quella, quella
la prima volta in cui, accedendo in orari notturni in questi
capannoni, trovammo un numero di clandestini assolutamente
sproporzionato. Più di 100 (cento) clandestini, ci ponemmo
finanche il problema di dove collocarli e come fare l’analisi della
loro situazione personale; quindi, attrezzammo, grazie all’aiuto
della Protezione Civile del Comune di Prato, un locale,
addirittura, dedicato allo spettacolo quindi lo attrezzammo con
brandine e affini, proprio per poter poi gestire in termini
cadenzati, poi, i fotosegnalamenti e l’esame della situazione
personale di ciascuno.[…] 223
Il Nucleo Interforze nasce, dunque, con la vocazione a perseguire la
violazione della Legge sull’immigrazione, della normativa posta a tutela
dei lavoratori, dell’igiene e della sicurezza sui luoghi di lavoro, in
combinato disposto con la violazione del regolamento comunale
sull’edilizia adottato dal comune di Prato.
Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3
Particolare che evidenzia la ripartizione in ambienti diversi fatta con l’impiego di “cartongesso”
223 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista 3.
298
Essa costituisce, quindi, un’innovazione procedurale di non poca
significatività. Tale metodo, nella sostanza, non solo si rivela efficace
perché interviene riducendo al massimo gli abusi nei confronti dei
lavoratori, ma pone un argine agli effetti di una politica territoriale che
anziché
perseguire
l’integrazione,
si
era
rivelata
inadeguata
consentendo la strutturazione di un autoisolamento da parte della
maggior
parte
degli
appartenenti
alla
comunità
cinese,
e
il
consolidamento di uno status quo “altro” spesso permeato di
extralegalità e illegalità.
Nell’adozione di tale procedura non c’è nulla di razzista o discriminante
come, invece, sostenuto da alcuni esponenti della comunità cinese che,
per il solo fatto di essere stati sottoposti a verifiche congiunte, si erano
sentiti al centro di una trama persecutoria.
La volontà di non consentire la creazione di zone franche nonché di
ricondurre all’osservanza della norma un settore d’impresa e di
uniformare il trattamento degli esseri umani di fronte al diritto, resta al
centro delle priorità del pool.
L’adozione di strategie concordate tese a disarmare la mano degli
sfruttatori di esseri umani, rientra nel progetto di legalizzazione del
territorio ed è stigmatizzato nell’intervista rilasciata dal comandante
della Polizia Locale di Prato, dott. Andrea Pasquinelli, che si ritiene di
dover riportare integralmente nel testo poiché rilevante per la
dimostrazione della tesi sostenuta in questo lavoro di ricerca. Egli,
infatti, spiega l’iter storico e giuridico attraverso il quale, dalla sanzione
a fronte della violazione di norme contro l’edilizia, si giunge a reperire i
299
lavoratori sfruttati, nonché a garantirne la sicurezza e la dignità di
persone ritenute invisibili -perché clandestini o segregate nei luoghi di
lavoro- che per le condizioni di vita a cui sono costretti, sfuggono alle
tutele che la legge prevede.
Allora, l’organizzazione e la creazione del Nucleo Interforze, o
meglio, il rafforzamento, diciamo, il nuovo assetto del Nucleo è
avvenuto attorno alla metà del 2007, in concomitanza con un
cambiamento, deciso, di rotta da parte della Procura della
Repubblica sulla definizione di “illecito edilizio” che… legato
anche una diversa approccio da parte degli “uffici tecnici” perché
in un primo momento, diciamo, la “violazione edilizia” veniva
considerata “bagatellare”; e pannelli in “cartongesso”, diciamo,
strutture che si potevano facilmente demolire o asportare, quindi
qualcosa di provvisorio e non di definitivo… Ma quando poi il
fenomeno è esploso ci siamo accorti, tutti si sono resi conto, che
non era più possibile affrontarlo con un approccio di quel tipo e
quindi, anche gli Uffici Tecnici hanno cominciato a rivedere
l’atteggiamento, anche perché risultava che finito l’intervento,
demolita la “pannellatura”, la struttura “risorgeva, esattamente
com’era prima nel giro di un mese, un mese e mezzo. Quindi
questo faceva sì che l’approccio che voleva la violazione edilizia
“provvisoria” cominciasse a vacillare. E, dopo di che siamo, ci si
è passati, decisamente, invece a configurare la violazione come
una violazione di tipo “permanente”, quindi ecco l’applicazione
della Norma Penale e quindi, successivamente all’applicazione…
all’applicazione alla Norma Penale, l’applicazione del sequestro
preventivo e in maniera costante. Contemporaneamente si è
cominciato a ragionare sul fatto che era necessario che tutti i
diversi Enti che comunque avevano a che fare, insomma addetti
alla vigilanza e controllo di questo tipo di attività dovevano come
dire, assumere un atteggiamento più “afflittivo”, cioè applicare la
Norma nella maniera più efficace [rigorosa] possibile per evitare
un dispendio di risorse e giri inutili e via dicendo. E quindi
“ripetizioni d’interventi” quando “tutto ritornava come prima”. Che
cosa succedeva!? Che, magari, la Polizia Municipale applicava il
300
sequestro per quanto riguardava l’edilizia e tutti gli “altri” (Enti
intervenuti) si limitavano a dare prescrizioni. In particolare, Vigili
del Fuoco e ASL avevano questo atteggiamento. Con il nuovo
Questore (dott. Domenico SAVI) cominciammo a convocare,
cominciò lui a convocare in Prefettura, quindi in un ambiente,
come dire, “neutro” e, tute le “Forze” che, in gran parte,
“dipendevano dallo Stato”, perché il “DPL” dipende dallo Stato, i
Vigili del Fuoco dipendono dal Ministero dell’Interno… la ASL no,
però, comunque il fatto di essere riuniti in Prefettura dava, come
dire, “maggior peso all’invito” e, con un non facile, con una “non
facile opera di mediazione” di convincimento, di affinamento di
procedure, si è arrivati, anche tramite “un tavolo” che fu costituito
appositamente in Prefettura con lo scopo di analizzare le
procedure e di studiare le prassi più efficaci e più afflittive, che
per altro nel corso del tempo fu superato perché, voglio dire, non
è che le norme si possono produrre continuamente, ci fu una
serie di proposte a livello governativo; qualcuna è stata accolta
più recentemente, qualcuna no e comunque veniva a sovrapporsi
con il “tavolo di coordinamento” che contemporaneamente veniva
fatto in Questura. C’erano due tavoli, uno che analizzava i
risultati dell’azione precedente e studiava “l’obiettivo” successivo,
dopo di che, operativamente, c’era il tavolo di coordinamento in
Questura. Piano, piano questi due tavoli, però, tendevano, come
dire, a diventare – più o meno - la stessa cosa, tanto è vero che
una volta che si arrivò a definire la procedura in maniera
completa, il “tavolo in Prefettura” cessò di avere, di avere… di
tenersi perché non ce n’era, poi, effettivamente più bisogno.
Uno dei risultati del tavolo prefettizio fu, però, lo studio, la messa
a punto, la condivisione di quella “famosa” Ordinanza, ex art. 54,
che cominciammo ad adottare, mi sembra, nei primi del 2009 o
fine 2008, o primi del 2009…
Art. 54 del Testo Unico degli Enti Locali, novellato dalla Legge 92
del 2008 “Primo pacchetto Sicurezza”224.
224 Testo Unico degli Enti Locali, art. 54 - Attribuzioni del sindaco nelle funzioni di competenza statale. 1.Il
sindaco, quale ufficiale del Governo, sovrintende: a) all'emanazione degli atti che gli sono attribuiti
dalla legge e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica; b) allo svolgimento delle
funzioni affidategli dalla legge in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria; c) alla vigilanza
301
Quindi noi, quella Ordinanza che attualmente viene emessa
anche oggi che dichiara “inagibile” e ordina lo sgombero
dell’immobile
e
che
si
sovrappone
o
viene
notificata,
contemporaneamente al dissequestro penale. Quindi, o viene
notificata quando ancore c’è in atto il sequestro penale, o,
comunque, nella fase della notifica del dissequestro in modo che
non ci siano ‘iati’ temporali nel mezzo. Di fatto questi immobili,
dai controlli che abbiamo eseguito, non vengono poi “riportati sul
mercato”; nel senso che, vengono riportati solo quelli i cui
proprietari “si mettono all’anima” di investire soldi per mettere a
su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone il prefetto. 2.Il
sindaco, nell'esercizio delle funzioni di cui al comma 1, concorre ad assicurare anche la cooperazione
della polizia locale con le Forze di polizia statali, nell'ambito delle direttive di coordinamento impartite
dal Ministro dell'interno - Autorità nazionale di pubblica sicurezza. 3.Il sindaco, quale ufficiale del
Governo, sovrintende, altresì, alla tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e agli adempimenti
demandatigli dalle leggi in materia elettorale, di leva militare e di statistica. 4.Il sindaco, quale ufficiale
del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento,
provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono
tempestivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti
necessari alla loro attuazione. 5.Qualora i provvedimenti di cui ai commi 1 e 4 possano comportare
conseguenze sull'ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o limitrofi, il prefetto indice
un'apposita conferenza alla quale prendono parte i sindaci interessati, il presidente della provincia e,
qualora ritenuto opportuno, soggetti pubblici e privati dell'ambito territoriale interessato dall'intervento.
6.In casi di emergenza, connessi con il traffico o con l'inquinamento atmosferico o acustico, ovvero
quando a causa di circostanze straordinarie si verifichino particolari necessità dell'utenza o per motivi di
sicurezza urbana, il sindaco può modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e
dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni
interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, adottando i
provvedimenti di cui al comma 4. 7.Se l'ordinanza adottata ai sensi del comma 4 è rivolta a persone
determinate e queste non ottemperano all'ordine impartito, il sindaco può provvedere d'ufficio a spese
degli interessati, senza pregiudizio dell'azione penale per i reati in cui siano incorsi. 8.Chi sostituisce il
sindaco esercita anche le funzioni di cui al presente articolo. 9.Al fine di assicurare l'attuazione dei
provvedimenti adottati dai sindaci ai sensi del presente articolo, il prefetto, ove le ritenga necessarie,
dispone, fermo restando quanto previsto dal secondo periodo del comma 4, le misure adeguate per
assicurare il concorso delle Forze di polizia. Nell'ambito delle funzioni di cui al presente articolo, il
prefetto può altresì disporre ispezioni per accertare il regolare svolgimento dei compiti affidati, nonché
per l'acquisizione di dati e notizie interessanti altri servizi di carattere generale.10.Nelle materie previste
dai commi 1 e 3, nonché dall'articolo 14, il sindaco, previa comunicazione al prefetto, può delegare
l'esercizio delle funzioni ivi indicate al presidente del consiglio circoscrizionale; ove non siano costituiti
gli organi di decentramento comunale, il sindaco può conferire la delega a un consigliere comunale per
l'esercizio delle funzioni nei quartieri e nelle frazioni. 11.Nelle fattispecie di cui ai commi 1, 3 e 4, anche
nel caso di inerzia del sindaco o del suo delegato nell'esercizio delle funzioni previste dal comma 10, il
prefetto può intervenire con proprio provvedimento. 12.Il Ministro dell'interno può adottare atti di
indirizzo per l'esercizio delle funzioni previste dal presente articolo da parte del sindaco.
302
Norma i capannoni. Perché, la nostra idea era: “Come è possibile
che venga dissequestrato e restituito così com’è, un capannone
al cui interno sono stati effettivamente demoliti i “loculi”, ma dove
dal punto di vista puramente edilizio la violazione non era certo…
cioè costruire loculi, suddividere spazi non è come costruire una
casa abusiva in un parco e quindi è dal punto di vista puramente
edilizio od urbanistico non è che la violazione singola fosse
particolarmente grave ed era un po’ singolare che di fronte a
violazioni, anch’esse penali, come quella sul Decreto Legislativo
81 in materia di Sicurezza sui Luoghi di Lavoro e sulle Norme
Antincendio e in quei casi ci si limitasse a dare “prescrizioni”,
mentre invece la Polizia Municipale operava sulla parte edilizia ripeto, non certamente manifestazione della Violazione più grave
- il Sequestro Penale. E quindi, la conclusione è stata quella di
arrivare ad un sequestro penale che titolasse, cioè che
chiamasse, tutti i Titoli più gravi, in modo che il singolo sequestro
veniva valutato dal singolo magistrato che, per convenzione, poi,
sono stati due magistrati; uno che si interessava maggiormente
di edilizia e l’altro che si occupava maggiormente della sicurezza
sui luoghi di lavoro. E comunque sono diventati dei “punti di
riferimento” unici per questo tipo di fattispecie. E, diciamo, a
questo punto, il Sequestro plurititolato fa sì che i tempi del
dissequestro si allunghino, perché non si restituisce più
l’immobile solo perché “si sono levati di mezzo i loculi”, ma
perché anche sono state eliminate, o comunque si intendo
eliminare anche, tutte quelle altre violazioni; di tipo, appunto,
Norme Antincendio o cos’altro. L’obiettivo finale sarebbe questo.
Comunque, nelle more, c’è anche questa Ordinanza che
s’interpone
nel
mezzo
e
quindi,
comunque…
Perché,
naturalmente il Sequestro Preventivo è più efficace perché c’è
l’iscrizione alla Conservatoria; quindi se il sequestro preventivo
resta in atto per dei mesi e, l’immobile non solo non può venire
utilizzato, ma non può neanche essere venduto e quindi
insomma è sicuramente più, più, come dire... più, più… più grave
come provvedimento. Però, insomma, anche l’Ordinanza del
Sindaco il suo effetto lo fa perché, comunque, costringe il
303
proprietario a investire per risolvere le problematiche che si sono
evidenziate.
225
A seguito dell’applicazione di tale metodologia di contrasto al
fenomeno dello sfruttamento e delle violazioni in materia di disciplina
sulla tutela dei lavoratori nonché all’ingresso operativo sulla scena del
Nucleo Interforze, nel 2008 l’Ambasciata cinese indirizza al Ministero
degli Interni italiano una nota formale di protesta evidenziando come il
“Tavolo Savi”, in sé e per le modalità attuative dei controlli effettuati
attraverso gli accessi, costituisca non solo una forzatura giuridica, ma
persegua intenti discriminatori.
[…] Mentre sotto il profilo tecnico, a livello di approfondimento
procedurale,
abbiamo
iniziato
creando
un
“tavolo”
di
approfondimento prima ristretto, per cui era rappresentata la
Prefettura, la Questura, la Polizia Municipale e la Direzione
Provinciale del Lavoro; proprio per iniziare a lavorare su quelle
che potessero essere le “nuove procedure”, in particolare per
rendere efficaci i provvedimenti di “sequestri”. Di sequestro
preventivo, soprattutto degli impianti, che venivano disposti
anche prima, ma che venivano “restituiti con una liquidazione di
una Sanzione Amministrativa veramente banale” per cui
macchine irregolari che non potevano produrre che non avevano
garanzie sotto il profilo della sicurezza e quant’altro rientravano,
comunque, in possesso dell’imprenditore. Allora ci siamo sforzati
di capire come si potesse agire sfruttando, nel frattempo, anche i
provvedimenti che il Governo aveva licenziato in tema di
“Pacchetto Sicurezza”, quindi, qui parliamo del maggio 2008; il
Decreto che, poi, è stato convertito, se non erro, con la Legge
125 dell’agosto successivo; in particolare la modifica dell’Art. 54
del TUEL e gli “spazi aggiuntivi che potevano appartenere al
Sindaco” per quanto riguarda l’emissione delle sue Ordinanze.
225 Intervista dott. Andrea Pasquinelli, Comandante della Polizia Municipale di Prato (PO), testo integrale
della trascrizione dell’intervista effettuata a Prato il giorno 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista
n.6.
304
E quindi, “ci si è inventati”, si è fatta l’opzione, per rendere
sempre più incisiva questa attività, fermo restando poi il lavoro,
l’itinerario comune, che si è iniziato a svolgere associando alle
nostre attività tutti gli Enti che ritenevamo potessero essere utili
nell’ambito dell’attività sanzionatorie, quindi diciamo ASSL, nella
duplice veste della, della… di responsabilità per quanto riguarda
la Sicurezza sul Lavoro
dell’igiene
pubblica;
e di tutele della, della salubrità e
Direzione
Provinciale
del
Lavoro
ovviamente, il… tutti gli Enti Assicurativi e quindi: INPS, INAIL;
Vigili del Fuco, Polizia Municipale, in maniera tale che l’attività di
sanzione potesse essere contestuale e potesse esplicare il
massimo della sua efficacia. Però, il coronamento a livello
procedurale di questi sforzi è stato proprio l’esame della
possibilità di fare assumere al Sindaco delle “Ordinanze mirate” a
immobilizzare l’immobile togliendogli l’agibilità fino all’intero
ripristino di tutta la situazione. Quindi, morale della favola,
abbiamo iniziato non solo ad agire nei confronti degli impianti
irregolari immobilizzandoli, ma finanche nei confronti delle
strutture. Quindi nei confronti dei capannoni nel cui ambito i
cinesi andavano a lavorare.
Questo ha, ovviamente, suscitato un piccolo vespaio, soprattutto
per quanto riguarda i proprietari dei capannoni che, mediamente,
sono tutti pratesi e, cioè, imprenditori che si sono, che hanno
annusato il “buon affare” di locare ai cinesi magari capannoni
semi diroccati, facendogli… facendogli pagare affitti se non a
pesi d’oro, ma sicuramente sproporzionati rispetto al tipo, al tipo
d’investimento, al tipo di immobile che mettevano loro a
disposizione.[…]226
Come spiegato dal dott. Pasquinelli e dal dott. Savi nell’intervista,
questa strategia d’interventi concorrenti si è rivelata l’unico strumento
per perseguire e scoraggiare il raggiungimento di legittimi fini economici
attraverso l’uso di metodi illegali e rientra -a pieno titolo- nell’attività
226 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3.
305
istituzionale del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica
227
nell’ambito della pianificazione di controllo del territorio su base
provinciale. Il coordinamento di tali servizi, per legge è affidato al
Prefetto.
Un’attività, questa, che incarna la propensione all’efficacia degli sforzi
dello Stato in funzione del raggiungimento di risultati concreti; un
principio al quale la Pubblica Amministrazione si vuole obbedisca.
Concertata tra i diversi attori istituzionali, dovrebbe sempre propendere
227 Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica. La legge 1.4.1981, n. 121 ha attribuito la
responsabilità della tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica al Ministro dell'Interno, al quale è stata
altresì riconosciuta la qualifica di responsabile nazionale di pubblica sicurezza. Alle sue dipendenze è
collocato il complesso di uffici definito come Amministrazione della Pubblica Sicurezza: ne fanno
parte a livello centrale il Dipartimento della Pubblica Sicurezza ed a livello provinciale e locale le
autorità di Pubblica Sicurezza ed il personale che da queste dipende. A livello provinciale la figura del
Prefetto è caratterizzata da un duplice ruolo: egli, infatti, è preposto all'attuazione delle direttive
ministeriali ed al coordinamento delle forze di polizia. Ed è anche responsabile provinciale dell'ordine
e della sicurezza pubblica. In particolare, il Prefetto è all'esterno della struttura gerarchica che fa capo
al Capo della Polizia (e di cui fa parte il Questore) ed è, invece, vincolato gerarchicamente al Ministro.
Il Prefetto predispone, in attuazione delle direttive ministeriali, piani coordinati di controllo del
territorio, che i responsabili delle forze di polizia devono attuare.
Nella formulazione di questi, come
più in generale nell'attuazione dell'attività di coordinamento, il Prefetto si avvale del Comitato
Provinciale per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica, organo consultivo del quale fanno parte il Questore, il
Comandante Provinciale dei Carabinieri ed il Comandante il Gruppo Guardia di Finanza, la cui
composizione, allargabile anche a soggetti esterni all'Amministrazione della pubblica sicurezza,
contribuisce a rendere trasparente la natura della funzione prefettizia.
Il Sindaco, invece, quale
autorità locale di PS, è inquadrato in una posizione di subordinazione funzionale nei riguardi del
Prefetto e del Questore, dai quali può essere chiamato a collaborare negli ambiti di competenza
dell'ente locale per il migliore espletamento della funzione di pubblica sicurezza. La salvaguardia
dell'ordine pubblico va oltre un'attività di tipo repressivo per estendersi fino a ricomprendere ogni
determinazione capace di evitare l'insorgere di conflitti ed il loro degenerare in episodi di turbativa. In
tal modo tutelare l'ordine pubblico significa soprattutto prevenire le cause che potrebbero incrinarlo. In
questo scenario si colloca il ruolo fondamentale del Prefetto al servizio delle istituzioni e del cittadino.
Tutela dell'ordine pubblico, quindi, come prevenzione degli atti collettivi di violenza e di arbitrio, ma
anche come garanzia dell'ordine sociale, dell'armonico sviluppo dei rapporti nel mondo del lavoro,
dell'impresa e della scuola, come quieto svolgimento della vita comunitaria in tutte le sue
manifestazioni d'ordine economico, culturale, volontaristico etc. (FONTE, sito web del Ministero
dell’Interno
http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/ministero/prefetture/il_prefetto/sched
a_15777.html)
306
per avere un maggiore e puntuale controllo delle attività d’impresa ove
si sospetta lo sfruttamento di persone.
L’effettività di tale metodo operativo ha portato al reperimento di molti
lavoratori stranieri –alcuni dei quali illegalmente presenti sul territorio
comunitario
in
condizione
di
sfruttamento
e
segregazione-
e
all’emersione di reati finanziari con episodi di evasione fiscale totale.
Con il sequestro di numerosi immobili e la denuncia dei proprietari per il
favoreggiamento in concorso dello sfruttamento della manodopera
clandestina e per la violazione alla normativa in tema di edilizia, ecco
che sono emerse anche le profittevoli collusioni con taluni pratesi; figure
che dalla presenza dei cinesi in Prato traggono, insieme ai Lao Ban,
altrettanti illeciti profitti.
Il questore Savi, dopo aver riscontrato che i controlli erano spesso
infruttuosi, decise che un cambiamento d’approccio al fenomeno
andava compiuto e propose di intervenire sulla problematica in modo
radicale, spostando l’obiettivo dei controlli dall’attività d’impresa in sé, ai
luoghi ove essa aveva sede.
Le attività ispettive svolte in modo disarticolato e asincrono dai singoli
organi di polizia e dalle agenzie di vigilanza sulla salute e sui posti di
lavoro, più che frenare il fenomeno dello sfruttamento del lavoro e
ridurre la presenza di clandestini, erano divenute esercizi di forza e
avevano assunto una ciclicità assolutamente preventivabile da parte
degli imprenditori etnici che, nell’imminenza delle verifiche e degli
accessi, spostavano velocemente le sedi dei laboratori, facendo trovare
agli operatori del controllo gli opifici vuoti.
307
Di concerto con il Prefetto, la magistratura e gli altri operatori di polizia
(anche sanitaria), seguì programmata l’attivazione di un tavolo di lavoro
comune, al quale affidare lo studio della problematica, presso la
Prefettura Ufficio del Governo. Attraverso l’istituzione dell’organo
interforze venne poi promosso un coordinamento teso al cambiamento
degli obiettivi strategici che dispiegasse la propria efficacia minando i
punti di forza dei Lao Ban che consistevano nella grande disponibilità di
immobili da adattare e convertire ai propri fini economici.
I capannoni, gli scantinati, le soffitte e gli appartamenti in cui trovano
sede i laboratori, infatti, sono usualmente modificati. La costruzione e
l’apposizione di pareti in cartongesso, la realizzazione di soppalchi e di
ogni altra modifica degli spazi interni (eseguita senza alcuna
autorizzazione)
diveniva
dunque
il
mezzo,
l’unico,
per
lo
spossessamento dal bene e l’inibizione di condotte antigiuridiche.
Al Lao Ban, il cui fine di ottimizzare gli spazi e usare i medesimi
ambienti in promiscuità sia per l’attività lavorativa sia per dare vitto e
alloggio ai lavoratori era quello di costringere e sfruttarne il lavoro,
veniva così sottratto un punto di forza.
Tale promiscuità asserve e aliena la persona. Al lavoratore che
dismette se stesso, non è più necessario, dunque, alcun contatto con
ciò che avviene all’esterno del luogo di lavoro, se non in modo
residuale. Ma questa condotta, normalissima in un’impresa cinese in
Cina, oltre a incidere sulla libertà dell’individuo, costituisce la palese
violazione della norma urbanistica all’accertamento della quale
corrisponde, de iure, il sequestro penale degli immobili modificati.
308
Si tratta, dunque, di uno strumento giuridico importante che, se
impiegato con la giusta ratio, consente agli operatori di polizia e agli
ispettori delle varie agenzie, di porre sotto sequestro per abuso edilizio
gli immobili, vanificando, così, gli sforzi strumentali a sottrarsi ai controlli
degli imprenditori cinesi e liberando i lavoratori dal regime di
sfruttamento al quale la loro attività lavorativa è legata.
Se per anni tali formazioni sociali cinesi sono state ignorate,
l’emersione di problematiche afferenti taluni aspetti della vita quotidiana
ha consentito di scoprire che la presenza delle comunità di migranti
cinesi, ha dato origine al progressivo processo di alienazione, allo
spossessamento, di intere aree urbane e industriali sulle quali, una
volta insediatasi la Tong (che definiremo exclave), sono stati tracciati, di
fatto, dei confini definiti. Se ciò non fosse vero non si spiegherebbero le
molteplici ammissioni in tal senso delle istituzioni, nazionali e locali,
dalle quali, comunque, si percepisce chiara la volontà di rispondere a
istanze di sicurezza per ricondurre alla legalità il territorio.
[…] Vivere i rapporti nell’ambito delle loro residenze con, con…
che so io… quello che mi è rimasto impresso è il pesce appeso
ad essiccare, piuttosto che i polli accanto alla… al confinante,
davano un quadro effettivamente di una situazione che faceva,
la faceva apparire una sorta di “zona franca”, con una incapacità
di poter portare… cioè, di creare la giusta deterrenza, il giusto
incanalamento di, di questa comunità.[…] 228
È più che mai vero, occorre che venga recuperato il pieno possesso di
queste aree, dapprima individuandone una corretta definizione sotto
l’aspetto sociologico, e successivamente proponendo una nuova
228 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio
Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3.
309
interpretazione del concetto di “frontiera”, simile a quella nazionale e
politica che si protende verso uno Stato ma, solo, interna.
In questi anni abbiamo infatti assistito alla creazione di un vero e
proprio confine e all’emergere di tutte le problematiche relazionali di
carattere internazionale conseguenti alla costituzione di questa entità
politica. La capacità di farne una frontiera, cioè un territorio di
“meticciato” basato sulla reciproca “contaminazione”, sullo scambio e
conferimento di conoscenze e tradizioni, dipenderà dall’autorevolezza e
dalla capacità diplomatica delle Istituzioni locali e nazionali.
Giungere a questo obiettivo non sarà facile, perché i rappresentanti
della comunità cinese in Italia sono inquadrati e strutturati in una rete
interconnessa di associazioni che replicano degli standard tipici
dell’associazionismo tradizionale e storico cinese: le società segrete. I
referenti di tali strutture sono gli interlocutori degli addetti diplomatici
cinesi in Italia i quali in questa veste hanno il potere, che volentieri
esercitano, di rappresentare solo ciò che appare loro utile.
Un esempio delle conseguenze di questa distorsione dei fatti e della
realtà è, ad esempio, l’azione di travisamento di controlli di polizia o di
atti di normale amministrazione -controllo da parte dell’INAIL o dell’ASL
a un’azienda- come fossero dei veri e propri “atti di discriminazione
razziale persecutoria” nei confronti dei loro connazionali; interpretazione
dolosamente distorta dei fatti, che ha talvolta fatto sfiorare incidenti
diplomatici. Da quanto riferito è comprensibile che circostanze come
queste citate, mettano a repentaglio l’eguaglianza di fronte alla Legge e
la stessa sicurezza sociale.
310
7. “Non vogliamo diventare come Prato!”
Con questa frase che Silvia Pieraccini, economista e giornalista de “Il
Sole 24Ore”, apre l’introduzione del libro: “L’assedio cinese”229. L’opera,
che per puntualità del dato riferito, schiettezza e pragmatismo assume
un valore scientifico d’analisi sociale, coniuga l’elaborazione di dati
economici, che forniscono l’ottimale angolo prospettico dal quale
fotografare “lo stato dell’arte” di un settore d’impresa e di un territorio,
all’aspetto giornalistico-letterario riconducibile più all’inchiesta che alla
cronaca. Una verità critica, l’assedio cinese, alla quale si perviene
attraverso la disamina approfondita delle frizioni e criticità che insistono
tra i Lao Ban e ciò che resta dell’imprenditoria locale autoctona, per
numeri e volume d’affari ormai residuale, frustrata ed in piena
recessione.
Dai primi anni del secolo a oggi, quindi in circa un decennio,
l’imprenditoria locale del territorio di Prato ha subito una trasformazione
epocale perdendo più di 2 miliardi di fatturato, dei quali uno e mezzo
sull’estero, registrando la chiusura di circa tremila aziende con una
perdita di forza lavoro di circa 20.000 unità. Analizzando lo stesso lasso
temporale, a questa flessione è corrisposto, invece, un visibile aumento
degli operatori dell’imprenditoria cinese, in particolare nel settore
dell’abbigliamento. Questo segmento produttivo, infatti, non solo si è
fortificato con l’apertura di 2.000 nuove aziende (che, attualmente, si
calcola siano addirittura più che raddoppiate), ma ha inciso anche
sull’occupazione “a base nazionale ed etnicamente connotata”; una
229 Silvia Pieraccini, “L’Assedio cinese. Il distretto senza regole degli abiti low cost di Prato”. Ed. Gruppo
24ORE, Milano, 2010.
311
operazione, in controtendenza sul dato generale, che ha consentito
4.000 nuove assunzioni di operai cinesi.
La cosa assai strana, però, è che questi numeri non incidano né
sull’export né sul fatturato; secondo le valutazioni effettuate da
Confindustria Prato esaminando i bilanci delle “sino aziende”, non è
stata registrata, infatti, alcuna crescita.
A partire dagli anni duemila l’economia della provincia inizia,
invece, ad avvertire evidenti problemi, tanto che la sua posizione
in termini di valore aggiunto procapite passa dal 14.mo posto del
2001 al 41.mo posto del 2008; anche all’in- terno della regione,
sempre per valore aggiunto procapite Prato, oltre che da Firenze
è superata anche da Pisa, Lucca e Siena. Siamo, quindi, di
fronte ad un arretramento significativo documentato da un
incremento medio annuo del valore aggiunto procapite tra il 2001
ed il 2008 dello 0,8% in termini nominali: peggio di Prato in quegli
anni solo Parma. […] Nello stesso periodo l’economia pratese ha
avuto cadute superiori, determinate soprattutto dalle peggiori
performances sui mercati internazionali: le esportazioni sono
calate del 12,3% portando con sé anche la caduta degli
investimenti e quindi del PIL (che è diminuito dell’8,6%). 230
Sul finire del decennio appena conclusosi, le aziende cinesi contate a
Prato sono poco meno di 4.500, la maggior parte delle quali sono ditte
individuali, un 5% società di persone e il 7% società di capitali. Una
presenza massiccia che ha scalzato, così, il tradizionale primato
milanese, facendo divenire la piccola provincia Toscana il primo polo
d’insediamento cinese. Al secondo posto resta Milano, dove negli anni
Trenta del ‘900 arrivano i primi cinesi, mentre in terza posizione
vediamo Firenze e, infine, Roma con il quartiere Esquilino.
230 Stefano Casini Benvenuti, Prato: il ruolo economico della comunità cinese, IRPET, Firenze 2013 pp.1215.
312
Le cifre sulla base delle quali lavora Silvia Pieraccini sono fornite
dall’Area Studi dell’Unione Industriali di Prato che le ha elaborate su
base di dati forniti dall’ISTAT e dall’Ufficio Studi della Camera di
Commercio. Dette cifre, messe a confronto con quelle rese disponibili
dai Servizi Anagrafici e Demografici dai Comuni della Provincia pratese
richiamano ad un’attenta riflessione.
Lo studio commissionato dalla Provincia di Prato all’Università di
Firenze, fornisce un’analisi generale sulle imprese gestite da immigrati dedicando particolare attenzione alle tipicità di quelle cinesi- dalla quale
emerge che
L’imprenditoria immigrata nelle economie sviluppate è molto
cresciuta negli ultimi decenni, a seguito di cambiamenti
economici, sociali, tecnologici e politico-istituzionali. Questo
fenomeno, sebbene con ritardo rispetto ad altri paesi, ha
interessato anche l’Italia, dove in relativamente pochi anni ha
assunto una dimensione di rilievo, arrivando a rappresentare
circa il 10% di tutte le imprese registrate presso le Camere di
Commercio italiane (Unioncamere 2012). […]Tipicamente, gli
immigrati e quindi le loro imprese non si distribuiscono in modo
uniforme né sul territorio, né fra le attività produttive, bensì si
sono concentrati in particolari località e settori, differenti a
seconda della provenienza degli immigrati. In Italia, le imprese di
immigrati si concentrano nelle attività terziarie quando sono
localizzate nelle grandi aree urbane, viceversa si con- centrano
nelle attività manifatturiere quando sono nei distretti industriali.
Nei distretti italiani, e in particolare nei distretti della moda, le
imprese di immigrati cinesi sono diffuse. […] a Prato i cinesi si
inserirono come subfornitori, non delle imprese tessili, bensì di
quelle di maglieria e delle allora relativamente poche imprese di
confezioni che, a causa delle mutate aspettative di lavoro dei
giovani e delle donne, avevano difficoltà a trovare lavoranti a
domicilio per la cucitura dei capi di abbigliamento. Questa
313
circostanza, unita alla già menzionata disponibilità di spazi
produttivi e al meccanismo delle catene migratorie tipico di
questo gruppo di migranti (Tassinari 1994, p. 116), fece sì che in
poco
tempo
i
laboratori
di
cinesi
si
moltiplicassero
e
l’immigrazione cinese a Prato divenisse un fenomeno vistoso.
Dopo solo alcuni anni dall’arrivo dei primi cinesi, i residenti nel
comune di Prato nati in Cina, nel 1994 erano già quasi 2.000 e le
loro imprese iscritte alla locale Camera di Commercio quasi 300.
È allora che per acquisire le conoscenze necessarie per far
fronte ad un flusso migratorio così consistente e relativo a una
popolazione con una lingua e una cultura così diverse da quelle
locali, gli Amministratori di Prato istituirono presso l’Assessorato
alle Politiche Sociali del Comune il Centro Ricerche e Servizi per
l’Immigrazione. Questo Centro, oltre a fornire servizi, aveva
l’obiettivo di svolgere attività di ricerca sugli immigrati cinesi e sul
loro
inserimento
lavorativo.
Così,
per
iniziativa
dell’Amministrazione comunale vennero svolte le prime indagini
sui cinesi a Prato i cui principali risultati vennero diffusi attraverso
convegni e pubblicazioni (Rastrelli 2001; Ceccagno 2001, 2003,
2004).231
Vista l’evidenza del fenomeno, verrebbe da pensare che non si tratti di
“numeri sconosciuti”, ma, piuttosto, di cifre che potremmo dire essere
state ignorate.
Nelle Tabelle che seguono, sono riportati i dati relativi alle variazioni
demografiche dalle quale desumere l’andamento della comunità sinopopolare e pubblicati sul sito del Comune di Prato, riferiti al periodo
2005-2013. L’Ente locale pone l’accento sulla presenza e l’andamento
in crescita della comunità dei residenti cinesi.
Va, di modo, tenuto presente che la presenza di persone non
legalmente immigrate rende il dato assolutamente aleatorio.
231 S. Casini Benvenuti, Prato: il ruolo economico della comunità cinese, IRPET, Firenze 2013, p. 21.
314
Popolazione totale, Stranieri e Cinesi dal 2005 al 2013
40.000
totale stranieri
cinesi
30.000
20.000
10.000
0
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
Tabella 2
% stranieri su pop. totale, % Cinesi su pop. straniera e su pop. totale
50,0
45,0
40,0
35,0
% stranieri su pop. Totale
30,0
% Cinesi su pop. Straniera
25,0
% Cinesi su pop. Totale
20,0
15,0
10,0
5,0
0,0
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
Tabella 3
Popolazione straniera per cittadinanza dal 2005 al 2013
17.500
15.000
12.500
Cinesi
10.000
Albanesi
Romeni
7.500
Pakistani
Marocchini
5.000
Altri stranieri
2.500
0
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
Anni
Tabella 4
315
Cinesi residenti al 31/12/2013 per luogo di nascita e fasce di età
12.000
10.000
8.000
6.000
4.000
2.000
0
Nati a Prato
Nati in Italia
Nati all'Estero
Minorenni
Totale
Adulti
Tabella 5
Nuclei familiari con capofamiglia CINESE
per numero componenti (val. %)
oltre 6
6,48%
6
7,09%
1
19,41%
4
20,27%
2
16,82%
3
17,73%
5
12,20%
Tabella 6
Il quesito sul quale interrogarci riguarda, quindi, il come si sia potuti
giungere ad una così massiccia penetrazione del quotidiano e
dell’impresa da parte della comunità migrante. Si tratta quindi di
un’operazione strategica che si presenta in tutta la sua efficacia e
richiama la filosofia e le tecniche di guerra stigmatizzate nell’omonimo
manuale che Sun Tzu mise a punto per il suo imperatore circa 3000
anni fa. Una silente penetrazione alla quale, di converso, è corrisposta
di fatto la progressiva e rassegnata “dismissione” del legame che i
316
pratesi avevano dimostrato di avere col territorio e col sentimento che
avrebbe dovuto stimolarli a farne il centro d’interesse di una ripresa
economica.
Quella cinese è stata un’operazione coloniale in piena regola partita da
lontano, ha richiesto sicuramente del tempo, innanzitutto un periodo di
sommesso e costante radicamento su un’area territoriale previamente
definita e identificata come idonea all’infiltrazione da parte
della
comunità etnica. Un’entità sociale che si scoprirà essere un organismo
monolitico, solidale e plurisoggettivo i cui contorni risultano indefiniti e
indefinibili dal lato delle strutture, ma assolutamente segnati quando si
tratta di estromettervi gli stranieri autoctoni.
La classe operaia cinese (A. Dal Lago), inserita come mano d’opera a
basso costo nelle imprese del tessile gestite da imprenditori pratesi, ha
risalito la china sino ad assicurarsi la competenza professionale
necessaria per giungere alla posizione gestionale con competenze non
solo tecniche, ma con i giusti contatti per rendersi autonoma in tutte le
fasi del ciclo produttivo e della distribuzione delle merci.
Ci si è trovati quindi di fronte a una “congiuntura astrale quasi
irripetibile”, così la definisce Silvia Pieraccini, in cui il fattore tempo ha
giocato un ruolo fondamentale e ha consentito all’economia orientale di
sferrare il colpo ferale alle vestigia di quella autoctona e morente. Una
imprenditoria, quella pratese, abituata un tempo a vincere ovunque per
il solo fatto di essere italiana, e ora stretta alle corde dall’avanzata
impetuosa delle aziende di abbigliamento orientali e dalla cura
dimagrante delle storiche imprese di tessuti e filati, pressate dalla
317
concorrenza internazionale esplosa con l’apertura delle frontiere, e
obbligata a riposizionare prodotti e mercati.232; un’imprenditoria che non
dà ancora cenni di potersi riprendere.
La presenza massiccia dei cinesi non consente molti margini di
manovra; non si può pensare di competere con loro in quanto alla
capacità di lavorare in condizioni igienico sanitarie malsane e con ritmi
che per un qualsiasi operaio occidentale sarebbero assolutamente
inaccettabili. A essere determinante è, come s’è avuto modo di
constatare sopra, il fattore numerico.
A Prato, in particolare, l’immigrazione cinese ha assunto caratteri
eccezionali per l’impatto sulla città – che conta 187.000 abitanti e
circa 50.000 orientali, di cui meno di 20.000 regolari – e
sull’economia locale, fondata sul manifatturiero.233
L’effettiva presenza cinese non è stata ancora censita precisamente e
ciò grazie alla presenza di un numero di immigrati illegali; il computo e
la
“tracciabilità”
dei
quali
è
ancora
lontano
da
una
reale
approssimazione in quanto è il territorio stesso in cui si sono insediati a
renderli invisibili. Un territorio la cui espropriazione di fatto è un dato.
Un’analisi generale del fenomeno, comunque, deve tenere conto
dell’incidenza rilevante che in Toscana, e a Prato in particolar modo,
ebbe la prima ondata migratoria che giunse dalla Cina, gradita e
auspicata, nella prima metà degli anni ’80 dello scorso secolo.
In quel periodo, la realtà imprenditoriale del tessile in Emilia, in Toscana
e in Lombardia, che costituiva un settore di punta dell’economia in
232 S. Pieraccini, L’assedio cinese. Il distretto senza regole degli abiti low cost di Prato, Ed. Gruppo
24ORE, Milano, 2010.
233 Ibidem
318
quelle Regioni e ancor più una voce di rilievo delle esportazioni italiane,
subisce,
consapevolmente,
la
progressiva
penetrazione
cinese
attraverso assunzioni e impiego di mano d’opera clandestina, così da
far compiere all’economia i primi passi di una trasformazione
sostanziale.
8. Il “pronto moda” e l’affaire migrazione
Il Made in Italy, grazie anche al contributo di questi atipici lavoratori,
sembrava lanciato in una crescita esponenziale che sarebbe dovuta
proseguire,
senza
trovare
concorrenti
all’altezza
di
coniugare
economicità e qualità nell’industria del “pronto moda”. Il distretto del
tessile si sentiva inattaccabile, assestato su una posizione di rilevante
preminenza tra i settori economici dell’esportazione, perché sinonimo di
garanzia e di qualità. La prospettiva che si presentava agli imprenditori
del settore era, quindi, florida e non lasciava presagire grossi
mutamenti di sistema.
La distribuzione all’ingrosso, lanciata verso l’apertura a nuovi mercati
esteri sempre più vasti, richiedeva di occupare più manodopera di
quanta fosse possibile reperire sul territorio. Qualcosa stavano mutando
rapidamente e proprio questi silenti operai sarebbero stati i promotori di
tali mutamenti.
L’evidenza dei fatti svelò che i cinesi non erano affatto sprovveduti o
incapaci di gestirsi in autonomia, ma avevano studiato e compreso la
debolezza di un sistema imprenditoriale.
319
La migrazione è organizzata su aree di territorio prestabilite. È stata, e
a tutt’oggi rimane, un’operazione tanto complessa quanto articolata
che, come si diceva sopra, richiede da parte di chi organizza i flussi
migratori all’interno della comunità, una conoscenza completa e
approfondita dei territori. La casualità non fa parte della mentalità e
della filosofia di vita di cui questo popolo è permeato e nella quale ha
dimostrato, nel corso della sua storia, di sapersi muovere. Al contrario,
in esso si riscontra la predisposizione al calcolo e alla pianificazione,
enfatizzate, ancor più, dalla filosofia dei Figli dell’Impero Celeste sin dal
tempo degli imperatori, poi dalla politica repubblicana e, infine, del
regime maoista. Una forza interiore, quella cui possono attingere,
straordinaria, che porta a non avere incertezze sulla propria persona e
a identificarsi, come singolo, col “fine collettivo”. Una invidiabile
consapevolezza d’essere, ovunque e comunque, Il Popolo, cioè una
comunità che, se vuole sopravvivere, deve crescere. L’attitudine alla
sopportazione e le molteplici forme d’obbedienza, testimoniate dalla
camaleontica capacità
d’adattamento sia al territorio, che al
cambiamento politico, non sono sufficienti a mutarne l’identità e l’anima.
Nel XVII secolo un detto cinese attribuito a Confucio recitava: “Se i
contadini sono contenti, l’impero è stabile”. La rivoluzione maoista
ebbe, tra le altre, la responsabilità di non aver saputo cogliere appieno il
significato e la saggezza intrinseca di un tale insegnamento confuciano.
Nella fretta di mescolare o rimuovere ogni traccia del “passato
reazionario”
Mao
Zedong
trascurò
di
considerare
un
valore:
l’attaccamento alla terra e alla tradizione del suo popolo che, avvezzo a
320
difendersi da chiunque dando l’impressione di piegarsi ad ogni abuso
degli Uomini superiori, in realtà sapeva essere la personalizzazione del
Resistente, un guerrigliero imprendibile che difendeva la propria
socialità.
Il sogno di tutti i contadini era quello di possedere la terra su cui
lavoravano. I comunisti promisero loro proprio questo e […] i
figli dei braccianti senza terra andarono a combattere
nell’Armata Rossa di Mao”. […] I contadini erano soddisfatti ed i
comunisti
lentamente
introdussero
il
concetto
di
collettivizzazione. Prima vennero le cooperative, poi, nel 1958,
le Comuni Popolari. […] La Comune possedeva tutto […].
Staccato così dalla sua terra il contadino si ritrovò a essere
come un operaio di una grande impresa (ogni Comune era fatta
di 30 – 50.000 persone) oggi chiamato a zappare un campo e
domani spedito a tagliar legna o a costruire una diga. Non
c’erano stipendi, e ogni persona veniva pagata in base all’opera
compiuta dall’intera unità di lavoro. Una parte di questa paga
era rappresentata dalle <<sette garanzie>>: cibo, vestiti,
assistenza medica, educazione, casa, maternità, spese per
matrimoni e funerali. Una parte era costituita dai buoni-lavoro,
che potevano venire spesi soltanto negli spacci della Comune.
Il denaro era praticamente eliminato.234
In questo frangente, l’occidente non si è dimostrato meno colpevole e,
distratto com’era dagli strabilianti profitti del “miracolo economico”, ha
trascurato i “sogni infranti” di ottocento milioni di contadini cinesi in
fibrillazione.
Quale che sia la causa oggi rileva poco (intelligence insufficiente,
sottovalutazione del potenziale riconducibile al “continente Cina”, non
rileva) e non si sa se vi sia stato “un errore” di previsione, ma si sa che i
234 Tiziano Terzani, La porta proibita, Ed TEA, 1984, Milano p.114.
321
contadini cinesi attinsero alla silente forza nella quale si erano sempre
riconosciuti e dalla quale erano stati protetti: le società segrete.
La rivincita su un terreno, quello dell’emigrazione favorito dalla Triade,
che inconsapevolmente li avrebbe riaggiogati al potere statale.
9. Le Società segrete nell’era della globalizzazione
Le Società Segrete, infinite nel numero e inserite in ogni ganglio
sociale, si dimostrano attente alla situazione generale cercando –
principalmente - la via per riaffermare il proprio ruolo di collettore
occulto di ogni desiderio del “popolo basso”.
Silenti e radicate, queste consorterie hanno immediatamente cercato di
rinsaldare il proprio potere, sensibilmente compromessosi con l’avvento
del comunismo, scegliendo di operare allo stesso tempo sui due fronti
possibili, il primo teso a scrutare l’estero per cogliervi l’occasione di
“sollevare i contadini” dalla condizione d’insoddisfazione in cui
versavano in patria collocandoli altrove; il secondo, rivolto verso
Pechino, dove lo Stato centrale comunista si scopriva in serie difficoltà
nella gestione della crescente frizione sociale già sfociata nelle
dimostrazioni di piazza Tienanmen che Pechino continua ancora oggi a
definire eufemisticamente “l’incidente di Tienanmen”.
Uno Stato nei confronti del quale Hong Mon, la principale e risalente tra
le Società Segrete, non si è mai posta come interlocutore “secondo”,
ma come un’entità alternativa e de facto legittimata dalla storia, tanto da
poter interloquire alla pari con esso.
322
Una cineseria verrebbe da dire, ma tutto rimane nella logica suntzuista
dell’illogicità apparente.
L’efficacia e la peculiarità con cui sono state predisposte e attuate le
strategie d’insediamento in territori esteri, nonché la conseguente
penetrazione
un’operazione
degli
stessi,
“militare”
hanno
assunto
d’accerchiamento,
l’aspetto
tipico
soprattutto
di
degli
insediamenti produttivi che diventeranno delle immense “lavanderie di
danaro”, e di penetrazione affatto improvvisata, frutto, invece, di un
lavoro svolto da undercover 235 - i silenti operai degli anni ’80 – e
coniugato all’autoreferenzialità endemica di una diaspora tentacolare
etnocentrica da sempre in movimento.
Superata l’apparenza delle coreografiche manifestazioni esteriori di
tradizioni e ritualità (che a molti farebbe gioco credere l’unico aspetto
delle comunità cinesi), la Tong sfoga la malinconia dell’emigrante
promuovendo repliche sistemiche di una Cina (delle molteplici Cina in
essa coesistenti) che, seppur lontana e incompatibile con l’organismo
sociale di cui diviene “l’ospite”, trova la sua concretezza nella creazione
di una società artificiale, coerente e contigua con quella lasciata in
patria.
10. Il Teorema della scelta territoriale
Il testo sull’intelligence cinese di R. Faligot svela che l’area prescelta
per l’insediamento della comunità cinese è dunque il prodotto di
un’attività di intelligence. Il territorio, monitorato preventivamente con
235 Undercover, vocabolo inglese di uso tecnico nell’intelligence che sta a indicare l’agente che agisce
sotto copertura, ossia sotto mentite spoglie.
323
grande attenzione, infatti, deve corrispondere a dei “canoni inversi”;
criteri opposti rispetto a quelli che, normalmente, muoverebbero un
imprenditore a effettuare degli investimenti, cioè quelli orientati ad
assecondare le leggi del mercato.
La penetrazione economica passa, quindi, attraverso l’acquisizione di
informazioni afferenti l’andamento di un determinato mercato su un
territorio e se il dato ottenuto rivela una criticità ecco che viene operata
la scelta di acquisizione dell’impresa che manifesta scarsa produttività e
segnali di crisi. L’insediamento avviene, infatti, laddove le attività
economiche, l’impresa locale più in generale, dimostrano inequivocabili
segnali di cedimento prodromici a una successiva, più grave e
irreversibile, crisi che convincerà l’imprenditore autoctono a cessare
ogni attività onde evitare il fallimento. Un indicatore cui spesso non si
pensa.
Il primo passo è, dunque, l’osservazione e lo studio del campo di
battaglia (Sun Tzu docet) sulla base del quale si analizzano le
potenzialità del nemico (non trascurando quali opportunità offra a lui il
terreno su cui avverrà lo scontro); il passo successivo è quello, se
valutato conveniente, dell’ingaggio delle ostilità: la penetrazione.
In questo caso, però, raramente l’input proviene da parte di un
imprenditore etnico singolo o di una società ma, attraverso questi,
direttamente dal crimine organizzato il cui interesse internazionale è
individuare continue e nuove “lavatrici” per gli ingenti capitali liquidi da
“ripulire”. Quanto di più semplice, perché la quantità di denaro liquido di
cui dispongono queste entità criminali è difficilmente stimabile tanto
324
quanto lo è il volume dei traffici dei quali la criminalità organizzata
cinese è gestore in tutto il mondo.
Se il popolo dell’Impero di Mezzo ha attraversato i millenni rimanendo
essenzialmente se stesso, è proprio perché ha compreso che l’abilità
risiede nel lasciare che le opportunità si manifestino e coglierle al
momento opportuno: mai cercare di modificare gli eventi o diventarne
gli artefici.
I precetti che seguono costituiscono una sintesi di cosa è la Cina di oggi
e sono la visione che Deng Xiaoping aveva del processo di
ammodernamento del suo popolo.
236
I sette precetti fondamentali di Deng Xiaoping
Il piccolo Timoniere, artefice della seconda Rivoluzione lascia, dunque
[…] una sorta di testamento che consiste in sette precetti
fondamentali (e in 24 ideogrammi) per permettere all’Impero di
Mezzo di sollevarsi e ripartire alla conquista. […] Inoltre c’è un
riferimento implicito ai grandi classici della dissimulazione e della
manipolazione, che si trova nel 13° capitolo de ‘L’ arte della
guerra’ di Sun Tzu o ne ‘I trentasei stratagemmi’, altro testo
antico che ha regolato l‘arte della guerra clandestina e della
236 Tabella tratta da: R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al
mondo, Newton Compton Editori, Roma, 2011, pp.159-160.
325
diplomazia segreta attraverso i secoli e che conosce una ripresa
237
con i servizi segreti della nuova Cina.
La maggiore di queste opportunità, almeno per quanto riguarda il
campo imprenditoriale, s’è proposta con la crisi degli anni Novanta e dei
primi anni del nuovo Millennio, che ha portato all’Occidente estremo
una riduzione drastica dei guadagni.
Per la Triade, ma non solo, quello è stato il segnale. Si è trattato solo di
saper aspettare che gli antenati dimostrassero, per l’ennesima volta, di
aver ragione.
Agganciare gli imprenditori in difficoltà e fare loro un’offerta di denaro
tale da non consentire un rifiuto è stato sin troppo semplice.
Ma per gli imprenditori, essere sollevati dall’imminente fallimento con
denaro contante, può essere la spinta motivazionale sufficiente a
deporre sul campo armi e fuggire? Si, per noi occidentali sicuramente
si. Un cinese, però, non lo avrebbe mai fatto! Un cinese avrebbe
reagito, si sarebbe rivolto alla Tong che, solidalmente, avrebbe operato
in nome del guanxi attraverso l’elargizione di prestiti in denaro o col
conferimento di lavoro, a titolo gratuito, per soccorrere il “fratello” in
difficoltà. Ma non siamo cinesi e un tanto è bastato ai proprietari delle
imprese per sgravarsi del problema mettendo in atto attraverso una
precipitosa fuga con l’affittanza degli opifici o, addirittura, la cessione
frettolosa di quella che, divenuta un’attività in perdita, piuttosto che un
mezzo di sostentamento e di guadagno, paventava di divenire una
gogna giudiziaria.
237 R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton
Editori, Roma, 2011, p.159-160.
326
Per le avanguardie cinesi che più di un decennio prima erano arrivate in
Italia a farsi sfruttare è stata l’occasione, di invertire la rotta.
L’impresa acquisita dal sodalizio criminale, come riporta il saggio di S.
Pieraccini, viene intestata o a una persona fisica, di norma un
prestanome, oppure a una società pulita, ma questi sono dettagli che,
per l’imprenditore cinese e per chi gli copre le spalle, non hanno
rilevanza: il più è fatto e il nome dell’intestatario è solo inchiostro sulla
carta.
La città di Prato degli anni Ottanta, può essere indicata come il primo
insediamento industriale e commerciale a conduzione totalmente
cinese e, quindi, l’inizio della metastasi dell’imprenditoria locale.
Da lì partirono e ancora si dipartono i tentacoli, sottilissimi ma resistenti,
della rete inter-familiare che dall’occupazione del territorio circostante,
con acuta e silente lentezza, è riuscita a penetrare il quotidiano senza
destare sospetto alcuno.
Secondo l’antico adagio per cui il piccolo cinese ha attraversato la
grande Cina un passo alla volta. Con l’insediamento di piccole attività
commerciali gestite da famiglie referenti si assiste a questo nuovo
viaggio, il progressivo spossessamento del territorio che, sottratto alla
Legge e alla disponibilità di chi ne aveva il controllo, diviene, sic et
simpliciter, una zona franca extraterritoriale.
Il popolo che abita la Cina in Italia, di fatto sottrattosi all’imperio, ha
assunto le tipicità e le abitudini del consumatore occidentale senza però
attribuire al denaro lo stesso valore, che per lui rimane assolutamente
relativo.
327
Il ruolo della persona nella società di cui è l’espressione non conosce
prezzo e non è quantificabile. Il cinese, avido di denaro per divertirsi, si
rivela altrimenti incorruttibile e malgrado la diffusa prostituzione e le
sale da gioco clandestine possano indurre a pensare l’opposto, la sua
anima non si compra.
La penetrazione non è stata quindi solo un problema. Dato che la
vendita dei beni immobili ha costituito, per il cedente, un vero, ma
apparente, affare posto che il prezzo corrispostogli per la cessione ha
potuto superare anche del triplo il valore nominale del bene o
dell’impresa.
In ordine a tale fenomeno e per quello che le indagini svolte dagli organi
di polizia hanno consentito di acclarare, tutto è avvenuto e tutt’ora
avviene, con il versamento della quasi totalità dell’importo pattuito,
detratto quello che serve a tacitare eventuali sospetti del fisco italiano,
in denaro contante ed al di fuori di ogni forma contrattuale.
11. La reinterpretazione cinese del concetto di “reciprocità”
Visto l’interessamento che le rappresentanze diplomatiche cinesi hanno
manifestato e le rimostranze opposte alle operazioni di polizia
amministrativa, tributaria e giudiziaria condotte nei confronti di operatori
economici sedenti nei distretti ad alta densità cinese, Hong Mon238 e il
governo della Repubblica Popolare Cinese talvolta sembrano operare
solidalmente e sinergicamente con un’unica strategia: spostare in
238 Hong Mon o Lega di Hong o Famiglia di Hong: antica Loggia che, fondata nel monastero di Shaolin
istruì per secoli i monaci guerrieri che animarono la lotta contro i Ming e di cui i moderni seguaci delle
Triadi, millantano d’essere gli eredi.
328
l’Occidente la risoluzione di problematiche che in patria hanno avuto,
nel corso dei secoli, i tratti distintivi di vere e proprie guerre tra stati.
Ortodossia e eterodossia delle società segrete a confronto. Verso
l’Italia, in particolare, l’assetto attuale fa presupporre che sia in atto una
vera e propria delocalizzazione di tali problematiche e qui trovano il
modo di coesistere .
Come ci suggerisce la ragguardevole letteratura che in questi ultimi
anni ha proliferato nel tentativo di fornire sempre maggiori angoli
prospettici –più o meno referenziati o scientificamente validi- dai quali
poter studiare i fenomeni economici cinesi in Europa, la classe operaia
della Cina popolare si è sempre distinta per essere stata organizzata in
modo gerarchico ed eterogeneo. Un modello standard che resiste
senza alcuna possibilità di porre in discussione l’assetto e la congruità
con cui il Lao Ban decide di sfruttarla. Anzi è l’operaio che, convenendo
sull’opportunità di rendere, cioè a dire di fornire il massimo rendimento
per il profitto della propria struttura produttiva, malgrado la sussistenza
di condizioni di vita e lavoro proibitive, si pone scientemente nella
disponibilità possessoria del datore di lavoro.
La Cina è ancora un paese povero. Se dovessimo vivere come
tutti gli altri, non saremmo in grado di svolgere il nostro lavoro.239
Questa frase porta in sé la condanna e l’assoluzione di un sistema
politico ed economico ed è la frase che un funzionario del partito di
Stato consegna a Tiziano Terzani, per spiegare l’abitudine al lavoro dei
cinesi.
239 Tiziano Terzani, La porta proibita, Ed TEA, Milano, 1984, p. 62.
329
Una vocazione basata prima di tutto sull’intimo convincimento del
lavoratore che l’asservimento, l’autosfruttamento, siano l’unico modo di
operare nel e per il sistema, e sull’indotta – ma ritenuta innata attitudine a propendere, in modo pedissequo, per i desiderata di chi “sta
sopra di lui” e che, perché sovraordinato, ha il dovere, oltre che il diritto,
di decidere cosa sia “il meglio” per la collettività.
Alla resa dei conti, quindi, che sia lo Stato o il partito comunista nelle
sue molteplici e multiformi organizzazioni del lavoro collettivo (unità di
base; brigata agricola, etc.), o l’organizzazione segreta e criminale (da
noi ritenuta tale per i metodi con cui opera e dei quali si avvale) a
curare l’introduzione e lo sfruttamento del soggetto trafficato, poco
importa; nella sostanza rinveniamo che esiste una ferrea linea
gerarchica alla quale “è dovuta obbedienza”.
L’attuale
conoscenza
delle
tradizioni
di
un
continente/sistema-
economico e lo studio delle condizioni in cui i lavoratori cinesi sono
collocati nelle imprese in mano ai connazionali in Italia, sembra non
servano più a modificare lo stato dell’arte. Ancorché le autorità italiane
si sforzino (come testimoniato dai dati della Questura di Reggio Emilia e
di Prato) ed effettuino controlli e accertamenti volti a verificare il rispetto
della Norma in materia di lavoro, sicurezza ed igiene nei posti di lavoro
o, ancora, sulle condizioni di vita negli stabuli messi a disposizione dei
lavoratori è emerso che per i cinesi non cambia nulla.
330
12. I “falsi d’autore”
Il mercato che maggiormente subisce, e sin da subito ha subito, un vero
e proprio assedio è quello dei marchi di pregio. Gli abiti e gli oggetti
falsi, replicanti quelli delle grandi firme della moda e della pelletteria
italiana o internazionale, raggiungono un tale grado di somiglianza agli
originali che sono smerciati, oltre che dai punti di distribuzione cinesi,
dai concessionari dei brand originali che ne fanno incetta. Produzione a
ritmi serrati, prodotti accettabili e verosimiglianti agli originali.
La strategia del mercante cinese è abbattere il costo di produzione e
mantenere l’output costante: vendere tutto a tutti e comprare all’interno
della propria comunità. Quest’operazione si traduce in un aumento,
esponenziale, dei profitti, ai quali vanno sottratti i soli costi di gestione
dei punti vendita (hardware e forza lavoro esclusi) recuperati dal “nero”
prodotto e distribuito.
Riassumendo, non è falso affermare che le Triadi investono denaro
“sporco” acquistando, o prendono in affitto, imprese e immobili sul
territorio e li intestano ai propri “sandali di paglia” - dei “prestanome” che, avviati ad attività commerciali, solitamente vendendo beni a prezzi
irrisori. In questo modo minano la solidità delle imprese autoctone tanto
da indurre i proprietari a cederle alle Tong o a giovarsi dei canali di
rifornimento dei grossisti cinesi.
Il commerciante cinese compra dal grossista cinese che a sua volta
compra dall’opificio cinese che importa la materia prima dalla Cina
agevolato e protetto da norme sull’importazione di prodotti “etnici” che,
provvidenzialmente, lo Stato italiano gli ha messo a disposizione.
331
mentre il commerciante italiano, se vuole sopravvivere, deve comprare
dalla stessa filiera.
Il consumatore, stante la convenienza senza pari, acquista al “mercato
delle lanterne rosse”, divenendo l’ultimo, inconsapevole, finanziatore
della Tong e, quindi, delle Triadi.
Grazie all’analisi compiuta sul macchinoso sistema di “scatole cinesi”
(mai contesto fu più azzeccato per usare questa locuzione) che sin qui
è stato sviscerato, appare evidente che il sodalizio criminale si ripaga
della propria esposizione iniziale. Ripulisce i soldi, colloca manodopera
sfruttandola e acquisisce capitali “puliti” per operare lecitamente sui
mercati internazionali e lì, progressivamente espandersi, penetra e
assorbe, fagocitandole, sempre più piazze.
Le Tong, i luoghi dove si trovano le famiglie allargate, sono realtà che
contestualizzate nella Cina Popolare hanno un senso e una
connaturazione culturale che può giustificarne l’esistenza, ma in
occidente, in Europa e, segnatamente, in Italia, sono realtà illegali che
attraverso metodi riconosciuti come criminali dal nostro ordinamento,
trattengono individui e moneta e assorbono capitali. Sono comunità
impermeabili che finanziano se stesse e, con costanti e quotidiane
rimesse di denaro in Cina, operano, con mani pulite, su mercati lontani
dal nostro.
Un altro aspetto connotante delle Tong è il costo che la collettività
ospitante, ma “straniera” ai loro occhi, sostiene per contrastare il
fenomeno criminale.
332
In tale quadro è allora forse ancora più doveroso aguzzare la vista con
l’intento di individuare i contesti in cui la disinformazione o un malinteso
senso di solidarietà umana, forniscono alibi utili a mantenere vive
queste devianze.
Soluzioni fondate più sulla supponenza che sulla conoscenza non
fanno altro che rinsaldare capisaldi criminali e alimentare la formazione
di “economie parassite” annidate tra le pieghe della crisi (non solo
economica) in cui versa la nostra società; sacche entro cui si fortificano
catene di isolamento, degrado e asservimento già molto robuste.
13. Friuli Venezia Giulia, la frontiera da conquistare
La Regione autonoma Friuli Venezia Giulia s’inserisce, rispetto al resto
d’Italia, come esempio virtuoso per la tempestività con la quale ha
saputo riconoscere i segnali premonitori di una penetrazione che,
sebbene con i dovuti distinguo da applicarsi al dato numerico,
riproponeva uno scenario analogo a quello che nel pratese connotò gli
anni Ottanta del secolo scorso.
Nel 2007, infatti, a fronte del calo delle commesse che interessò il
settore produttivo del manzanese 240 , distretto leader mondiale nel
campo dei mobili di pregio conosciuto come “il triangolo della sedia”, e
della chiusura di numerosi opifici, si iniziarono a registrare le prime
immigrazioni di cittadini cinesi provenienti da altre zone d’Italia e, in
particolare, da Prato.
240 Il distretto riferito alla zona industriale di Manzano (Ud) che dagli anni Settanta sino al 2008, con la
conversione delle piccole e medie aziende agricole in opifici dedicati alla produzione di sedie, tavoli e
complementi, ha avuto il proprio “boom economico” affermandosi sul mercato internazionale con beni di
altissima qualità.
333
Le attività commerciali gestite da cittadini cinopopolari presenti sul
territorio friulano e segnatamente nella zona orientale della provincia di
Udine erano costituite, sino alla metà del 2007, da un numero esiguo di
ristoranti e bar deputati a servire in prevalenza la clientela locale e da
qualche negozio al dettaglio di maglieria e altri beni di largo consumo.
Questi ultimi tutti nella zona urbana del capoluogo friulano.
Nel distretto della sedia, a Manzano (UD), i numeri scendevano ancora
riducendosi a due ristoranti, uno a San Giovanni al Natisone e uno nel
comune di Buttrio, e a un emporio. Nonostante la comunità cinese a
Trieste, già dalla metà degli anni Novanta del 1900, contasse una
presenza ragguardevole, l’interesse verso le opportunità che il territorio
friulano poteva offrire era sempre rimasto basso, ma iniziò a farsi
concreto solo con l’implosione del settore industriale legato alla
produzione di mobili. La crisi.
La chiusura delle numerose fabbriche di tavoli e sedie, nonché delle
aziende e dei laboratori che si dedicavano alla rifinitura dei manufatti
rappresentò una sciagura per l’economia locale, ma aprì una nuova
frontiera da conquistare per il modello Cina.
I laboratori, le piccole imprese, per lo più a conduzione familiare, di
contoterzisti che si dedicavano ai semilavorati provvedendo alla
verniciatura, alle rifinitura di tappezzeria e alla lavorazione di singole
componenti
dei
mobili,
fallirono
l’una
dopo
l’altra
e
la
crisi
occupazionale con il conseguente svuotamento dei capannoni liberati
dai macchinari o chiusi con questi all’interno, suscitò l’interesse delle
imprese e delle ditte del “pronto moda” pratesi che iniziarono a
334
prendere in affitto o, in alcuni casi ad acquistare, gli ampi spazi
produttivi rimasti vuoti.
La conversione delle aziende in magazzini all’ingrosso, in spazi
commerciali dove i grossisti cinesi pratesi o di nuova immigrazione, ma
comunque legati ai propri connazionali di Prato, ricevevano e
soddisfacevano le richieste dei clienti provenienti dalla Polonia,
dall’Ungheria, dalla Russia, dall’Ucraina e dai Balcani fu il passo
vincente. La riduzione della distanza che i clienti dell’Est dovevano
percorrere per acquistare e approvvigionarsi della merce per i propri
negozi era di più di trecento chilometri, con vantaggi indiscutibili per
entrambe le parti. Meno chilometri per gli acquirenti e, al contempo,
meno controlli sui beni viaggianti.
Anche per gli imprenditori locali rimasti privi di lavoro l’arrivo dei Lao
Ban non fu del tutto sconveniente, anzi, il progressivo interessamento
dimostrato sulla zona dai cinesi e la solvibilità dei nuovi affittuari,
costituiva per i friulani una garanzia di sopravvivenza.
Nella logica della diversificazione degli investimenti, alcuni imprenditori
cinesi rilevarono anche i laboratori di tappezzeria che erano
sopravvissuti e iniziarono, con metodologia analoga a quella del “pronto
moda” pratese, ben descritta da Edoardo Nesi nel saggio di analisi
sociale “Storia della mia gente”, a praticare una concorrenza fondata
sulla contrazione dei prezzi talmente al ribasso che solo lo sfruttamento
della forza lavoro poteva consentire. Scalzate le vestigia delle ultime
aziende autoctone, i Lao Ban presero dunque a rifornire di semilavorati
di tappezzeria le imprese di sedie più affermate sui mercati mondiali
335
(Calligaris, Modonutti) che, grazie alla garanzia di qualità legate al
proprio marchio erano uscite indenni dalla crisi.
Nella provincia di Udine, nei comuni di Buttrio, Premariacco, Manzano,
Corno di Rosazzo e San Giovanni del Natisone, lo scenario è quello
ottimale ove rinvenire le condizioni per l’affermazione del modello Cina,
ma il Friuli non è la Toscana.
La giunta regionale friulana, sulla base dell’art. 1, comma 439, della
legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (Legge finanziaria per il 2007), che
prevede la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei
servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la sicurezza dei
cittadini, il Ministero dell’interno, e per sua delega, i Prefetti, possono
stipulare convenzioni con le regioni e gli enti locali che prevedano la
contribuzione logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni per
il perseguimento di condizioni ottimali di sicurezza delle città, del
territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini, si
attiva e predispone, di concerto con i responsabili delle forze di polizia
comprese quelle locali,
l’istituzione di un tavolo di coordinamento
molto simile a quello “Savi”.
L’input al controllo e alla sorveglianza di ogni attività imprenditoriale di
nuova istituzione consente agli operatori delle agenzie di vigilanza di
non perdere il controllo sui nuovi residenti e dimoranti e di mantenere
monitorato costantemente il dato.
336
Stranieri residenti in FVG con cittadinanza cinese al 1° gennaio di ogni anno
Provincia
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
Gorizia
GO
292
265
251
217
208
187
154
Pordenone
PN
596
566
526
474
407
362
293
Trieste
TS
1.051
991
893
818
753
665
595
Udine
UD
Totale Regione
960
862
791
705
618
578
484
2.899
2.684
2.461
2.214
1.986
1.792
1.526
Tabella 7
Classifica delle province FVG ordinata per numero di cinesi residenti sul territorio
Provincia
Cinesi
Maschi Femmine
Totale
% su tutta
la popolaz.
%
straniera
Variazione
% anno
precedente
1. Trieste
TS
556
495
1.051
36,3%
5,52%
+6,1%
2. Udine
UD
489
471
960
33,1%
2,44%
+11,4%
3. Pordenone
PN
297
299
596
20,6%
1,65%
+5,3%
4. Gorizia
GO
148
144
292
10,1%
2,69%
+10,2%
1.490
1.409
2.899
2,8%
+8,0%
Totale Regione
Tabella 8
Su scala regionale i dati relativi all’immigrazione dei cittadini cinesi
assumono un valore particolarmente indicativo. Dal limitato aumento
delle percentuali di immigrati è possibile desumere che il passaggio di
livello dalla gestione del punto vendita al dettaglio alla gestione di
impresa produttiva è stato, per i cittadini cinopopolari, scoraggiato, se
non nelle forme consentite dalla legge, dal costante esercizio di
controlli. I cittadini cinopopolari presenti nel comune di San Giovanni al
Natisone, a fronte di un numero di residenti pari a 6.700 unità, nel 2006
sono 54 (31 uomini e 23 donne); nel 2007 sono 81 (43 uomini e 38
donne); nel 2008 sono 114 (63 uomini e 51 donne); nel 2009 sono 104
(54 uomini e 50 donne); nel 2010 sono 113 (64 uomini e 59 donne); nel
2011 sono 142 (77 uomini e 65 donne) e nel 2012, quasi invariato il
numero restano 141 (72 uomini e 69 donne). Come s’evince,
l’incremento non è stato significativo al punto da connotare il territorio.
337
I comuni di Buttrio, Premariacco, Manzano, Corno di Rosazzo e San
Giovanni del Natisone consorziano, quindi, i servizi di polizia municipale
e, sulla base dell’accordo siglato il 26 novembre 2010 tra l’assessore
regionale Seganti e il Prefetto di Udine, creano un Corpo unico di
polizia locale alle dipendenze del capitano Fabiano Gallizia il quale,
preso contatto con il suo omologo di Prato dott. Andrea Pasquinelli e
recepiti i suggerimenti che hanno fatto del “tavolo Savi” un paradigma,
inizia a svolgere, di concerto con la Polizia di Stato, i Carabinieri e la
Guardia di Finanza e con i funzionari dell’INAIL, dell’INPS e della DPL,
servizi di prevenzione e di accertamento in tutti gli opifici.
Nonostante la tempestività dell’azione non manca l’accertamento di
gravi violazioni in materia di lavoro e di reati finanziari e, nemmeno il
rintraccio di lavoratori irregolari in regime di sfruttamento. I dati in tal
senso sono, comunque, significativi se rapportati alla popolazione del
comune friulano. Le violazioni alle normative sulla sicurezza sui luoghi
di lavoro si attestano, infatti, al 48% su un totale di 150 aziende gestite
da imprenditori cinesi sottoposte a controllo e ispezione.
L’immediata istituzione della struttura operativa da impegnare sul
territorio nei servizi di controllo e la tempestività degli intervento, oltre
alle diversità tipiche del territorio, non consentono spazi per la
diffusione e sclerotizzazione di sacche di illegalità o la formazione di
comunità chiuse e territorialmente referenziate come in Toscana. Il
modello Tong non passa.
Il rintraccio di 24 lavoratori cinesi irregolari e di 5 minori, figli di coppie di
immigrati irregolari, segregati e mantenuti in condizioni igienico
338
sanitarie pessime da un Lao Ban nel 2010 e l’attuazione di altri servizi
dagli esiti meno eclatanti, ma significativi, influiscono decisamente sul
calo dell’immigrazione cinese in Friuli e getta la popolazione locale in
uno stato d’allerta tale che si sostanzia nel sostegno attivo agli sforzi
delle forze di polizia e delle agenzie di controllo.
S’è ancora lontani dal comprendere quale sarà il punto di arrivo che le
Triadi si sono prefissate, ma le Tong sono lo strumento sul campo.
Le notizie sino ad ora sintetizzate sono sufficienti per affrontare il tema
della sicurezza o dell’insicurezza che derivano da una gestione del
territorio accorta e che ha dato luogo alla prevenzione di criticità che
nella convivenza tra i gruppi sociali possono essere scongiurate.
L’esito della strategia friulana d’intervento sulla problematica è di
assoluta efficacia. La costanza del dato riferito al numero di immigrati e
di aziende cinesi registrate alla camera di commercio nell’area ne sono
la prova.
L’evoluzione del “Continente Giallo”, come viene indicato dalla nota
rivista di geopolitica “Limes”, in fibrillazione ed espansione come non
mai, ci consegna a un sistema che negando a se stesso l’avvento di
una crisi di cui era imminente l’arrivo, proietta l’Occidente, vittima di se
stesso e dei bisogni indotti dalla realtà virtuale delle ricchezze digitali,
verso il debito come unico mezzo/sistema per operare sui mercati o
consumare. Un sistema d’impoverimento progressivo globale che
porterà a un graduale e progressivo accentuarsi delle condizioni
d’insicurezza nella vita di ognuno di noi.
339
Conclusioni
La riflessione che questo lavoro di ricerca ha inteso porre in evidenza è
che non esistono fenomeni o eventi dei quali, se osservati con
attenzione servendosi di un approccio interdisciplinare, non siano
pronosticabili l’insorgere, l’evoluzione e l’epilogo.
Attraverso l’analisi delle condizioni socio-economiche occidentali prima
e, poi, delle riforme avviate nella società e nell’economia cinese dal
presidente Deng Xiaoping dopo la morte di Mao Zedong, ma precorse
dallo stesso già negli anni del fervore rivoluzionario, s’è inteso spiegare
perché il modello Cina si sia rivelato vincente e abbia trovato terreno
fertile per insediarsi, prosperare e in alcuni casi sostituire quello
occidentale asseritamente moderno e asseritamente evoluto. Ponendo i
bisogni del capitalismo consumista in una posizione servente rispetto al
capitalismo di stato, la Cina comunista ha evidenziato la propria
ecletticità, estrinsecando una duttile capacità di impostare e sostenere
strategie di politica economica internazionale che, se all’apparenza
potevano anche risultare inconciliabili col comunismo, si sono rivelate
premiali.
La Cina comunista del basso profilo e della penetrazione economica
silenziosa politicamente preordinata a non farla diventare ufficialmente
il leader in alcuno dei settori di mercato in cui opera, ha assunto, suo
malgrado, un ruolo di sostanziale preminenza sui mercati internazionali.
La crescita continua e il volontario deprezzamento dello Yen, giocano in
questo campo un ruolo essenziale così come la rete fittissima, e
sempre più solida, di realtà satellite, le Tong, dalle quali assume
340
sempre le informazioni indispensabili a migliorare progressivamente
l’offerta di tutto ciò che l’Occidente estremo consuma.
Nel tracciare la mappa di questa evoluzione, s’è rivelato molto utile
conoscere, analizzandole a fondo, le tipicità culturali arcaiche e
tradizionali che contraddistinguono il suo popolo e, mutatis mutandis, la
formazione delle classi imprenditoriali e l’organizzazione delle comunità
sociali cinesi sia nei luoghi d’origine, che nelle terre d’insediamento
occupate dalle avanguardie del gigante asiatico.
Finora gli economisti prevedevano che il sorpasso sarebbe
avvenuto intorno al 2019. L’Icp ha però aggiornato il suo sistema
di calcolo della parità di potere d’acquisto, l’aggiustamento che
va applicato alle statistiche dopo la conversione da una valuta
all’altra per riflettere le differenze tra il prezzo dei beni e dei
servizi nei vari paesi. Nel caso della Cina e degli Stati Uniti
questo fattore è cambiato del 20 per cento rispetto all’ultimo
aggiornamento nel 2005. Secondo i dati del Fondo monetario
internazionale, nel 2012 il pil della Cina era ancora la metà di
quello degli Stati Uniti (8,2 trilioni di dollari contro 16,2). Ma come
spiega Linda Yueh sulla Bbc, la moneta cinese ha un tasso di
cambio sottovalutato (Pechino è stata spesso accusata di tenerlo
artificialmente basso per favorire le esportazioni), quindi il valore
reale dei beni e dei servizi scambiati è maggiore. La stessa
considerazione vale anche per le altre economie emergenti.
Secondo i dati dell’Icp la quota del pil globale rappresentata dai
paesi a medio reddito passa dal 32 al 48 per cento.241
241 Fonte: La Cina potrebbe diventare l’economia più grande del mondo entro la fine dell’anno, Fonte:
L’internazionale, 30 aprile 2014.
341
242
Tabella 9
Per quanto riguarda la ricerca empirica svolta sul territorio in Italia, e
segnatamente dalle interviste di alcuni funzionari di vigilanza è emerso,
con sconcertante trasparenza e candida ammissione di rassegnazione,
quanto l’iniziale disorganizzazione e superficialità nel trattare taluni
degli indicatori (gestione criminale dei flussi migratori, conduzione
illegale delle imprese e sfruttamento del lavoro da parte dei laoban ampiamente conosciuti all’estero e i dati dei quali potevano essere
reperiti e assunti a paradigma) che preannunciavano l’insorgere delle
problematiche relative alla costituzione delle prime comunità chiuse
etnicamente connotate, sia stato condizionante e prodromico alla
perdita di contatto con il territorio.
Il problema è reale e attuale, ma sembra che ancora non si sia
ben
compresa
l’effettiva
potenzialità
delinquenziale
delle
organizzazioni criminali provenienti dalla Cina. Le comunità
cinesi inoltre sono impenetrabili e la costituzione di Chinatown in
cui si tendono a ripristinare le regole e le tradizioni del proprio
Paese d’origine, unita alla difficoltà della lingua, alle azioni
criminose perpetrate sempre a danno dei connazionali e
242 Istogramma relativo alla crescita della Cina. Fonte: The Economist.
342
all’assenza di pentiti, ha portato a una totale chiusura verso
l’esterno che ha permesso ai clan asiatici di svolgere indisturbati
243
le attività illegali e occultare i meccanismi interni.
L’immigrazione massiccia di cittadini cinesi ha portato con sé forme di
strutturazione di gruppi sociali legati all’atavismo delle relazioni e, con
esse, nuove coniugazioni dell’associazionismo segreto al quale si
legano la presenza di nuove forme di criminalità organizzata molto
vicine al concetto mafioso.
Le diverse modalità di aggregazione sociale gravitano attorno a
tre principali criteri: i legami familiari e parentali in senso ampio,
la comunanza territoriale (essere tongxiang, ovvero compaesani,
ma anche appartenere allo stesso gruppo geodialettale) e, infine,
le relazioni incentrate sul guanxi, ossia lo scambio reciproco di
aiuto e favori (Cologna 2003b; Ceccagno 1998; Rastrelli 2008).
Queste tre dimensioni tendono a strutturare le relazioni
economiche e sociali di ciascun appartenente alla comunità.244
Scoprire l’esistenza del fenomeno Cina in Italia quando ormai aveva
assunto le dimensioni e la connotazione dell’emergenza radicandosi
anche nelle sue tradizionali forme di espressione criminale, però, ben si
concilia con la presunzione di superiorità che ha visto, per quasi un
millennio, l’Occidente servirsi delle condizioni di asserito sottosviluppo,
di presunta arretratezza e di bisogno, di popoli ritenuti, ancora e in
qualche modo, parte del Terzo Mondo e non di un Mondo Terzo (Mao
Zedong), quindi asservibili ai propri interessi. Popoli dai quali, però,
l’Occidente, di fatto è stato economicamente conquistato e colonizzato
a propria volta. Uno stereotipo, quello della presunzione di superiorità,
243 In Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso, Sostituto
Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu, p.1
244 Rapporto di ricerca, La criminalità organizzata cinese in Italia. Caratteristiche e linee evolutive, CNEL,
Osservatorio socio-economico sulla criminalità, Roma, maggio 2011.
343
che è stato invece studiato, compreso e piegato dall’Impero Celeste (la
cui solidità interiore ed economica -basata sull’effettività dei bisogni e
l’abitudine a non assecondarli- è risultata lo strumento vincente
attraverso il quale conquistare, penetrandolo, un intero sistema.
Quando si parla della Cina, anche quella “delocalizzata” in Occidente, e
del nuovo assetto che la sua economia sta assumendo sui mercati
internazionali sarebbe prudente usare l’allocuzione trasformazione
economica e non la parola crescita. Ciò, sostanzialmente, perché non
è, di fatto, rispondente al significato che si riassume in questo secondo
termine. Permane, infatti, nell’operare in modo capitalista e sistemico
della Cina, l’impostazione solidarista e “comunista” che le comunità
della “diaspora sino-occidentale” mantengono e che sono evidenziate
da R. Faligot nel rapporto citato nel lavoro di ricerca.
La riassunzione del controllo sulle isole etniche, chiede che l’Italia non
solo rimuova i confini linguistici, culturali e le riserve di extralegalità
erettisi attorno alle chinatown, ma anche l’affermazione indiscutibile
della generalità e indefettibilità dei principi di legalità nei cicli produttivi e
di trattamento nei rapporti di lavoro tra laoban e operai. Per giungere a
ciò è necessario rimuovere la connotazione omertosa del guanxi su cui
si reggono le relazioni tra datore di lavoro e dipendente cinese in Italia
ponendo a repentaglio l’incolumità e la salute pubblica.
I cinesi sono una comunità in grado di assicurarsi i servizi
essenziali tramite una serie di strutture, aperte rigorosamente
solo a connazionali, che includono scuole, cliniche, attività
commerciali, farmacie e banche. Si tratta ovviamente di banche
illegali e non autorizzate ma che invece avviano operazioni come
mutui, prestiti, trasferimenti di denaro all’estero. Esistono anche
344
associazioni pseudo-culturali, al vertice delle quali si insedia la
criminalità cinese. Sicuramente in Italia le Chinatown più note
sono quelle di Piazza Vittorio a Roma e di Via Sarpi a Milano.
245
[…]
Un tale gesto, incisivo e forse politicamente scorretto potrebbe risultare
determinante per rimuovere l’attuale, parziale, affrancamento della
comunità sino-italiana che promuove una politica sociale autonomista di
quasi totale alienazione e decontestualizzazione. Ma le agenzie di
sicurezza, per stessa ammissione dei loro vertici come evidenzia il
Magistrato antimafia Olga Capasso, sono ancora impreparate a
riprendere il controllo del territorio
È necessario iniziare a interpretare l’art. 416 bis in maniera
estensiva per poterlo così applicare a diverse tipologie di
organizzazioni criminali ed è essenziale la formazione di organi
specializzati e competenze specifiche. La DIA246 ha affermato in
un rapporto di non essere in grado di occuparsi di questo
247
fenomeno perché non ha il personale e gli strumenti adeguati.
L’integrazione e l’inclusione sociali sono una priorità, la via che non
deve poter tollerare l’apposizione di nuovi confini.
Dato per assunto che dalla frontiera nascono le opportunità per le
comunità integrate del terzo millennio (quelle che l’antropologia del
CERCO definisce il tertium genus), non è più possibile consentire che
un solco separi ancora due nazioni e avvantaggi l’evoluzione di un
sistema anarco-liberista com’è quello cinese che opera in Occidente.
245 In Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso,
Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu,
p.3
246 Acronimo, Direzione Investigativa Antimafia.
247 In Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso, Sostituto
Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu, p. 4.
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Non basta, dunque, sottrarre il migrante alle mafie etniche (o locali)
durante la fase dell’attraversamento dei confini, oggi è indispensabile
colpire le organizzazioni criminali nella ulteriore fase che le vede attive
nello sfruttamento della persona e sui mercati internazionali. Non può
essere
accettata,
quindi,
nessuna
forma
di
umiliazione
o
di
asservimento della persona, la tacita accettazione dello status quo
delineerebbe la propensione alla connivenza e ciò andrebbe a discapito
della dignità e dei diritti dell’essere umano: di ogni essere umano.
Mao Zedong alla conferenza di Bandong del 1958 annunciò che la Cina
sarebbe divenuta il Mondo Terzo e non sarebbe rimasta il Terzo
Mondo. Con quelle parole, Mao, intendeva dire che l’Impero di Mezzo
sarebbe divenuta la “terza via” rispetto al bipolarismo dei sistemi
economici rappresentati da Usa e URSS; un “sistema economico
originale”
che
fosse
in
grado
di
interporsi,
sintetizzandole
e
conciliandole, tra le opposte filosofie economiche sulla base delle quali
le due “superpotenze” vincitrici al termine della Seconda Guerra
mondiale, si erano accordate per bipartire il mondo.
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