LEGALITA’ E LAVORO NELLA DIASPORA CINESE IN ITALIA Introduzione Il presente lavoro di ricerca si prefigge la finalità di studiare le dinamiche relazionali che contraddistinguono l’interazione all’interno della comunità cinese in Italia, nonché i rapporti di relazione di questa con la popolazione autoctona e ciò considerata l’importanza che le tradizioni e la cultura assumono nel connotare il fattore identitario dei gruppi migranti nei luoghi d’accoglienza. Nell’affrontare la tematica concernente le migrazioni e nello specifico le peculiarità riguardanti i migranti cinesi che in Italia hanno dato vita a comunità etniche “chiuse”, exclave1, è stato ritenuto doveroso cercare di indagare e verificare quali siano stati i prodromi, cioè a dire le condizioni culturali, sociali ed economiche che hanno reso possibile il concretarsi di una tale realtà, specialmente in talune regioni. La crisi del sistema economico Occidentale, come si vedrà, ha assunto, in questo fenomeno, un ruolo preminente. Si evidenzierà, ad esempio, il fatto che il consolidarsi dell’utilizzo di metodi di pagamento quali il 1 Definizione: piccolo territorio completamente isolato dallo Stato al quale appartiene politicamente e situato geograficamente in territorio straniero. Il vocabolo viene altresì usato dalla scuola di antropologia CERCO per indicare le comunità etniche chiuse in una sorta d’autoreferenzialità culturale, organizzativa e politica tale da renderle assolutamente incoerenti con il territorio nel quale si stanziano. Si tratta di “repliche impermeabili”, degli stati d’origine dei migranti. 1 credito al consumo, abbia favorito anche un mutamento delle istanze sociali, in termini di beni da possedere e consumare. Il cliente e l’utilizzatore di beni si sono trasformati in consumatori. Così facendo essi hanno contribuito a sviluppare e consolidare un modello di mercato nel quale viene consentita la produzione di beni di bassa qualità ma in quantità tali da far sì che la domanda non rimanga mai disattesa, anche se ciò ha incentivato, nelle zone di penetrazione economica, lo sfruttamento del lavoratore (spesso clandestino) e il suo asservimento all’impresa. Un processo di identificazione usuale in Cina. La ricerca analizzerà, dunque, la quotidianità della vita all’interno della comunità cinese in Italia con l’intento di rilevare quelle semplici ma tipiche condotte (usuali e valide per il cinese in Cina) qui ritenute extralegali, illegali o criminali. Comportamenti che la perdurante indifferenza di molte istituzioni - il cui compito sarebbe dovuto essere quello di sviluppare politiche sociali d’integrazione e d’inclusione tese ad armonizzare le diverse culture che s’incontrano sul territorio senza perderne il controllo – ha consentito si radicassero, dando luogo a un fertile terreno di coltura sul quale si è assistito alla strutturazione e al consolidamento di situazioni di alterità, di realtà autonome legibus solute. La differenza tra Italia e resto d’Europa è piuttosto in due fenomeni concomitanti: da una parte, l’assenza di autentiche politiche di integrazione sociali dei migranti, abbandonati in ogni aspetto della loro esistenza all’economia informale (dal lavoro all’abitazione) e, dall’altra, l’espandersi di un vero e proprio 2 panico sociale, in gran parte favorito dai media e da tutti i governi che si sono succeduti dalla fine degli anni ’80 a oggi. 2 Nel far ciò non sarà omesso di considerare come l’adozione di questa policy disomogenea, frammentaria, emergenziale e alterna si sia rivelata, in molti casi, inadeguata nei confronti della trattazione del fenomeno migratorio nella sua globalità. Lo svolgimento di un approfondimento delle tematiche dal carattere storico, economico e sociale consentirà di comprendere perché, dal 1984 a oggi, alcune regioni italiane – non esclusivamente quelle economicamente più prosperose, produttive e avanzate dal punto di vista artigianale e industriale - invece di altre, si siano rivelate in grado di attrarre investimenti e forza lavoro provenienti dalla Cina e come nei siti prescelti siano state fondate le Tong3: vere e proprie isole etniche in tutto autoreferenziali. La medesima riflessione, poi, evidenzierà come la segretezza nell’agire, il silenzio e il basso profilo tenuti dagli appartenenti alla comunità cinese negli anni, rispetto agli appartenenti ad altre comunità di migranti (che per le loro condotte hanno, invece, attirato l’attenzione degli organismi di vigilanza e controllo sociale nonché dei media), abbia origini risalenti nella storia di quel popolo e si siano rivelati strumentali, connotanti e vincenti. Divenendo determinanti nel dar luogo all’insorgere di 2 Alessandro Dal Lago, Giovani, stranieri e criminali, Il Manifestolibri Editore (collana Talpa di biblioteca), Roma, 2001, pp.18-19. 3 Letterale: luogo dove si incontra la famiglia allargata. Questo vocabolo, nell’accezione contemporanea ha perso la sua accezione letterale e indica latamente la comunità cinese. Con il termine Tong è, quindi, invalso l’uso indicare non un luogo, bensì la comunità in sé, il suo atteggiamento di chiusura e di autoreferenzialità nei confronti degli “stranieri”, cioè degli autoctoni dei territori sui quali si stanzia legittimando se stessa e la propria alterità nell’organizzazione sociale e del Diritto. 3 importanti derive in materia di ordine pubblico e di sicurezza pubblica gli usi patrii replicati nella diaspora4 hanno un ruolo importantissimo. Si vedrà, dunque, quanto l’accondiscendenza nei confronti di talune condotte, in principio ignorate e sottovalutate da parte delle Istituzioni, abbia ingenerato il convincimento negli appartenenti al gruppo sinomigrato che esistesse la possibilità di creare, o mantenere, una condizione di alterità tipica del paese di provenienza alla cui base esiste un’arcaica, tradizionale ma semplice e solida struttura di comportamenti - intrecciati e solidalmente legati tra loro - sui quali poggia, oggi, l’isolamento spontaneo delle tong in Italia. Per addivenire alla spiegazione di una tale esperienza domestica che vede lo stato e le sue strutture in seconda posizione rispetto alla centralità e alle esigenze della comunità a cui il soggetto appartiene, è stato riservato un capitolo di natura eminentemente storica nel quale è stato compiuto un excursus sull’origine dell’associazionismo (segreto) cinese in patria e sul mantenimento di tale habitus anche nelle migrazioni che si sono succedute negli ultimi secoli. Da tale contesto emergeranno peculiarità utili a comprendere come attraverso la consueta pratica dell’adesione a un’Associazione segreta, il singolo pervenga alla propria validazione in seno al gruppo nazionale. Un altro elemento di differenziazione delle società segrete rispetto allo Stato era l’estrema semplicità formale della loro gerarchia interna. Sembra che in ogni società e loggia vi fosse una gerarchia unica, che assommava in sé le competenze degli 4 Definizione: dïàspora [dal gr. διασπορά «dispersione», der. di διασπείρω «disseminare»]. In generale, dispersione, specialmente di popoli che, costretti ad abbandonare le loro sedi di origine, si disseminano in varie parti del mondo. FONTE: dizionario Treccani. 4 organi civili, militari e censorî dello Stato. Tuttavia, come nella pubblica amministrazione, anche nelle società segrete vi erano, di solito, nove gradi gerarchici; ma, mentre nella gerarchia statale, il sistema dei gradi si applicava solo ai funzionari, nelle società segrete esso si estendeva a tutto l’insieme degli associati, e non soltanto ai dirigenti.5 In alcuni casi queste comunità “chiuse” sono diventate talmente autosufficienti e autoreferenziali da costituire, in tutto e per tutto, la replica del modello culturale lasciato dal migrante nella madre patria. Lo strutturarsi di questa replica è stato permesso, e talvolta incoraggiato, col fine di far sentire accettate, integrate e rispettate le giovani comunità etnico-linguistiche. L’impostazione di tale politica di accoglienza e dell’integrazione è divenuta, però, la prassi attraverso la quale il limite tra ciò che è consentito e ciò che non lo è ha avuto una progressiva dilatazione, uno spostamento “in avanti”, sino a far sì che nel migrante si compisse quella perniciosa confusione tra il lecito e l’illecito che lo ha portato ad innescare frizioni con l’autoctono. Nel corso della ricerca è evidente l’importanza di analizzare perché questo procedimento sia avvenuto nella comunità cinese che vive in Italia secondo regole proprie alle quali il “sistema Cina” per più versi fa riferimento. Dall’esperienza sul campo in Italia emerge la responsabilità, in particolar modo degli organi amministrativi e di polizia che hanno permesso – forse con la presunzione che in virtù di una naturale spinta osmotica tutto si sarebbe regolato da sé - il consolidamento di questi comportamenti di tal che gli usi giunti insieme ai migranti sono divenute delle consuetudini. 5 Fei-Ling Davis, Le Società Segrete in Cina,– Ed. Piccola Biblioteca Einaudi – Milano 1971, cit. pag. 170. 5 Se tale politica di accoglienza e di integrazione è apparsa valida alle autorità, sollevate dall’onere – segnatamente economico finanziario - di interventi di strutturazione, agli occhi degli autoctoni, invece, tutto ciò si è palesato come la concretizzazione di una sperequazione di trattamento di fronte alla legge, come la dismissione da parte delle istituzioni di potestà tipiche. Questa percezione – non sempre nei fatti riscontrabile - ha talvolta esasperato gli animi e condotto alla coostituzione di compagini politiche che, assumendo su di sé l’onere di un’asserita tutela degli “interessi domestici” hanno veicolato messaggi razzisti e allarmistici, fomentando l’intolleranza e la xenofobía. L’intangibile libertà di esprimere la propria identità ha fatto, dunque, sì che i gruppi nazionali migranti interpretassero un tale segno di “civiltà politica del Paese ospitante” come l’avallo di ogni pratica, anche se in evidente contrasto con le norme vigenti nello Stato italiano. L’Ente pubblico, ritenendo che questa comunità di migranti si sarebbe allineata e integrata seguendo l’orientamento della popolazione autoctona, così come altre hanno fatto nel tempo, non ha, invece, tenuto conto della specificità del fenomeno ignorando di prendere a paradigma le pregresse e analoghe esperienze statunitensi e francesi. In tale prospettiva è stato sottovalutato che all’interno di queste “isole di Cina in Italia”, il fattore extralegale6, da principio “tollerato”, è divenuto la 6 “Fattore extralegale”: per fattore extralegale si intende l’ampio spettro di pratiche sociali ed attività economiche che tendono a eludere o infrangere le definizioni vigenti di legalità, senza con ciò assumere la fissità o inferire da queste un giudizio circa ammissibilità o legittimità sociale. L’extralegalità può essere il risultato del trattare beni e servizi legali in modi illegali. Per converso, quando ad essere illegali sono i beni ed i servizi in sé, si entra nel settore criminale. Per una sintesi di come criminale e extralegale sono presi in considerazione nella ricerca economica, si veda R. Naylor, The Rise and Fall of the Underground Economy, in <<Brown Journal of World Affairs>> , 11, 2005, n. 2. Pp 131 – 143. 6 norma. In alcuni casi, addirittura, si è assistito alla validazione del crimine che, trasformando le dinamiche relazionali interne al gruppo nazionale cinese, ha consentito che la vessazione si trasformasse in sfruttamento della persona e conseguentemente in quella nuova forma di schiavitù che l’ONU, nel Protocollo di Palermo del 2001, definisce chiaramente trafficking of human beings.7 Il lavoro di ricerca, poi, avrà cura di porre in evidenza quale importanza abbia assunto, nella percezione del fenomeno migratorio cinese, il ruolo dei media, che non sempre hanno diffuso informazioni in modo imparziale e piuttosto hanno, in taluni casi, favorito il radicamento di una errata percezione della realtà. Sebbene la presenza dei cinesi in Italia sia, ancora oggi, poco conosciuta e poco conoscibile, ciò non dovrebbe, di per sé solo, e con l’appoggio degli strumenti di informazione di massa, alimentare lo strutturarsi di stereotipi o il FONTE: Francesco Strazzari, Notte balcanica. Guerre, crimine, stati falliti alle soglie d’Europa, Bologna, Il Mulino-Contemporanea, 2008. 7 The Palermo Protocol supplements the UN Convention Against Transnational Organized Crime, and situates trafficking in this paradigm. Therein, human trafficking is defined as: “(a)...the recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of persons, by means of the threat or use of force or other forms of coercion, of abduction, of fraud, of deception, of the abuse of power or of a position of vulnerability or of the giving or receiving of payments or benefits to achieve the consent of a person having control over another person, for the purpose of exploitation. Exploitation shall include, at a minimum, the exploitation of the prostitution of others or other forms of sexual exploitation, forced labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs (b)The consent of a victim of trafficking in persons to the intended exploitation set forth in subparagraph (a) of this article shall be irrelevant where any of the means set forth in subparagraph (a) have been used; (c) The recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of a child for the purpose of exploitation shall be considered “trafficking in persons” even if this does not involve any of the means set forth in subparagraph (a) of this article; (d) “Child” shall mean any person under eighteen years of age” (...) FONTE: Palermo Protocol supplements the UN Convention Against Transnational Organized Crime, 2001. 7 consolidarsi di pregiudizi: i cinesi non muoiono mai. Ma è ciò che accade. Il presente lavoro di ricerca evidenzia, altresì, le difficoltà organizzative degli operatori e dei referenti locali di istituzioni centrali di vigilanza e controllo territoriale per i quali adempiere al proprio ufficio spesso diventa materia improba e frustrante. La formazione delle Tong ha implicato la formazione di gruppi criminali che gestiscono, più o meno violentemente, i rapporti di relazione all’interno di esse. Le interviste condotte ai funzionari, contattati per corroborare i dati estrapolati dalla ricerca teorica, saranno una testimonianza tangibile di come spesso sia l’iniziativa dei singoli a porre rimedio alla disarticolazione di una struttura centrale lontana dalle problematiche del territorio. Gli interpreti, poi, emergeranno come un vero e proprio ponte culturale tra chi migra e chi accoglie. In tale contesto, però, emergerà anche come alcuni Enti locali e regioni abbiano colto appieno il valore aggiunto e il significato intrinseco della collaborazione interdisciplinare per materia e dell’integrazione delle competenze professionali degli operatori nella gestione e nel controllo degli insediamenti umani, delle imprese e delle attività economiche più in generale, operanti nei rispettivi ambiti territoriali. 8 CAPITOLO I LA CRISI DELL’OCCIDENTE E L’AFFERMAZIONE DELLA CINA 1. La migrazione e la penetrazione della logica di produzione cinese nell’Italia multietnica L’Italia, negli ultimi quarant’anni, ha visto modificarsi, in modo importante se non addirittura sostanziale, e non solo per l’immigrazione cinese, il dato demografico relativo alla presenza di cittadini stranieri sul proprio territorio. Il fenomeno appare più che evidente quando si vanno a considerare le cifre riferite agli “stranieri regolari”8, cioè coloro che sono in possesso del Permesso o della Carta di Soggiorno. Un dato che nel 1969 era pari a circa 200.000 unità e nel 2010 aveva già raggiunto le 4.800.000 unità. Ciò sta a significare che il peggioramento delle condizioni di vita in alcune aree geografiche, e l’attrattiva suscitata dal messaggio dai media relativo al modello di vita occidentale, hanno creato delle aspettative di miglioramento economico9 nelle popolazioni delle zone meno sviluppate del mondo. Questa aspettativa, che come si vedrà in seguito ha stimolato la creazione di un vero e proprio mercato della migrazione, è stata colta dalla criminalità organizzata transnazionale che, per altri e diversi mercati illeciti, si era già dotata di una “rete di relazioni” assai ramificata. 8 Non cittadini (appartenenti alla Comunità Europea o extracomunitari) in possesso del regolare Permesso di Soggiorno o della Carta di Soggiorno rilasciati dalla Questura della provincia ove risiedono. 9 Si intende come la naturale propensione dell’essere umano a migliorare la propria condizione di vita generale e non, quindi, esclusivamente il proprio trattamento retributivo e finanziario. 9 Le cifre sopra richiamate fanno comprendere che quello con cui si ha a che fare è un dato in continua evoluzione e che una larga maggioranza dei migranti è costituita da “stranieri non comunitari”. Nel 2011, secondo il Rapporto ISTAT 2012 riferito alla data del 31.12.2011, i migranti non comunitari ammontano a 3.637.724 unità. A questa cifra vanno aggiunti anche 1.373.000 cittadini comunitari stabilmente soggiornanti in Italia. Il dato riportato è ricavato dal numero dei Permessi e delle Carte di soggiorno rilasciate e, pertanto, include unicamente i migranti “regolari”. Tra questi vanno annoverati anche i cittadini stranieri nati in Italia, quindi sottoposti comunque al regime amministrativo del “migrante”. Si parla di quei figli nati da genitori non italiani10 che eventualmente acquisiranno la cittadinanza al compimento del loro diciottesimo anno d’età. 10 L’acquisizione della cittadinanza italiana attualmente è regolata dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 91 (e relativi regolamenti di esecuzione: in particolare il DPR 12 ottobre 1993, n. 572 e il DPR 18 aprile 1994, n. 362) che, a differenza della Legge precedente, rivaluta il peso della volontà individuale nell’acquisto e nella perdita della cittadinanza e riconosce il diritto alla titolarità contemporanea di più cittadinanze. I principi su cui si basa la cittadinanza italiana sono: • la trasmissibilità della cittadinanza per discendenza (principio dello “ius sanguinis”); • l’acquisto “iure soli” (per nascita sul territorio) in alcuni casi; • la possibilità della doppia cittadinanza; • la manifestazione di volontà per acquisto e perdita. L’art. 1 della legge n. 91/92 stabilisce che è cittadino per nascita il figlio di padre o madre cittadini. Viene, quindi, confermato il principio dello ius sanguinis, già presente nella previgente legislazione, come principio cardine per l’acquisto della cittadinanza mentre lo ius soli resta un’ipotesi eccezionale e residuale. Nel dichiarare esplicitamente che anche la madre trasmette la cittadinanza, l’articolo recepisce in pieno il principio di parità tra uomo e donna per quanto attiene alla trasmissione dello status civitatis. La legge del 1912, sebbene all’art. 1 confermasse il principio del riconoscimento della cittadinanza italiana per derivazione paterna al figlio del cittadino a prescindere dal luogo di nascita già stabilito nel codice civile del 1865, all’art. 7 intese garantire ai figli dei nostri emigrati il mantenimento del legame con il Paese di origine degli ascendenti, introducendo un’importante eccezione al principio dell’unicità della cittadinanza. (fonte Ministero degli Esteri: www.esteri.it). 10 Il Rapporto della Caritas–Migrantes 201211 evidenzia quanto il dato sia mutevole e che il superamento della soglia dei 5.000.000 di persone sia avvenuto in “appena” un anno. Un discorso diverso va fatto per il numero di “clandestini”, cioè per quei migranti illegalmente presenti sul territorio, il cui dato invece è desunto (e per ciò può essere considerato solo approssimativamente) dal numero dei rintracci. Questo dato, quindi, trascura tutti coloro i quali vivono stabilmente in Italia riuscendo a rendersi irrintracciabili dalle autorità. Per quanto riguarda l’entità del dato reale, le cifre a disposizione sono sensibilmente diverse e, nemmeno coniugando i dati afferenti ai rintracci e ai rimpatri con quelli offerti dalle “Organizzazioni non Governative” 12 , è possibile fornire un’approssimativa quantificazione degli “irregolari” presenti sul territorio nazionale. In tema di migrazione irregolare e di contrasto allo sfruttamento dei migranti un contributo interessante alla ricerca viene fornito dall’esperienza del dottor Domenico Savi 13 , questore della Polizia di 11 Fonte: http://www.caritas.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2011/dossier_immigrazione2011/scheda.pdf 12 D’ora in poi indicate con l’acronimo O.N.G. o, in inglese, N.G.O.’s) operanti sul territorio attraverso una rete capillare di centri operativi di supporto e ascolto, che sulla strada offrono sussidio. 13 Domenico Savi è Questore della Repubblica nella Polizia di Stato in servizio presso la Questura di Reggio Emilia. Nella sede di servizio precedente è stato Questore a Prato. A lui si deve l’introduzione sul territorio della provincia pratese di un sistema coordinato di controllo Amministrativo. Un tavolo di lavoro congiunto attraverso il quale Polizia di Stato, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Polizia Locale, Magistratura, nonché l’ufficio della Direzione Provinciale del Lavoro di Prato e l’Azienda Sanitaria Locale hanno intrapreso un’azione organica di verifica e vigilanza sugli opifici gestiti da laoban o nei quali la mano d’opera fosse di origine cinese. Grazie alla sinergizzazione delle professionalità sopra citate, ecco che il risultato s’è concretato in un’incisiva quanto proficua azione di repressione nei confronti di soggetti usi allo sfruttamento ed al traffico di esseri umani; nell’identificazione di soggetti evasori o, addirittura, inesistenti per l’anagrafe tributaria e di cittadini italiani che attraverso la locazione di immobili e l’affitto di strutture d’impresa si sono resi complici e concorrenti nella commissione dei reati di cui al Testo Unico sulla Immigrazione. 11 Stato in servizio a Reggio Emilia e già questore in Prato. Durante uno dei numerosi “colloqui-intervista”, effettuati durante la fase di ricerca sul campo, svolta con il metodo snowball sampling14, egli pone la questione sul dato riferito ai cittadini cinesi. Questa è una comunità che sin dalle prime esperienze di insediamento territoriale ha seguito un percorso e una strategia a sé stanti. Secondo le informazioni in possesso del dirigente della Polizia, ottenute incrociando i dati degli uffici immigrazione, vi è da ritenere che le persone in possesso di regolare permesso di soggiorno raggiungano a mala pena la metà di quelle realmente dimoranti e soggiornanti in Italia. È più che verosimile, quindi, conferma il dott. Savi, che il dato sia da riconsiderare non solo in ambito nazionale, ma anche europeo. Si parla di un dato che, comunque, non tiene conto degli spostamenti “giornalieri” che molti cittadini stranieri non comunitari (è sempre d’uopo 14 Snowball sampling - letteralmente “campionatura a palla di neve”: si tratta di un metodo di ricerca usato nelle indagini scientifiche sociali che afferiscono ad aree tematiche criminali e di difficile penetrazione da parte degli scienziati, perché è il settore stesso in cui vogliono inserirsi ad essere impenetrabile se non a degli “iniziati” o a soggetti “coinvolti”. Wright, Decker, Atkinson, Maxfield e Babble tra il 1994 e il 2001 affinano e perfezionano l’impostazione di questo particolare metodo di raccolta informazioni che cresce e si corrobora come, appunto, può fare una palla di neve che rotola. È attraverso un duplice canale di raccolta dati che inizia ad operare lo scienziato: il primo individua i soggetti istituzionali ai quali rivolgere le interviste introduttive (ed è questa la fase di maggiore difficoltà che richiede, quindi, l’avvicinamento e “l’aggancio” dei “tecnici del settore” dell’informazione e della prevenzione o del rafforzamento del sistema di sicurezza e di polizia). Tale fase si fonda sull’intervista mirata che vuole svelare le metodologie di valutazione del loro settore d’impiego. Il secondo canale, invece, di pari importanza ma di più impegnativa attuazione perché richiede maggiore attenzione nella verifica delle informazioni ottenute, porta al progressivo coinvolgimento (snowball sampling) di soggetti sempre nuovi e con specifiche caratteristiche di interesse per la ricerca. Questi soggetti, nel nostro caso saranno altri operatori del settore (appartenenti a N.G.O.’s, poliziotti o politici locali, nonché i soggetti passivi delle indagini o delle azioni della polizia svolte sul territorio), sono stati reperiti nelle zone produttive della Toscana, dell’Emilia Romagna, della Lombardia e del Friuli Venezia Giulia. Questo metodo di ricerca è già stato usato in precedenza dalla PhD. Min Liu, (autrice della ricerca “Migration, Prostitution and Human Trafficking – the voice of Chinese woman” - Library of Congress: 2011003367) con successo per svelare i retroscena del trafficking nell’ambito delle organizzazioni criminali internazionali e transnazionali cinesi che gestiscono il traffico delle donne da destinare alla prostituzione in Cina e negli USA. 12 praticare questa distinzione) compiono per recarsi nel territorio dell’Unione per svolgere lavori in regime di “irregolarità”. Già, perché, come osservato dallo stesso dirigente della Polizia, la libera circolazione delle persone e delle merci è garantita e attuata attraverso l’applicazione del trattato di Schengen; un percorso virtuoso di civiltà, ma che inevitabilmente pone in circolazione anche chi non è in possesso di documenti regolari per l’espatrio o il soggiorno, permettendo alle persone di accedere all’Unione e poi, all’interno di essa, di muoversi con disinvoltura. Un ulteriore punto di vista dal quale poter analizzare il dato relativo alla comunità dei migranti è quello geo-antropologico. È necessario compiere una riflessione che vede, de facto, mutati sia nel numero che nelle proporzioni i rapporti di relazione tra le minoranze linguistiche in Italia. In tale ambito, infatti, si è assistito alla nascita di “nuove” minoranze che, ora, concorrono a comporre la popolazione italiana. Alcuni gruppi sono, in alcune aree, assai più numerosi di quelli delle minoranze linguistiche autoctone, cosiddette “storiche”, riconosciute e tutelate dalla Costituzione. Si ricordano, a tale proposito, le minoranze di lingua francese, occitana, tedesca, ladina, friulana, slovena presenti principalmente lungo l’arco alpino. Le altre minoranze storiche, come quella albanese, quella greca e, per finire, quella catalana, sono distribuite in zone del territorio abruzzese, molisano, lucano, salentino, calabrese, siciliano e sardo e, globalmente, non superano i 3.000.000 di unità. 13 Il gruppo linguistico più numeroso, quello sardo catalano, ammonta a 1.300.000 unità; ad esso segue quello friulano, che ne conta 500.000 e quello Sudtirolese, con 299.000 unità; la globalità dei restanti a stento supera le 50.000 unità. Tabella 1 Mappatura delle comunità linguistiche “storiche” in Italia Potrebbe significare qualcosa questo mutamento delle proporzioni dal punto di vista normativo e giuridico? E, se sì, un tale assetto sarebbe in grado di determinare nelle comunità dei migranti, dei “nuovi residenti”, l’intenzione di collocarsi in aree geografiche definite del territorio dando così origine a istanze di tutela correlate a “tipicità nazionali” quali: la 14 lingua, gli usi e la religione? Appare dunque imminente una riconsiderazione dell’aggettivo “storiche” abbinato all’espressione “minoranze linguistiche”: la parola “storiche”, seppure evoca il senso del “remoto”, non chiarisce affatto i parametri cui fare riferimento per acquisire una tale qualifica. Una domanda, rispondere alla quale potrebbe risultare utile al fine di comprendere perché vi siano disparità di trattamento nei confronti dei popoli migranti di un tempo e di quelli di oggi, potrebbe essere: “Cosa hanno di diverso gli albanesi che migrarono verso la penisola italica mille anni fa dai loro connazionali di oggi?”. Parlando poi di contributo al “progresso della nazione”, la spinta propulsiva d’incentivazione economica promana, almeno per il settore del tessile, da una regione, da una zona ormai definita e circoscritta sulla quale un popolo ha definito confini linguistici, culturali e ha introdotto usi di tale peculiarità che, nella cartina che segue, potrebbe aggiungersi un’ulteriore “area gialla”, magari di tonalità diversa (perché non è propriamente catalana), in Toscana: la più italiana delle regioni cinesi. La Caritas/Migrantes, nel Rapporto precedentemente citato, fornisce una mappa dei luoghi di provenienza dei migranti. Dei quasi 5 milioni di stranieri –regolari- residenti in Italia, 1.373.000 sono comunitari con i rumeni in testa (997mila), seguiti dai polacchi (112mila), dai bulgari (53mila) e dai tedeschi (44mila). In seno all’Unione Europea dunque, la “libera circolazione di persone e merci” ha trovato una sua attuazione perseguendo spontaneamente il 15 tentativo di perequazione e l’osmosi prefissata. Emerge chiaramente che la spinta al miglioramento economico è ancora il fattore più forte. Tra i soggiornanti europei non comunitari (1.171.163), gli albanesi sono i più numerosi (491.495), seguiti dagli ucraini (223.782), dai moldavi (147.519), dai serbi e dai montenegrini (101.554). Vere e proprie “minoranze” relative che in quanto a forza numerica raggiungono o, addirittura, superano, quelle storiche. Se si vanno a prendere i dati riguardanti le migrazioni extraeuropee, per quanto concerne il continente africano, i marocchini risultano essere la prima collettività, con 506.369 soggiornanti. Le altre grandi collettività provengono dalla Tunisia (122.595), dall’Egitto (117.145), dal Senegal (87.311), e dalla Nigeria (57.011). La “conta dei migranti”, dunque, è un’operazione che apre a una moltitudine di riflessioni sulla base delle quali non è più sufficiente limitarsi a decidere quale sia l’ennesima emergenza nella quale farli rientrare. Appare infatti necessario iniziare a pensare ai migranti in termini di diritti e di garanzie che permettano loro la partecipazione alla vita democratica dello Stato in cui esprimono le loro doti e potenzialità umane. L’aleatorietà, la precarietà e l’incertezza a cui rimanda il rilascio dei documenti di soggiorno e di permanenza non permette loro, dal punto di vista psicologico, di sentirsi completamente inseriti sul territorio ospite. Le energie dei lavoratori migranti entrano a far parte di un processo economico contribuendo, in modo sempre più importante, al progresso e allo sviluppo del Paese che li ospita e, cosa ancora più importante, 16 concorrono al tentativo di salvataggio del sistema occidentale che l’Italia, e l’Europa in generale, rappresentano. Un sistema che ha consentito (se non favorito) che le zone di provenienza dei migranti rimanessero in condizioni di svantaggio tali da poter essere definite “terzo mondo”. Un dato non trascurabile afferisce “Gli asiatici presenti in Italia che sono 924.443 di cui una buona parte cinesi (277.570) e filippini (152.382).”15 L’attenzione che verrà riservata ai cittadini cinesi, oggetto della ricerca, sollecita attente riflessioni tra le quali la più importante è la comprovata connessione che esiste tra il lato criminale che gestisce l’organizzazione della migrazione, finalizzata allo sfruttamento degli esseri umani in strutture produttive, e il potere politico cinese a livello centrale. A questa, poi, vanno aggiunte altre due: la prima è che vi sono motivi per ritenere che la comunità cinese in Italia sia in numero grandemente superiore rispetto a quello ufficiale; la seconda è che, a oggi, i cinesi sono ancora gli unici ad aver scelto il radicamento territoriale su aree specifiche e circoscritte presumibilmente funzionali a una strategia socio-economica preordinata. 2. La spinta al miglioramento e libero mercato Analizzare lo spostamento umano a seguito dei flussi migratori sul territorio italiano e le emergenze di extralegalità, di illegalità e di criminalità che si sono sviluppate a margine delle migrazioni stesse o attorno alle comunità etniche (autoreferenziali), nate dalla “diaspora 15 Fonte: http://www.programmaintegra.it/modules/news/article.php?storyid=6881 17 cinese” in Italia, può non essere sufficiente (Renzo Rastrelli). È necessario, invece, comprendere, anche attraverso lo studio e la valutazione di alcuni comportamenti (e di tutti gli elementi utili), quali ne siano stati i prodromi e perché la situazione, da principio, sia stata affrontata senza conferirle la richiesta attenzione; senza, cioè, alcuna scientificità e lo scarso coinvolgimento delle istituzioni dell’Unione Europea. Per fare questo diventa imprescindibile cercare di comprendere se l’origine del fenomeno migratorio (trasformatosi in appena un decennio in un fenomeno di massa) non affondi le proprie ragioni oltre che nell’impellenza, da parte dei soggetti migranti, di affrancarsi da condizioni di emergenza umanitaria, anche nell’ascolto, nella ricettività all’informazione, di cui ormai il mondo s’è dimostrato, essere capace. L'immigrazione cinese in Europa è senza dubbio un fenomeno di notevoli dimensioni che coinvolge, secondo certe stime, più di settecentomila persone che, a loro volta, fanno parte di una vastissima diaspora mondiale. L'immigrazione cinese inoltre si distingue dalle altre che interessano i nostri paesi per alcune peculiari caratteristiche, quali una particolare coesione ed una solida identità etnica e culturale, accompagnata da una estrema vitalità ed intraprendenza economica. Gli studi per ora fatti intorno al fenomeno migratorio cinese sottolineano però una difficoltà a determinare modelli o categorie per definire in maniera univoca e generalizzata la diaspora cinese in Europa e nel mondo. Essa assume forme e caratteristiche del tutto particolari secondo i luoghi, mentre, per un altro verso, sembrerebbe essere il diretto prodotto di una medesima cultura. Il quadro storico in cui si colloca l'immigrazione cinese è comunque ora profondamente mutato. […] Sotto questo punto di vista la diaspora cinese assume tutto un altro significato rispetto a quello che poteva avere nel secolo scorso o solo trenta anni fa. 18 I cinesi sparsi per il mondo non sono più i figli poveri di un paese emarginato e disconosciuto, ma sono i rappresentanti di una potenza emergente che sembra riaffermare i valori tradizionali della propria civiltà attraverso uno sviluppo indubbio e sorprendente, in una cornice politico diplomatica fino a pochi anni fa impensabile. 16 Nel recepimento, cioè, dei “segnali di bisogno” lanciati dall’Occidente accogliendo in questo modo una domanda implicita e sottesa da parte di un mercato, quello del lavoro, i cui costi stavano assumendo proporzioni insostenibili per l’impresa. Un richiamo che in Italia è stato lanciato (e quindi raccolto) da alcuni distretti produttivi più che da altri; gli stessi che oggi si auto-definiscono “colonizzati”, e nei quali, oramai, si fatica a reperire la traccia di tali bisogni nella memoria collettiva. I cinesi, dunque, arrivano in Italia, e non lo si dovrebbe mai dimenticare, quando la considerazione, la consapevolezza, del potenziale del loro sfruttamento di una risorsa a “basso costo”, diviene evidente e va ad inserirsi nel ragionamento comune che pone la logica del profitto al di sopra dell’etica del lavoro. In un’epoca in cui al diritto del lavoratore si sostituisce il diritto al profitto. Erano i giorni in cui ero ancora arrabbiato, quelli a cavallo del nuovo millennio, quando il fatturato della ditta si riduceva anno dopo anno, mese dopo mese, e tornavo a casa pieno di rabbia per le aste che i clienti ormai ci costringevano a fare per gli ordini più grossi, senza più dare importanza alla qualità del tessuto, all’affidabilità del servizio, alla puntualità delle consegne, al nome dell’azienda e alla sua storia. […] Contava solo il prezzo, e sul 16 Renzo Rastrelli, Immigrazione cinese e criminalità Analisi e riflessione metodologiche, in Mondo Cinese, www.tuttocina.it, 2012. 19 prezzo perdevamo sempre, perché c’era sempre qualcuno più disperato di noi – a Prato sia chiaro, non a Wenzouh –,che evidentemente si era fatto imbibire delle entusiastiche, perniciose teorie per cui è sempre e solo il libero mercato a decidere qual è il prezzo giusto di qualsiasi bene e così, perché l’ordine non si può perdere, continuava a ribassare il prezzo […]. A quel punto noi ci ritiravamo, perdenti, ma ancora e sempre convinti della bontà del principio antico che dove non c’è guadagno, c’è perdita 17 sicura . Edoardo Nesi racconta, come cronista ma con uno spunto scientificamente valido, di un “suicidio collettivo” insito nelle scelte strategiche della trasformazione di un modo d’intendere la produttività e l’impresa. […] È così che si entra nella fase terminale della storia della piccola impresa tessile italiana, quando alla fisiologica concorrenza, alla sana lotta per il guadagno si sostituisce una furibonda battaglia sopravvivenza per tiepida assicurarsi niente più e sempre più stretta; che una quando gli imprenditori si sentono consolati dal solo fatto di poter continuare ogni giorno ad andare in fabbrica a fare il loro lavoro, di poter continuare a dirsi e farsi chiamare industriali quando invece non fanno altro che scimmiottare il loro recente passato, senza accorgersi di avviare a somigliare agli zombi di Romero, quelli che da morti continuavano ad andare al supermercato perché si ricordavano di aver fatto solo questo in vita.18 Da queste righe, seppure letterarie, emerge schietta la trasformazione di una classe imprenditoriale con una visione obsoleta dell’imprenditoria responsabile di un distretto industriale 19 d’indiscutibile rilevanza 17 Edoardo Nesi, Storia della mia gente - Ed.: Bompiani Overlook, Milano 2012, pag. 62 18 Ibidem pag. 66 19 Distretto industriale, sistema produttivo costituito da un insieme di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, caratterizzate da una tendenza all’integrazione orizzontale e verticale e alla specializzazione produttiva, in genere concentrate in un determinato territorio e legate da una comune esperienza storica, sociale, economica e culturale. 20 economica, quello del tessile. La concorrenza cinese non ha dapprima creato allarme, ma, anzi, ha invogliato, attratto e spronato la piccola e media industria “a far profitto ad ogni costo” cedendo alla lusinga di sostenere scelte di produzione e occupazionali improntate a sopravvivere facendo fronte a qualsiasi ribasso avesse proposto la concorrenza. 3. Migrare: “Libertà di… Libertà da…” La strutturazione della socialità cinopopolare in Italia, per come si è compiuta, pone in evidenza aspetti d’intangibilità tra la comunità autoctona e quella migrante. Nel corso degli anni sono sorti confini a dividere ciò che, almeno in linea teorica e nel quadro della teoria dell’integrazione, non avrebbe mai dovuto essere disgiunto. Interrogandosi su quale sia la posizione del singolo migrante e del gruppo etnico-sociale cui esso afferisce non si avranno risposte univoche, poiché i fattori di incidenza sono tanti e tali, soprattutto legati alla cultura di cui è latore il migrante, ne emergerà evidente la natura soggettiva e, come tale, il dato sarà relativo. Preso di per sé, infatti, non sarà indicativo di nulla, ma nella sua globalità assumerà l’importanza e il rilievo di un indicatore. Il singolo caso contribuisce a chiarire quale percorso un singolo abbia fatto per giungere al punto in cui si trova. Alfred Marshall, fu il primo autore a studiare questa forma di organizzazione della produzione e nel saggio Principles of economics (1890), ne delinea le principali caratteristiche. Uno degli elementi fondamentali che definisce A. Marshall è il concetto di atmosfera industriale che si ottiene quando in un territorio circoscritto lavora un numero molto elevato di soggetti che svolgono mestieri simili. Secondo la teoria di Giacomo Becattini, ciò che unisce fortemente tra loro le imprese che appartengono a un distretto industriale è dato dai rapporti professionali che si intrecciano alle relazioni sociali anche di carattere informale e che facilitano la diffusione della conoscenza tra gli attori. Il d.i. per G. Becattini è una rete complessa e inestricabile di economie e diseconomie esterne, di congiunzioni e connessioni di costo, di retaggi storico-culturali che avvolge sia le relazioni interaziendali che quelle più squisitamente personali (Il mercato e le forze locali: il distretto industriale, 1987). 21 Dall’osservazione dei comportamenti sociali degli appartenenti alla comunità cinese o delle relazioni che questi gruppi sociali connotati etnicamente intrattengono con la comunità degli stranieri a essi contigui, si potranno acquisire elementi per cercare di comprendere se vi sia, e quale sia, la percezione e soprattutto la consapevolezza di essere parte di una alterità. In alcuni casi, infatti, si evidenzia nelle condotte tenute dai soggetti coinvolti la propensione (anche inconsapevole) a una forma di esaltazione dello spirito di solidarietà e dell’amicizia che si sostanziano nel guanxi. 20 Extralegalità e illegalità legano il soggetto al gruppo sociale in cui si muove e si riconosce non dandogli possibilità alcuna di scegliere come, e se, essere al di fuori della Tong. Nel fare questo e allo scopo di svolgere la disamina in modo quanto più preciso e corretto possibile, l’occhio non deve trascurare di considerare, quando si posa sulle realtà sociali etniche, che è indispensabile indagare sulle radici culturali che il migrante porta con sé e dentro di sé durante gli spostamenti. Si tratta di una dote che accresce la “relazione di frontiera”21, cioè le dinamiche che si creano nelle aree dove comunità eterogenee si incontrano. Per comprendere ciò che oggi accade, interrogarsi sulla causa di una migrazione non è mai sbagliato o superfluo; esaminando i molteplici 20 Letterale: solidarietà. Indica lo spirito solidaristico e di mutua assistenza che obbliga i connazionali a una totale acquiescenza nei confronti dell’operato gli uni degli altri. Si fonda sulla volontà di privilegiare gli interessi della comunità/famiglia rispetto alla legalità istituzionale. L’omertà e l’obbligazione economica, ad esempio, ne sono elementi cardine. 21 Si veda Chiara Brambilla, Ripensare le frontiere in Africa - Ed. L'Harmattan Italia – 2009. Nel testo citato viene ridefinito il concetto di frontiera come tertium genus. Un territorio ibrido di meticciato in cui si dispiegano, coniugate, le potenzialità dei gruppi sociali umani che su di esso si incontrano dando origine ad un gruppo sociale “terzo” originale nella propria ibridazione. 22 aspetti della migrazione cinese, nello specifico, si rinviene una costante alternanza tra passato e presente. Il passo più importante da compiere, perché si possa conferire al prodotto finale un costrutto che non escluda i punti di vista di chi è parte del fenomeno stesso, sia come migrante “attivo” sia come migrante “passivo22”, è il considerare tale fenomeno da diversi angoli prospettici. Interrogandosi sul perché un soggetto migra e su quali siano le ragioni per cui un territorio diventa meta di migrazione non si può ignorare un’interessante sintesi di vedute che potrebbe condurre, o introdurre, a quella visione dualista della “libertà sociale” che Amartya Sen dà delle “libertà individuali”. Una libertà di, positiva; una libertà da, negativa23. Applicando la teoria di A. Sen all’esigenza del migrante, ne viene che […]Spostare l’accento dai beni primari e dalle risorse alle capacità e alle libertà può determinare una differenza sostanziale nell’analisi empirica delle diseguaglianze sociali. Questo può, come si è discusso in precedenza, influenzare la valutazione delle diseguaglianze dovute al sesso, alla classe, all’invalidità o alla posizione delle persone. Poiché queste sono alcune delle più scottanti questioni sociali nel mondo moderno, le concrete differenze dovute a questo spostamento di prospettiva possono 22 Migrazione passiva: secondo chi scrive, la “migrazione passiva” non è un ossimoro come appare. In esso si sintetizza il concetto di movimento statico inteso come l’attività stanziale e al contempo intellettualmente dinamica, di chi riceve il migrante ed entra in contatto con ciò che questi porta con sé. Il migrante passivo è la persona preposta all’accoglienza che, ricevendo la testimonianza di esperienze facendole proprie, assommandole al proprio bagaglio esperienziale e, quindi, migra a sua volta pur “stando fermo”. L’operatore d’accoglienza, relazionandosi con il migrante, riceve per osmosi, informazioni e si “contamina” degli usi e delle abitudini di chi è accolto. Lasciando allontanare le certezze della stanzialità, anche se in modo passivo dovuto all’inamovibilità del ruolo e della posizione fisica-geografica, migra anche chi non si muove. La migrazione di chi riceve è tanto importante quanto quella del migrante attivo perché man mano che s’implementa di esperienze riflesse, oltre a presupporre un atto d’apertura mentale progressivo e un pensiero dinamico, lascia l’assolutezza del concetto ego-centrico come paradigma e, considerando l’esistenza come l’accettazione, attiva un’accoglienza continua dell’altro (e della trasformazione del sé), accettando anche il modo “altro” di vivere la stessa quotidianità. 23 Si veda Amartya Sen, Libertà individuale come impegno sociale - Edizioni Laterza, Bari 2007 p.9 23 rivelarsi niente affatto trascurabili. Questo spostamento è rilevante anche in relazione anche ad altre questioni, legate alle prime, quali la scelta dei criteri per stabilire l’esistenza di stati di privazione o di povertà, ovvero, se si considera la povertà in termini di basso reddito (una carenza di risorse) oppure di insufficienza di libertà di condurre esistenze adeguate (una carenza di capacità). Ad esempio una persona che non sia particolarmente povera in termini di reddito, ma che debba spendere gran parte di questo reddito per la dialisi ai reni, può venire considerata <<povera>>, proprio a causa della poca libertà che ha di conseguire apprezzabili functionings 24 . La necessità di tenere conto di differenze nelle abilità di trasformare redditi e beni primari in capacità e libertà è veramente centrale nello studio dei livelli di vita, in generale, e della povertà in particolare.25 Prendendo in considerazione proprio i due aspetti della Cina che conosciamo, cioè la “Cina in Cina” e la “Cina in Italia”, la “teoria delle libertà” in questo particolare frangente può essere d’ausilio nello scegliere in quale direzione orientare per prima l’analisi. Fondamentale, dunque, sarà cercare di capire quali siano stati i segnali che la società italiana in generale – ma il settore dell’impresa, come l’abbiamo appena sfiorato grazie a Edoardo Nesi, in particolare - ha lanciato al mondo e come questi messaggi siano stati raccolti e interpretati all’estero. In questo clima di mutamento degli assetti economici ad esempio nel pratese di cui parla Nesi, gli interessi leciti, quelli criminosi e quelli criminali evolvono solidalmente favorendo, così, la coniazione di una complessa e articolata sintesi Italia-Cina. 24 Functioning: The action for which a person or thing is particularly fitted or employed. In italiano: rendere funzionale attraverso la capacità di ottimizzare azioni creando sinergie tra le persone e predisporre strategie per il raggiungimento di un obiettivo dato. 25 A. Sen, Libertà individuale come impegno sociale - Edizioni Laterza, Bari 2007, pag. 31 24 È fondamentale quindi ricordare che l’Italia, verso la metà degli anni Ottanta dello scorso secolo, dava al mondo i primi segnali dell’odierna crisi economica che, ignorati dal mercato nazionale, non sfuggirono, invece, alla rilevazione degli analisti cinesi. Relativamente all’analisi del fenomeno migratorio dalla Cina si stavano, quindi, gettando le basi di quella che sarebbe stata successivamente indicata come una penetrazione economica. I primissimi anni ’80 furono caratterizzati dal persistere di quel clima recessivo che aveva già caratterizzato l’economia italiana degli anni precedenti. Il tasso d’inflazione su base annua raggiunse nel 1980 un picco del 21,1 per cento, ed anche il ritmo della sua successiva discesa fu più lento rispetto a quello di altri paesi europei: nel 1983 esso era ancora attestato sul 15 per cento. Anche il ritmo della crescita economica si presentava tutt’altro che lineare: mentre nel 1980 era stato caratterizzato da una sorta di mini-boom, il 1982 ed il 1983 si dimostrarono decisamente due anni neri per l’economia, facendo registrare un tasso di crescita negativo dello 0,5 per cento e dello 0,2 percento rispettivamente. Bisognava riandare al 1975 per trovare risultati peggiori.26 In quegli stessi anni, la prima metà degli anni Ottanta, la Cina del dopo Mao processava se stessa e la Rivoluzione Culturale, ma allo stesso tempo, con Deng Xiaoping, promuoveva la politica della porta aperta. Una porta, però, che oltre a consentire l’accesso delle delocalizzazioni occidentali, permetteva di esportare manodopera a bassissimo costo. È in quegli anni che in Occidente approda un “nuovo” modo di fare impresa e P. Ginsborg, nel suo saggio, lo riassume riconducendolo al primo miracolo economico: 26 Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica - Ed. Einaudi, Torino 1989, pp. 546-547 25 Gli anni immediatamente successivi videro però una rapida ed intensa ripresa in tutti i settori, stimolata dalla favorevole congiuntura internazionale; questa a sua volta appariva influenzata dal positivo andamento dell’economia americana, caratterizzato da fenomeni come la discesa del tasso di inflazione e l’afflusso di capitali esteri che venivano così a finanziare il deficit del bilancio nazionale americano. Anche la caduta del prezzo del petrolio giocò un ruolo cruciale. I tassi di crescita migliorarono un po’ in tutta Europa, così come il volume complessivo degli scambi commerciali. 27 Il volano dell’internazionalizzazione inizia dunque a muovere i propri passi. La Cina, sino a ora rimasta in silenziosa attesa ai margini dell’economia occidentale, si affaccia sui mercati con l’energia e la forza proprie delle filosofie tradizionali più antiche, il confucianesimo e lo suntzuismo 28 . Come predisse Mao, il prodromo delle crisi occidentali, tra le quali la più evidente è senza dubbio quella economica, sarebbe stata “l’annunciazione” del miracolo economico per la paziente Cina. L’arrivo in Occidente dei migranti cinesi e del nuovo modo di concepire l’etica del lavoro che questi portano con sé entra in conflitto con la disciplina giuridica e con le istanze sindacali a tutela del diritto dei lavoratori. Compromesso, dunque, l’equilibrio tra le parti sociali, l’ordine e la sicurezza pubblica ne risentono e le tensioni ideologiche sfociano 27 Ibidem, pp. 546-547 28 Sun Tzu fu filosofo e stratega del periodo “Primavere e Autunni” (722-481 a.C.). Il suo pseudonimo letterario fu Ch’ang Ch’ing. Nato nello Stato di Ch’in, fu assunto da sovrano di Wu, il re He Lu. Autore della citata opera “L’arte della guerra”, rimane uno dei più letti filosofi e strateghi, non solo militari, di tutti i tempi. Di lui ci giungono gli scritti e i commenti noti e tradotti in letteratura. 26 in vere e proprie criticità sociali mutandole, talvolta, in derive razziste e frizioni clausewtiziane29. I cinesi consumano anche in tempo di crisi: dibattito infuocato. I ricercatori spiegano a Prato come cresce il ceto medio orientale in un’Italia che non è più attraente per chi sta a Wenzhou. Duro botta e risposta tra Milone e l’imprenditore Angelo Ou. L’assessore: «La vostra ricchezza nasce dall’evasione». «Offensivo parlare di mafia, una forma di criminalità per la quale gli italiani sono famosi nel mondo». L’assessore Milone e ha dato fuoco alle polveri. «Guardiamo anche l’altra faccia della medaglia - ha detto Milone - Guardiamo all’origine della ricchezza dei cinesi, in gran parte frutto dell’evasione fiscale e contributiva». L’assessore ha citato l’ultimo controllo della Finanza (31 lavoratori a nero, di cui uno solo clandestino) e i risultati dello screening sulle ultime 100 aziende cinesi controllate: «Di queste, 46 hanno dichiarato un bilancio in perdita, le altre utili di 10.000/12.000 euro. Se non è evasione questa... Come fa un cinese che dichiara redditi per 5.000 euro a prendere a leasing auto da 40.000? Se mi presento io mi danno una Mazda. Seguendo questa logica, anche le nostre mafie producono ricchezza». […] Un’affermazione questa che ha provocato la dura risposta dell’imprenditore Angelo Ou. «Non capisco che cosa ci fa qui un assessore alla Sicurezza - ha detto - E quanto ai finanziamenti, stia tranquillo, le finanziarie non sono distratte, garantiscono solo chi può pagare i prestiti ricevuti. E’ offensivo parlare di una forma di criminalità per la quale gli italiani sono famosi nel mondo». Quando l’imprenditore ha citato le parole del colonnello Marco Defila della Finanza («I cinesi evadono quanto gli italiani») Milone ha abbandonato per protesta la sala, mentre il giornalista 29 Carl Phillip Gottlieb von Clausewitz, 1 giugno 1780 - 6 novembre 1831, Generale di Sato Maggiore dell’esercito prussiano è autore di numerosi saggi di economia della difesa e del trattato “Vom Kriege” (Della Guerra), attenta rielaborazione in chiave occidentale del pensiero filosofico dello stratega cinese Sun Tzu. 27 Staglianò aggiungeva: «Le do una notizia: gli italiani sono grandi 30 evasori». Un fuori programma che ha rianimato il dibattito. 4. L’affermazione del consumo come valore universale Due teorie del <<bisogno>> si contendono l’onore di fondare – sul piano filosofico - la corsa allo sviluppo. La prima immagina l’accrescimento delle soddisfazioni come teso verso un punto finale comunemente designato con il termine di <<abbondanza>>. Affermando che è possibile mettere fine alla scarsità dei mezzi di sussistenza, questa teoria postula tacitamente che: a) le <<carenze>> dell’esistenza umana si riallacciano essenzialmente alle necessità fisiologiche (alle quali si risponde con la mediazione della produzione in senso lato); b) queste <<carenze>> fisiologiche sono saziabili perché <<finite>>. In questo modo è concepibile uno stato di saturazione e l’accrescimento delle soddisfazioni tangibili può essere considerato come un processo finito. L’abbondanza, utopia vecchia quanto l’umanità, non implica necessariamente la fine della storia perché, in linea di massima, il progresso potrebbe continuare in rapporto ai bisogni che non richiedono la <<risposta delle cose>> per esempio sul piano della conoscenza pura. Il fatto che possano verificarsi delle <<scarsità>> di ordine nuovo –estetiche, intellettuali- costituisce certo un’obiezione valida ma non insormontabile. La seconda teoria è quella <<dei bisogni illimitati>>. Contrariamente alla tesi precedente, essa contesta che il progresso tecnico ed economico possa avere termine perché considera i bisogni –e in particolare quelli che si appagano con l’acquisizione dei beni di consumo o di potenza- come votati a una estensione infinita. Questa teoria spartisce con la tesi dello sviluppo finito solo il suo principio di partenza - <<le carenze richiedono una risposta dalle 30 FONTE: IL TIRRENO dd. 4 ottobre 2013, autore: Paolo Nencioni, http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2013/10/04/news/i-cinesi-consumano-anche-in-tempo-di-crisidibattito-infuocato-1.7861452. 28 cose>> - principio che essa del resto accentua con le possibilità illimitate del perfezionamento umano. L’uomo si perfeziona nella sua qualità di utente delle proprie tecniche. 31 Il contesto socio ambientale in cui l’essere umano era inserito sino alla metà del secolo scorso registra un mutamento importante, proporzionalmente collegato alla rapidità con cui il progresso, inteso come innovazione tecnologica, determina la trasformazione del suo rapporto con la res, cioè con i beni. Mutata la veste e il valore con i quali vengono percepiti proprio questi ultimi essi assumono la valenza di strumenti non più al solo servizio della persona, ma di validazione dell’uomo: complementi della vita in grado di conferire all’utilizzatore lo status sociale. Questa trasformazione, in appena dieci lustri, ha inciso così profondamente nella vita delle persone da determinare la trasformazione dei valori sulla base dei quali si fondavano le dinamiche relazionali tra gli individui. Una società, quella dei primi cinquanta/sessanta anni del ‘900, in cui il lavoro, l’attitudine al sacrificio, la frugalità e la cultura della fruizione e del consapevole rispetto della “cosa” portavano i beni, ancorché non più impiegabili nell’accezione per la quale erano stati prodotti, ad essere riutilizzati. L’obsolescenza della cosa, dunque, non portava necessariamente a “rifiutare”, cioè a creare un “rifiuto”, ma, piuttosto, stimolava al reimpiego, a non dismetterla, ma anzi ad adattarla in una veste diversa per un nuovo scopo utile a 31 Peter Kende La crisi della società produttivistica - Rusconi Editore - Milano 1973, pp. 83-84 P. Kende, nato in Ungheria nel 1952 è laureato in sociologia e svolge la professione di avvocato. Autore di numerosi saggi, egli fornisce una visione originale e rispondente della trasformazione della società alla luce delle sollecitazioni e mutazioni che il mutare del modo di fare economia, impone. 29 sopperire a esigenze positive 32 , allontanando dall’individuo la percezione di un impoverimento derivante dalla perdita di funzionalità del bene de quo. Così tutti i beni riutilizzati venivano posti nuovamente al servizio di quella religione laica e di quella ritualità che si sostanzia e si riconosce nell’allocuzione di propensione al “benessere quotidiano”. Per lo più si tratta di beni che il consumismo invece ha imposto di dismettere e di processare come inservibili scarti al venir meno della loro funzione. Un consumismo che non tocca solo le cose, ma che ha investito anche le persone, assimilate sempre di più al concetto di bene economico, un bene da sfruttare. 5. L’internazionalizzazione del debito. La crisi L’attuale crisi economica e sociale non colpisce solo l’Italia ma, in generale, tutti gli stati del “sistema occidentale”. Contrariamente a quanto s’è inteso far credere da una certa teoria economica, la crisi non è un prodotto inatteso, inaspettato e non preventivabile di un’ecatombe che, nata dal nulla, è in procinto di travolgere tutto e tutti. Si tratta, invece, del risveglio da un sogno, si tratta del crash di un modello di vita che, fallendo, ha sprofondato un “sistema” finora riconosciuto come universalmente valido. È crollato il simulacro di un benessere, fittizio al pari del valore del denaro che l’ha prodotto. L’economia, retta dall’indebitamento progressivo (e compulsivo), aveva costruito su presunzioni di stabilità basate su un calcolo probabilistico 32 Si veda Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi - Ed.: Bollati Boringhieri, 2009; Usa e getta: anatomia delle cose guaste. La follia dell’obsolescenza programmata - Ed.: Bollati Boringhieri, 2013. 30 lontano dal tener conto di variabili che potevano essere considerate quali l’Asia come motore economico del Terzo Millennio. La struttura che oggi è collassata seppellisce, insieme, il “sogno americano”, la sua versione europea e le aspirazioni neocolonialiste occidentali. Sembra ormai acclarato, dunque, che la crisi economico-finanziaria nella quale è stato attratto l’Occidente sia la crisi delle Banche, corresponsabili di aver creato – in funzione dell’utile - l’ologramma di un mondo virtualmente opulento che, però, si regge sui debiti reali del singolo. Quella odierna, infatti, non è la crisi del 1929. Sarebbe utile prendere atto prontamente che nulla tornerà mai più come prima e che, tanto meno, ciò potrà avvenire seguendo i diktat, le ricette, della finanza mondiale che – lontana dal riconoscersi in errore - incentiva e spinge sempre più a nuovi bisogni, nuovi consumi e, quindi, a contrarre nuovi debiti. A nessuno verranno restituite “le meraviglie” cui la culla europea, il brodo di coltura della sperimentazione neocapitalista e liberista del consumismo e del sogno americano, s’è abituata. Questa non è, dunque, una crisi ma è “La” crisi del sistema. È la prima spallata tangibile a un costrutto complicato, a un intreccio (una trama), che svela qualcosa di deteriore creato senza la reale attenzione a sostenere l’esigenza di progresso, in funzione dell’elevazione del benessere del Popolo. Dei processi migliorativi, del progressivo sviluppo e dell’affrancamento dalle malattie, dall’emarginazione culturale e dalla povertà non v’è traccia: al contrario v’è attenzione ad attrarre l’uomo/consumatore nell’universo ludico del “bisogno/desiderio” creato unicamente per sostenere i “castelli di carta (moneta)” virtuale. 31 Quello imbastito dalla finanza mondiale è tanto più simile all’enfatizzazione del gioco d’azzardo e di abilità “delle tre carte” che a una strategia sincrona di economia liberale. Una dimostrazione di abilità, fraudolenta, che fonda la propria essenza sulla capacità di attrarre a sé lo sprovveduto e, con la rapidità del gesto della mano che riesce a ingannare l’occhio, a fagocitarlo nel sistema. Un gioco di velocità di spostamento che, in questo caso, anziché essere inscenato da picari di strada, è sostenuto e legittimato dai Grandi della Terra (autoproclamatisi tali) e consacrato dalla finanza mondiale. Le vittime, in questo caso, sono unicamente i consumatori: una categoria che include ciò che resta delle persone masticate dal mondo dei media e delle pubblicità e nella quale si afferma l’illusione di essere sempre gli unici ad aver individuato (e identificato) la carta vincente, cioè il sogno più vantaggioso da perseguire e sul quale puntare per “vincere sul banco” della vita. Gli accattivanti imbonitori del marketing, personificazione del capitalismo neoliberista, promuovendo l’internazionale del debito (principalmente le banche, indiscusse sovrane del credito al consumo), hanno reso possibile l’affermazione del consumismo e del credito al consumo sull’altra, e ben più virtuosa, internazionale, quella dell’economia sostenibile, dell’etica del lavoro, della solidarietà, della reciprocità e della “fratellanza”. Stefano Zamagni33, partendo da questo assunto, individua nel principio di reciprocità - per cui io ti do liberamente qualcosa affinché tu possa a 33 Si veda Stefano Zamagni, Economia ed etica. La crisi e la sfida dell'economia civile - Ed.: La Scuola, 2009 32 tua volta dare, secondo le tue capacità, ad altri o eventualmente a me la chiave di volta di un nuovo sistema economico, basato sulla cultura della fraternità, capace di porre al centro, e come fine dell'attività produttiva, l'uomo. Diventando, quindi, garanzia di una convivenza armoniosa e capace di futuro che, seppur afferisce anch’esso al mondo della finanza, lo fa latamente e con opportuni distinguo (Banca Etica, Commercio Equosolidale). L’economia occidentale, e quella italiana in particolare - come si evince dall’analisi storica di P. Ginsborg34 - da quasi tre decenni si è avviata, sino poi a piegarsi (ma per non rimanere esclusa dal nuovo mercato), alle logiche della globalizzazione dei consumi. Nell’uniformarsi al generale trend che vede consolidarsi la costante e progressiva attitudine a far migrare il complesso produttivo, trova nella delocalizzazione l’unica via percorribile per aumentare sia la produzione di beni sia i margini di profitto non senza, però, andare a intaccare la solidità delle famiglie minando la stabilità del mercato del lavoro interno e la stabilità sociale. Così facendo l’impresa “migrante” percorre, verso Est, le strade che i beni di larga diffusione prodotti sui mercati vantaggiosi ripercorrono nella direzione opposta per essere immessi in un mercato dove i consumatori, per fruirne, devono ricorrere al credito bancario, all’indebitamento. Spesso si tratta di beni di largo consumo e di facile reperimento, ma voluttuari. 34 Ibidem 33 In seno a taluni gruppi sociali, poi, tali beni assumono una valenza ulteriore e vengono indicati, dagli stessi consumatori, come “beni di riferimento” 35. Il mero poterne fruire, cioè, attribuisce al soggetto che ne è possessore un potere sociale: quello legato alla propria immagine. Seppure non abbiano nulla a che vedere con i beni di riferimento propriamente detti, quelli del paniere, e nemmeno con lo studio dei prezzi al consumo, per i quali il vocabolo “riferimento” venne inizialmente adottato e impiegato, si tratta di oggetti cult, destinati a introdurre accreditando e validando il soggetto che ne è possessore in un determinato ambiente: all’interno della propria tribù. Accreditando, cioè validando, l’individuo presso il gruppo sociale del quale egli è parte, o ambisce a divenire parte, il bene36 esaurisce la propria funzione ed è, paradossalmente, indifferente se esso realmente abbia una utilità o meno. Anzi, la brevità della vita per cui l’oggetto di consumo viene concepito, tiene conto, verosimilmente, anche della “brevità” della sua funzione37. Si apre così la via a feticci38, a simulacri per lo più inutili ma sempre nuovi, in grado di sostenere, di sorreggere, non l’utilità della 35 Secondo il linguaggio gergale del consumatore, con l’accezione “bene di riferimento” viene indicato quel particolare bene deputato a fornire la necessaria “validazione sociale” al soggetto che ne è possessore. Di “riferimento” (rispetto al mercato cui un soggetto si rivolge) lo sono quegli oggetti cult votati non ad assolvere una funzione di utilità in particolare, ma, quali feticci, il cui compito è unicamente quello di far sì che il possessore sia riconosciuto come “adatto” e, quindi, una persona alla quale riferirsi quando la finalità è quella di appartenere a un gruppo determinato in cui aspirare a vivere viene considerato un “valore” o un obbiettivo da perseguire (Z. Bauman – “Consumo, dunque sono” Ed. Laterza). 36 Il breve termine di durata e funzionalità, vuole che il bene deperisca (o passi “di moda” risultando inadeguato alla funzione a cui lo si destina) divenendo rapidamente obsoleto. Per conseguenza, attraverso la politica della “obsolescenza programmata”, nel creare il bene da commercializzare se ne sancisce in re ipsa già la durata e la caducità e se ne programmano le avarie stabilendo una strategia di mercato sui pezzi di ricambio e sulla definitiva cessazione di attività dell’utensile. 37 Si veda S. Latouche, Usa e getta: anatomia delle cose guaste. La follia dell’obsolescenza programmata - Ed.: Bollati Boringhieri, 2013. 38 Si veda Z. Bauman, Consumo, dunque sono – Editori Laterza, 2008. 34 funzione, bensì la posizione del soggetto, riconosciuto e socialmente validato, facendolo muovere agevolmente nel contesto da questi ritenuto qualificante. In una società in cui l’apparire è diventato sinonimo di esserci a dispetto dell’essere, (il “giro di valzer” vorticoso del quale qui si delineano i tratti, e a cui) chi vuole essere “IN” deve necessariamente adattarsi, deve, per sostenersi, poter contare su una progressiva disponibilità di denaro. Tale denaro può anche non essere garantito dal reddito reale, cioè dai salari in senso stretto, ma dall’accesso a linee credito (di debito, in realtà) create e sostenute dagli stessi produttori di feticci. Questo meccanismo è ritenuto, oggidì, l’espressione massima di democrazia intesa come la possibilità di un coinvolgimento trasversale, astratto, generalizzato che consente a “chiunque”, cioè alla generalità dei partecipanti alla società, di potersi indebitare e di disporre di somme in denaro (virtuale) indispensabili a comperare, a consumare. Il consumatore viene così coinvolto nella spirale di un indebitamento compulsivo, progressivo, ma assolutamente “vero”. Le persone dell’era del “mercato globale” hanno sempre più desideri indotti e il crescendo di questi, vissuti come necessità, si amplifica nella misura in cui la possibilità di esaudirli si esaurisce a causa della scarsa liquidità. 35 CAPITOLO II LA FABBRICA DEI DESIDERI TRA ORIENTE ED OCCIDENTE 1. Il controllo sociale: il problema nel problema Pressione, compressione e repressione non sono vocaboli e concetti che dal passato si riaffacciano. La creazione di nuove strategie di controllo sociale rappresenta il segnale distintivo della forma di esercizio di un potere che marchia e contraddistingue l’attuale classe politica. Impaurita e, talvolta, incapace di scelte coraggiose attraverso le quali ricondurre l’economia alla realtà, a qualcosa che sia, in effetti, compatibile con le esigenze dei popoli che si vedono da questa rappresentati, essa affida e si affida al controllo sociale per sconfiggere il dissenso. Oggi è sempre più importante comprendere come le forze economiche di un Paese si organizzino per fare dell'informazione uno strumento di sviluppo economico e di difesa dei suoi interessi vitali, tanto più che la crisi economica in cui siamo entrati rischia di accrescere, ancora di più, la lotta per l'accesso ai mercati mondiali (E. Denécé, Direttore CF2R). Il potere di cui Denécé parla e al quale ci si trova di fronte, infatti, è un potere molto forte, al quale non corrisponde un’ideologia politica (da combattere, abbattere o sostenere), ma è una forza che proietta lo scenario politico - sociale nel passato, facendo sì che i soggetti che esercitano il potere riprendano a farlo come se questo fosse loro per “diritto”. Il controllo delle menti, attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, è l’indicatore dell’annunciata deriva di 36 autoritarismo ai quali i fatti che sconvolsero New York e il mondo nel 2001 hanno introdotto. A protezione del sistema globale non vi sono scelte d’equità sociale, ma impennate autoritarie attraverso le quali gestire l’omogenea distribuzione dell’impoverimento che “deve essere accettato” solo perché è un “fenomeno globale” al quale sembra nessuno possa, o debba, sottrarsi.39 Tutto ciò accade in nome di un supposto e asserito interesse condiviso, quello del sostegno al P.I.L.40, legittimato da un elettorato stanco e indolente, ammaestrato comunque a sostenere l’economia del debito (a ogni livello perché da questo dipende l’illusorietà del benessere pubblicizzato). Il potere legittima se stesso e favorisce, seppur formalmente condannandolo, lo sfruttamento dell’essere umano dando origine, così, all’evidenza che ormai un uomo non vale più del posto di lavoro che lo occupa. 2. La fabbrica dei desideri Nell’era dell’assolutismo delle banche internazionali d’affari non si ignora, così come nell’attuazione delle strategie manageriali, che la delega conferita ai governi e l’autorità di esercitare il potere provengono 39 Si veda David Lyon, Massima sicurezza - Ed.: Cortina Raffaello, 2005 40 Il Prodotto Interno Lordo (PIL) o, in inglese, GDP (Gross Domestic Product) rappresenta il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all'interno di un paese in un certo intervallo di tempo, generalmente l’anno). Il PIL può essere anche definito come il valore della ricchezza o del benessere di un paese. Si parla di Prodotto in quanto il PIL misura il valore dei beni finali prodotti, Interno perché la definizione e il calcolo del PIL prende in considerazione il valore finale dei beni e dei servizi prodotti internamente ad un determinato paese (indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce), a differenza del Prodotto Nazionale Lordo (PNL) che in parte è conseguito all'estero. Del PIL fanno parte i profitti realizzati dalle imprese straniere in Italia, viceversa i profitti realizzati dalle imprese italiane all'estero fanno parte del PNL italiano e del PIL dello Stato in cui hanno sede tali imprese. Il termine Lordo invece fa riferimento al fatto che il PIL è al lordo degli Ammortamenti. 37 da quello stesso popolo sul quale la pressione applicata è tanto semplice, quanto funzionale, a tenere alti i desideri. Avere una collettività di consumatori ai quali donare il desiderio di nuovi bisogni, di nuovi balocchi, è la missione commerciale che, trasformata ed elevata, diviene il progetto politico dello Stato. Dietro l’incentivo al debito (si pensi agli incentivi per la rottamazione degli autoveicoli) c’è una policy, che punta a far ricadere il peso della relazione importante che consegue al rapporto tra “indebitamento/impoverimento” (e che coinvolge il creditore), e che impedisce, a chi dovrebbe subire il controllo, di essere controllato da quella base che estende il proprio consenso, non in ragione di un risultato positivo generale ma sulla scia dell’appagamento del desiderio particolare - meno remoto e più futile – e che la “include” in un contesto che la rende involontaria complice. Il potere derivante da questo modo di intendere la politica è indipendente, autoreferenziale, e si sostiene (come il mercato del quale è promotore e rappresentante) erodendo e/o consumando la democrazia e la legalità, cioè compiendo la trasformazione delle leggi sgradite, o inadatte, al disegno condiviso di globalizzazione in “rifiuti normativi speciali”. Le bolle di dissenso esplodono e determinano così detonazioni non piccole, anche se è proprio questo che descrivono gli strumenti di informazione di massa, all’esclusivo scopo di screditarle: si vuole fare credere che siano indice di un’insoddisfazione sociale marginalizzata e 38 derisa, perché minoritaria, che increspa appena la superficie del magma,. A sottomettere l’Occidente civile, democratico e consumista, a reprimere il dissenso e a quietare gli animi, non sono più necessarie le strutture di controllo sociale proprie del secolo scorso, non sono più le polizie segrete e l’ascolto occulto delle conversazioni intra moenia a opprimere, reprimere e disperdere le folle. Oggi basta il lancio pubblicitario del nuovo smart phone (il cui acquisto è prefinanziato dal debito globale) ed ecco che la pace sociale torna, il dissenso scema dissolvendosi nell’unico desiderio condiviso. L’unico moto di libertà che ancora rimane vivo e riesce a unire trasversalmente il popolo è il desiderio (che ormai è divenuto “bisogno”) di possedere per essere posseduti. 3. Possedere ed essere posseduti In un contesto moderno di ricerca sociale non bisogna aver timore di forzare la metodologia classica ma bisogna cercare di attingere, anche da “fonti” non propriamente scientifiche, le tracce e gli elementi utili a comporre il costrutto dell’analisi. Ad esempio nella rilettura, in chiave scientifica, del saggio di investigazione giornalistica di Tiziano Terzani, La porta proibita, si possono cogliere elementi utili a stigmatizzare la nuova relazione biunivoca tra Occidente e Oriente. Ponendo l’accento su evidenze sottovalutate e per la loro natura e per il taglio con il quale sono state 39 divulgate, si comprende come anche esse contribuiscano a comporre un quadro esemplificativo assolutamente pertinente e appropriato. L'economia dovrebbe essere fondata sulle esigenze dell'uomo. L'economia dovrebbe essere fatta non per i criteri economici ma per l'uomo. La crescita!? Ma siamo sicuri che il progresso deve essere solo crescita? O non sarebbe molto meglio arrivare ad una situazione in cui abbiamo poco ma il giusto. Voglio dire, se ci rimettiamo a pensare ciò di cui veramente abbiamo bisogno, non è quello che l'economia di oggi ci dà. Se tu pensi, oggi l’economia è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose per lo più inutili, che altri lavorano a ritmi spaventosi, per poter comprare, perché questo è ciò che dà soldi alle società multinazionali, alle grandi aziende, ma non dà felicità alla gente.41 L’uomo, l’ambiente nel quale si muove, sono cambiati. Progressivamente, ma non lentamente, il millantato benessere ha trasformato anche i suoi desideri sino a portarlo ad avere sempre maggiori appetiti, fino a far sì che egli sentisse in sé impellente, irrinunciabile, “il bisogno dei propri desideri” e la necessità di desiderare. La rivoluzione neo-liberista42 che è seguita, a partire dagli anni ‘70 del ‘900, al capitalismo produttivista43 proprio della prima metà del secolo 41 Tiziano Terzani, La porta proibita - Ed.: TEA, Tascabili degli Editori Associati –IV Edizione– Milano 2010 42 “Il neoliberismo è una costola del capitolo globalizzazione, incredibilmente sottovalutata nella storia contemporanea. Nei libri di storia, specialmente nei manuali scolastici, la questione è trattata en passant riferendosi a Ronald Reagan e Margaret Thatcher: i leader conservatori che ai primi anni ottanta hanno introdotto, in politica interna, radicali riforme in senso liberista. In realtà i protagonisti di questa storia, dalle radici profonde e dagli effetti globali, sono molti di più, anche se meno “popolari”. La storia del neo-liberismo nasce come opposizione al meanstream degli anni d’oro ’50 -‘70, che era, come abbiamo visto, profondamente ispirato alle teorie economiche di Keynes. Malgrado la crescita record delle economie una piccola cerchia di professori e studenti sviluppò una nuova dottrina anti-keynes. Il centro di questa corrente di pensiero fu l’Università di Chicago e il grande ideologo fu l’economista di scuola austriaca Friederich von Heydek. Le sue lezioni propugnavano un mondo ideale totalmente regolato dalle leggi economiche, senza interferenze da parte dello stato. Un mondo ovviamente irreale; nella realtà invece milioni di persone in Europa e in America, negli anni ’50 poterono curarsi 40 scorso, ha modificato, travolgendoli, gli stessi punti cardine del principio economico liberale. Il modo di intendere il mercato ha fatto sì che si passasse da un capitalismo industriale, spiega Kende nel saggio La crisi della società produttivistica44, a un capitalismo “manageriale azionario”, il cui unico fine è di creare valore a breve periodo per gli azionisti e che ha cambiato la società condensando, negli ultimi trent’anni, delle gratuitamente, percepire reddito anche in situazioni di malattia, infortunio, ferie, disoccupazione; accedere a una pensione di anzianità; usufruire di strutture decenti per l’istruzione, l’assistenza all’infanzia; usufruire di efficienti sistemi di trasporto ferroviario, strade nuove e scorrevoli, quartieri finalmente vivibili…ecc. ecc. Le economie “aiutate” dai capitali statali, spesso da aziende nazionalizzate, fornivano servizi essenziali a prezzi irrisori: luce, acqua, gas diventarono comuni nelle abitazioni delle principali cittadine dei paesi industrializzati. Tutti gli indici economici e sociali segnavano progressi più o meno sensibili. La ricchezza complessiva aumentava e – in parte – questa crescita era condivisa dall’intera popolazione. […] La ricetta, che passerà all’opinione pubblica come neoliberista, era presentata da Friedman e i suoi seguaci come una vera e propria “scienza esatta”. Qui sta il clamoroso successo di una pratica economica disastrosa a qualunque verifica empirica: presentare con l’aurea della “imparzialità scientifica” modelli matematici del tutto privi di coerenza con la realtà, ma di straordinario beneficio per i settori più dinamici della finanza e della imprenditorialità mondiale […].” FONTE: http://storiacontemporanea.eu/globalizzazione/il-neoliberismo 43 “Si tratta di una sorta di ‘mutazione genetica’ del capitalismo manageriale, che, da produttivista qual era dal secondo dopoguerra fino, in media, agli anni Ottanta del Novecento, si è trasformato in capitalismo azionario manageriale. Da un punto di vista meramente formale, la mutazione parrebbe anodina. Ma basti paragonare le due strutturazioni per rendersi conto che così non è. Il capitalismo manageriale produttivista contribuì all’affermazione del Welfare State, dunque ad una perequazione distributiva del prodotto interno lordo delle democrazie occidentali, incardinato sull’arricchimento della classe media (anche perché in qualche modo condizionato – sostiene il Gallino – dallo spauracchio collettivista al di là della Cortina di ferro). Ciò fu possibile grazie al cosiddetto compromesso fordista, ovverosia la realizzazione di prodotti sempre più concorrenziali a prezzi sempre più bassi, grazie ad un’organizzazione del lavoro sempre più efficiente. La qual innovazione implementò circoli virtuosi per il reddito e l’occupazione. […] il circolo virtuoso scricchiolò allorché si dovette fronteggiare una congiuntura negativa mondiale (dalla seconda metà degli anni Settanta in poi) che produsse la drastica diminuzione dei tassi di profitto. Tra le cause preminenti viene indicato […] l’esaurimento delle basi tecnologiche ed economiche del modo di produzione fordista (pag. 98). Ed ecco che allora, nelle aule delle Business School, in specie anglosassoni, venne creato pian piano l’antidoto: il pensiero neoliberale, che si basava su una radicale inversione della destinazione non solo dei profitti aziendali, ma anche dell’intera politica del management. Fra i nuovi "guru", basti ricordare gli economisti Milton Friedman e Franco Modigliani. Nacque così il nuovo credo ed il nuovo imperativo categorico: la teoria della massimizzazione di valore per l’azionista.” FONTE: Luciano Gallino, L’Impresa Irresponsabile, Edizione Einaudi, 2005 44 Si veda P. Kende, La crisi della società produttivistica, Rusconi Editore, Milano, 1973 41 trasformazioni che non reggono il paragone con quelle lente e diluite (ma più solide) che si erano succedute nei secoli precedenti. Il tempo, sufficiente e idoneo, a che le strategie mediatiche delle televisioni “libere”, dei media e del web, andassero a insinuarsi nelle case prima, nella quotidianità e nelle coscienze di un popolo in trasformazione poi, ha inciso così profondamente da modificare non solo, e non tanto, il modo di trasmettere l’informazione, ma anche la capacità di riceverla, di comprenderla e di assimilarla. In questo breve lasso di tempo, quindi, sono intervenuti fattori in grado di modificare e stabilire, secondo nuove linee guida, i ruoli sociali dell’individuo sino a portarlo a un grado di condizionamento tale che ha finito per generare una società liquida ed orientabile nella percezione dello stesso “bisogno”. Zygmunt Bauman, nel saggio Consumo, dunque sono, coglie e stigmatizza tutte le fasi del processo di opacizzazione e sostituzione della capacità critica soggettiva (alla quale l’uomo si riferisce consapevole dei propri bisogni e desideri per compiere le proprie scelte) con una che è artificiale, collettiva, generalista e la cui veicolazione è affidata ai media, veri titolari del “potere” attraverso l’orientamento delle coscienze. È in tale quadro, dunque, che si compie la trasformazione ultima per cui un popolo di utenti e di clienti, diventa la massa indistinta e acritica di produttori di consumo: generatori di rifiuti. Assolto il ruolo d’incentivazione che il marketing pubblicitario (trasversalmente) spalma sui mezzi di comunicazione, dalla televisione 42 al web, si è pronti a riconoscere, accresciuto e rafforzato, il desiderio di affermazione di questo uomo nuovo proteso verso il “possedere” un numero sempre maggiore di beni, irrinunciabili feticci di validazione sociale, simbolo più che del sé, del liberismo consumista occidentale. Attraverso l’adorazione di “nuovi oracoli” che rivelano le nuove tendenze e santificano icone cult, avviene la trasfigurante validazione sociale dei modelli stereotipati di libertà (essenzialmente libertà di possedere) che i “media” hanno introdotto, sostituendoli al pensiero critico che conduce all’essere. Se ci si fermasse a questa considerazione e non si facesse attenzione al lessico fin qui usato, si potrebbe dire di essere innanzi all’ormai abusato dilemma tra avere o essere 45 , ma non è così. L’annoso 45 Erich Fromm, Avere o essere? - Ed. Mondadori, Milano 1977. “Avere ed essere” sono modalità esistenziali, entrambe sono potenzialità della natura umana: alla base della modalità esistenziale dell'avere vi è un fattore biologico, la spinta alla sopravvivenza (pag.134), alla base della modalità esistenziale dell'essere c'è il bisogno di superare il proprio isolamento, che è una condizione specifica dell'esistenza umana. A decidere quale modalità avrà il sopravvento per la maggioranza è la struttura sociale con le sue norme ed i suoi valori (pag.141). Il carattere sociale fonde la psiche individuale e la struttura socioeconomica (sì che gli individui "desiderano fare ciò che devono fare", pag.176). I mutamenti solo psichici sono limitati alla sfera privata e sono inefficaci come i mutamenti economici, se non riguardano anche il carattere. La struttura caratteriale dell'individuo costituisce il suo vero essere, mentre il suo comportamento può essere solo una maschera, un'apparenza (pag.130; il fanatismo, osserva l'Autore, talvolta serve a coprire impulsi opposti, pag.116). Le strutture socioeconomica, caratteriale, religiosa sono inseparabili (pag.182); la rivoluzione francese non fu solo politica ma anche religiosa (pag.189). L'uomo, osserva Fromm, è come un recipiente che mentre lo si riempie, ingrandisce, così che non sarà mai pieno (pag.93), il nostro io è alla base del nostro sentimento di identità e comprende sia qualità effettive (corpo, possessi, cognizioni) che fittizie (immagini di noi, pag.100). La determinazione istintuale minima che caratterizza la specie umana rende necessari i sistemi referenziali di orientamento (mappe) e gli oggetti di devozione (mete, pag.180), mappe e mete che peraltro non sono mai del tutto esatte e mai del tutto sbagliate (pag.181): ogni cultura (passata, presente, futura) comprende sia i mezzi di orientamento che gli oggetti di devozione, vale a dire una religione. L'atteggiamento religioso è un aspetto della struttura caratteriale (pagg.177-178). La libertà umana è limitata dal nostro io, dai possessi e dalle opere; la libertà come condizione per la creatività comporta non avere legami che impediscono la propria autorealizzazione (pag.92). L'Autore distingue due forme di essere, una contrapposta all'avere, l'altra all'apparire (pag.43), e distingue l'avere esistenziale (beni necessari per soddisfare bisogni) dall'avere caratteriologico, che è socialmente determinato ed in conflitto con l'essere (pag.117). Il possesso è un momento transitorio del processo vitale (pag.107), nella storia umana la proprietà privata costituisce un'eccezione e non la regola; Fromm 43 dilemma si esaurisce nei tecnicismi del lessico giuridico, che tecnicismi, poi, non sono perché rappresentano la sostanza, la differenza di approccio alla posizione giuridica del bene, della res, di cui il possessore ha la detenzione. Dato che il concetto di “avere” porta insito in sé quello della proprietà sul bene nei confronti del quale viene esercitata la potestas, si disquisisce ora se, con essa proprietà, s’apre nei confronti di chi è titolare di tale diritto la possibilità di esercitarvi il potere proprio del dominus. L’acquisto del bene di validazione sociale, in questo caso, non avviene attraverso l’investimento di una somma di denaro risparmiata, cioè di un capitale devoluto all’accrescimento di una condizione di benessere commisurata alla possibilità finanziaria, ma, viceversa, attraverso l’assunzione di una posizione debitoria; per dirla in gergo di mercato: aprendo una linea di credito al consumo. Il possessore 46 , asseritamente proprietario del bene, s’intesta in realtà unicamente il contratto di mutuo47 utile all’eventuale acquisto del bene, ma che lo legherà a una agenzia di credito (bancaria o finanziaria) che elenca altre forme di proprietà: autoprodotta, personale o funzionale, limitata, comune (pag.98). La stragrande maggioranza è esclusa dalla proprietà dei mezzi di produzione (capitali e impianti), molto più diffusa storicamente è invece la proprietà patriarcale, che è una proprietà non su cose ma su esseri viventi. 46 Possesso: il vocabolo, nella sua accezione giuridica, designa un potere “di fatto” da esercitare sulla cosa (res) che si manifesta in un’attività corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale minore. Il possesso è una situazione di fatto che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale, in una parola, tutelando e attribuendo valore giuridico alla detenzione. 47 Il mutuo è un contratto specifico, poiché definito da una norma del Codice Civile. L’art 1813 c.c.. infatti dispone che: “il mutuo è il contratto col quale una parte (mutuante) consegna all'altra (mutuatario) una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l'altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità”. Mutuo è il termine giuridico usato per indicare qualsiasi forma di “prestito”, sia esso di piccola entità sia per l’acquisto di un immobile. Tale descrizione include qualsiasi tipo di debito, anche se solitamente l'oggetto del contratto è il denaro. È intuibile come il mutuo sia il principale contratto di prestito utilizzato ai nostri giorni, poiché permette di trasferire soldi da un soggetto a un altro, al fine di consentire alla persona che chiede il prestito (mutuatario) di godere dei benefici del poter acquistare ciò di cui ha bisogno. FONTE: http://www.studiocataldi.it/mutui/il-mutuo.asp 44 apre in suo favore una linea di debito. L’accesso al debito, quindi, non legittima, affatto il possessore del bene a dirsene proprietario, anzi, dopo aver creato l’illusorietà nel possessore di essere il dominus dell’oggetto, alla prima rata di mutuo scaduta e non assolta ecco che il mero possesso del bene conduce a prendere atto che da “possessore” (non proprietario) a “esecutato” il passo è assai breve. Una considerazione a margine va comunque fatta e afferisce l’angolo prospettico dal quale il consumatore osserva il mondo, l’ambiente nel quale si muove e nel quale, migrando, tende a inserirsi. Appare del tutto inverosimile, infatti, che la finzione, cioè la realtà virtuale alternativa e rappresentata dai format televisivi o dai giochi che solcano l’oceano del web, possa essere un modello (o “il” modello) da emulare per riconoscersi validi. Il mondo su cui l’occhio si posa è filtrato dai media48; le sue forme, le proporzioni, hanno la consistenza che avrebbero se lo si contemplasse attraverso una lente deformante, un filtro che impedisce di distinguere la nitidezza che si pone come confine tra la realtà e la finzione. Il panorama descritto nelle considerazioni che precedono non ha la presunzione di spiegare come la società si è trasformata, ma si prefigge lo scopo di imporre una riflessione e di metterne in evidenza determinati aspetti contraddittori. Lo studio di tali elementi diventa imprescindibile pensando a quante persone sono state asservite alla bontà del supposto progresso del modello occidentale. 48 Mass media, l'insieme dei mezzi di comunicazione e di divulgazione (web, televisione, cinema, radio, giornali, manifesti) che rivolgono al pubblico messaggi e informazioni. 45 Ci accingiamo quindi a indagare, per comprendere come taluni comportamenti che sino a pochi decenni fa venivano descritti e indicati come socialmente inaccettabili per l’indice di inciviltà giuridica e barbara testimonianza di una involuzione del rapporto dell’uomo con il lavoro, siano oggi accettati, se non addirittura incoraggiati, poiché funzionali al mantenimento di uno status, di un modello di società, al quale non si vuole rinunciare. Ecco come l’ologramma, il paesaggio fantastico che la suggestione mediatica proietta attraverso la sovraesposizione del consumatore ai messaggi di promozione commerciale, diviene l’alternativa plausibile e verosimigliante della realtà. Un mondo immaginario e immaginifico, in cui si ostinano a vivere i destinatari stessi dei messaggi, ma che non corrisponde affatto all’imperfetto e talvolta irto sentiero che la vita presuppone venga percorso: The Truman Show. Con una grossolana distorsione e perversione dell’essenza autentica della rivoluzione consumistica, la società dei consumi è perlopiù rappresentata come incentrata sulle relazioni tra il consumatore, saldamente collocato nello status del soggetto cartesiano, e la merce, nel ruolo dell’oggetto di Cartesio, anche se in tali rappresentazioni il centro di gravità dell’incontro soggetto-oggetto si trasferisce in modo decisivo dall’area dell’osservazione alla sfera dell’attività. In questa il soggetto cartesiano pensante (che percepisce, esamina, confronta, stima, valuta nella sua rilevanza, rende intelligibile) si trova di fronte (proprio come avveniva durante l’osservazione) a una molteplicità di oggetti nello spazio (che egli percepisce, esamina, confronta, stima, valuta nella loro rilevanza, comprendente); ma 46 ora deve anche affrontare il compito di maneggiarli: spostarli, farli propri, usarli, scartarli. 49 Quella di cui si tratta è una quotidianità nella quale la soddisfazione dei bisogni e l’appagamento dei desideri sono confusi e spesso svincolati dal lavoro e dal proporzionato guadagno. Sacrificio e risparmio, sebbene il particolare momento storico li richieda (e le piazze ne sono la prova tangibile), sembrano essere stati espunti dal novero dei concetti cardine trasmissibili. Non appartenendo più, di fatto, al bagaglio ereditabile dei valori dei quali si compone il processo educativo, sono stati marginalizzati e relativizzati. A loro s’è, infatti, sostituito un modello basato sulle Libertà (positive e negative) delle scelte (e dalle scelte) che esalta l’estemporaneità e l’occasionalità degli elementi che si pongono alla base del “successo” che nella vita un individuo può dire d’aver raggiunto: “È stato libero di… perché era libero da”. Si tratta di elementi che non fanno riferimento ai valori di sacrificio e lavoro, ma guardano con un occhio ammirevole al “fato”: la fortuna, come unica via da perseguire per giungere al benessere e all’agiatezza. Quello che si prospetta in questo passaggio, epocale, di concepire il valore lavoro è senz’altro un percorso disseminato di scorciatoie, di opportunità da cogliere al volo, di lotterie e di “gratta e vinci”. Un percorso costruito al contrario che sovverte ogni aspettativa ponendo i soggetti sociali in competizione tra loro: protesi verso un punto d’arrivo, un traguardo, tanto fantasioso quanto prestabilito, artificiale e patinato, 49 Z. Bauman, Consumo dunque sono - GLF Economica - Edizioni Laterza 2008, pag. 16. 47 che riassuma - in tutto e per tutto – la “realtà” surreale delle soap opera elevata a modello. Il teorema valido a rappresentare come sarebbe avvenuto il passaggio epocale al “futuro” con il miglioramento e l’elevazione delle condizioni di vita annunciava panorami diversi. Nel 1990, infatti, l’interrogativo verteva su: […] possiamo chiederci perché la domanda culturale aumenta nella società contemporanea. A questo proposito, com’è noto, è stato fornito un primo ordine di risposte, che fanno riferimento all’aumento del reddito e della scolarità o alla riduzione del tempo di lavoro. Si tratta, evidentemente, di risposte fondate. Con l’innalzamento del livello del reddito e l’aumento del tempo libero a disposizione, è possibile finalmente che ampie masse di popolazione sviluppino, per la prima volta, forse, nella storia, bisogni diffusi di cultura, o anche, come sono stati chiamati, bisogni <<post-materialisti>> […]50 La speranza di vedere il benessere economico dato dallo sviluppo e dalla crescita derivanti dal modello globalizzato, correlato proporzionalmente al potere derivante dall’evoluzione culturale e ai benefici che avrebbe portato, non ha fatto intuire che un potere occulto, una “mano invisibile” (che nulla ha a che vedere con quella di A. Smith), affidandosi a bassi istinti, avrebbe condotto la società ad un punto in cui non sarebbe stato più l’uomo a sostenere e competere con l’uomo, cercando lo spazio per crescere ed affermare la propria personalità, ma sarebbe stato il diktat delle multinazionali ad affermarsi sull’uomo stesso. La prassi del sistema per auto conservarsi è di sollecitare costantemente nuovi bisogni attraverso la rete di commercializzazione 50 Massimo Paci, La sfida della cittadinanza sociale - EdizioniLavoro, Roma 1990, pag. 105 48 di beni voluttuari e di largo consumo, beni resi “accessibili” a tutti dal sistema dell’indebitamento progressivo, una realtà artificiale alla quale non si può rinunciare. Si tratta di un percorso, quello di cui stiamo parlando, facilitato e agevolato in tutto e per tutto. Un costrutto inteso a far collassare quello che, rimasto stabile di una struttura sociale a “chilometro zero” (fondata su valori, condivisi e condivisibili, quali il recupero, il reimpiego, la solidarietà e la democrazia), rischiava di compromettere l’affermazione del “nuovo concetto” di mercato, di marketing globalizzato che si stava affermando sempre più. La privatizzazione delle onde radio se tanto bene ha fatto al pluralismo d’opinione e alla democrazia ha anche aperto un vortice in cui oggi, tutto ciò che si muove e che si è sostituito al mondo della comunicazione, si inabissa divenendo comunicazione alla massa51. Questo mondo non si è affacciato alle porte delle case d’improvviso, ma ha seguito un percorso logico, strutturato e preordinato: la sinergica strategia dell’inganno, dell’errore, attraverso la quale l’individuo da “essere” umano è trasformato in telespettatore. Esposto alla comunicazione “alla massa” per un periodo progressivamente sempre più lungo della giornata, del proprio tempo libero, l’uomo si affida a chi 51 Secondo chi scrive, la comunicazione alla massa si connota per l’attitudine a convogliare l’informazione che sottende il raggiungimento di un esito finale attraverso l’uso e l’impiego di tecniche di comunicazione che, suddividendo e parcellizzando il messaggio finale in più “messaggi convergenti” e concomitanti, inducono il destinatario a supporre di sviluppare un “pensiero autonomo” che in realtà è previsto e standardizzato. La comunicazione di massa, invece, presuppone che le masse comunichino (tra di loro), “facciano rete” e, nel far ciò, inneschino la virtuosità tipica della diversità di opinioni a confronto. Il fraintendimento su cui si giuoca, l’ambiguità nell’uso dei vocaboli è evidente nell’uso delle locuzioni “comunicazione di massa” e “comunicazione alla massa” perché il messaggio che si vuole sia veicolato deve “suonare” come un sinonimo e, dai grandi media, deve essere ripreso perché lo omogeneizzino nel tentativo – che parrebbe riuscito - di validare se stessi e nulla più. 49 “lo accompagna”, a chi, fornendogli realtà preconfezionate e mondi surreali, persegue lo scopo di riprogrammarne la funzione sociale e progettarne un “nuovo modello d’inserimento”, assolutamente compatibile con la società dello sfruttamento e del consumo. Invece di ordinare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso generale.52 Quello al quale ci si trova innanzi, nell’era del consumo, è un essere umano prostrato, intellettualmente stremato, “consumato” al punto da non essere più in grado di filtrare alcunché perché: […] Ci sono troppe informazioni in circolazione. Nella società dell’informazione bisogna essere assolutamente capaci di difendersi dal 99,99 per cento delle informazioni che ci vengono offerte e di cui non abbiamo bisogno.53 Sebbene il consumatore aumenti la propria capacità di possedere, egli risulta proprietario di un numero sempre minore di beni. È proprio grazie alla crescente possibilità di indebitamento che si sostanzia il paradosso del consumatore che, infatti, più possiede più è povero. All’aumento dei beni posseduti corrisponde l’avanzare progressivo della condizione d’indigenza alla quale, però, non corrisponde (come sarebbe logico aspettarsi) la propensione a un’inversione di “rotta”, cioè 52 Thomas H. Eriksen, Tempo tiranno - Ed.: Eleuthera, Milano 2003, pp. 139 e 144 53 Ibidem 50 alla tendenza verso una minore esposizione debitoria. Al contrario, s’innesca una più accesa competizione per accedere a nuove forme d’indebitamento, di accesso al credito, che consentano di essere (di apparire) esattamente come s’immagina che la società vorrebbe si fosse per essere accettati (essere validati). Così il soggetto progressivamente “salva” se stesso, sottraendosi al confronto con “l’altro” che, sebbene viva in analoga condizione, risulta come lui riluttante a condividere quel senso d’inadeguatezza e di malessere che lo rende sempre più propenso a isolarsi, a sfuggire agli occhi del proprio simile, rifugiandosi nella realtà alternativa di una folla di monadi leibniziane54 inclini a sognare, isolatamente, in una comunità che non comunica più in modo autentico. […] la società dei consumatori (pur andando contro i fatti) non ammette differenze di età o di genere, e non farà sconti né all’una né all’altro; e nemmeno riconosce (pur andando clamorosamente contro i fatti) distinzioni di classe. Dai centri geografici della rete mondiale delle autostrade informative fino alle sue più remote e immiserite periferie << i poveri si trovano giocoforza in una condizione in cui sono costretti a spendere lo scarso denaro o le poche risorse per procurarsi oggetti di consumo privi di senso, anziché sopperire a bisogni 54 Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Monadologia: la Teoria delle monadi ci dice che esse, non avendo parti, non possono essere formate né disfatte: esse non possono cominciare né finire secondo natura, perché durano quanto l'Universo che potrà essere modificato ma non distrutto. Esse non possono avere figure, altrimenti avrebbero parti: una monade, perciò, non può in se stessa e nel momento essere distinta da un'altra che per qualità e azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni (cioè le rappresentazioni, nel semplice, del composto o di ciò che è esterno); e le sue appetizioni (cioè le tendenze da una percezione all'altra), che costituiscono i princípi del cambiamento. La semplicità della sostanza, infatti, non esclude la molteplicità delle modificazioni, che devono trovarsi insieme nella stessa sostanza semplice e che devono consistere nella varietà dei rapporti con le cose che le sono esterne. E’ come un centro o punto, nel quale, per quanto semplice, si trovano una infinità di angoli, formati dalle rette che vi concorrono. 51 fondamentali, al fine di allontanare da sé una tale umiliazione sociale e la prospettiva di essere umiliati e derisi >>. 55 In attesa davanti al media che informa, l’essere umano avrà la possibilità di entrare a far parte della nuova casta digitale. Per Z. Bauman: Consumare significa dunque investire nell’appartenenza alla società, che in una società di consumatori significa “vendibilità”: l’acquisizione di caratteristiche per cui esista già una domanda di mercato, o la trasformazione di caratteristiche che già si possiedono in merci per le quali si può continuare a creare domanda. La maggior parte dei prodotti offerti sul mercato deriva la loro attrattiva, e il potere che ha di chiamare a raccolta consumatori entusiastici, dal suo vero o presunto “valore d’investimento”, reclamizzato apertamente o suggerito 56 indirettamente. 4. Privacy e media: le preferenze dei consumatori L’uomo digitale, nel rapporto che ha con se stesso e con i mezzi di comunicazione, da un lato percepisce il diritto alla riservatezza sui dati “sensibili” che gli appartengono (luogo e data di nascita, orientamento sessuale e credo religioso o politico) come un bene irrinunciabile ma poi, dall’altro lato, assume come indicatore della propria libertà la possibilità di mostrarsi senza veli nei social network. Nella convinzione di essere anonimo, riversa se stesso in un recipiente al quale tutti possono accedere e che processa ogni singolo dato che in esso è immesso. 55 Z. Bauman, Consumo, dunque sono, pp.69-70 Ed.: Economica Laterza, Roma 2010 pp.69-70 56 Ibidem p.71 52 È, appunto, attraverso la cessione gratuita di informazioni conferite spontaneamente dal singolo che vengono estrapolati i dati che orienteranno chi produce beni sulle preferenze del consumatore al quale il dato viene restituito sotto forma di stimolanti e accattivanti pubblicità. […] tutto quello che avviene nella società non avviene per costrizione: le persone vogliono questo modo di consumo, questo tipo di vita, vogliono passare tante ore al giorno davanti alla televisione e giocare con il computer a casa. C’è qualcosa di diverso da una semplice <<manipolazione>> da parte del sistema e delle industrie che ci guadagnano. C’è un enorme movimento – uno scivolamento – in cui tutto si tiene: le persone si spoliticizzano, si privatizzano si rifugiano nella loro piccola sfera <<privata>>, e il sistema fornisce loro il sistema per farlo […].57 I creatori di bisogni, infatti, risultano costantemente in grado di migliorare la propria efficacia e competenza rendendo la diffusione di “offerte” sempre più attagliata ai desideri del consumatore che ubbidisce alla logica: Consumo dunque sono. Denunciare l’aggressione pubblicitaria, oggi veicolo di ideologia […del nulla], è sicuramente il punto di partenza della controffensiva per uscire da quello che Castoriadis chiama <<l’onanismo consumistico e televisivo>>. […] In effetti la pubblicità costituisce la molla fondamentale della società della crescita – cosa d’altronde riconosciuta, non senza un certo cinismo, dagli stessi pubblicitari. <<Possiamo svilupparci soltanto come società di sovraconsumo – scrive Jaques Séguela -. Questo surplus è una necessità del sistema. […] Questo sistema fragile sopravvive soltanto grazie al culto del desiderio>>. In sostanza, siamo di fronte a un vero e proprio 57 Si veda Cornelius Castoriadis, Una società alla deriva, colloqui e dibattiti 1974-1997 - Ed. Elethéra, Milano, 2005. 53 complotto, ben analizzato da Edward Bernays, il nipote di Freud, che come un perfetto cesellatore ha snaturato la psichiatria per applicarla al marketing, cioè all’arte del riduttore di teste per eccellenza. […] Bernays dichiara che: <<la manipolazione consapevole ed intelligente delle abitudini e delle convinzioni delle masse è un elemento importante della società democratica. Coloro che manovrano questo meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è la vera potenza regnante del paese>> .58 5. La manipolazione Il consumismo, la pubblicità occulta, l’obsolescenza programmata, la manipolazione dell’informazione e la cessione dei dati sensibili entrano in connessione con la migrazione e lo sfruttamento degli esseri umani. In un primo tempo, infatti, furono predisposti piani per arginare le migrazioni dei gruppi umani provenienti da regioni della terra economicamente svantaggiate o colpite da catastrofi e attratti da una rappresentazione del benessere occidentale ostentata e diffusamente proposta sui media. L’organizzazione dei flussi migratori nati come esigenza spontanea di allontanarsi da luoghi depressi del mondo è raccolta da organizzazioni criminali il cui fine lucrativo è entrare, quali monopolisti, nel mercato internazionale del traffico di esseri umani. Tale traffico aumentava i costi del lavoro, la competizione e, contemporaneamente, riduceva i margini di profitto per gli imprenditori (vedi “Storia della mia gente”, Nesi), nelle pieghe del tessuto socioeconomico, favorendo lo sfruttamento della manodopera illegale 58 S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita - Ed. Bollati Boringhieri – Trebaseleghe (PD), pagg. 143-145. 54 sempre più facilmente reperibile sul mercato clandestino a costi davvero vantaggiosi. L’Europa ha prontamente agito, sia nell’apparente tentativo di disincentivare le migrazioni, sia nel perseguire obiettivi economici che conducessero le imprese ad aumentare i profitti attraverso la “delocalizzazione” dei cicli produttivi proprio nelle regioni geografiche di provenienza dei più cospicui gruppi migranti. Il tentativo occidentale di affermarsi, attraverso una politica di aiuto allo sviluppo dei Paesi “poveri”, propone uno schema che si pensava superato con la decolonizzazione post bellica del 1947. È così che il neocolonialismo59 si afferma con lo scopo di tentare di asservire, sfruttandole, le popolazioni di quelle stesse aree geografiche sulle quali le strategie di egemonia imperialista ottocentesche e dei primi decenni del ‘900 avevano già esercitato una pressione politico economica rilevante. 59 Neocolonialismo: politica perseguita da alcune potenze industriali, spesso ex coloniali, che consiste nel mantenere i paesi in via di sviluppo in una situazione subalterna, esercitando forme di controllo e di condizionamento sulla loro vita economica e politica. Il fenomeno neo-coloniale viene teorizzato per la prima volta dal premier indonesiano Sukarno in occasione della Conferenza di Bandung del 1955. Tale espressione entrata, poi, nel linguaggio politico contemporaneo durante la Terza conferenza dei popoli africani tenuta al Cairo nel 1961 quando il presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, esaminando la situazione interna dei regimi africani, denuncia che la loro autorità di governo non deriva dalla volontà popolare, ma dal sostegno dei loro “padroni neocoloniali” che, nella maggior parte dei casi, eterodirigono o condizionano il sistema economico e la vita politica di questi Paesi con una forma di “neocolonialismo”. Secondo la teoria di J. Woddis, che integra e in alcuni tratti si oppone a quella di Nkrumah, ha evidenziato quanta importanza abbia avuto l'adesione ‘spontanea’ di alcune frazioni della borghesia delle ex colonie al progetto di alleanza con le forze economiche, sociali e politiche dei Paesi imperialisti. Secondo la tesi sostenuta da C. Leys, invece, si dovrebbe parlare di neocolonialismo non solo come di una forma particolare di politica imperialista, ma anche come di una caratteristica della vita politica, sociale ed economica degli Stati con un passato coloniale nei quali la transizione all'indipendenza ha coinciso con il trasferimento del potere politico dal governo dello Stato colonialista a un regime locale sostenuto dalle classi sociali legate agli interessi stranieri. Ancora secondo Leys, il trasferimento del potere alle nuove classi dominanti avrebbe, quindi, dato luogo alla nascita di una forma di colonialismo interno dipendente dal sistema capitalistico che denuncia in sé l’impossibilità di ogni velleità neocolonialista che prescinda dall’alleanza tra i regimi politici dei Paesi emergenti e quella dei Paesi capitalisti ex coloniali. 55 Una massiva e incentivata operazione d’investimento che, questa volta, non restituisce i vantaggi attesi e la migrazione cinese verso l’Italia è di ciò il paradigma. 56 CAPITOLO III COMUNICARE LA CINA 1. La Cina, la fabbrica del mondo Osservata la trasformazione della società occidentale alla luce delle modificazioni intervenute con l’affermarsi del capitalismo neoliberista e della promozione di nuovi bisogni attraverso i mezzi di comunicazione alla massa diffusisi con l’affermazione di internet e di tutte le nuove tecnologie, va ora rivolto lo sguardo alla Cina. Il continente che, divenuto la fabbrica del mondo, si sta imponendo sul mercato e la finanza mondiali attraverso la riconversione e l’attualizzazione del pensiero e delle filosofie tradizionali arcaiche di cui il Popolo cinese, indipendentemente dal regime politico che nei millenni lo ha governato, è rimasto depositario. 57 Affrontare il tema della funzione che hanno la legalità60 e la legittimità61, in un contesto in cui l’uomo e il suo lavoro sono posti al centro dei bisogni della società, richiede un approccio interdisciplinare e comparativo che traccia, necessariamente, alcune linee nette tra ciò che usualmente si fa e ciò che dovrebbe essere fatto. Si pone in evidenza, quindi, come gli “sfruttati”, ancorché così non sembri nell’era delle delocalizzazioni, non sono mai divenuti veramente e meramente funzionali ai bisogni consumistici, ma si sono rafforzati divenendo i principali, avveduti, produttori e fornitori di quanto continua a indebolire il sistema occidentale. Reggono e sorreggono, con le loro braccia, la decrescita, tutt’altro che felice, di un sistema obsoleto e decadente. 60 Legalità. Principio in base al quale alla legge statale è affidata la regolamentazione di importanti materie attraverso la previsione della riserva di legge, cioè lo strumento che attribuisce alla sola legge (e agli atti ad essa equiparati) l’onere di disciplinare una data materia. Essa è una regola che impedisce al legislatore di lasciare che una data materia sia disciplinata da atti che stanno a un livello gerarchico più basso della legge. 61 Legittimità. I criteri che presiedono la definizione di legittimità possono essere distinti fra: oggettivisti e soggettivisti. Per gli oggettivisti: cosa è legittimo è definibile sulla base di criteri universalmente validi. La definizione di ‘legittimo’ presiede una concettualizzazione razionale di regime politico ‘giusto’. La legittimità è una proprietà intrinseca del suo oggetto. Per i soggettivisti cosa è legittimo è relativo all’opinione degli individui soggetti ad un determinato potere. Non esiste, dunque, una concezione sostantiva di “potere legittimo” che sia universalmente condivisibile. La legittimità è una proprietà della relazione fra oggetto e soggetto. Le definizioni oggettiviste di legittimità in genere sono legate ad una valutazione del rapporto di potere in capo ad un osservatore esterno, mentre le definizioni soggettiviste, al contrario, concepiscono l’attribuzione della legittimità in capo a coloro che vi sono sottoposti: in questo senso, il criterio di legittimità non può dirsi unico e condivisibile, bensì relativo allo specifico contesto. Definizioni di tipo oggettivista si ritrovano generalmente in ambito di filosofia politica. I criteri di definizione della legittimità sono, in questo caso, criteri morali. Un esempio classico di definizione soggettivista di legittimità è, invece, quello offerta da Weber, per il quale la legittimità consiste nella credenza della legittimità di un potere da parte di coloro che vi sono sottoposti. Un tipo ‘misto’ di definizione di legittimità è, infine, quello proposto da Beetham (1991). Se per Beetham la legittimità di un sistema politico è definibile tramite criteri oggettivi e quindi verificabile da un osservatore esterno, il contenuto di questi criteri è soggettivo, varia, ovvero in base allo specifico contesto di riferimento. In questo senso, la legittimità non è intesa come qualità di un ‘tipo’ di sistema politico – non è definita tramite ‘valori’ universalmente validi – ma viene valutata in ogni singolo contesto in base al soddisfacimento delle tre condizioni indicate. Pamela Pansardi, Università degli Studi di Pisa. 58 2. L’Arte della guerra e gli esperimenti di capitalismo alla cinese Sun Tzu, parlando de “il vuoto e il sostanziale”, ammonisce e consiglia con grande saggezza tanto i combattenti suoi coevi quanto i moderni “guerrieri della finanza” cinese, i Lao Ban62: Alcuni consigli relativi al campo di battaglia: è meglio occuparlo per primi, e attendere che sia l’avversario a fare la prima mossa. Allettare il nemico con la prospettiva di un vantaggio è un altro utile espediente cui ricorrere. Ma, soprattutto, si cerchi di muoversi in un terreno vergine, dove il nemico non possa raggiungerci. Da lì prepareremo l’offensiva.63 L’ammonimento di Sun Tzu è un assunto che a tutt’oggi si rivela utile in molteplici ambiti, incluso quello economico e sociale. Fu il principio che animò e guidò Mao Zedong durante la Lunga Marcia e che nel 1976 contribuì a delineare l’orizzonte di Deng Xiaoping quando, all’indomani della morte del Grande Timoniere, dichiarò che una “nuova Cina con le porte aperte” si sarebbe affacciata sullo scenario internazionale. Il tempo necessario a studiare il “terreno di scontro” era, dunque, trascorso: un tempo relativo ma sufficiente a comprendere quali asperità avrebbe incontrato la Cina nella sua silenziosa espansione e come piegarle a proprio vantaggio. Deng prefigurava una Cina che sarebbe divenuta non solo un interlocutore militare più potente, ma anche un “continente aperto” in 62 Lao Ban (o Laoban): letteralmente “padrone”. Nella cultura cinese è un titolo molto importante che nemmeno il comunismo ha contribuito a inficiare nel suo significato più profondo. Il Lao Ban, i Padrone, è colui il quale è arrivato ad un gradino di rispetto assoluto ed al quale tutti debbono obbedienza e timore reverenziale. Secondo il sito web ufficiale di “Associna”: “diventare Lao Ban è il sogno di tutti i cinesi essere chiamati Lao Ban, padroni. Proprietari di ristoranti, negozi, bancarelle ambulanti di abbigliamento e di cineserie varie. E i Lao Ban in Italia non fanno che aumentare, non solo: si spostano da una parte all’altra per incrementare il giro d’affari e conquistare un’indispensabile stabilità economica.” FONTE: http://www.associna.com/modules.php?file=article&name=News&sid=513. 63 Sun Tzu, L’arte della guerra – Edizione Pillole BUR 2007 p. 49. 59 grado di competere economicamente con i giganti dell’economia mondiale che, di lì a qualche anno, si accingeva a divenire globale. Il popolo cinese, forgiatosi nei millenni come un organismo pluricellulare e armonioso di straordinaria compattezza, è sul “campo di battaglia”, su quel “terreno sconosciuto” al quale Sun Tzu fa riferimento e oggi rappresentato dell’economia di mercato e della concorrenza perfetta. Questo popolo, che si comporta come un esercito perfettamente addestrato, si è messo in posizione vittoriosa perché ha scoperto che il modo per imporsi sull’Occidente è farsi più domande sui suoi “vizi” piuttosto che emularne le pretese “virtù”. L’operazione occidentale di penetrazione e il concomitante tentativo di fare dei cinesi disciplinati “i servi obbedienti” del sistema occidentale “democrazia-consumo” (in cui “la democrazia” risiede solo nella possibilità di consumare tutto e tutti), se si era rivelata vincente negli anni Ottanta, sul lungo termine si è però dimostrata fallimentare. La pressione dell’Occidente nei confronti dei comunisti cinesi affinché si convertano alle regole democratiche ricorda molto da vicino le minacce dell’Occidente ai cinesi come ad altre popolazioni: spediremo <<Infedeli, all’inferno>>. convertitevi Ma al cristianesimo anche in passato o vi questo atteggiamento non ha funzionato con la Cina, troppo grande e troppo complessa per essere assoggettata all’Occidente. Anzi, l’esperienza storica ci dice esattamente il contrario, e cioè che qualsiasi potere esterno costituitosi in Cina negli ultimi secoli è diventato, con il tempo, cinese. È stato così per i mongoli dell’impero Yuan, i Manciù della dinastia Qing, e potrebbe essere così anche per gli occidentali: se si imponessero sulla Cina, nel giro di pochi decenni potrebbero diventare cinesi. Per di più, tutti i conquistatori, dopo aver subito un processo di sinizzazione, sono stati presi in contropiede dalla reazione cinese che ha sempre 60 finito per avere la meglio sugli ex-vincitori, portando ogni volta a un ulteriore allargamento delle frontiere. […] Lo stesso è accaduto in Occidente quando Roma, dopo aver conquistato la 64 Grecia, venne a sua volta conquistata dalla cultura greca. I comunisti cinesi hanno dimostrato di saper essere degli ottimi capitalisti senza uscire dalla loro ortodossia. I ritmi di crescita ne sono un dato incontrovertibile. La Cina torna a mostrare ritmi di crescita importanti nel penultimo trimestre dell'anno. Il target di Pechino di un pil al 7,5% è ormai molto vicino. Secondo i dati resi noti dall’istituto nazionale di statistica cinese, il pil del terzo trimestre dell’anno è aumentato del 7,8% rispetto al 7,5% del trimestre precedente. Il dato è in linea con le attese del mercato, che sperava in un’accelerazione della locomotiva cinese dopo i dati poco incoraggianti comunicati questa settimana sull’inflazione e le esportazioni. E’ il risultato migliore realizzato da inizio anno e questa volta è anche confermato dai dati ufficiali. L’obiettivo di crescita al 7,5% del governo cinese sembra ormai a portata di mano. Bene anche la produzione industriale cinese, che nel mese di settembre è aumentata del 10,2%, meglio delle attese (10,1%) ma meno del mese precedente (10,4%). Le vendite al dettaglio sono invece cresciute del 13,3%: il risultato è inferiore alle stime (13,6%) e anche rispetto a quello del mese precedente (13,4%). Positivo l’andamento delle borse cinesi, in particolare l’Hang Seng di Hong Kong che sale dello 0,7%. L’indice azionario Shanghai Composite ha guadagnato invece mezzo punto percentuale. Dai minimi dell’anno di fine giugno scorso, è avvenuto un rimbalzo del 13%, grazie anche alla speculazione sulla nuova free-trade zone che dovrebbe attirare aziende estere e favorire una maggiore liberalizzazione.65 64 Francesco Sisci, Chi ha paura della Cina – Ed.: TEA, Milano 2008, pp. 20-21. 65 Nicola D’Antuono, Forexinfo.it - 18 Ottobre 2013. FONTE: http://www.forexinfo.it/Cina-crescitaeconomica-balza-al-7. 61 Posto che è ormai provata la scelta compiuta dalla Cina di divenire indispensabile al mondo (attraverso la reinterpretazione dell’economia di mercato), quello occidentale in particolar modo, fornendogli le utilities che richiede, ecco che il comunismo (cinese) diventa compatibile e coesistente con il capitalismo che diviene funzionale alla nuova politica economica di Stato. […] In una società che resta dunque piramidale, la promozione politica e ideale del libero mercato non è solo una rivoluzione del sistema comunista ma una trasformazione profonda del vecchio sistema imperiale.[…]66, in un sistema che, di fatto non è mai tramontato. Il Maestro disse: <<Posseggo io la conoscenza? No, certamente. Ma se una qualsiasi persona mi pone una questione, per quanto incolta essa sia, l’affronto da ogni angolo sino a venirne a capo>>67. Forse i cinesi per primi non si sarebbero ritenuti capaci di raggiungere un grado di autonomia e competenza tale da entrare – in un breve lasso di tempo - nel ciclo della concettualizzazione e della commercializzazione di tutti quei beni la cui produzione era stata, per convenienza, delocalizzata in Cina. La strategia del governo di Pechino ha visto oltre l’immediato e, infatti, dopo aver attratto nel continente emergente la nuova frontiera produttiva del consumismo, ha fatto sì che negli operai, asserviti agli interessi delle imprese nelle quali erano stati occupati, sorgesse nell’intimo l’interesse di copiare i beni prodotti per conto dei committenti. 66 F. Sisci, Chi ha paura della Cina – Ed.: TEA, Milano 2008. 67 Confucio, Massime. A cura di Massimo Santangelo – Ed.: Grandi Tascabili Economici Newton CLASSICI-2010, pag.52. 62 I cinesi, il popolo han, dopo essersi, quindi, rivelati obbedienti e instancabili come i soldati dell’esercito di Sun Tzu, si sono votati all’autosfruttamento. Tale comportamento non deve essere letto secondo la declinazione occidentale, come negativo, bensì come la via (il Tao) per avere una vita onorevole. La millenaria filosofia confuciana vede nello sforzo collettivo, quindi, la Via per conquistare l’affermazione della persona in seno al proprio gruppo sociale ed è maggiormente sentita e condivisa dalla parte dirigente e imprenditoriale del Paese. 63 3. Onestà e giustizia Nella tradizione cinese va bene emergere ed eccellere: è il “come” lo si fa che rimane il discrimine. I concetti di onestà e giustizia non trovano identità o sono confrontabili con i loro omologhi della cultura e del diritto occidentali. La citazione mette in luce questo contrasto: Il Duca di She disse a Confucio: <<Nella nostra regione c’è un uomo chiamato “l’onesto”; quando suo padre rubò una pecora, egli testimoniò contro di lui>>. Il Maestro disse: <<Nella nostra regione, invece, diverso è il concetto di onestà: il padre copre il figlio; il figlio copre il padre. Questa è l’onestà>>.68 Il cammino che porta alla ricchezza l’uomo di successo, colui che Confucio indica come “superiore”, non deve mai essere percorso con cupidigia, arroganza, crudeltà o sete di potere, ma deve essere finalizzato all’ottenimento di un bene prezioso, il rispetto e la dignità da parte dei propri simili. Confucio, quindi, termina la riflessione rivolta ai propri discepoli evidenziando che “L’uomo superiore rimane identico a se stesso nella miseria, mentre l’uomo dappoco nel bisogno si scatena”. La ricchezza e l’ostentazione della stessa non valgono a nulla se prive di quel fondamentale sentimento che fa dell’uomo un individuo in grado di rimanere se stesso anche nella miseria. Lo stesso percorso si può dire sia stato compiuto dai Lao Ban, gli agguerriti, infaticabili imprenditori pensati e concettualizzati da Mao Zedong che oggi dominano il mercato del manifatturiero europeo. Il Grande Timoniere, già alla Conferenza di Bandong del 1958, parlò del 68 Confucio, Massime, a cura di Massimo Santangelo - Ed.: Grandi Tascabili Economici Newton, Classici. Roma 2010, pag.62. 64 Terzo Mondo (del quale sentiva che la Cina faceva parte) in termini di “un mondo terzo”, cioè dell’alternativa alla bipolarizzazione del mondo, alla dualità del sistema URSS-USA. Questi nuovi imprenditori cinesi sono cresciuti e stati addestrati da Deng Xiaoping nel laboratorio del capitalismo: lo Zhejiang. L’area di espansione economica e laboratorio di economia liberale e liberista al confine con Shangai. Dagli anni ’80 dello scorso secolo questi uomini superiori dell’imprenditoria stanno dilagando per l’Europa e l’Italia in particolare ha conosciuto la loro capacità mimetica e l’efficace strategia di affermazione, estrinsecatasi attraverso la colonizzazione di zone produttive ad alto interesse strategico per assicurare alla Cina l’espansione economica. Forti dell’esperienza delle Comuni popolari, delle Unità Produttive di Base69 - nerbo e struttura del pensiero attivo del neocomunismo alla cinese - sono stati capaci, in breve tempo, di traslarsi, di replicarsi e di riqualificare la principale risorsa: il capitale umano. In breve, sollecitato dai dazi imposti per le importazioni verso l’Europa, è iniziato il processo di delocalizzazione della produzione cinese nel Vecchio Continente ed ecco come, e perché, ora si arricchiscono quelli che si sarebbe preteso fossero rimasti degli “schiavi” al servizio dell’edonismo e della debolezza della civiltà occidentale, ormai votata al superfluo. 69 «È meglio costituire Comuni popolari. Sono molto più vantaggiose perché combinano industria, agricoltura, commercio, educazione e affari militari. È un fatto che favorisce il compito della direzione» Mao Zedong, 1958. FONTE: http://www.tuttocina.it/tuttocina/storia/comunipopolari.htm#.UfoibhY8jy0. 65 CAPITOLO IV GENESI DELLE SOCIETÀ SEGRETE IN CINA70 Un’autentica interpretazione del concetto di legalità e di illegalità incide nelle dinamiche di interazione della comunità migrante cinese in Italia e, come in molti altri luoghi di precedente insediamento delle Tong, ne condiziona il modello imprenditoriale e produttivo che la contraddistingue, caratterizzandone i tratti. In tale prospettiva è d’uopo, dunque, approfondire le radici tradizionali, culturali e storiche che muovono le dinamiche stesse all’interno della società cinese in Cina. 1. La società cinese La società cinese, organizzata sotto una burocrazia centrale, ha vissuto fino alla fine del 1800 prevalentemente di un’economia di tipo agrario e mercantile, influenzata dal pensiero filosofico confuciano del quale anche il più semplice gesto della vita quotidiana era permeato. Sia dal punto di vista sociale sia da quello politico, essa era divisa, a seconda del tipo di lavoro svolto, in quattro grandi classi gerarchicamente ordinate. All’apice della scala sociale si collocavano i 70 La redazione del capitolo nasce principalmente dallo studio e dall’approfondimento analitico del saggio di Fei-Ling Davis, Le società segrete in Cina 1840-1911 Forme primitive di lotta rivoluzionaria. L’analisi del testo, secondo chi scrive, si rivela di importanza rilevante per comprendere l’attuale sistema di connessioni che esistono e si consolidano all’interno delle comunità cinesi, delle Tong, occidentali. La Cina attuale mantiene, infatti, molte più “dipendenze” culturali e tradizionali di quelle che possano immaginarsi. Nulla di ciò che oggi accade a livello politico, economico e sociale è sconnesso dalla storia del suo popolo. Comprendere quali siano stati i prodromi e per quali esigenze siano nate le Società Segrete, può significare comprendere buona parte delle dinamiche relazionali che ancor oggi insistono all’interno dei gruppi sociali cinesi e sostengono le attività e le strutture associative (sia legali che illegali) con le quali “gli stranieri” si relazionano nei luoghi di nuova residenza dei migranti cinesi in Occidente. 66 funzionari di Stato, cioè gli addetti ai lavori intellettuali pubblici. Al secondo posto i contadini, addetti alle attività produttive essenziali. Gli artigiani erano collocati al terzo posto: il lavoro manifatturiero, sebbene non completamente autonomo per quanto riguardava la produzione e l’approvvigionamento delle materie prime, quindi dipendente in un certo qual modo dal lavoro dei contadini, godeva, comunque, del rispetto del gruppo sociale dominante. Si trattava di un settore lavorativo necessario che collocava la categoria in una posizione di primazia rispetto a quello dei commercianti. Il commercio, infatti, proprio perché, asseritamente, non esprimeva nessuna attitudine personale e qualità manuale, era considerato un lavoro improduttivo e sulla base di una scala di valore e culturale precedeva, ma di poco, la moltitudine indistinta esclusa dalla categorizzazione ufficiale, cioè, una classe sociale non categorizzata in cui confluivano i prestatori di servizi: i medici, i musici, gli addetti agli spettacoli, i domestici, i servi, i mendicanti, i saltimbanchi e i comici. Alla suddivisione riconosciuta ufficialmente della società in quattro classi, si affiancava una seconda che, sebbene ufficiosa, comprendeva sei categorie: letterati appartenenti alla burocrazia, letterati non appartenenti alla burocrazia, contadini, artigiani, mercanti e basso popolo. Nell’organizzazione statuale della Cina imperiale, dunque, le leggi tradizionali disciplinavano, in modo invasivo, rigoroso e formale, ogni aspetto della vita individuale degli appartenenti alle singole classi giungendo a normare anche l’alimentazione, il tipo d’abbigliamento 67 consentito, le abitazioni, i mezzi di trasporto, i matrimoni, i funerali e la forma di culto verso gli antenati che ogni categoria – secondo la posizione sociale - avrebbe dovuto adottare. A fronte di una tale inclinazione, la separazione e la gerarchia tra le classi sociali si estrinsecava, di fatto, con toni più morbidi e, dunque, anche il posizionamento della classe mercantile in fondo alla gerarchia sociale non trovava corrispondenza con il reale ruolo che i mercanti occupavano nella società. A far sì che questi fossero relegati agli ultimi posti della scala sociale, infatti, non era la loro asserita incapacità a produrre, bensì la pericolosità insita nell’attitudine a concludere transazioni e ad arricchirsi sfuggendo al controllo dell’aristocrazia. Un’operazione, questa, che consentiva loro di acquisire sempre maggior potere rispetto alla burocrazia, corrotta e concussa, di palazzo. L’atteggiamento sospettoso e di distacco della classe intellettuale nei confronti di quella mercantile veniva, comunque, placato dalle elargizioni e donazioni che i ricchi commercianti compivano nei loro confronti, ma non era sufficiente a togliere completamente le ombre su quali fossero i reali propositi e gli scopi di questi. Infatti, anche a fronte di doni munifici, non veniva meno l’inquadramento dei mercanti nella classe senza diritti del popolo basso o popolo minuto (chien-min). I mercanti, dal canto loro, facevano corrispondere al progressivo arricchimento e al potere economico acquisito l’affidamento dell’educazione dei loro figli alle scuole confuciane che, come s’è detto, erano le uniche che li avrebbero resi abili a emergere dalla propria condizione e a inserirli nella classe dei letterati locali legati ai palazzi del 68 potere delle province. Inoltre le probabilità che ciò accadesse crescevano di fronte alla creazione di una fitta rete di relazioni basate su matrimoni di convenienza grazie ai quali i commercianti acquisivano titoli accademici, nobiliari e il potere a questi correlato. La combinazione degli interessi delle classi intellettuali con quelli della classe mercantile avveniva anche in base a un semplice assunto, in apparenza contrastante con le linee di principio della legislazione e della categorizzazione delle classi sociali: la cultura, in sé, non bastava ad assicurare l’intangibilità del ruolo, ma era necessario che a questa si coniugasse anche un grado di agio economico tale da porre l’intellettuale di palazzo in posizione di superiorità rispetto al proprio pari concorrente. Ai figli dei mercanti più abbienti nulla era, dunque, precluso. Essi, infatti, entrarono, progressivamente e grazie agli apparentamenti di cui si diceva sopra, a far parte di una classe intermedia di intellettuali. Avviati dalle famiglie a una educazione confuciana che, anche se impartita in forma privata, era simile a quella della classe intellettuale, acquisivano la preparazione che consentiva loro di divenire notabili di rango inferiore e di svolgere la propria attività di consiglieri all’interno delle magistrature delle province. L’affermazione tangibile del cambio di ruolo della nuova classe intellettuale, non più di tipo esclusivamente dinastico, si sostanzia con l’evoluzione di sintesi che assume la classe stessa, divenendo parte di clan eterogenei che acquisiscono sempre maggior potere dalla seconda metà del XIX secolo in poi. Cioè, da quando i notabili di rango inferiore 69 affermano il loro potere organizzando delle milizie locali, per lo più private, per contrastare il dilagante fenomeno del brigantaggio. I notabili di rango inferiore, provenienti dalla classe mercantile (borghese), divengono dunque finanziatori e assumono un ruolo di coordinamento militare: ciò permette loro, di fatto, l’uscita dal cono d’ombra in cui erano vissuti nei secoli precedenti. Un indicatore di questo fatto, cui la storiografia cinese che si occupa di quel particolare periodo storico fa riferimento, si rinviene nel fatto che la maggior parte dei governatori delle province, negli anni che seguirono il soffocamento delle rivolte dei Taiping e dei Nien (1850-1871), erano stati, in origine, proprio i capi di quelle milizie borghesi, cui fu affidato il compito di reprimerle. 2. Confucianesimo, buddismo e taoismo Porre attenzione alla radice filosofico ideologica della religiosità cinese ha una profonda importanza e fornisce un’ulteriore angolatura dalla quale osservare l’apparentemente incomprensibile agitarsi di un Paese che, pur mantenendo la propria identità ben radicata nel passato, si sta assicurando un ruolo economico di prima importanza nel panorama geopolitico contemporaneo e futuro. Oggi la compresenza di divinità di diversi culti religiosi all’interno dello stesso tempio e la contemporanea celebrazione dei rispettivi culti, sintetizza, dando concretezza, la teoria degli opposti coesistenti ripresa da Deng Xiaoping. Come coesistono dei e antenati venerabili all’interno dei templi, così coesistono il comunismo ateista e il capitalismo di Stato: un approccio culturale che 70 aiuta a comprendere con quali presupposti venga affrontato ogni ambito del quotidiano dalla Cina. Confucianesimo, buddismo e taoismo, ognuno per parte sua, hanno contribuito a smuovere o sommuovere ciclicamente gli assetti politico istituzionali nel sistema Cina e l’hanno fatto, per lo più, attraverso guerre interne tra potentati. Iniziate, magari, come sommosse popolari o come piccole rivoluzioni, proprio avvalendosi del vincolo del consenso che le citate ideologie raccoglievano attorno a loro, si sono trasformate in lotte dinastiche per la guida dell’impero. L’esempio eclatante di come il monachesimo buddista e il significato dell’associazionismo segreto che attorno ad esso si sarebbe sviluppato abbiano assunto un potere nei confronti del popolo, giungendo, addirittura, all’abbattimento della dinastia imperiale mongola Yüan, lo troviamo storicizzato e datato al 1368 d.C. In quell’anno fu il monaco buddista Chu Yuan-chang, il cui nome dinastico sarebbe divenuto Hung-wu, a spodestare il vecchio imperatore, instaurando la dinastia Ming. La filosofia confuciana fu, almeno fino al 1841 (anno in cui terminò la Guerra dell’oppio tra Cina e Inghilterra), l’ideologia prevalente nella classe dirigente cinese: la burocrazia mandarinale. La ragione di tanta fortuna è dovuta alla perfetta funzionalità che il pensiero confuciano aveva nei confronti dello stato patrimoniale - agrario dal quale aveva tratto le proprie origini. La forza di convinzione psicologica sull’uomo della società arcaica cinese si sostanziava nell’umanesimo paternalistico e, quindi, nel concetto di perfettibilità dell’individuo 71 attraverso un processo di autoeducazione che avrebbe, prima o poi, esaltato e fatto prevalere il buono che all’interno di ogni persona alberga. Un concetto di bontà assai orientato che presupponeva la totale dedizione e l’asservimento dell’individuo all’uomo “superiore”. Al concetto di antichità, che in Cina è sinonimo della sacralità riconosciuta all’età dell’oro 71 , deve essere attribuito il valore di fondamento legittimante dell’ortodossia confuciana sulla base del quale i maestri insegnavano che alla condotta benevola e amorevole del sovrano, ispirata ai Re saggi e quindi all’onere consapevole di lasciare di sé un ricordo esemplare ai posteri, sarebbe dovuta corrispondere la totale acquiescenza del popolo. A tal proposito e per citare solo un esempio, il richiedente giustizia che si rivolgeva al magistrato distrettuale (l’immediato portavoce dell’imperatore) doveva assumere nei suoi confronti l’atteggiamento di devozione del figlio e rivolgersi a questo con l’appellativo di “funzionario padre - madre”. Ancorché il simbolismo dell’ideologia confuciana si avvalesse di forme idiomatiche che, nel legittimare le funzioni istituzionali delle classi superiori, richiamavano la chiara origine divina dell’imperatore, il Figlio del Cielo, questo assicurava, egualmente, al popolo la possibilità di sottrarsi all’autorità del sovrano attraverso il ke-ming: una sorta di revoca del mandato a governare. Ciò poteva avvenire quando, e se, l’esercizio del potere diveniva tirannia e, in siffatte circostanze, 71 Età dell'oro della cultura cinese: dagli storici è unanimemente attribuita dai alla Dinastia Tang. Anche se la dinastia Tang è cessata ufficialmente nel 907, i suoi riverberi culturali e artistici influenzano tutto il secolo e, in verità, non si spesero mai del tutto. I nomi delle dinastie Tang come Han, sono oggi sinonimo dell'etnia cinese. 72 l’uccisione del tiranno non era più considerata un attentato, un delitto di lesa maestà, bensì tirannicidio e quindi un atto lecito. Nel corso dei secoli, e nell’epoca moderna in particolare, il pittogramma ke-ming divenne sinonimo di rivoluzione. L’educazione, nella formazione di un “popolo confuciano”, ha un ruolo essenziale. A essa educazione è rinviata la responsabilità di garantire, imponendo a ogni individuo di permanere nella propria classe di appartenenza, la stabilità e la pace sociale. Laddove non vi sia come apice del processo di realizzazione del Sé il perseguimento di obiettivi economici, né da parte della classe mandarinale né dalla classe dominata, in teoria, ma solo in teoria, non dovrebbero nascere moti di aperto dissenso alimentati da obiettivi individualisti. Come per ogni forma di pensiero, anche per la filosofia confuciana il trascorrere del tempo s’è imposto come fattore determinante della sua trasformazione. Innanzi alle nuove esigenze storiche e al riassetto degli equilibri politici e socioeconomici, il mutamento della filosofia prevalente s’è imposto e ha reso irrinunciabile l’attualizzazione delle forme d’incidenza che l’essenza del pensiero confuciano stesso aveva sulla classe dominante, col medesimo ritmo con cui questa classe ha dovuto mutare il proprio modo di rapportarsi al popolo. Non sarebbe errato affermare, quindi, che il neoconfucianesimo abbia rappresentato la controriforma dell’ideologia filosofica religiosa della società cinese, ma che si affermò in maniera radicale solo in epoca assai recente, cioè nel XIX secolo, dopo che la Cina perse la guerra dell’oppio contro l’Inghilterra. Una guerra scaturita dal rifiuto opposto dalla Cina 73 all’Inghilterra di importare l’oppio sulle terre dell’Impero Celeste e che, sebbene la storiografia occidentale, e britannica in particolare, abbia sempre trattato con fumosa colpevolezza, ha inciso considerevolmente sugli assetti politico-economici che ne scaturirono. Dai trattati imposti dall’Inghilterra, vittoriosa, alla Cina, fu chiara la percezione che il neoconfucianesimo sarebbe servito come piattaforma perché l’ideologia riformista, della quale già si era avvertita l’esigenza all’interno stesso del governo, iniziasse ad affermarsi e a compiere il proprio iter. Il neoconfucianesimo, ancorché divenne attuale e motore riformista dopo il 1841, trae la propria origine dall’opera del filosofo Chu Hsi vissuto all’epoca della dinastia Sung (960-1279 d.C.). I caratteri materialisti della “nuova ideologia” l’hanno spesso vista contrapposta all’idealismo della scuola tradizionale detta dei testi antichi, ma non hanno impedito che nel pragmatismo a essa intrinseco, fossero rinvenuti lo stimolo e la possibilità di un rinnovamento essenziali al progresso, pur mantenendosi legati alla tradizione. Posto che una delle caratteristiche fondamentali del confucianesimo risiede nell’esaltazione del dilettante e del gentiluomo a dispetto dello specialista e del tecnico, si può comprendere come l’attitudine al lavoro concepito come pratica e l’arricchimento personale derivante da questo, potessero essere visti con sfavore rispetto ad attività estemporanee e artistiche quali la scrittura pittorica e la composizione di saggi politici, militari, filosofici o di liriche. Ma nell’ottica di quest’opera di modernizzazione, anche i seguaci del confucianesimo tradizionale (altrimenti detto classico) compresero che, seppur ritenendo che 74 nell’ideologia classica si conservassero valori intrinseci, per quanto riguardava l’azione politica dovesse, necessariamente, avvenire un processo di implementazione e integrazione derivante dal progresso tecnologico di derivazione occidentale, nel quale la necessità di vedere inserita la Cina come partner diveniva una esigenza imprescindibile. Una tale apertura, però, sarebbe dovuta avvenire a patto che questa attualizzazione, principalmente etica e ideologica, ma data per indispensabile strumento di adeguamento della Cina alla modernità, avvenisse in continuità col passato e con gli antenati. Ecco, quindi, che la possibilità della “coesistenza degli opposti”, connotazione tipica della filosofia orientale, sovrasta il pensiero (prettamente occidentale) dell’alternatività e dell’inconciliabilità di questi. Al confucianesimo dei “testi antichi”, quindi, pur rimanendo alla base come T’i (la sostanza morale), si affianca lo young: la componente neoconfuciana della necessaria conoscenza delle tecniche occidentali. Il percorso di affermazione del neoconfucianesimo troverà un ulteriore input a seguito del primo processo ottocentesco di penetrazione economica e di industrializzazione occidentale. Una circostanza storica, questa, che non poteva, a questo punto, consentire nessun ritardo nella sua gestione ma, e soprattutto, che non poteva essere contrastata con la mera ideologia anticapitalista (che poi sarebbe tornata di prepotente attualità con Mao Zedong, anche se accuratamente riformata e coniugata al comunismo cinese) della quale il confucianesimo classico era ancora permeato. 75 L’educazione finalizzata a legare le masse al confucianesimo correva su un doppio binario, uno pubblico, cioè gestito e organizzato dal popolo, e uno “privato”, in questo caso inteso come organizzato dal governo; in questo modo si creava una differenza de facto non solo per quello che riguarda la preparazione fornita dai due canali educativi, ma già a monte per ciò che attiene la scelta degli allievi da avviare all’uno o all’altro percorso e per le differenti prospettive occupazionali che, conseguentemente, gli allievi dei due gruppi avevano riservate. Il canale educativo qui definito pubblico era riservato alla classe borghese e mercantile in costante propensione verso un’ascesa sociale, comunque ostacolata e scoraggiata, mentre quello privato era riservato a coloro che avrebbero assunto cariche istituzionali e sarebbero poi divenuti la classe dirigente (mandarina) dell’impero. Al primo gruppo, quello dedicato alla pubblicità dell’educazione, appartenevano le scuole indipendenti, non governative. In questo novero ricadevano le accademie, le scuole contadine e le scuole di carità, dove l’insegnamento veniva impartito grazie alla cura della nobiltà di provincia che ridestinava a tale scopo i fondi provenienti dal reddito delle terre destinate ad uso scolastico72. Il secondo gruppo di scuole, quelle governative, erano destinate invece, ai figli del clan imperiale; agli eredi delle otto bandiere o ai figli di quelle famiglie che trasmettevano cariche ereditarie. Nell’educazione confuciana di livello elementare un compito non meno importante era affidato alla famiglia. Si trattava di un ruolo che andava a 72 Hisiao Kung-Chuan, Rural China, Imperial control in the nineteenth century, University of Washington Press. 76 sostituire quello della scuola pubblica, ma che piegava, con molta efficacia, le coscienze degli allievi al disprezzo per tutte le attività legate al miglioramento e consolidamento di posizioni economiche incompatibili con la primazia dello stato o, meglio, delle classi dominanti. Il compito dei maestri confuciani fu, per quasi un millennio, quello di mantenere immobile lo status sociale degli individui all’interno delle classi. Su di loro gravò l’incarico di preservare il dominio sulla coscienza collettiva dei potenti in modo che il popolo non acquisisse mai la consapevolezza delle potenzialità che le stesse “compattezza” e solidarietà che il confucianesimo promuoveva per le mansioni agrarie di basso profilo, potessero divenire, se utilizzate altrimenti, lo strumento di affrancamento e di evoluzione nella gestione economica della propria vita. Tutti insieme, quindi, ma tutti poveri e obbedienti. L’egemonia ideologica del confucianesimo, ancorché fosse quella ufficialmente promossa e più largamente diffusa a ogni livello sociale, comunque, venne di fatto contrastata. A essa si contrapposero, infatti, come ideologie - religioni alternative, il buddismo e il taoismo. Sebbene entrambe esaltassero la passività come la più alta delle virtù, in realtà proponevano una concezione di tale atteggiamento assai diversa. Il primo, il buddismo, si era dato una struttura organizzata e raccomandava l’astinenza dalle fatiche, dai piaceri della vita, ed era percepito dalle istituzioni come una seria minaccia politica. Il taoismo invece professava un approccio alla quotidianità – sebbene egualmente passivo - di tipo intimo, spontaneista e, in ragione di ciò, 77 proponeva il ritorno alla istintività della vita naturale seguendo il Tao (la via). Il taoismo, che aveva una visione della vita sintetizzata nell’immagine dell’uomo incorrotto come di “un blocco di legno non intagliato”, era ritenuto dalle autorità sì pericoloso, ma solo relativamente destabilizzante poiché la mancanza di organizzazione, oltre che una debolezza organica e una scarsa diffusione territoriale che connotava intrinsecamente il pensiero filosofico, ne rendevano i seguaci facilmente controllabili. L’adesione alla filosofia buddista, invece, imponeva ai propri seguaci dei precetti che si attagliavano molto alle normali condizioni di vita del popolo cinese, e che quindi erano molto più agevoli da seguire: l’astinenza dai piaceri della vita, così come l’astinenza dal consumare carne, non erano, infatti, per la maggioranza delle persone, un fatto di scelta, ma piuttosto una condizione dettata dal “ciclo doloroso” imposto dalla povertà. Fu anche per questo motivo che la filosofia buddista suscitò un forte richiamo tra la popolazione, che in quei precetti si riconosceva naturalmente. Questa ampia diffusione contribuì, così, a minare la struttura verticistica del confucianesimo, che voleva il popolo piegato all’autorità di chi gli era “gerarchicamente superiore”. L’opposizione filosofica e militante al confucianesimo, ad opera del buddismo e dal taoismo popolari, e la progressiva tendenza al formarsi di comunità spontanee spinsero gli accoliti di queste due ideologie/religioni a riunirsi e a organizzarsi in associazioni clandestine (segrete) per sfuggire all’attività di controllo (e progressivamente persecutoria) degli apparati di sicurezza imperiali e dei feudatari. A 78 porre in allarme le strutture statuali, in effetti, furono la numerosità dei seguaci, segno di forza, la ricchezza dei templi e la rapidità di diffusione del pensiero buddista - taoista che si poneva naturalmente in modo antagonista al confucianesimo tradizionale. Il governo, dunque, reagì vessando monasteri e monaci con saccheggi e rappresaglie che, lungi dal farli desistere nella loro opera, li indussero invece a organizzare il passaggio alla clandestinità delle strutture per rispondere a un’esigenza di progressiva secretazione delle attività, inizialmente per necessità di sopravvivenza. Le attività sovversive furono quindi una logica conseguenza del mero mantenimento della condotta che era, appunto, divenuta illecita. Le azioni militari di cui venivano fatti oggetto i templi e i conventi anziché condurre a un totale e definitivo affievolimento della forza delle ideologie eterodosse ne aumentavano viepiù la popolarità, dando linfa all’atteggiamento di sfida che i seguaci del buddismo e del taoismo tradizionalmente dimostrano nei confronti delle istituzioni. Negli apparati di governo – non a torto - cresceva il senso di impotenza nei confronti dei monaci, rafforzati dal consenso e dalla solidarietà popolari: verso di loro aumentavano le accuse di incitamento alla sedizione e alla rivolta. I sospetti e i timori del governo cinese erano talmente fondati che, nel 1368 d.C., fu proprio un monaco buddista Chu Yuan-chang, a organizzare la rivolta che portò alla deposizione dell’ultimo imperatore mongolo della dinastia Yüan. Hung-wu, nome dinastico assunto dal monaco all’atto della sua intronizzazione, diventerà, sul finire del 1600, parte del nome di uno dei 79 più potenti sodalizi segreti e clandestini che attraversando i secoli è arrivato sino a oggi mantenendo inalterata la capacità di riunire attorno a sé le più potenti società segrete cinesi: la Lega di Hung (Hung Men) o, come altrimenti la si trova menzionata nei testi, la Famiglia Hung. Questa società è altrimenti nota ai con il nome di Triade o San Ho Hui. Rimanendo nel solco della tradizione, la “Triade”, che avrebbe preteso indicare quale suo fondatore il monaco Chu, già appartenente alla Società del Loto Bianco, mutuò da quest’ultima, aggiornandolo secondo i propri intenti, il motto della dinastia Ming: “Distruggiamo gli Yüan e restauriamo i Sung”. Motto che, al declino dei Ming e per consolidare lo spirito di coesione all’interno della Triade, rafforzandone il legame con il passato, fu trasformato in: “Distruggiamo i Ch’ing e restauriamo i Ming”. 3. Le società segrete in Cina. I funzionari derivano il loro potere dalla legge, le società segrete dal Popolo. Proverbio cinese. In Cina, la presenza delle società segrete come diffusissimo fenomeno sociale rappresenta un continuum tradizionale e culturale che affonda le proprie origini nella divisione, ma potrebbe anche essere definita una frattura, tra le classi sociali. La divisione principale era quella tra la classe dominante e la classe dominata, posto che ai livelli intermedi non vi erano che poche frange di popolazione che, per lo più pagando un altissimo prezzo, ricadevano sotto la sfera di protezione della nobiltà provinciale. Alla base di tale dicotomia, che nei secoli si rivelerà il motivo più accreditato e cogente per la netta contrapposizione tra classi 80 sociali, può essere rinvenuta la presenza di ideologie il cui fondamento è, evidentemente, come si è tentato di accennare nel precedente paragrafo, inconciliabile: da un lato il confucianesimo, come ideologia ortodossa, paternalistica, cui si rifaceva la classe dominante e dall’altro il buddismo e il taoismo, come ideologie eterodosse più vicine alla classe dominata che, nell’incapacità di sottrarsi al ruolo “filiale”, al totale asservimento nel compiacere il sovrano, subiva il controllo oppressivo e lo sfruttamento da parte della nobiltà feudale che rappresentava, in modo personalistico, corrotto e distorto, l’autorità imperiale. All’origine della concettualizzazione delle società segrete, dunque, vi è uno sfondo schiettamente ideologico. L’ideologia infatti, è la mappa del potere e assegna a ognuno un posto, divenendo così la guida sulla base della quale un individuo “sceglie” la strada della libertà o della schiavitù. Secondo Fei Ling Davis, l’ideologia […] può essere la giustificazione e la razionalizzazione del potere costituito, o il suo rifiuto. Per comprendere, dunque, come sia nata e si sia strutturata, nel corso dei secoli, la più tradizionale, efficace e moderna delle associazioni segrete cinesi, la Triade, è necessario ripercorrerne le origini partendo dall’analisi della struttura sociale cinese, dal pensiero morale - filosofico e dalla fondazione delle prime società segrete. 81 73 La città dei riti Per parlare di società segrete si richiede, innanzi tutto, di dare una spiegazione generale che fornisca gli elementi per comprendere, sulla base delle conoscenze acquisite sino a oggi e senza innescare possibili confusioni concettuali, quale sia la natura stessa di un tale fenomeno associazionistico. Il primo passo da compiere, dunque, è di individuarne le caratteristiche e gli elementi fondanti per dare di queste una interpretazione storicizzata e corretta. La prima caratteristica che contraddistingue la società segreta è la sua natura volontaria, intesa nel senso che l’appartenenza a essa non è dipendente, o condizionata, da particolari qualità personali o attribuzioni degli associati. Le motivazioni che contribuiscono a indurre il candidato all’ingresso in una società segreta possono derivare o da una libera scelta o dalla pressione sociale che questi subisce. La seconda caratteristica si rinviene nell’esclusività delle informazioni e delle conoscenze di cui i membri sono depositari e che non sono, 73 Fei-Ling Davis, La città dei riti: illustrazione tratta dal saggio Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971 82 proprio per il carattere di segretezza, accessibili agli estranei. Il complesso delle conoscenze, relative all’esistenza del gruppo sociale segreto, è legato al linguaggio, nonché alla ritualità di affiliazione, al simbolismo magico e agli elementi esoterici. L’identità degli accoliti e le funzioni pubblicamente dichiarate dal sodalizio formano uno scudo protettivo contro l’ambiente circostante che, quindi, diviene “Altro” rispetto al senso identitario che i partecipanti al gruppo sviluppano. Il sodalizio è, dunque, strumento di differenziazione sociale, morale e politico che identifica, connotandoli, gli iniziati in relazione alla società esterna. Una società segreta si fonda sulla cultura arcana a cui ricondurre i comportamenti tenuti da (e tra) i consociati, ponendosi verso l’esterno, verso i profani, con condotte che secondo le normali consuetudini di vita possono assumere una valenza delittuosa, eterodossa o, quanto meno, di eccentricità. La terza caratteristica che identifica la società segreta e la differenzia dagli altri gruppi sociali chiusi, in qualche modo legati all’osservanza di un segreto è che il segreto si pone a fondamento dell’esistenza del sodalizio stesso divenendo, in alcuni casi, la sua ragion d’essere. Il segreto, quindi, determina l’organizzazione, e la struttura di questi sodalizi, secondo due modelli diversi. Il primo modello, che si riconduce alla Gesellschaft74, così come viene definito da M. Duverger in The idea 74 In tedesco, Gesellschaft è un sostantivo che significa società. In sociologia è usato come aggettivo per caratterizzare il contrasto con Gemeinschaft che implica "freddo", formale, associato più con la vita urbana che con quella rurale. Nell’esegesi di Ferdinand Tönnies, al quale dobbiamo il saggio Gesellschaft und Gemeinschaft, egli intende spiegare il cambiamento nel tempo delle società (in termini organicistici) da un'organizzazione sociale informale e basata sugli scambi personali come, ad esempio, quella di un villaggio a un'organizzazione artificiale più formale e basata sulle regole: fredda e impersonale. Dove si trovano caratteristiche Gemeinschaft, le persone si conoscono e interagiscono tra di loro come persone vere, anziché come meri ruoli in un vuoto sociale. È un interessante aspetto 83 of politics, e si rifà ad un modello di struttura cellulare, in cui l’identificabilità dei membri è ridotta al minimo. Il secondo, tipico della Gemeinschaft, è di tipo familiare, comunitario o protettivo e punta, invece, alla identificabilità dei partecipanti alla comunità, al sodalizio, nonché alla loro condivisione attiva di azioni tese al raggiungimento di un disegno comune, globale. La particolarità di quest’ultima è che richiede una struttura di tipo compartecipativo, articolata in settori, nella quale tutti i membri lavorano nella conoscenza e consapevolezza dell’esistenza gli uni degli altri e degli obiettivi globali che il sodalizio intende perseguire. La tipicità di questa particolare coniugazione di interessi connessi alla società segreta fa sì che i suoi affiliati non siano presenti solo all’interno di essa, ma siano inseriti e operino per i fini di questa penetrando le strutture esterne ad essa. È attraverso la costruzione di un reticolo di protezioni dall’esterno che le società segrete di questo secondo tipo possono assicurarsi ampi margini di manovra e libertà di movimento. La quarta connotazione, che contribuisce a identificare le società segrete, deriva dalla componente umana di queste. Esse, infatti, raccolgono un gruppo di soggetti che vivono o agiscono insieme. In tale contesto, non è inusuale che esse abbiano beni in comune, linguistico dove il termine comunità indica un gruppo di persone con la propria organizzazione sociale e culturale all'interno di una società. La parola tedesca che significa comunità indica le caratteristiche informali e personali delle comunità stessa. È un cambiamento da un sostantivo a un aggettivo e, per mantenere questa distinzione, i sociologi hanno preferito usare la parola tedesca gemeinschaft come aggettivo e la parola comunità (Gesellschaft) come sostantivo. Nella traduzione nella lingua italiana, la Gemeinschaft non è una caratteristica che una comunità può avere o no, ma una caratteristica presente in vario grado. 84 condividano spazi, siano organizzate secondo regole che i consociati stessi scelgono e alle quali obbediscono volontariamente. L’ultima, ma non meno importante, riflessione sulla natura delle società segrete può apparire scontata, ma va fatta tenendo in considerazione che esse esistono non solo perché ne esistono i membri ma, soprattutto, perché esistono i non membri: i profani, appunto, che non possono beneficiare del sistema solidaristico e di protezione che l’affiliazione garantisce. Anche in ragione di questa considerazione è necessario che la società segreta compia la scelta tra il conformarsi al gruppo sociale ospite, oppure l’assumere, nei confronti di questo, un atteggiamento ostile: la conformazione, l’adattamento, può essere “strumentale o espressivo o l’uno e l’altro insieme”75, l’ostilità o l’aperta opposizione al contesto sociale, invece, origineranno attività contra legem destabilizzanti per l’ordine e la sicurezza pubblica. Al di là delle motivazioni filosofiche e culturali che, come sopra specificato, non ebbero un ruolo marginale nel radicamento sociale moderno delle filosofie eterodosse (buddismo e taoismo, tradizionalmente connessi ai gruppi antagonisti), un forte stimolo a uscire dalla legalità va rinvenuto nell’incremento della popolazione e nel progressivo, proporzionato, ridursi dei mezzi di sostentamento. La siccità, le inondazioni, le epidemie, le carestie e l’eccessiva burocratizzazione contribuiscono all’innalzamento della soglia della miseria nelle campagne, e vanno annoverati tra i fattori critici più significativi di turbamento dell’ordine sociale; soprattutto tra la 75 Standford Lyman, Chinese secret societies in the Occident: notes and suggestions for research in the sociology of secrecy, in “Canadian Review of Sociology and Anthropology”, 1-2, 1964, pp.79-102. 85 maggioranza della popolazione che, facente parte della classe contadina, spesso rimaneva imprigionata dai debiti nonché dalle ipoteche sui terreni e priva dei minimi mezzi di sostentamento. Ad accusare maggiormente il riflesso di questa trasformazione furono i giovani che, non intuendo per loro un futuro che li rendesse almeno adeguati e validi rispetto ai loro padri, traevano dall’instabilità e dalla mancanza di prospettive la motivazione e la giustificazione per compiere scelte radicali. A parte rarissimi casi in cui qualche potente locale decideva di adottare e prendere sotto la propria protezione qualche giovane particolarmente dotato, curandone l’educazione e l’erudizione (un dato talmente esiguo da non avere una rilevanza statistica), la stragrande maggioranza dei giovani delle campagne veniva abbandonata al proprio destino. I giovani, indirettamente sospinti dalla miseria verso un destino di emarginazione e di illegalità, andavano a ingrossare le file delle bande di banditi rurali o, altrimenti, intraprendevano una disperata migrazione verso le più grandi città mercantili. La terra, dunque, non costituiva più una garanzia o una sicurezza di sopravvivenza per la famiglia e il contadino, così come il piccolo potente locale che da questo non aveva più speranza di poter trarre il proprio agio, non aveva più ragione alcuna di rimanervi legato. Di qui la scelta di abbandonare il lavoro pesante e poco remunerativo dei campi per affluire verso le città dove si riteneva fossero concentrate, oltre le ricchezze, le opportunità di progressione sociale. In questo contesto storico-economico diviene, dunque, chiaro quanto il pensiero di impronta confuciana fosse sempre meno adeguato al XIX 86 secolo, in cui la Cina subiva le prime spinte di occidentalizzazione. L’affermazione di una nuova classe di intellettuali in risposta alle esigenze di industrializzazione e di occidentalizzazione pose nell’ombra, evidenziandone l’obsolescenza, gli intellettuali confuciani, la cui impronta educativa, basata sulle virtù del gentiluomo e dell’uomo di cultura distaccato e disinteressato verso le basse passioni (il denaro e l’opulenza), chiaramente contrastavano con i bisogni della nuova era economica. La nuova classe intellettuale e dirigente che progressivamente sostituisce le ultime resistenze arcaiche è quindi costituita dagli imprenditori che hanno potuto interagire con “gli stranieri”, e che sono riusciti a dare ai propri figli un’educazione, una formazione economica e culturale di tipo occidentale. A fianco a questa nuova classe intellettuale si affermano, parimenti, i compradores 76 , degli imprenditori commerciali minori di origine antichissima, che svolgevano la loro attività nei “porti convenzionati”. I compradores, in cinese ya-tzu o wu-tzu,77 originariamente appartenevano a famiglie di contrabbandieri e trafficanti che, sollecitati dalle opportunità sempre maggiori legate ai commerci nei porti marittimi e fluviali, rivestendosi di un ruolo utile agli operatori economici stranieri, si inserirono come intermediari d’affari, ricavandone lauti guadagni, tanto da essere, poi, l’unica categoria riconosciuta ufficialmente dal governo. In un’ottica di dualismo concorrente, e non alternativo, tradizionale della cultura cinese del neoconfucianesimo (ma più ancora delle filosofie 76 Compradores, parola di origine portoghese con la quale, inizialmente, erano indicati gli impiegati delle ditte straniere di importazione ed esportazione. 77 Letteralmente: intermediari. 87 eterodosse che ne implementarono il pensiero), la piccola borghesia antiburocratica e antimonopolistica (cioè la nuova classe commerciale della quale era divenuta espressione anche la classe politica e dirigente del paese), rinveniva la propria legittimazione a esistere, nonché alla prosperità, al potere e alla forza finanziaria, nella connessione con quelle stesse società segrete e clandestine che in origine le sostennero, le protessero e ne alimentarono l’affermazione. Un esempio di come da una pregressa, strutturata, illegalità trovi la ragion d’essere un nuovo ordine politico può essere dunque rinvenuto quale conseguenza di una storia fatta di ribellioni contro il sistema fiscale, di contrabbando commerciale, di opposizione alla struttura statalista del sistema burocratico - mercantilistico del commercio nella Cina confuciana che relegava l’impresa nei ranghi meno rilevanti della scala sociale. Alla luce di quanto precede, appare ormai chiaro che è la ricchezza, più che i titoli accademici, a essere divenuta significativa per l’elevazione e la progressione nella scala sociale, e come siano ora i mercanti, la vecchia e vituperata “classe bassa”, a detenere il potere (Fai-Ling Davis). Poiché nelle città le opportunità di arricchimento erano sicuramente maggiori, ecco che l’afflusso dei migranti assume consistenza sempre maggiore e le periferie urbane si ampliano erodendo, progressivamente, le aree rurali a esse contermini. Questo fenomeno di “erosione” pone in evidenza un’inversione dei ruoli di complementarità che portarono le zone rurali a dipendere dalle città e non più le 88 popolazioni urbane a dipendere dai prodotti e dai beni forniti dalle campagne. Sul finire del XIX secolo e sino al 1912, il progressivo processo di occidentalizzazione della Cina portò a un’espansione economica senza precedenti che trasformò la classe commerciale e mercantile in un’agguerrita avanguardia capitalista protezionista i cui interessi andarono a coincidere con quelli politici dei nazionalisti. Contemporaneamente all’affermazione della borghesia la massa indistinta dei lavoratori andava a costituire una classe di lavoratori urbani, una classe di lavoratori salariati immigrati dalla campagna che non trovava precedenti nella strutturazione sociale tradizionale, la cui funzionalità alle esigenze del mercato costituiva l’ossatura del sistema capitalistico. La nuova categoria di lavoratori urbani, sebbene attratta nelle città dal salario assicurato dall’indotto dei commerci sempre più remunerativi, non dismetteva totalmente le attività rurali legate alla propria origine contadina, dando così luogo a una sorta di migrazione stagionale durante i periodi dell’anno in cui la terra, e l’occupazione in qualità di braccianti, concedeva ai contadini il tempo per integrare sussidiariamente i guadagni necessari alla sopravvivenza. Le tre classi sopra menzionate, nuovi intellettuali (frustrati), commercianti e proletariato (diseredati sociali e strati privi di ogni diritto politico) avevano in comune la provenienza dai recessi più oscuri della società cinese. I più fortunati tra loro, una esigua minoranza, riuscivano o a collocarsi come compradores o a trovare un lavoro tecnico come operai nell’industria. Gli altri, caduti nell’abiezione, divenivano 89 mendicanti o banditi o, ancora, entravano a far parte delle società segrete. Il reclutamento degli adepti delle società segrete, sul finire del 1800 e nel primo ventennio del 1900, avveniva, per larga maggioranza, proprio tra queste “colonie” di migranti che ingrossavano le file di un sotto neo proletariato urbano abituato a vivere nella estemporaneità di lavori precari, spesso improvvisati, ma sempre svolti ai margini della legalità. Facchinaggio, piccolo commercio al dettaglio, spettacoli di intrattenimento e di divertimento di strada erano forme di occupazione diffuse, ma quanto mai inadeguate a garantire la continuità di un guadagno e la dignitosa sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie. La disgregazione della vecchia struttura sociale cinese e dell’arcaismo sul quale fondava la propria ragion d’essere stava definitivamente estinguendo quanto rimaneva del ciclo dinastico. In un proliferare di rivolte contro la corruzione dei burocrati, contro le ultime vestigia del potere costituito, e con l’avvento delle “nuove” classi sociali, sostenuto dai sempre maggiori interessi stranieri in Cina, si stava innescando una sfida tra le associazioni “volontarie”78, e le associazioni “ascrittive”, cioè le famiglie e i grandi gruppi familiari allargati (hu) socialmente egemoni sino a quel momento. 78 Tra le quali vanno indicate le società segrete propriamente dette. 90 4. Le associazioni di tipo volontario Collocate ai margini della società cinese, le associazioni di tipo volontario comprendevano i sodalizi corporativi che riunivano categorie professionali quali, ad esempio i mercanti di fiori, gli artigiani o ancora, quella dei raccoglitori di sterco umano79. Esse cercavano, con prudenza e cautela, di mantenere una posizione di ambivalente equilibrio, tale da consentire loro di muoversi tra la tolleranza delle autorità di governo e le persecuzioni, cicliche e periodiche, che le stesse autorità promuovevano nei loro confronti quando ritenevano che il potere da loro acquisito potesse interferire con quello statuale. Le associazioni volontarie non ascrittive, dunque, pur non essendo accettate e non costituendo parte integrante della società, così come descritta nel paragrafo precedente, erano, di fatto, un elemento molto importante “dell’ordine sereno” nel quale si destreggiavano le società segrete. Sin da tempi remoti, infatti, i sodalizi segreti si sono sempre serviti delle organizzazioni corporative dei mestieri come efficaci coperture per i loro interessi. Ai non “iniziati”, dunque, risultava, in generale, impossibile distinguere quali associazioni fossero dell’uno o dell’altro tipo. Anche per questa ragione, così come per le società segrete, le associazioni di mestiere (anch’esse, comunque, “segrete”), sebbene non avessero finalità eversive o clandestine di alcun tipo, non sempre erano in grado di sottrarsi al controllo preventivo e all’attività repressiva degli organi di polizia. Non si esclude che i rapporti e i 79 Fai-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971. 91 legami che si sviluppavano tra questi due tipi di associazioni volontarie fossero, dal punto di vista strutturale e organizzativo, assai simili, se non identici, tra loro. A queste due tipologie di associazioni volontarie (le società segrete e le “associazioni di categoria”), poi, si affiancava un terzo: le associazioni religiose (o società religiose). Proprio in seno a questi sodalizi si svilupperanno e consolideranno, nel corso dei secoli, alcune delle associazioni segrete più potenti. La filosofia e la religione cinesi sono state nel tempo oggetto di molte ricerche, ma non uguale attenzione è stata rivolta ad analizzare le istituzioni religiose e, nello specifico, quelle eterodosse. Una motivazione plausibile si rinviene nella mancanza di interesse che gli storici ufficiali cinesi hanno, di norma, dimostrato nei confronti delle idee e delle istituzioni che si collocavano al di fuori del confucianesimo. Va poi specificato che il pensiero confuciano non può essere definito una religione nel senso che, in Occidente, viene attribuito a questa parola; nella lingua cinese, infatti, non esiste un vocabolo la cui neutralità non sottenda un orientamento interpretativo della religione in quanto tale (Fei Ling Davis). Per gli intellettuali cinesi dedicarsi allo studio della religione, o delle religioni, equivaleva a dedicare il proprio tempo allo studio delle false dottrine o, ancora, delle superstizioni, quindi ad argomenti bassi e insignificanti. Ma, se da un lato gli intellettuali assumevano un atteggiamento sprezzante e di rifiuto aprioristico nel conoscere e svelare gli anfratti di tale mondo, di tutt’altro avviso erano 92 le istituzioni statuali che percepivano un segnale di pericolo nella popolarità che i riti buddisti e taoisti riscuotevano. Coscienti del potere che la forza dell’eterodossia era in grado di esprimere organizzando e promuovendo l’opposizione politica e le rivolte che ciclicamente si sviluppavano nelle province, le istituzioni non perdevano occasione per porre sull’avviso il popolo sulla pericolosità e le insidie delle sette eterodosse. Hsieh-chiao80, “sette depravate”; weichiao, “sette pseudoreligiose”; yin-chiao, “sette oscene”; yao-chiao, “sette perverse”, sono solo alcuni dei nomi più suggestivi in voga tra la burocrazia mandarinale per definire le associazioni eterodosse religiose. Ai seguaci delle sette e delle associazioni, come ai membri delle società segrete, veniva, quindi, attribuito il nome di fei: banditi. Chiao-fei, dunque, erano i banditi “settari” mentre hui-fei erano i banditi “associati”. La trasformazione delle sette religiose in “associazioni politiche” fu un fenomeno che connotò prevalentemente le province della Cina settentrionale a dispetto di quelle meridionali. La Setta del Loto Bianco, la Setta degli Otto Triagrammi, i Nien, i Boxers e molte altre ancora erano note per essere, al contempo, società segrete e associazioni religiose e i loro seguaci, se catturati, non ne facevano mistero alcuno. La letteratura dei più insigni sinologi del XIX secolo, che approfondirono il ruolo che questi sodalizi assunsero sul finire dell’era imperiale, evidenzia come i burocrati e gli intellettuali ammonivano – se si vuole non a torto - il popolo a non farsi attrarre verso dottrine pericolose: 80 In cinese, per tradurre il vocabolo “religione” si usa chiao, letteralmente insegnamento. 93 Le società che in origine avevano avuto carattere politico divennero, in seguito, anche società religiose (e viceversa), per l’afflusso di sangue nuovo o per il verificarsi di nuove circostanze; alcune si estinsero o furono ridotte al silenzio, e in certi casi rinacquero sotto altro nome e in altro luogo, dopo aver modificato o meno la propria dottrina e la propria struttura organizzativa; le associazioni più grosse si scissero e le diverse parti si svilupparono in modo autonomo. I testi e i documenti di tutte queste associazioni erano conservati, di solito, in forma manoscritta, e spesso dovevano essere distrutti in fretta e furia… È impossibile sapere quante sette esistano ancora, ma si dice che nel 1896 i loro aderenti variassero, in media, da ventimila a due milioni in ogni provincia.81 Le sette religiose e le società segrete che operavano nella Cina meridionale, nello Zhejiang e a Wenzhou in particolar modo (centri dei più floridi interessi commerciali e finanziari) facevano risalire le loro origini all’associazione I Fratelli del Giardino dei Peschi o alla leggendaria impresa dei Cinque monaci del monastero di Shaolin, e non avevano, di norma, un’ascendenza religiosa. Anzi, in termini moderni, si sarebbero potute definire “laiche” anche se, in alcune pratiche, mantenevano un “punto di riferimento” religioso che si sostanziava nell’evocazione rituale di un antenato o di una divinità eterodossa. Il misticismo delle sette eterodosse della Cina settentrionale, dunque, era ripreso solo nelle manifestazioni esoteriche e cabalistiche dei rituali di affiliazione che richiamavano le preghiere ma, di fatto, risultavano totalmente svuotate dai contenuti trascendenti e metafisici. 81 Mervyn Llevelyn Wynne, Triad and Tabut. A survey of the origin and diffusion of Chinese and Mohamedan secret societies in the Malay Peninsula, A.D. 1800-1935. 94 Un esempio in tal senso, connotante per le società della Cina meridionale, è la “perdita” del ruolo gerarchico di alcune figure cardine per la religiosità delle società segrete del Nord; il veggente (ming-yen) e i Nove Palazzi (chiu-kung) del Nirvana buddista che sono sostituiti da gradi gerarchici tipici e caratterizzanti di ogni società. La Lega di Hung e le Triadi discendono dal fenomeno noto come paimeng, l’associazionismo laico di mutuo soccorso che, come v’è stato modo di riscontrare sopra, è alla base della spinta aggregativa delle associazioni riconducibili alla borghesia composta da mercanti e da altre categorie professionali emergenti e finanziariamente in grado di condizionare, modificandolo, il destino politico di un continente asincrono nella sua complessità. La disamina di alcune componenti antropologiche e tradizionali nelle pratiche rituali eterodosse “loggistiche”, aiuta nella comprensione di come sia giunta a oggi quasi immutata la struttura organizzativa e strategica delle Triadi, una tra le più moderne e, allo stesso tempo, antiche associazioni del crimine organizzato asiatico. Essa deriva la propria natura e il suo potere, oltre che dal processo di radicamento territoriale, nonché culturale che ha collocato geograficamente la genesi delle società segrete più potenti (associazioni criminali transnazionali con interessi nella finanza mondiale) nel Sud del Paese, dalla trasformazione concettuale del pai-meng in guanxi82. 82 Letteralmente relazione o rapporto incentrati su connessioni interpersonali che facilitano lo scambio di favori e determinano, tra i soggetti coinvolti, un forte legame, fondato su vincoli di scambio e beneficio reciproco il cui scopo è consolidare il ruolo del clan. Un gruppo sociale allargato la cui parentela non si concreta solo nel vincolo di sangue, ma che trae la propria origine e struttura dal senso di appartenenza e, spesso, dal comune impegno finanziario per sostenersi l’un l’altro. 95 Zhejiang, ma anche Fujian, Guangdong e Hainan sono, da allora, un Sud speciale. Mao Zedong, infatti, dopo la rivoluzione, non trascurò di osservarne le potenzialità facendone, oltre che delle zone franche sottratte al comunismo ortodosso, un laboratorio di economia capitalista nel quale forgiare i moderni laoban dai quali Deng Xiaoping, il piccolo timoniere, trarrà la linfa per, poi, partire con la controffensiva del neocolonialismo cinese. Una penetrazione economica antimperialista fondata sui punti deboli e di forza dello stesso capitalismo e del consumismo e la cui politica delle “porte aperte” sarà solo il primo passo verso l’espansione di un sistema. Il Sud cinese è, quindi, sin da quegli anni, il cardano “progredito” (s’intende nei confronti delle province settentrionali che si connotano per le esigenze tipiche di una società rurale e che, proprio per questo, esprimono, anche nella loro esperienza associazionistica, il limite culturale che le vuole legate più alla superstizione popolare fusa alla religiosità taoista e buddista che a un pragmatismo economico) al centro delle rotte e degli interessi commerciali delle più aggressive potenze economiche occidentali, dalle quali la Cina ha potuto trarre tutto il beneficio che le deriva dalla propria storia. Sempre dal guanxi trae la propria ispirazione quella forma di solidarismo etnico al quale i gruppi sociali migranti che provengono dalla Cina fanno riferimento nel momento in cui il soggetto migrante è scelto e collocato, ancora prima di lasciare la madre patria, in un gruppo sociale di destinazione definito. Una comunità accogliente nella quale, se già non ne è parte, entra e alla quale rimarranno legati lui e i 96 suoi discendenti. In questo caso si tratterà di un vincolo economico che gli permetterà di onorare il debito nei confronti di chi ha sostenuto le spese relative alla migrazione e, progressivamente, di elevare la propria posizione sociale sino a porsi, egli stesso, come terminale finale di altri analoghi viaggi. 5. La famiglia e l’associazione parentale. L’unità di base del sistema parentale cinese è la chia, la famiglia. La connotazione di questo gruppo sociale era e permane a tutt’oggi patrilocale, virilocale e a discendenza patrilineare (Fei-Ling Davis). Il ruolo della donna, non molto diverso dalla sua connotazione moderna, che la vuole impegnata nelle mansioni domestiche, si sostanziava nella gestione dei domestici, nel coltivare quelle arti ritenute consone: non la scrittura pittografica, bensì la musica o il canto. Impossibilitata ad avere ruoli decisionali, nel campo della gestione degli affari di famiglia non esprimeva il sé nemmeno nell’educazione dei figli, in particolar modo se maschi. Il suo ruolo poteva riemergere in qualità di tutrice solo in assenza di eredi maschi in grado di adempiere ai lavori, alle obbligazioni e alle attività routinarie della Chie: la famiglia. La figura della donna assumeva una connotazione assai diversa nelle famiglie, e in quelle stirpi, di estrazione sociale meno elevata (laddove con questa espressione debba intendersi: con minori apparentamenti importanti) ed economicamente svantaggiate. Infatti, sebbene la struttura sociale familiare fosse viricentrica, molta attenzione va conferita al ruolo, alla funzione, assegnata in seno all’istituzione alle 97 donne. Ad esse competeva un ruolo economicamente attivo e la loro reale validità all’interno della stirpe, struttura sociale di riferimento e in funzione della quale veniva compiuta ogni singola scelta di una strategia tesa alla massimizzazione dei benefici comuni, era determinata dalla loro partecipazione al lavoro e alla produzione. La famiglia riuniva in sé, generalmente, fino a un massimo di tre generazioni: avi, genitori e figli. La Hu (stirpe) costituiva, invece, una struttura di grado e livello superiore; si trattava, infatti, della famiglia allargata che poteva comprendere sino a cinque generazioni legate da vincolo di sangue. A queste cinque generazioni si aggiungevano, poi, un novero di soggetti che, di fatto, entravano di diritto a farne parte: le concubine, i fratellastri e le sorellastre con i coniugi rispettivi, i figli adottivi e, in ultimo, sebbene costituenti parte del “patrimonio”, i domestici. Questa unità più complessa, a sua volta, poteva essere parte di un più articolato gruppo parentale al quale veniva dato il nome di Tsu, la casata, nella quale confluivano le Fang, delle diramazioni, allocate in villaggi o città diversi rispetto a quelli d’origine del clan. A corrispondere, a volte contendendone l’egemonia, in ambito sia politico sia territoriale col potere nuovo delle società segrete e delle associazioni volontarie, la Cina mantiene saldo il proprio radicamento verso la tradizione e gli antenati che, di questa, diventano i venerabili numi tutelari cui riferirsi in ogni cerimonia o evento che richieda una tutela al vincolo da parte della sfera spirituale. La famiglia parentale ascrittiva pone in relazione tra loro i membri sulla base del vincolo di consanguineità prendendolo come il fulcro della 98 propria ragion d’essere. La forma di socialità arcaica cinese, infatti, non concepisce frammentazioni tra l’antenato e il discendente; il continuum si pone come elemento connotante della potenza di un gruppo sociale i cui vincoli solidaristici non consentono defezioni o interruzioni. Essi si spingono molto oltre la necessità di adempiere, o di cogliere, occasioni estemporanee per affermare, e affermarsi, in seno o in contrapposizione a tutto ciò che non è famiglia. Il nucleo familiare primario, così come la famiglia allargata (intesa nel senso in cui è sopra descritta), nella Cina meridionale – e non è una casualità - ancora oggi resta il punto di origine di moltissimi tra i migranti che compongono le comunità insediate nei centri produttivi dell’Occidente: era, e resta, un soggetto complesso e articolato che si pone in relazione con le altre istituzioni alla guisa di un organismo unitario. La stirpe, cioè il fitto reticolo di relazioni, connessioni parentali e obbligazioni reciproche (solidaristiche) che uniscono i nuclei primari di consanguinei, oltre a possedere terre proprie atte ad assicurare l’autonomia alimentare agli appartenenti al gruppo, poteva vantare il possesso di beni immobili comuni come, ad esempio, il tempio votivo nel quale celebrare le cerimonie e le pratiche dedicate al culto degli antenati, ma anche a ogni altro rito di inclusione dei nuovi giunti. Grande attenzione era devoluta alla formazione morale e culturale dei giovani per i quali erano attive una o più scuole che assicuravano, nella continuità della tradizione, la trasmissione dei valori arcaici che avrebbero permesso loro di inserirsi socialmente e di andare a occupare ruoli fondamentali nelle amministrazioni delle province. 99 Al tribunale familiare “privato”, andava il compito di dirimere le controversie tra singoli soggetti o nuclei familiari così detti primari. Oltre a ciò, tra i compiti di rilevante importanza da esso assolti, vi era la funzione consiliare che permetteva di orientare, e dirigere, l’intera attività economica, sociale e politica delle famiglie appartenenti alla stirpe stessa. Per millenni, e sino alla fine dell’età imperiale, la struttura sociale sopra descritta poté conservarsi immutata grazie a relazioni corruttili intessute e mantenute giovandosi degli apparentamenti tra famiglie abbienti, che attribuivano un ruolo prevalentemente politico economico all’istituto del matrimonio, come ancora oggi accade nel guanxi. La corruzione e la concussione minute, le regalie, le piccole agevolazioni, la scelta assennata dei matrimoni erano (e in molte realtà continuano a essere) strumenti ordinari attraverso i quali ampliare o, quanto meno, confermare, un tenore di vita adeguato alle proprie esigenze. La situazione, per le famiglie “povere”, sebbene le logiche comportamentali richiamassero in toto quelle descritte, mutava notevolmente. Le stirpi prive di fondi agricoli e di altre risorse finanziarie, infatti, raramente riuscivano a mantenersi “unite” venendo, quindi, assorbite da clan potenti, contribuendo, così, al consolidamento di questi. A parte segni esteriori di un passato che era stato glorioso e opulento, rappresentato, talvolta, dalle vestigia del tempietto votivo per gli antenati, nulla più potevano ostentare se non lo spirito di coesione derivante dal guanxi. Per concludere, la stirpe (come la milizia di città o di villaggio) era un potere a sé, che si affiancava al potere dei funzionari e dei 100 nobili di provincia. Era, in sostanza, uno stato nello Stato, che possedeva – come già si è detto - il suo tribunale e le sue scuole, i suoi servizi di assistenza e i suoi organi amministrativi, i suoi templi e persino il suo archivio storico, il tsu-p’u, circondato da un’alta muraglia che racchiudeva case e strade accentrate materialmente e simbolicamente intorno alla sala degli antenati. Tutte le controversie fra i membri di una stessa stirpe (eccettuati i delitti di omicidio e di tradimento) erano giudicati dai tribunali della stirpe, i quali – come i notabili di provincia - rappresentavano la longa manus del potere centrale. Era cosa abbastanza frequente che i tribunali della stirpe sfidassero impunemente le sentenze emesse dal magistrato in sede giurisdizionale, poiché quest’ultimo, il più delle volte, era poco disposto a inimicarsi un potenziale sostenitore locale o era troppo lontano dal luogo del delitto per poter reagire in modo efficace alla sfida. Di conseguenza, la struttura organizzativa della stirpe diventò, insieme alla milizia, l’arma più potente in mano ai notabili di provincia e costituì, nella seconda metà del secolo XIX, un efficace contrappeso al potere dei magistrati locali e al loro defunto sistema del pao-chia.83 L’attualità e l’utilità nel processo di comprensione delle dinamiche sopra evidenziate, ancorché sia chiaro il loro riferirsi a un’epoca remota, sono tanto evidenti quanto paradigmatiche. Se tale dato viene coniugato con le informazioni e l’esperienza d’interazione contemporanea e quotidiana tra i gruppi sociali migranti costituitisi in Occidente a seguito di quella che viene definita la “diaspora cinese” e i gruppi presenti nei territori d’insediamento, assume una rilevanza importantissima nel gettare le basi per la comprensione di alcuni fenomeni sociali d’integrazione e di relazione. 83 Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria, Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.62. 101 Ancora oggi le prassi che caratterizzano i rapporti all’interno dei gruppi migranti, improntati a esaltare i vincoli presupposti dalle relazioni familiari, confermano queste dinamiche e, replicando il modello tradizionale - arcaico all’interno della diaspora cinese nelle località d’insediamento abitativo o nei siti in cui i soggetti economicamente attivi “scelgono” di attivare le imprese, connotano quella realtà, a volte, difficile da comprendere se osservata con un metodo d’analisi del fenomeno occidentalista. 6. La Triade: le origini Nei precedenti paragrafi sono stati brevemente accennati i presupposti, storici, sociali e culturali, prodromici alla nascita delle società segrete e delle associazioni (volontarie o ascrittive) in Cina. Si è evidenziato quanto questi sodalizi, di fatto necessari, abbiano tratto la motivazione a esistere dall’esigenza spontanea di creare una struttura socioassistenziale parallela e di organizzare, quindi, in modo orizzontale sia la sussidiarietà sia la solidarietà, al mero fine di sopperire ai più elementari bisogni del gruppo. Il Popolo, così come lo abbiamo visto suddiviso da un rigido protocollo in classi sociali, si trovava, dunque, in una sorta di ondivago limbo: una posizione nella quale, quando non gli era permesso di vivere ignorato, veniva comunque esposto alle vessazioni e alle persecuzioni delle istituzioni locali, il cui unico fine era di preservare se stesse consolidando la propria prevalenza economica e politica. 102 Il panorama nel quale si muovono, ancora oggi, le società segrete è, dunque, assai vasto e variegato. Data la scarsità di materiale disponibile a suggerire una mappatura di tutti i sodalizi esistenti e delle molteplici forme da questi assunte, si ritiene più confacente servirsi di un metodo d’analisi più generale, sintetizzando i dati disponibili e utili a costruirne un tipo ideale. Data la mobilità e il decentramento dei sodalizi in disamina, questo metodo appare come l’unico per tentare un approfondimento senza incorrere in fuorvianti prospettive omogeneizzanti dalle quali sarebbe, poi, difficile discostarsi. Il mimetismo fluido e l’attitudine al complesso polimorfismo di cui, ancora oggi, le società segrete sono capaci, trae la propria origine dalla necessità atavica di operare in clandestinità e compiendo spostamenti continui in modo da non consentire al “nemico” di acquisire un novero di informazioni utili a delinearne il profilo e l’organigramma. La capacità e la propensione all’adattamento si autoalimentava, come ancora oggi avviene, dal recepimento degli usi e delle consuetudini del territorio in cui gli “affiliati” venivano accolti, nonché dall’interazione con gli iniziati delle società “ufficiali” ospiti, cioè a dire dietro le quali si mascheravano i fini del sodalizio clandestino. Quindi, quali che fossero le apparenti diversità, la società segreta cinese mantenne sempre una struttura del tutto simile a quella delle varie associazioni. Le differenze geografiche alle quali si è già accennato assunsero un’indubbia rilevanza in relazione alla composizione sociale delle società segrete. Nello svolgimento di questo paragrafo il campo d’analisi sarà opportunamente ristretto a quel gruppo di sodalizi la cui 103 fusione e cooperazione è giunta a noi con il nome di Lega di Hung o, meglio, con l’appellativo di Triade84: una propaggine della Setta del Loto Bianco la cui leggendaria genesi è da ricondurre ai monaci guerrieri del monastero di Shaolin. La leggenda sulla genesi della Triade è intrisa di magia e simbolismo cabalistico esoterico. Il mito narra che agli inizi del Settecento nello stato del Fukien, nel Nord della Cina, i monaci del monastero buddista di Shaolin, noti per la fama di esperti guerrieri, misero le loro competenze al servizio dell’imperatore K’ang-shi. Per comprendere quanto ancora di quel passato sia attuale nelle odierne pratiche e credenze, si deve sintetizzare la leggenda sull’origine della Triade: L’imperatore chiese e ottenne il loro aiuto per spingere le fiere tribù degli Eleuti, che minacciavano le frontiere settentrionali della Cina. Al termine di una brillante e vittoriosa campagna, i monaci fecero ritorno al convento carichi di onori, dopo aver rifiutato tutti gli incarichi governativi che erano stati loro offerti. Qualche tempo dopo, due ministri dell’imperatore, gelosi dell’alta considerazione in cui i monaci erano tenuti dal sovrano, lo istigarono a ucciderli, sostenendo che –dopo aver mostrato il loro valore in battaglia- essi erano tornati al loro tempio fortificato al solo scopo di fomentare la rivolta. In conseguenza di ciò, e con la complicità e il tradimento di un monaco che, nella gerarchia del pugilato, era chiamato il numero sette, il monastero di Shaolin fu scoperto, incendiato e distrutto dalle truppe imperiali, che uccisero la maggior parte degli occupanti. Con l’aiuto di una magica nuvola gialla, inviata da Buddha, cinque degli ottocento monaci riuscirono a fuggire. Durante il cammino si imbatterono in vari prodigi: un turibolo magico con la scritta <<Rovesciare i Ch’ing e restaurare i Ming>> (Fan-Ch’ing-Fu-Ming) e con l’ingiunzione <<Agite secondo la volontà del Cielo>> (Hsun-T’ien- 84 […] Il cui nome per gli adepti è “Società Segreta del Cielo, Terra, Uomo" (Tien-ti-jen). 104 Hsing-Tao); un’erba che, quando fu messa a bruciare nella ciotola, si convertì in bastoncini profumati; dei magici sandali d’erba che – dopo essersi trasformati miracolosamente in una barca - li trasportarono al di là del fiume ; un ponte a due assi, sotto il quale si trovarono tre pietre per guadare il fiume, sulle quali erano scritte le parole <<calma>>, <<mare>>, <<galleggiare>>, (Ting, Hai, Fou) e con l’aiuto delle quali riuscirono a sfuggire alla sorveglianza delle guardie dei Ch’ing che stazionavano sul ponte; una spada di legno di pesco e di susino che sporgeva dal suolo e che fu usata dalla moglie e dalla sorella di uno dei monaci per uccidere i soldati che li inseguivano. Queste due eroiche donne si suicidarono subito dopo, per non rivelare sotto l’effetto della tortura il luogo dove si erano nascosti i monaci. Questi ultimi cercarono rifugio in un monastero della provincia del Kwangtung, dove furono presentati a cinque capi ribelli (i <<capi dei cavalli>> o <<mercanti di cavalli>>), ex funzionari della dinastia Ming. Questi cinque uomini diventarono i <<Cinque Secondi Antenati>> (hou-tsu), mentre i cinque monaci diventarono i <<Cinque Primi Antenati>> (ch’ien-tsu).85 85 Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pp.98-99. 105 86 Mappa del tempio di Kao-Chi La leggenda continua enfatizzando la narrazione con una serie di particolari dall’alto valore simbolico e magico che non trascurano di connettersi alle pratiche invalse per “mascherare” le operazioni di reclutamento degli adepti, le connessioni con le attività commerciali nonché i rituali tipici per attribuire i gradi gerarchici nelle società segrete che confluiranno in seno alla Triade. Quasi a nobilitare e rendere “alto” lo scopo della volontà associativa, l’origine del sodalizio con il suo nome primigenio sarà ricondotta alla “resistenza” dei seguaci della dinastia Ming contro le persecuzioni dell’imperatore Ch’ing. Non a caso la comparsa, nella narrazione leggendaria, di un preteso discendente della dinastia Ming intento a reclamare per sé il ruolo che il destino avrebbe voluto per lui nell’Impero Celeste, muta la vocazione settaria e delinquenziale del sodalizio in una 86 Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.93. 106 missione sacra e legittima: la restaurazione degli imperatori han a discapito degli usurpatori mancesi. La connotazione politica delle finalità della società segreta, dunque, rispecchia e rafforza le connessioni tra religiosità e potere di modo che, spesso, le rivolte risultano sì popolari, ma con l’espressa matrice spirituale sotto la quale si celano gli interessi che oggi chiameremmo “criminali” e “di loggia” delle società stesse. L’abate del monastero disse loro che un certo Chen Chin-nan della Grotta della Cicogna Bianca (la leggenda non fornisce altri particolari del luogo) stava raccogliendo truppe per rovesciare la dinastia mancese dei Ch’ing. I monaci si recarono allora alla grotta di Chen, e qui decisero di andare a Mu Yang (Città delle Colline) nella provincia del Fukien, per stabilirvi il loro quartier generale e reclutarvi patrioti decisi a scatenare la rivolta contro i Ch’ing. Furono aperti negozi per occultare il lavoro di reclutamento e per sistemarvi gli uomini fino a che fosse giunto il momento di dare inizio alla rivolta. Un uomo robustissimo di nome Wan Yun-lung, che si era dato alla macchia per aver ucciso un uomo, si unì a loro e morì più tardi in un fallito tentativo di ribellione che ebbe luogo nella provincia del Fukien. Un ragazzo, di nome Chu Hung-ying87, sostenne di essere l’erede legittimo della dinastia Ming e fu accettato in seno alla Triade, che ne fece il suo <<delfino>>. Fallita la rivolta (scoppiata probabilmente nel 1674 o nel 1794) i monaci si dispersero e fondarono cinque logge <<maggiori>> nelle cinque province del Fukien, del Kwangtung, dello Yunnan, dello Hunan e del Chekiang, mentre gli altri cinque uomini (chiamati talvolta i Cinque Generali Tigre) fondarono cinque logge <<minori>> nelle vicine province del Kwangsi, del Szechwan, dello Hupei, del Kiangsi-Honan e del Kansu. Le logge maggiori furono chiamate 87 Hung diventerà, in seguito, parte del nome che darà l’appellativo al più risalente sodalizio segreto: “Lega di Hung” o “Famiglia di Hung”. La tradizione vuole che sia l’associazione clandestina da cui deriva la Triade. 107 le <<cinque prime logge>> (Ch’ien Wu Fang), quelle minori le 88 <<cinque logge successive>> (Hou Wu Fang). 89 Mappa delle regioni d’origine delle Logge La leggenda sull’origine storica della Triade presenta, nelle molteplici forme in cui è stata tramandata, un notevole numero di elementi storici che aiutano a collocarla temporalmente e a comprendere le motivazioni sociali, economiche e politiche comuni alle classi meno abbienti, ma anche alla nobiltà decaduta con l’avvento dei Ch’ing, che portarono il popolo a porre in essere delle forme di autotutela in grado di consentirgli di sopravvivere. Il ricorso alla coniazione di una società segreta, la cui necessarietà viene ricondotta a “nobili” origini, e la strutturazione della rete solidaristica che intorno a questa si sviluppa (supportata dalla classe mercantile e commerciale sotto la facciata dell’associazionismo volontario), consentirono di contenere le più acute 88 Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.99. 89 Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis: Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag. 101. 108 e feroci forme persecutorie da parte dei feudatari di provincia nei confronti dei seguaci fedeli, ma sconfitti, della dinastia Ming. Costoro, nel 1662, a seguito del sopravvento dei mancesi della dinastia Ch’ing, dovettero riparare e trovare protezione nei monasteri buddisti che diventarono, così, oltre che i centri nodali della resistenza contro lo “straniero” mancese, gli obiettivi della feroce repressione Ch’ing. La persecuzione dei fedeli e dei monaci buddisti, nella coscienza popolare, rappresentò un ulteriore attacco alla cultura han e assunse, immediatamente, la connotazione di una offensiva militare nonché di un tentativo di depauperazione culturale, verso quello che, della dinastia Ming - la sconfitta casata cinese -, era rimasto di caratterizzante per il sentimento di identificazione e riconoscimento nazionale. In questo periodo, dunque, si delinea la prima alleanza tra l’eterodossia religiosa e le spinte nazionaliste che si sintetizza, quindi, nell’unico obiettivo cui potesse essere attribuito un valore identitario: “Abbattere i Ch’ing per restaurare i Ming”. Ancor oggi è di grande importanza l’attribuzione sacra dell’origine della Triade che, come s’è visto, si vuole discenda dalla “Setta del Loto Bianco” (o Lega di Hung o, ancora, Famiglia di Hung). Ciò non tanto perché i suoi accoliti dovevano essere legati da un vincolo spirituale, quanto per il carattere suggestivo e aggregante - sintesi di misticismo e superstizione – della cerimonia del rito d’iniziazione (la preghiera verso alcune divinità buddiste come Kuan-yin o taoiste come Wu-sheng-laomu). Tale rito aveva un ruolo accomunante e, soprattutto nella Cina 109 settentrionale, consentiva di dare un carattere universalistico al sodalizio. A tal proposito non si può escludere, come ricorda Fei-Ling Davis nel saggio sull’origine della Triade, che tali divinità religiose, così come il ragazzo di nome Hung, siano state introdotte artificialmente per uno scopo meramente politico, cioè per occultare gli scopi reali del sodalizio dietro ad una parvenza di valori alti e largamente condivisi tra la popolazione. Nella Cina meridionale, invece, la stessa Triade assume caratteristiche alquanto differenti. Non ci sono connessioni dirette con il buddismo o con il taoismo e le gerarchie interne non hanno nomi riconducibili a divinità ma invece, seppur mantenendosi legate alla tradizione dei Cinque Vecchi Antenati, dei Cinque Nuovi Antenati e dei Cinque Generali Tigre, sviluppano una propria scala gerarchica legata alla funzione che il soggetto partecipante assume in seno alla società segreta. Le propaggini triadiche che oggi operano su scala mondiale nell’ambito del crimine e della gestione degli affari, anche leciti, si informano più al laicismo della connotazione meridionale della società, facendo dell’economia e dei traffici mercantili lautamente remunerativi, e quindi soprattutto illeciti, il vero collante e lo scopo del sodalizio. Il vecchio imperativo: “Non maltrattare i monaci buddisti e non prendersi gioco di loro”, seppure rimanga in uso ancor oggi e costituisca parte integrante del giuramento dei neofiti, in realtà appartiene alla tradizione arcaica che tendeva più a proteggere i religiosi da un risentimento 110 popolare diffuso verso la loro opulenta oziosità che all’osservanza di un principio spirituale realmente sentito. La Triade, dunque, come altre società non ascrittive, ha uno scopo mutualistico e assistenziale che, ancor oggi, si esprime esclusivamente tra gli appartenenti al gruppo. Sebbene sino ad ora sia stato opportuno ricondursi al “mito” per comprenderne la genesi, grazie all’analisi degli appunti del tenente colonnello B. Favre 90 ci è dato acquisire alcune informazioni fondamentali sulla formazione di un organismo segreto di matrice mutualistica e assistenziale, analoga a quella della triade di cui egli osserva acutamente i momenti topici. La Società dell’Orchidea d’oro venne costituita nei pressi di Tientsin attingendo la propria compagine tra il contingente di militari in partenza per la guerra del 1916 e cioè in concomitanza con l’intervento cinese nel conflitto bellico 1914-1918. Lo scritto di Favre fornisce, dunque, un documento unico e prezioso, considerata l’epoca relativamente recente in cui viene redatto, in cui si evidenziano sia la hui (o pai-meng: solidarietà, spirito di fratellanza), sia le dinamiche spontanee che determinano la nascita di un’associazione segreta moderna, che però segue i principi organizzativi ortodossi e mutua la “procedura” da quella della Società Cielo, Terra, Uomo. Non si ritiene inappropriato dal punto di vista descrittivo, dunque, dare ampio risalto allo scritto del Colonnello Favre, il quale, oltre a riferire i 90 B. Favre, autore del saggio: Les Sociétés secrètes en Chine. Origine. Rôle historique, Paris, Maisonneuve, 1933. Favre, fu Tenente Colonnello dell’Esercito francese di stanza in Estremo Oriente e fu decano presso l'Istituto franco-cinese dell’Università di Lyon. 111 fatti, compie un’analisi non astratta dal contesto socio temporale in cui i fatti stessi si compiono: Separati bruscamente dalle famiglie e dagli amici, preoccupati di un avvenire carico di incognite, cinque vicini di baracca si erano confidati i propri nomi, cognomi ed età e si erano messi a parlare dell’avventura che stava per cominciare. [Si noti come il numero cinque torni prepotentemente a fare la propria comparsa anche nella narrazione di uno straniero quale Favre è] il più anziano dei cinque disse all’improvviso: <<Nessuno sa quale sorte ci attende, a quali pericoli andremo incontro. Ognuno di noi, da solo, soccomberà; uniti, invece, potremo lottare, aiutarci a vicenda. Facciamo anche noi quel che fecero –nel periodo dei Tre RegniHuien-te, Kuan-Yu, e Chang-Fei, i quali si adottarono reciprocamente come fratelli nel Giardino dei Peschi ed ebbero un avvenire glorioso. Se non lo avessero fatto, sarebbero periti e la Cina avrebbe continuato a soffrire le più terribili sventure>>. <<Lo fanno tutti, -aggiunse un altro,- basta mettersi d’accordo. Io so scrivere e posso preparare il contratto. Questa sera ci riuniremo e pronunceremo il giuramento secondo i riti>>. E così fu fatto. Sulla nave che li trasportava in Francia, i cinque amici si legarono ad altri operai e procedettero ad altre iniziazioni. Al momento dello sbarco a Marsiglia, il gruppo era composto da cinquanta associati (decuplicazione del cinque): ognuno di loro aveva un libricino, contenete la lista di tutti i confratelli in ordine di età. Cominciarono subito le prime apprensioni: sarebbero stati costretti a separarsi, alcuni sarebbero stati inviati al Nord, altri a Ovest. Ma il giuramento li legava ormai per sempre. Dovunque fossero andati, sarebbero rimasti sempre fratelli. E per riconoscersi meglio, per distinguersi dalle altre società consimili che erano sorte intorno a loro, scelsero per la loro società un nome, un simbolo di buon augurio: <<L’Orchidea d’Oro>> […]. 91 La lettura dello scritto di Favre, che sintetizza e sviscera molto delle tradizioni cinesi legate alle società segrete e in particolar modo a quelle 91 B. Favre, Les Sociétés secrètes en Chine. Origine. Rôle historique. Ed. Maisonneuve, Paris 1933. 112 triadiche - per come sono state studiate dalla metà del secolo scorso consente, in sintesi, di trovare tutti o quasi gli elementi descritti sino a ora dalla letteratura arcaica e nei contratti associativi vincolanti per gli associati a dette società (e, pertanto, anche alle associazioni categoriali di lavoratori), rinvenuti negli archivi dei sodalizi stessi. In particolare si può notare come la simbologia cabalistica, e la numerologia magica, alla quale i fondatori della setta si richiamano, siano un passaggio indefettibile della procedura attraverso la quale essa trae la propria esistenza. Si noti, e non può dirsi una coincidenza, come i soldati in procinto di partire per l’Europa, si riuniscano nel numero di cinque per fondare la Società dell’Orchidea d’Oro. Essi sono cinque, com’erano cinque i Vecchi Antenati e i Nuovi Antenati e come sono cinque i Generali Tigre; la ripetitività del quorum necessario a far muovere la spinta all’associarsi non è, dunque, casuale. La volontà collettiva si fonda, oltre che sull’affinità, anche sulla condivisione di valori che, per beneficiare della protezione degli antenati, devono essere comuni. Perché il gruppo possa strutturarsi e iniziare a operare armoniosamente per l’interesse collettivo nulla deve uscire dall’ortodossia eterodossa. In questo specifico caso, la volontà di formare il sodalizio nasce da una esigenza, la stessa che mosse i loro antenati a riunirsi nei templi buddisti e taoisti: giungere a formare un gruppo solidale in grado di esprimere al meglio quanto il guanxi, ancor più della hui o del pai-meng, sintetizzasse. L’intreccio delle vite e dei destini diventa importante come 113 la propria vita, e la fratellanza “volontaria” è, comunque, l’espressione di una necessità collettiva di “adottarsi reciprocamente” stabilendo un vincolo, in forma contrattualistica, dal quale sottrarsi non è né ipotizzabile né d’interesse per i consociati. L’associazione volontaria di mutuo soccorso diventa contrattualmente La Famiglia e, a tutti gli effetti, assimila e attua le regole che di questa sono proprie. Da un tale vincolo non sono escluse neanche le donne che, egualmente adottate, venivano destinate a svolgere lavori domestici o a divenire le spose dei figli della fratellanza (Fei Ling Davis). L’adozione per contratto pone l’iniziato di fronte a una serie di obblighi alla violazione dei quali corrisponde l’applicazione di sanzioni che spaziano dalla natura patrimoniale delle stesse a quella penale che si sostanzia nella perdita della libertà personale (schiavizzazione), nella mutilazione o, addirittura, nella soppressione fisica attraverso la ritualizzazione della condanna a morte. All’interno dell’Orchidea d’Oro, i legami patrimoniali, i legami economico-finanziari, i vincoli politico-amministrativi e di solidarietà attiva sono, quindi, riconosciuti come elementi comuni: l’unica via per sopravvivere all’incertezza di un viaggio verso l’ignoto in un continente del quale quei soldati nulla sapevano. A fronte, dunque, di tale aprioristica chiusura al “profano”, tutti potevano perdere la fragilità derivante dall’individualità, fondendosi nel corpo unico dell’Io collettivo. Dalla forza della tradizione che discendeva l’identità, la certezza di tornare a casa e di rimanere, comunque, se stessi ovunque fossero approdati. 114 7. L’affiliazione alla Triade L’adesione del soggetto candidato, o cooptato, alla società della Triade avveniva solo se questi poteva avere una utilità per la struttura stessa. Nessuna preclusione o preferenza era gravata da pregiudizi di classe e l’impegno richiesto al neofita si riduceva all’essere solo ciò che una persona è. Nessuna menzogna, nessuna finzione, nessun mascheramento era tollerato all’interno delle relazioni infra-loggistiche. La fedeltà alla società, però, doveva essere assoluta. Nelle Lezioni sulla filosofia della storia, G.W.F. Hegel definisce le leggi statali leggi giuridiche e morali e, confrontandole, se non contrapponendole, con le leggi interiori, cioè alla conoscenza che il soggetto ha del contenuto del suo valore come della sua propria interiorità, sottolinea come ha luogo essa stessa come esteriore comando giuridico, mentre il diritto, dal canto suo, assume l’apparenza della morale.92 Non sembra, dunque, inappropriato partire da questo punto per approcciare quanto “diritto” vi sia nell’ordinamento giuridico 93 della Triade, che non comprende esclusivamente norme penali e di procedura, ma, anche i Lü-li, delle norme egualmente vincolanti, ma a carattere etico. La differenziazione alla quale si fa riferimento, però, non trovava una codificazione ufficiale né all’interno del sodalizio né (del resto come sarebbe stato possibile?), dal diritto ufficiale. Essa fa parte 92 Georg Wilhelm Friederich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia - Ed. Aracne, Firenze 1947. 93 Si veda Fai Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971. 115 di quel diritto vivente che, in seno a detti contesti, esprime una cogenza assi maggiore di ciò che è rinvenibile negli scritti. La Società della Triade aveva e, secondo studi più recenti, mantiene un binario normativo che vincola i propri accoliti: uno implica l’adesione dei consociati al sistema di norme penali (con la relativa disciplina procedurale alla quale richiamarsi per la loro applicazione), e il secondo, a carattere squisitamente morale, al quale l’iniziato è vincolato attraverso il rito di accoglimento durante il quale pronuncia i Che; i giuramenti che, permeati di formule imprecatorie 94 , servivano a trasfondere gli insegnamenti arcaici e ad addestrare moralmente, modificando e uniformando, il pensiero dei neofiti. Con la promessa implicita di vedere assolte tutte le inottemperanze che lo stato centrale disattendeva in termini d’istruzione, assistenza ed erogazione dei minimi servizi, la triade attraeva a sé gli affiliati, ma solo attraverso il reticolo di minacce, la società segreta, li legava indissolubilmente alla struttura. La fede nell’efficienza e nell’efficacia della società, nonché una buona dose di credenze popolari e superstizioni di varia natura, facevano sì che il giuramento pronunciato si innestasse nella morale dell’individuo che, qualora avesse disonorato il proprio impegno e disatteso gli obblighi di solidarietà, segretezza o tradito i fini istituzionali della Triade, sarebbe stato bersaglio di ogni sorta di nefandezze e vendetta da parte degli spiriti degli antenati. 94 Ibidem 116 95 Certificato di appartenenza alla Loggia Se taluno disobbedisce a questa regola –recita una delle formule che compongono il Che- e dimentica i suoi doveri di fratellanza, sarà considerato spergiuro: possa la folgore annientarlo, in qualsiasi punto della terra egli si trovi. 96 L’accesso alla Triade, comunque, non avveniva a titolo gratuito, ma prevedeva come impegno da parte dell’iniziando il versamento di una quota di adesione per il quale era rilasciata idonea e regolare ricevuta, nella quale non mancava il riferimento al dovere ad agire secondo giustizia e al potere assoluto del Cielo (l’impero celeste da cui si fa 95 Illustrazione tratta dal saggio: Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Fei-Ling Davis, Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag. 200. 96 William Stanton, The Triad society, cit, p. 118 Appendice. 117 discendere l’inizio del mito della Triade) verso il quale insisteva e permaneva il dovere d’obbedienza. 97 Ricevuta di versamento Come sopra v’è stato modo di specificare, la società della Triade aveva un proprio ordinamento che s’ispirava, in modo equivalente, al Grande Codice (Ta Ch’ing Lü-li) e possedeva, altresì, una sua versione del 97 Illustrazione tratta dal saggio Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria. Fei-Ling Davis - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag. 201. Traduzione: Sala di I-hing – Riceviamo da [nome dell’iscritto] la somma [quantità di monete versate]. La società rilascia questo biglietto come prova dell’avvenuto pagamento. Obbedisci al Cielo e comportati secondo Giustizia! L’anno [espresso in caratteri ciclici] dei movimenti celesti …, il mese …, il giorno … Autenticato con sigillo. 118 Sacro Editto98. L’interpretazione, dunque, delle clausole penali avveniva in autonomia, ma rimaneva, comunque, vincolata e ispirata a tale combinato disposto. Ecco, quindi, che una formula esatta non esiste nemmeno oggi, anche se il senso tende a rimanere lo stesso pur assumendo una diversa e tipica autenticità per ogni singola società che partecipa alla costellazione triadica. Ciò che resta fondamentale è la forma della maledizione. Il potenziale spergiuro, o il traditore, sa che l’ira degli antenati o delle divinità lese dalla condotta vietata sarà placata non da eventi paranormali (ai quali tuti fingono di credere), ma dalla longa manus della società segreta. Più banalmente, dai suoi sicari. Nella Famiglia di Hung (o Lega di Hung) il codice normativo, che era sottoscritto dagli affiliati all’atto dell’iniziazione e comprendeva settantadue articoli. Lo Hung-chia Ch’i-shih-erh t’iao Lü-li, ispirato dal Codice Ch’ing, aveva la finalità di definire le forme di reato in cui l’adepto poteva incorrere e di comminare la relativa sanzione: colpi di frusta, taglio degli orecchi fino alla morte per decapitazione. Nel corpus legis della Triade, dunque, non si rinvenivano che poche tracce delle sofisticate pene che il diritto ufficiale riservava a chi violava la legge, pertanto l’indugio in uno smembramento o la sepoltura da vivo del condannato, si deve ritenere che fossero, come oggi sono, una “superflua perdita di tempo”. Nemmeno l’espulsione, quindi ciò che per la norma statuale era rappresentato dall’esilio, veniva considerata un pena perseguibile se non che riguardasse l’estromissione del soggetto 98 Si veda Fai-Ling-Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria - Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971. 119 dalla singola sezione, il che presuppone che questi venga accolto in un’altra loggia. Il giuramento che l’iniziato sottoscrive all’atto del suo accoglimento nella fratellanza, infatti, prevede d’essere sciolto solo con l’intervento della morte del sottoscrittore stesso. 99 L’inflessibilità del dettato normativo triadico estrinseca uno scopo diverso rispetto a quello ufficiale bipartendosi: uno interno che tende a raggiungere la coesione tra gli affiliati e che de facto delegittima ogni legge dello Stato e uno esterno che garantisce di tenere uniti i fili di una trama, la società segreta appunto, la cui capacità di penetrare, coprire e avvolgere ogni attività di suo precipuo interesse, supera ogni altra organizzazione criminale operante al mondo. Organizzata come un servizio segreto tra i più moderni, la Triade opera da secoli cementando i rapporti tra i consociati attraverso un movimento politico ideologico aggregante. Se le cerimonie di affiliazione aumentano il senso di solidarietà tra i confratelli legandoli drammaticamente ai valori culturali condivisi e comuni, l’applicazione delle sanzioni per i traditori e i disertori garantiscono una omogeneità e, al contempo, una bassa litigiosità in nome del preminente valore della impermeabilità verso il mondo esterno. Le sanzioni derivanti dalle norme interne, dunque, oltre a garantire l’impermeabilità nei confronti dell’ordinamento statale delegittimandolo, si prefiggevano lo scopo di impedire che la sprovvedutezza o la delazione di qualche fratello, consentisse permeabilità alle spie della polizia. Il “codice” interno, colpisce con la pena di morte non solo chi tradisce, ma, anche, chi introduce spie della 99 W. P. Morgan, Triad societies in Hong Kong – U.S. Government Press, 1960. 120 polizia durante le cerimonie d’iniziazione; chi denuncia alle autorità il Presidente o il Maestro dell’incenso; ancora, chi compie sabotaggio nei confronti dei sistemi di comunicazione tra le logge o riveli l’attività della loggia stessa. Alla morte, non sfugge nemmeno chi denunci un confratello che abbia ucciso per mandato della loggia e chiunque ponga a repentaglio la copertura del proprio confratello facendolo identificare e arrestare dalla polizia 100 (Gustaaf Schlegel101, The Hung Legue). Per rendere un esempio di quanto il legame di fratellanza abbia importanza all’interno di ogni singola società che costola della Triade, ecco che l’ordinamento interno punisce con la morte chiunque compia incesto. Laddove per incesto debbano intendersi la seduzione di una congiunta (sorella, moglie) di un altro confratello. Il legame familiare, il guanxi, sebbene la società sia laica e non ascrittiva, si comporta in tutto e per tutto come se il vincolo sorto dalla sottoscrizione del contratto associativo sia, a tutti gli effetti, un apparentamento di sangue con ogni appartenente al sodalizio; il che include anche gli appartenenti al nucleo familiare (propriamente detto) di questo (Fei Ling Davis). Un aspetto interessante legato alla numerologia cabalistica investe, oltre al rituale di affiliazione dell’ammittendo alla loggia, la gerarchia funzionale interna all’intera Triade. Nella loggia, come nella società cinese, infatti, il rango gli è conferito dalla sequenza di numeri che permettono a chi ne entra in contatto di identificarne la posizione; 100 Gustaaf Schlegel (1840-1903), eminente sinologo, a lui si deve la compilazione della più accreditata analisi sulla Lega di Hung che, nel 1893 venne pubblicata con il titolo di The Hung League. L’osservazione diretta e la grande competenza nel raccogliere informazioni sulle abitudini e tradizioni degli affiliati a questa società segreta, nota ai più con il nome di Triade, fa del lavoro di Schlegel l’opera più autorevole e meglio organizzata del panorama scientifico sino a dopo la prima metà del XX secolo. 101 G. Schlegel, The Hung League – Edizione Banfield, 1893. 121 l’individuo conta a seconda del numero che gli viene attribuito a seguito dei meriti raccolti e della fedeltà dimostrata ai fratelli della società segreta. Anche nell’ambito delle pene corporali, che non prevedono la morte del condannato come esito finale, la numerologia è fondamentale. Citando, ad esempio, la fustigazione, sappiamo che essa prevede un numero di frustate preciso che non necessariamente viene eseguito percuotendo il condannato nel numero di colpi previsto, ma gradua la gravità del reato commesso assumendo, dunque, un ruolo simbolico. Le frustate possono essere somministrate nel numero di: 18, 21, 36, 72, 108, 360. Com’è facile notare tutti questi numeri sono divisibili per tre, il numero che nella semiologia cinese definisce l’unione tra Cielo, Terra e Uomo, dunque: la Triade. La giustizia interna legata alle liti tra appartenenti alla stessa loggia, o a logge diverse dello stesso Kung102, è un fatto interno. Quando tra fratelli della Lega di Hung insorgono delle contese, gravi o futili che siano, vi è il Consiglio per deciderle secondo giustizia: non è permesso portare la questione dinanzi ai magistrati. Se qualcuno infrange questa regola (ecco che al precetto segue immediatamente la sanzione), il Consiglio deciderà egualmente il caso e punirà chi ha promosso l’azione dinanzi ai tribunali con 108 colpi di bastone.103 Il giudice del Consiglio supremo 104 –solitamente il Presidente o il Maestro d’Incenso- era chiamato a pronunciarsi sulla disputa e, in virtù 102 Kung, letteralmente “palazzo”. L’uso di questa parola testimonia che la derivazione delle gerarchie ha una matrice buddista e si riferisce, segnatamente, ai Nove Palazzi del Nirvana. 103 G. Schlegel, The Hung League – Ed. Banfield 1893. 104 L’esistenza di un Consiglio o di un Consiglio segreto è asseverata da G. Schlegel e da Fred Boyle (un giornalista vissuto sul finire del 1800), nessuna altra traccia se ne trova in letteratura. Secondo Boyle, poi, tra i tredici membri del consiglio vi era un quorum rappresentato da otto consiglieri. La 122 dell’autorità attribuitagli, talvolta poteva disporre che la pena inflitta al responsabile dell’inottemperanza, del reato, fosse erogata e applicata a un soggetto diverso da questi. Ciò poteva accadere quando il responsabile della mancanza fosse stato un soggetto di rilevante importanza per la loggia della Triade cui apparteneva. In nome di un interesse superiore, dunque, poteva essere suggerito un sostituto che –non necessariamente di rango inferiore o di ruolo subalterno- espiava la pena in sua vece. Nulla di più e nulla di meno, di un capro espiatorio. 8. Gerarchie e funzioni Fornito un quadro generale sull’organizzazione strutturale della società segreta Triade, compreso che il suo ruolo storico è sempre stato quello preminente di convogliare le energie del dissenso e della lotta politica in un’attività organica parallela completamente avulsa da quella della società civile, si rende necessario, ora, comprendere ciò che nelle descrizioni compiute da diversi autori, viene, talvolta rappresentato, in modo così diverso tanto da dare l’impressione che essi non parlino dello stesso sodalizio, ma di molteplici “Triade” completamente diverse e scollegate l’una dall’altra. Ciò non significa che il dato non ha acquisito carattere di scientificità, ma, al contrario, giunge a conferma dell’assoluta autonomia che ha sempre connotato le singole logge e che ha contribuito a impedire l’acquisizione, su di esse, di informazioni numerologia non giunge a caso nemmeno qui: il numero otto rappresenta gli Otto Triagrammi della tradizione triadica della Cina settentrionale, mentre il numero tredici rappresenta il numero delle antiche province istituite dai Ming in Cina e che, con l’avvento della dinastia Manciù, raggi8ungeranno il numero di diciotto. 123 che se fossero state coerenti e armonizzabili, ne avrebbero decretato la disarticolazione già molti secoli fa. Un’autonomia che, legata alla condizione del carattere di territorialità che connota tali sodalizi, mantiene il legame con quel lato arcaico che ha –rispettando le tipicità locali- reso sempre efficace ed effettiva, l’azione della struttura di criminalità organizzata più risalente e meno conosciuta dei giorni nostri. Di seguito, si riporta il modello gerarchico, ripartito per funzioni, riconducibile all’analisi svolta dal sinologo Gustaaf Schlegel: • Ta-ko o Hsiang-chu: Presidente – letteralmente Grande Fratello o Maestro d’Incenso. • Erh-ko: Vicepresidenti, nel numero di due - letteralmente Secondo Fratello. • Hsien-sheng: Maestro, che nella tradizione triadica ha la valenza che in inglese avrebbe l’appellativo Mister. • Hsien-feng: Avanguardie – solitamente erano due. • Hung-kung, Il Randello Rosso, cioè il responsabile della comminazione delle sanzioni disciplinari adottate dal Consiglio Segreto. • I-shih: letteralmente I Consiglieri, nel numero di tredici. Si ritiene che il numero sia stato imposto in memoria delle tredici province cinesi sotto l’impero della dinastia dei Ming. • Ts’ao-hsieh, Wan-ti, T’ieh-pan, T’ou-shang-yu-hua-che: gli Agenti che, letteralmente, secondo lo Schlegel, Agenti, Messaggeri, Sandali di Paglia, Fratelli della Notte o, ancora, Quelli con i Fiori in Testa. • Tai-ma: Agenti reclutatori, letteralmente Capi Cavallo. • Ssu-ta: Usceri, letteralmente I Quattro Grandi. Rimanendo fedeli alla gerarchia che fornisce Schlegel, quindi, egli vediamo che individua una tripartizione per gruppi di numeri, tra i capi: i primi tre, Presidente, Vicepresidente e Maestro rientrano nella categoria 124 Shang-san o Lao-ta-ko, che, letteralmente tradotto, significa I Tre Sommi. V’è da specificare che, subordinatamente all’ubicazione territoriale e a seconda la lingua locale in cui si trova a operare la loggia, il Presidente e i Vicepresidenti potevano avere altri appellativi diversi, quali: Testa di Drago (Lung-t’ou), Gran Sovrintendente (Ta Tsung-li) o, ancora, Comandante in Capo (Cheng-chui). Nelle logge del Sud, poi, il Presidente era chiamato Shan Chu, Capo della Montagna, oppure Hung-kung, cioè Randello Rosso e ciò poiché i presidenti venivano scelti, preferibilmente, tra i ranghi dei preposti alle sanzioni disciplinari; per l’appunto i randelli rossi. I Tre Sommi erano gerarchicamente seguiti dai Chung-san o gli Erh-ko: I Tre Intermedi. A questo novero appartenevano, tra gli altri, i Hsienfeng, le Avanguardie (o, anche, “Bandiera Rossa” o “Presentatore”), i Hung-kung, il Randello Rosso o Ufficiale Combattente, dal quale, vedremo poi, dipendeva la componente militare della Triade, e, infine, i Kuei-shi, cioè i Consiglieri, i Tesorieri e i Vicetesorieri. Hsiah-san o San-ti sono I Tre inferiori tra i quali vanno annoverati gli Usceri, gli Agenti e i Messaggeri: Questi uomini sono destinati ad andare in giro dappertutto, e vivono un po’ qua, un po’ là. Quando si tratta di questioni d’interesse generale [cioè di questioni riguardanti tutti i membri della società segreta], essi vengono mandati in giro a riferire.105 A questi soggetti, dunque, spettava il compito di notificare ai confratelli la convocazione delle assemblee o di raccogliere testimonianze e delazioni che potessero risultare d’interesse per il Presidente o per I Tre 105 G. Schlegel, The Hung League. Estrapolazione dal testo recitato durante il rituale del giuramento degli affiliati. 125 Sommi. Gustaaf Schlegel, nella disamina delle logge triadiche del Sud non fa corrispondere a queste funzioni alcun grado gerarchico, ma da altri autori, come si vedrà in seguito non meno attendibili, emerge che le funzioni trovavano corrispondenza nel IX grado. Sebbene Schlegel riporti la summenzionata divisione dei gradi gerarchici all’interno della Lega di Hung, collocandola in un’epoca relativamente recente e vicina al nostro tempo, in essa non compare la totale identità numerologica con la ripartizione gerarchica e funzionale che oggidì connota le attività della società segreta. Per avere, dunque, un quadro completo non vanno trascurate le classificazioni eseguite e fornite più di recente da F. Comber, nel saggio Chinese secret societies in Malaya. A survey of the Triad Society from 1800 to 1900, pubblicato a New York nel 1959, e da W. P. Morgan nel suo Triad societies in Hong Kong, stampato a cura del governo degli Stati Uniti d’America nel 1960. In esso compare un’analisi di una “Cina in migrazione”, ma suggerisce una chiave interpretativa dell’evoluzione e della metamorfosi degli assetti della società segreta triadica in seno alle comunità dei migranti. La Triade, di fatto, oggi è una delle organizzazioni internazionali del crimine meglio strutturate e a maggiore diffusione mondiale. La scala gerarchica che Comber sintetizza è la seguente: 1. Maestro dell’Incenso 2. Ventaglio Bianco 989 489 983 415 3. Avanguardia 992 126 4. Randello rosso 426 5. Pantofola di paglia 415 432 Dall’analisi di Comber emerge, poi, che alcune logge avevano adottato una forma semplificata della simbologia numerico-gerarchica dei gradi apicali in cui la sequenza dei numeri variava rispetto alla prima: 1. Presidente 108 2. Ventaglio Bianco 983 3. Avanguardia 992 Gli studi condotti da W.P. Morgan negli anni Cinquanta, Sessanta del 1900, invece, forniscono della gerarchia triadica una versione più recente, ma formalmente poco diversa. Dagli esiti delle indagini scientifiche e di polizia condotte nell’ambito delle attività di lotta al crimine organizzato transnazionale e internazionale, si ritiene che essa sia la più vicina e rispondente agli assetti dalla società segreta moderna: 1. San-Chu (Presidente) 489 2. Fu Shan Chu (Vicepresidente) 438 3. Heung Chu (Maestro dell’Incenso) 438 4.Sing Fung (Avanguardia) 438 5. Sheung Fa (Fiore106) 438 106 Secondo l’interpretazione che ne dà W.P. Morgan, nel sistema numerico dei gradi gerarchici all’interno della Triade, non è chiaro quale fosse il ruolo dei Fiori. È probabile che questo fosse una qualifica della quale erano insigniti i fratelli meritevoli che più a lungo, e fedelmente, avevano servito la loggia. 127 6. Hung Kwan (Randello rosso – 426 Bandiera rossa) 7. Pak Tse Sin (Ventaglio bianco) 415 8. Cho Hai (Sandalo di paglia) 432 9. Membro Ordinario 49 Giova, ora, accennare, ricorrendo a un esempio che lo confermi, che lo statico dinamismo con il quale le logge triadiche, che operano in Europa e in Italia, svolgono le proprie attività delittuose, non consta essere mutato di molto nel corso dei secoli. Con lo sguardo fisso al passato e ai riti tramandati dagli antenati, le nuove generazioni di affiliati applicano le più moderne strategie e tecniche di penetrazione criminale mantenendosi rigidamente ancorati al codice d’onore che ha permesso al sodalizio di sopravvivere agli innumerevoli tentativi di interromperne la continuità storica. Se si volesse proporre un esempio dal quale desumere il senso sociale della trasformazione statica della Triade, non sarebbe fuorviante ricorrere al paragone con la struttura istituzionale della società cinese legale ai tempi del neoconfucianesimo. Il processo di modernizzazione in seno alla Triade, infatti, appare sovrapponibile a quello in cui l’introduzione del neoconfucianesimo nella filosofia di stato consentì di mutarne la forma senza che la sostanza avesse a risentirne. Una trasformazione apparente che di fatto, aggiunge un pensiero nuovo, ma non sostituisce quello preesistente; il che non lascia presupporre l’introduzione di alcuna tangibile innovazione. 128 Il significato mistico attribuito alla numerologia che disciplina la relazione all’interno (e all’esterno) delle logge, si pone a garanzia, dunque, del continuum ideologico tra presente e passato. Assume, infatti, grande rilevanza dal punto di vista sociale nella misura in cui non sovverte, o modifica, quanto di generalmente (ri)conosciuto, contribuendo a rendere la Triade una struttura contigua e familiare al popolo che ad essa si riferisce sicuramente per uscire dalla miseria, ma anche dalla condizione di invisibilità che l’individuo subisce quando i grandi numeri, cioè l’appartenenza ad un gruppo sociale di considerevoli proporzioni, lo privano della soggettività. L’uso dei numeri per l’identificazione del soggetto associato al ruolo degli affiliati ha la funzione di far uscire dall’anonimato del nome e rispecchia l’inflessibilità sostanziale della struttura portante del sodalizio segreto. Dal punto di vista della sicurezza, poi, l’uso dei numeri costituisce un’accortezza con la quale la Triade, pur rendendosi disponibile alle istanze generali, persegue i propri fini celandosi ai profani, ma identificandosi con le istanze del popolo “basso” senza, però, tradire la vocazione settaria consolidata nel corso dei secoli. A confermare quella che, per molti decenni, era rimasta solo un’ipotesi investigativa in cui si paventava l’immobilismo dinamico della Triade, giungono gli esiti delle indagini di Polizia Giudiziaria svolte dai servizi di sicurezza in alcune zone dell’Italia centrale e settentrionale, a seguito di delitti commessi in seno alla comunità etnica nazionale cinese da autori connazionali. Si tratta di una fitta rete di connessioni e complicità internazionali che evidenzia come, in Europa, i confini e le frontiere 129 interne non abbiano alcun significato per un gruppo sociale che è solidale e coeso a prescindere dalla propria ubicazione territoriale. […] E una conferma arriva dal confidente Chen Chia Shiang, che racconta agli investigatori dei legami fra i clan francesi e le famiglie di Firenze. […] E per gli investigatori italiani arrivano conferme di scenari relegati finora ai corsi di aggiornamento, ai rapporti di polizia internazionale e ai saggi di criminologia. Ora anche loro devono imparare a conoscere la struttura e la cultura delle triadi cinesi, perché qualcosa di quel mondo è arrivato fino a qui.[…] 107 L’acquisizione di informazioni di tale rilevanza ha, dunque, consentito di acclarare che dove insistono degli insediamenti di cittadini cinopopolari che hanno raggiunto, per numero di persone appartenenti al gruppo sociale e densità abitativa rilevante, lì s’è attivato e, negli anni, consolidato un processo di autoreferenzialità tipico che trova la sintesi nel vocabolo, Tong: la piazza (ideale) dove la Famiglia (in senso allargato) si incontra. Tale processo nuovo per l’Italia è già noto in paesi come gli Stati Uniti d’America e la Francia, dove, da più di un secolo, le comunità cinopopolari sono strutturate con un assetto autoreferenziale, impermeabile, al punto da escludere ed escludersi, dal contesto ospite. Tale atteggiamento si sostanzia concretamente nella replica di una tradizione atavica che vede il popolo cinese improntato all’autosufficienza, un’attitudine che, come s’è visto nel caso della fondazione della società segreta dell’Orchidea d’Oro, ha consolidato (esasperandolo) lo spirito nazionalista. 107 G. ROSSI-S.SPINA, I Boss di Chinatown – La mafia cinese in Italia (Le triadi danno i numeri) - Editore Melampo, Milano 2008, pag.137. 130 L’esempio della società segreta coniata dai militari cinesi in partenza per l’Europa dove sarebbero stati coinvolti nella prima guerra mondiale, consente di sintetizzare quanto efficacemente il solidarismo orizzontale proposto dai modelli della fratellanza triadica e del guanxi giocarono un ruolo fondamentale nell’esperienza di quei soldati “lasciati soli” nella missione europea. L’isolamento dagli “stranieri”108 e l’autosufficienza come scelta politica della vita nel gruppo sociale trovano significato nella necessarietà di esaltare il gruppo in quanto tale e, con esso, livello di sicurezza della struttura societaria rendendola, ancorché all’apparenza disgiunta, estremamente coesa, solida tanto da non permettere che una eventuale falla nel sistema delle relazioni tra gli affiliati, consenta di scoprirne l’organigramma. Oggi è cosa nota che I clan della mafia cinese hanno una struttura piramidale a compartimenti stagni. Ogni gradino della scala gerarchica è rigidamente separato dagli altri e spesso il volto del capo è ignoto ai suoi stessi affiliati, la sua identità può essere individuata solo con una sequenza di cifre. Al vertice di ogni Triade c’è il San Chu, identificato col numero 489 e chiamato Testa del Dragone o Signore della Montagna, che rimane in carica fino alla morte. Sotto di lui c’è Fu San Chu, il vicario del capo, al quale è assegnato il (numero) 438, numero che può essere attribuito anche al Maestro d’Incenso (Hueng Chu), addetto alle cerimonie d’iniziazione. Il 438 può indicare anche il Garante delle Alleanze (Meng Zheng) e il Guardiano del Vento (Sin Fung), che sovrintende alla sorveglianza. Le figure indicate con il numero 438 fanno parte dell’avanguardia dell’organizzazione e possono essere insignite del titolo di <<doppio fiore>>, che si può paragonare a quello di capomandamento di Cosa nostra e che 108 Straniero: vocabolo usato in accezione dispregiativa con il quale sono indicati i “non cinesi”: “Tutti gli altri”. L’organizzazione della gerarchia sociale vuole lo straniero al di sotto del “popolo basso”. 131 svolge le mansioni di tesoriere. L’amministrazione finanziaria può essere affidata anche al livello immediatamente inferiore, il 415, chiamato anche Pak Tse Sik, ovvero Ventaglio di Carta. Il Sandalo di Paglia (Cho Hai), ovvero il 432, ha invece il compito di tenere i contatti tra i veri affiliati e quello di comunicare ai sottoposti le decisioni del vertice del gruppo. […] Nella struttura c’è poi il numero 426, Hung Kwan, ovvero il Guerriero, esperto di combattimento e responsabile dell’ala militare. Infine, i Sey Kow Jai, i membri ordinari (numero 49), che rappresentano il gradino 109 più basso della struttura. Ma tale bagaglio di conoscenze ed esperienze, perché non rappresenti un esercizio di pensiero, deve costantemente essere aggiornato attraverso l’implementazione di dati dei migranti. Di quei dati, cioè, relativi allo spostamento delle persone e degli interessi economici che queste rappresentano. 9. Stato e Società segrete. Il dualismo stato/società segrete, ha portato, nel corso dei secoli, le due entità a intersecare i propri destini e a concorrere, l’uno con le altre, a modificare gli assetti politici di un impero la cui frattura tra classi dominanti e popolo non ha mai consentito di raggiungere una stabilità politica. Un progetto che vedesse la pace interna come finalizzata ad assicurare anche ai ceti più bassi una duratura stabilità economica che consentisse loro di emergere dalla miseria, fatto di regole e strutture sociali che ponessero gli interessi collettivi esaltati dal confucianesimo, la filosofia di stato, non è mai divenuto prioritario rispetto alla gestione del potere personale e locale secondo logiche corruttive e concussive. 109 G. ROSSI-S.SPINA, I Boss di Chinatown – La mafia cinese in Italia (Le triadi danno i numeri) - Editore Melampo, Milano 2008, pp. 137-139. 132 Sebbene tali problematiche non fossero tipiche della realtà millenaria cinese, lo spirito solidaristico e compartecipativo derivanti dall’influsso del confucianesimo, prima e delle dottrine taoiste e buddiste poi, divenute molto popolari nel basso popolo (perché di questo si preoccupavano), contribuirono a consolidare la percezione che solo se si fosse costruito uno stato alternativo allo Stato, si sarebbero potuti veder garantiti il diritto alla sopravvivenza e ai minimi servizi dei quali le strutture governative non percepivano nemmeno il bisogno. Ed ecco che la percezione diffusa diede origine al proverbio: I funzionari derivano il loro potere dalla legge, le società segrete dal Popolo. Evidente segno che, a tutt’oggi, anche l’avvicendarsi dei sistemi politici, comunismo maoista incluso, non hanno lasciato spazio a una nuova percezione del rapporto tra classi sociali. Gli elementi che contrappone le società segrete allo stato, oltre a quelli citati, e ai mezzi di cui le prime si avvalgono per raggiungere fini di equità sociale, sono la mobilità organizzativa che le connota. A dispetto dello statico immobilismo (Fei-Ling Davis) impersonato dall’ortodossia confuciana della struttura sociale categorizzata e della politica della società ufficiale, nella quale tutto muta, ma nulla cambia, tale tipicità emerge chiaramente dall’analisi sulla società segrete svolta agli inizi del Novecento da Georg Simmel110. 110 Georg Simmel (1858-1918), filosofo neo-kantiano e sociologo, si pone l’interrogativo scientifico: “Cosa è la società?” denotando una chiara assonanza con la domanda “Cos’è la natura” a cui E. Kant si dedicò. 133 Nel saggio The Sociology, Simmel pone in evidenza come, nonostante le evidenti differenze e l’assenza di legami tra le due istituzioni111 (così è pure tra lo Stato e la Triade), la struttura e la forza di alcune società segrete possa, sotto più aspetti, ricalcare, talvolta emulandola, l’organizzazione statuale. The one-sided intensification of general sociological features is confirmed , finally, by the danger with which society at large believes, rightly or wrongly, secret societies threaten it. Where the over-all aim of the general society is strong (particularly political) centralization, it is antagonistic to all special associations, quite irrespective of their contents and purposes. Simply by being units, these groups compete with the principle of centralization which alone wishes to have the prerogative of fusing individuals into a unitary form. The preoccupation of the central power with ‘special associations’ runs through all of political history –a point which is a relevant in many respects to the present investigations and has already been stressed. A characteristic type of this preoccupation is suggested, for instance, by the Swiss Convention of 1481, according to which no separate alliances were permitted between any of the confederated states. Another example is the persecution of apprentices’ associations by the despotism of the seventeenth and eighteenth centuries. A third is the tendency to disenfranchised by the modern state. The secret society greatly increases this this danger which the special association presents to the surrounding totality. Man has rarely a calm and rational attitude toward what he knows only little or vaguely. Instead, his attitude consists in part levity, which treats the unknown as if it did not exist, and in part in anxious fantasy, which, on the contrary, inflates it into immense dangers and terrors. The secret society, therefore, appears dangerous by virtue of its mere secrecy. It is impossible to know whether a 111 Istituzione: è da intendersi l’ordinamento dei vari aspetti della vita collettiva che presuppone la loro stabilità e accettazione, anche tacita, da parte dei consociati. 134 special association might not one day use its energies for undesirable purposes, although they were gathered for legitimate ones: this fear is the main source of the basic suspicion which central powers have of all associations among their subjects. In regard to groups which make it their principle to conceal themselves, the suspicion that their secrecy hides dangers is all 112 the more readily suggested. In questa particolare attitudine risiede, dunque, la pericolosità che i governi hanno sempre ravvisato in tale tipo di associazioni e che hanno portato a contrastarle giungendo sino alla persecuzione dei loro membri. In questo senso va, dunque, letto anche l’ossimoro in cui vivono le società segrete cinesi rispetto allo stato: legalità e illegalità. La scelta, o meglio, l’attitudine al mimetismo dimostrata dai sodalizi eterodossi, dice Simmel, consente che le logge triadiche appaiono come la controfigura della società ufficiale e, come tali, si avvalgano di strumenti e metodologie molto simili, ma per fini diversi. Con ciò intendendo dire che, nella coesistenza concorrente, tra le due istituzioni, benché vi siano delle evidenti differenze che connotano, tipizzandole, le due realtà come antitetiche, la Triade si dimostra orientata a sussumere dallo stato quanto di questo possa essere utile alle proprie strategie e a fare del popolo un debitore. Un tale processo, nel corso dei secoli è giunto al punto di sostituirsi a quello statuale anche in tema di giustizia e nell’erogazione dei servizi. Una accattivante differenza, per il popolo, che pone il confine tra la società ufficiale e la galassia delle sette segrete si rinviene in queste 112 G. Simmel, The Sociology of Georg Simmel, a cura di Kurt H. Wolff, the Free Press, 1950, GlencoeIllinois, pp. 375,376. 135 ultime che sin dagli albori si sono poste come esempio di democrazia diretta. Al termine democrazia, però, non è confacente che sia attribuito il significato al quale si è usi riferirsi nella cultura ellenica e, poi, occidentale, ma solamente che vi si rinvengono tracce di una maggiore compartecipazione e corresponsabilità nella gestione del potere, nonché una maggiore elasticità nell’attribuzione delle cariche sociali e dei ruoli di comando ai quali, secondo una visione meritocratica, chiunque tra i confratelli, può ambire di raggiungere. 113 113 Avviso elettorale - Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria, Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.164. Traduzione: Lista dei capi che la Società I-hing ritiene opportuno eleggere nel giorno …, nel mese …, e anno dei movimenti celesti … [l’anno è espresso in caratteri ciclici]. Presidente: X Vicepresidenti: X Maestro: X Avanguardie: X Procuratore [Randello Rosso]: X Consiglieri: Tesoriere: X Ricevitore: X Vicericevitore: X, X Agenti: X, X. Poiché la nostra associazione ha deciso di designare i sopraindicati fratelli quali suoi capi e funzionari, è giusto che i loro nomi siano resi pubblici. Se vi sono, tra loro, uomini indegni del rango ad essi conferito, perché violano la legge o si comportano in modo contrario alla giustizia , preghiamo ad uno ad uno tutti i membri della società di farsi avanti e di 136 L’ostentazione del metodo democratico settario secondo il quale la progressione della carriera e ogni grado rispondevano a canoni elettivi, non trova, ovviamente, corrispondenza nell’immobilismo organizzativo della burocrazia dello Stato, ove l’ereditarietà e la potestà d’imperio dell’imperatore, o dell’aristocrazia locale, costituivano, insieme alla corruzione, l’unico principio sul quale fondare le progressioni di carriera e l’acquisizione di titoli accademici o onorifici 114 . I funzionari di stato erano nemici o servi a seconda dall’angolatura da cui era guardata la loro posizione e, comunque, erano scelti o nominati, mentre il popolo ricopriva il ruolo inerte di spettatore. Nell’ideologia eterodossa delle società segrete, invece, la partecipazione dei militanti alle scelte politiche costituiva non solo una possibilità, ma un dovere morale. Un cardine strutturale sulla base del quale la responsabilità ultima nella scelta delle strategie partiva e ricadeva nella consapevolezza della scelta dei capi sia militari che politici, del sodalizio stesso. Fino a quale punto la democrazia elettiva in seno alla Triade si sia mai realizzata è una questione diversa, ci dice Simmel, che si presterebbe a un approfondimento dagli esiti incerti, ma rileva nella misura in cui l’accento posto sull’egualitarismo tra i consociati contribuiva a rafforzare il legame esistente tra i confratelli e a legarli indissolubilmente agli interessi collettivi incarnati dalla società segreta. L’esaltazione, sino dichiararlo, per evitare futuri guai all’associazione. I nomi indicati possono essere cambiati e altri fratelli possono essere eletti al loro posto. 114 Nella società cinese del tempo, i titoli onorifici erano l’equivalente dei titoli nobiliari per l’aristocrazia occidentale. 137 all’esasperazione, del sentimento di fedeltà richiesto ai membri nei confronti della società e verso i capi liberamente eletti, costituisce un atto responsabile, quindi, il prodotto della scelta politica compartecipata. Un collante non privo di valenza per quel popolo di esclusi, solitamente avvezzo a essere schiacciato dall’imperio del “Figlio del Cielo” e di un’aristocrazia corrotta e poco controllabile. Non va taciuto che un tentativo analogo di apertura verso quella politica che oggidì verrebbe chiamata meritocratica, fu compiuto anche dall’imperatore Wu nel VII secolo. Sebbene egli avesse istituito esami di stato pubblici per accedere alle carriere pubbliche e palatina in particolare, egli non riuscì a democraticizzare le procedure e tale provvedimento –nel corso dei secoli successivi e sino alla fine dell’età imperiale- non sortì mai il risultato atteso. Il processo di democratizzazione imperiale al quale era tesa la riforma, finalizzata formalmente ad attingere nuova linfa tra i giovani più dotati e preparati dell’impero, ebbe, invece, l’unico “merito” di immettere nei ranghi del palazzo una nuova, e ulteriore, classe di privilegiati: l’aristocrazia intellettuale confuciana. Al consolidamento di quest’ultima, come si è visto, seguì la risposta politica spontanea delle ideologie eterodosse, finalizzate all’aggregazione sociale del popolo derelitto. Una moltitudine che confluì nel settarismo resistente organizzato secondo le filosofie buddista e taoista che diede origine alla proliferazione di associazioni volontarie di mutuo soccorso e, infine, alle sette e alle società segrete, 138 dunque, a fornire lo stato di nuovi motivi per legittimare repressioni e persecuzioni. La resistenza alle lusinghe, alle vessazioni e alle persecuzioni poste in essere dalla polizia nei confronti dei membri delle società caduti in mano nemica, danno dimostrazione, come stigmatizza James Hutson nel saggio Chinese life on the Tibetan Foothills115, di quanta forza si racchiudesse nel vincolo del giuramento di fedeltà -sottoscritto in forma di contratto- alla causa comune. Se qualche membro della setta fosse catturato, vi sarebbe il pericolo che rivelasse i segreti dell’associazione; ma per quanto riguarda gli appartenenti ad alcune bande di Lan Ta-shun, essi sfidano le torture e mostrano il più completo disprezzo per la morte. Non vi è funzionario che riesca a strappar loro un segreto, né con la tortura, né con le lusinghe. Anche il trattamento più severo non sembra aver alcun effetto sul resto della banda; anzi si direbbe talvolta che, più elevato è il numero degli uccisi, più aumentano gli effettivi del gruppo.116 Il legame che si sviluppa e progredisce a seguito della sottoscrizione del contratto di affratellamento alla Loggia da parte del partecipante, ha una doppia finalità: conferisce dignità alla persona facendola uscire dall’anonimato e sostanzia un vincolo familiare. 115 James Hutson, Chinese life on the Tibetan Foothills - Edizione Kessinger Publishing, 2013. La prima edizione del saggio venne pubblicata nel 1921 da Far Eastern Geographical Establishment of Shangai. I contenuti, di grande puntualità, ne fanno, ancora oggi un saggio di riferimento nella letteratura scientifica per quanti si approcciano allo studio delle tradizioni e delle relazioni sociali in Cina; in particolar modo sviscerando le dinamiche infra loggistiche delle società segrete. 116 J. Hutson, Chinese life on the Tibetan Foothills - Edizione Kessinger Publishing, 2013. 139 117 Certificato di nomina del “Sandalo di Paglia” La Triade, ancorché sia stata e sia, com’è ovvio, su posizioni molto distanti dallo stato, ripropone, soprattutto nell’organizzazione interna, alcuni rapporti tipici mutuandoli dalla società legale. Di tali assonanze, secondo Simmel possono, ritenersi, per estensione, proprie anche del novero di sodalizi segreti che a questa guardano e fanno riferimento. Le società triadiche, traendo ispirazione dall’organizzazione dello stato, ne assorbono alcune metodologie di governo della comunità. In 117 Illustrazione tratta dal saggio di Fei-Ling Davis, Le associazioni segrete in Cina 1840-1911. Forme primitive di lotta rivoluzionaria. Ed. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1971, pag.165. Il Certificato di nomina a Sandalo di Paglia è l’atto con cui il soggetto assume l’impegno con la loggia di appartenenza innanzi ai confratelli e davanti al Maestro d’Incenso. Traduzione: Il giorno venti del nono mese dell’anno Yih-sze (1845), tutti i confratelli hanno pubblicamente nominato il fratello Hu-nang alla carica di <<Sandalo di Paglia>> [agente]. Nell’adempimento dei suoi compiti, egli dovrà agire con lealtà e schiettezza, dovrà vincere l’egoismo e non comportarsi in modo falso e ingannevole. Questo documento gli viene consegnato a titolo di garanzia. Diploma rosso della società <<Rivolta dei patrioti>>. [Nel sigillo, che nell’originale è in inchiostro rosso- sono incise le parole <<I-hing-kung-sze>>: Società della Rivolta dei patrioti]. 140 particolar modo si tratta di quelle deputate a consolidare i rapporti interni di relazione tra i consociati vincolandoli a sé attraverso un sistema “precetto-sanzione” a fronte della commissione di alcuni tipi di reati. L’esempio più vicino a spiegare come la società ortodossa avesse fornito spunto per regolare una materia di diritto, quello vivente, che nella quotidianità delle relazioni infra loggia, poteva suscitare grosse liti, afferisce il diritto di famiglia. Dato per assunto che il vincolo instauratosi tra i confratelli delle società segrete all’atto dell’affiliazione era un vincolo di apparentamento che, ancorché fittizio, ne decretava l’ingresso in una famiglia, era posto all’origine di legami che, ancorché simbolici, dispiegavano gli effetti tutt’altro che fittizi o formali. Sulla base di quanto precede, si sa che le donne inserite nella società segreta, in quanto mogli, madri o sorelle degli affiliati, venivano identificate come sorelle dei membri effettivi maschili. Le mogli erano chiamate cognate; i figli e le figlie nipoti e via via, ecco che nel gergo triadico erano riproposti tutti i gradi della parentela legata al vincolo di sangue. All’ingresso nella nuova famiglia corrispondeva il rifiuto per ogni legame precedente. Il candidato si presentava alle Porte di Hung come un orfano e il disconoscimento della propria personale origine, si sostanziava nella formula che questo recitava innanzi alla loggia: Sono uno straniero, senza genitori, senza fratelli, senza sorelle; perciò vi prego, d’ora in poi, di essere voi i miei genitori e i miei fratelli. 141 La creazione di questa nuova famiglia allargata determinava, e ancora è così grazie al guanxi che si pone come collante ideologico e pratico nelle relazioni sociali all’interno delle Tong, l’ampliamento degli obblighi nei confronti della famiglia d’origine già tipica della tradizione arcaica cinese. Di fronte all’effettività di una tale riorganizzazione strutturale delle relazioni parentali, con chiari e imprescindibili riflessi anche della vita privata del singolo confratello, diviene semplice comprendere l’esigenza –da parte delle gerarchie triadiche- di disciplinare rigidamente le condotte dei familiari (con codici ad hoc per ogni loggia) richiamando, per una migliore comprensione e assimilazione delle stesse da parte dei destinatari, le ultra note norme dell’ordinamento statuale, estendendone l’efficacia afflittiva delle sanzioni ai confratelli responsabili di eventuali trasgressioni ai precetti fondamentali. Per riprendere un esempio che richiami il vincolo di sangue che si viene a creare con l’inclusione nel sodalizio segreto, si assiste all’enfatizzazione dei rapporti di parentela simbolica118, prevedendo, quindi, l’estendersi del tabù dell’incesto alle relazioni interpersonali tra i congiunti dei confratelli. 118 Parentela simbolica: il vincolo di fratellanza che origina dall’atto della sottoscrizione del contratto associativo con la Loggia, istituisce un legame di parentela, non affatto simbolico ma effettivo, tra gli adepti. 142 In tale concorrenza e sussunzione di archetipi tra stato e mafia 119 , anche il così detto memorialismo occupa una posizione di rilievo: il culto per le tradizioni arcaiche e per le gesta degli antenati vale tanto per un soggetto quanto per l’altro. La ritualità funzionale al coinvolgimento e alla fidelizzazione dell’iniziato è basata, come quella confuciana nei confronti dello stato, sulla stessa superstizione, sulla stessa acquiescenza supina, di cui molto popolo è, a tutt’oggi, ancora vittima. In buona sostanza, si tratta di una “liturgia laica” ostentata e richiamata, quasi fosse una nota di folklore, durante i riti d’iniziazione o le cerimonie ufficiali, delle quali i significati spirituali metafisici si sono persi per lasciare luogo all’effettività degli obblighi derivanti dal vincolo instaurato. Sebbene si sappia poco di certo sui riti, i tratti salienti sono ripercorsi ed evidenziati da Maurice Freedman120 nel 1958, quando, redige il saggio Lineage organization in Southearstern China; un lavoro, di analisi e ricostruzione storica tra i più completi dal quale trarre il dato sull’evoluzione dei sodalizi criminali cinesi nell’ultimo secolo. 10. L’organizzazione militare della Triade. 119 La mafia: data la definizione codicistica che troviamo nell’art. 416bis del Codice penale italiano, appare appropriato, a questo punto, non avere remore nell’estendere il significato del sostantivo (non quindi tipicamente italiano, perché in esso si rinvengono e identificano un novero di comportamenti che nulla hanno a che vedere con la nazionalità del sodalizio) alle logge cinesi. Alla luce della presenza del vincolo dell’omertà tra i consociati e il mondo altro (ne parla C.W. Heckethorn nel saggio Secret societies of all ages and countries, II vol. – 1891); delle finalità criminali che le società segrete hanno posto alla base della loro organizzazione ed esistenza; della disciplina militare che vincola gli associati e i loro congiunti al sodalizio; del metus suscitato all’interno della società civile che contribuisce a consolidarne la posizione di rispetto nonché la relazione accessiva col territorio sul quale questo esercita il dominio e che contribuisce a determinarne il nome localmente. 120 Maurice Freedman, Lineage organization in Southearstern China, The Athlone Press, University of London, 1958. 143 Dall’uscita dalle relazioni familiari e con l’ingresso nella famiglia della Triade discendevano due conseguenze di non poca importanza: la prima afferiva la fedeltà e la lealtà verso la società segreta che subentrava in tutto alla vita precedente; la seconda afferiva l’impegno economico, sociale e “militare” in favore del sodalizio. L’analisi della linea organizzativa militare della Triade e delle società segrete a essa legate, segue un percorso proprio che trova pochi riferimenti in fonti certe e ciò nonostante è il retaggio più antico e fedele alla tradizione. Un’eredità secolare che il sodalizio riceve dagli antenati e che si replica a tutt’oggi, con la finalità di non disperderne il patrimonio morale. Ancorché tale ambito sia meno conosciuto dei rituali d’affiliazione e della vita politica della società segreta, esso giunge sino ai nostri giorni, quasi immutato, traendo la propria forza dagli stessi legami di fiducia e dai vincoli solidaristici che fanno, delle società segrete dei gruppi sociali di tipo comunitario121. Secondo tale interpretazione è la comunità, con i suoi codici d’onore e le attenzioni verso i partecipanti, l’unica famiglia riconosciuta dagli affiliati. Tentare di emanciparsi dal gruppo equivaleva a tradire il vincolo sottoscritto nel contratto di adesione alla loggia, la cui forza era ed è tuttora riaffermata solennemente in occasione di ogni assemblea o cerimonia. I capi della Triade si dimostrarono, sin dagli albori del sodalizio, consapevoli che a tutela del vincolo di fedeltà non sarebbero bastati i giuramenti, gli anatemi o le sanzioni minacciate a fronte delle violazioni 121 Si rimanda al concetto di Gemeinschaft in Tönnies, pag. 81. 144 dei precetti. La condizione di alterità rispetto al sistema legale, esigeva quindi la presenza di un servizio di sicurezza che, non solo garantiva e proteggeva le logge dai tentativi esterni di penetrazione, ma doveva porsi come scopo quello di dare effettività alla norma; un corpo militare di fedelissimi soldati ai quali devolvere il compito di reprimere le defezioni e punire ogni violazione del codice. Il servizio di sicurezza era retto da capi militari (per lo più i Randello Rosso) che coordinavano gli armati e si raccordavano ai vertici delle logge attraverso i Sandalo di Paglia, gli addetti alla raccolta di informazioni e alla trasmissione degli ordini in modo da garantire che l’impermeabilità della Triade non fosse in alcun modo violata attraverso dei contatti e delle conoscenze dirette che potessero, anche involontariamente, consentire alla polizia di comprendere struttura e organigramma delle logge. Per spiegare la composizione organica e l’inquadramento dell’ala “combattente” della Triade – della quale poco è dato sapere direttamente -, la letteratura in materia 122 trae spunto e prende a paradigma la forma organizzativa delle bande armate (di fuorilegge) del movimento dei Nien123. 122 Cit. in C. W. Heckethorn, F. Ling-Davis, B. Porter. 123 Nien, letteralmente: nodo, ma comunemente sta a indicare ogni intreccio e nella vulgata comune delle logge, il sodalizio. Il movimento Nien era inizialmente costituito da bande erranti di uomini armati e furono consegnate alla storia come manipoli di delinquenti comuni che, per un fine proprio, quindi, almeno inizialmente, senza velleità politiche di alcun tipo (ladri, rapinatori, omicidi), si erano organizzate sino a trasformarsi in bandiere di combattenti volontari con la vocazione settaria (tipica delle strutture eterodosse e clandestine cinesi) per intraprendere azioni comuni finalizzate a sostenere una resistenza politica contro i soprusi delle aristocrazie locali. Il movimento Nien richiama la mappa della Triade per più di una ragione, ma la più evidente è da ricondursi alla simbologia numerologica a cui fa riferimento. Cinque divisioni, Cinque bandiere e Cinque generali. È, dunque, questo tipo di organizzazione che fa pensare a un attivo, quanto efficace, scambio di informazioni e metodologie organizzative della resistenza tra i sodalizi del Nord e del Sud della Cina, nonché alla conseguente armonizzazione 145 Le ragioni per le quali s’è reputato affidabile e scientificamente remunerativo ricorrere a questo paragone, non sono date unicamente dalla mancanza di dati certi sulla mappa della Triade, ma dall’abbondanza di notizie e riscontri (Fei-Ling Davis) che indicano esplicitamente quanto le bande dei Nien ebbero a ispirare la loro struttura organizzativa e, nella Cina meridionale soprattutto, a giovarsi degli spunti tratti dall’ordine interno delle logge triadiche con cui, per ragioni di coesistenza su territori circoscritti, venivano in contatto. Una circostanza nella quale l’intensa attività di scambio, fu tale da portare i Nien a mutuare dalla Triade anche la mappa simbolica. Tale operazione ha consentito di svelare quanto basta per uscire dall’ignoranza e sapere di più su una società segreta atipica parallela ugualmente invisibile. La sovrapposizione e, talvolta, l’identificazione di questi due soggetti ha, dunque, consentito di stigmatizzare circostanze che altrimenti sarebbero cadute nell’oblio o non sarebbero mai emerse. Sebbene la condivisione dei principi ideologici sia quasi del tutto assenti, le tecniche di tutela del riserbo nei confronti del sodalizio, invece, poggiano le loro fondamenta su solide pietre angolari: la operativa delle attività tese al coordinamento delle azioni di opposizione e di contrasto allo Stato. L’adozione del sistema organizzativo settario chiamato t’ang-chu, il Movimento Nien riuniva le proprie bande, le unità operative -nuclei elementari militari delle divisioni a composizione variabile- attorno ad un capo militare chiamato Ospite della Sala oppure Ospite della Loggia. A questa figura (elettiva), era tributato il compito di organizzare e curare l’attuazione di una serie di attività su un territorio circoscritto (un mandamento) che gli consentivano di autofinanziare gli acquartieramenti delle milizie attraverso attività, ufficialmente considerate illegali –quali ad esempio il commercio indipendente-, ma non necessariamente criminali) e restare autonomo nell’esercizio del potere di cui era stato insignito dai consociati. La vera e propria attività criminale consisteva nella gestione del racket della prostituzione, delle sale dove si praticava il gioco d’azzardo, nella rapina sistemica e in ogni altra forma di attività remunerativa che, comunque, opponesse gli interessi del sodalizio a quelli della società ufficiale. 146 segretezza, il solidarismo, il mutuo soccorso (secondo lo spirito di fratellanza a cui sono tenuti i consociati) e il vincolo delle coscienze attraverso i rituali d’iniziazione e di affiliazione alle bande. Da quanto appena affermato, si può desumere che, se è vero che i metodi di contrasto allo stato e di resistenza verso l’oppressione dell’aristocrazia di provincia estrinsecati dalla Triade e dai Nien, si erano evoluti in modo omogeneo sia al Nord sia nel Sud del paese, di pari passo anche le azioni con cui lo stato si opponeva a questi erano il prodotto di un’osmosi operativa omogeneizzante. Nell’ottica orientale della dualistica coesistenza delle antitesi, emerge come gli opposti schieramenti, di fatto, combattessero, con simmetria, una guerra asimmetrica. Nella compagine Nien, dunque, si rinvenivano delle tattiche organizzate e sistemiche di strategia militare indirizzate al contrasto delle istituzioni statali che la rendevano simile alla Triade e che divennero note quando, grazie alle investigazioni di polizia, quest’ultima estese i propri interessi al di fuori della Cina. Un dominio, al contrario di quello domestico, dove il muro d’omertà e la rete di connivenze s’infrangeva con la contaminazione culturale dei paesi ospiti e una diversa effettività degli ordinamenti giuridici. Un esempio Nien del senso di fedeltà che gli affiliati potevano dimostrare verso l’organizzazione d’appartenenza (del tutto orientato a ricalcare quello dei confratelli della Triade) è rinvenibile nella dichiarazione rilasciata da un miliziano catturato dalla polizia: 147 Risparmiate a voi la fatica e a me il dolore; persuadetevi che vi sono uomini pronti a sacrificare la vita per una causa che darà la felicità a questo paese per migliaia e migliaia di generazioni. 124 Il lavoro delle società segrete e delle compagini definite criminali era, dunque, non solo orientato a gestire i traffici e a commettere delitti per un proprio tornaconto, ma presupponeva un progetto politico a lungo termine ([…] per migliaia e migliaia di generazioni […] ) il cui fine tendeva al sovvertimento dello status quo in tutta la Cina. Il fine era, anche, volto all’elevazione delle condizioni di vita generali e al raggiungimento di una condizione che, oggi, definiremmo d’equità sociale. Dato per assunto che l’organizzazione territoriale, l’organizzazione militare, le finalità politiche, la saldezza del vincolo associativo degli affiliati e, fattore non trascurabile, la comunione dei riferimenti numerologici magici legati alle funzioni dei capi e alle sezioni operative del movimento Nien, trovano riscontro (quasi da poter essere sovrapposti) con quelle della Triade, anche la pluralità delle istanze solidariste che i due sodalizi promuovevano, e cercavano di perseguire, inducono a pensare che tra questi esistesse una intensa comunicazione e una cooperazione. Sono molteplici anche le tracce di un effettivo scambio d’informazioni e della sinergizzazione delle azioni militari che i movimenti Nien compivano nel Nord del paese con quelli della società segreta Triade che operava nel centro e nel Sud della Cina; un territorio del quale, il sodalizio aveva assunto il dominio e sul 124 C.W. Heckethorn, Secret Societies of all ages and Countries. Londra, 1897. 148 quale dispiegava un potere effettivo di assoluta preminenza rispetto a quello dello stato. L’esame dei metodi organizzativi dei Nien e delle società segrete del Nord, aiuta a comprendere cosa sia la mappa della Triade. Si tratta di un documento che non va letto unicamente in chiave di storicizzazione del fenomeno, bensì come testo programmatico per il futuro sviluppo degli obiettivi politici triadici dei quali, anche il miliziano del quale s’è riportata la dichiarazione, non nega, ma anzi afferma, l’esistenza. Le differenze tra la Triade e il movimento Nien esistono e, anche se non sono marcate e non le rendono inconciliabili nei fini hanno impedito ai due sodalizi di fondersi e di mantenere, allo stesso tempo, una sorta d’individualità agendo di concerto e in concorso. La principale tra queste è evidenziata nell’analisi che fa dei sodalizi Fei-Ling Davis e da lì emerge chiara quando pone l’accento sulle mappe delle logge triadiche. A differenza delle mappe organizzative Nien, quelle triadiche erano strutturate per armonizzare le azioni delle unità operative, o se si preferisce, delle bandiere125, su un territorio interprovinciale (perché tale era la loro estensione territoriale di dominio triadico), mentre, per quanto riguarda la seconda, essa agiva entro un limite territoriale corrispondente a una sola provincia, senza esuberarne i confini. 125 Nel 1644 vi erano duecentosettantotto compagnie mancesi, centoventi compagnie mongole e centosettanta compagnie cinesi, che formavano complessivamente un esercito di 169.000 uomini. Nel 1825, l’organico minimo di tale esercito – escluse le milizie volontarie di popolo- era salito a 293.391 uomini. Queste unità di combattimento erano suddivise per bandiere che, se paragonate all’assetto moderno dell’inquadramento militare, corrispondono a dei Corpi d’Armata. Solo una bandiera era sotto il comando diretto dell’imperatore, le altre quattro erano alle dipendenze di altrettanti principi. (Fonte: Fei-Ling Davis) 149 Le molte analogie che sussistono tra le logge della Triade e la compagine Nien da un lato e lo Stato dall’altro, meritano d’essere quanto meno accennate. Ancorché all’apparenza possa sembrare contraddittorio, dato che la storia e, non di meno, la cronaca, hanno spesso rappresentato come nemici questi tre soggetti, comunque, è interessante riscontrare quanto essi abbiano avuto in comune e quanto abbiano ceduto o acquisito gli uni dagli altri nel corso dei secoli. Si tratta di un patrimonio di sapere e conoscenza tradizionale di immenso valore. Ciò che rileva ai fini di questa ricerca afferisce le analogie emerse dall’arte militare, strategiche e tattiche, che si sostanziano nelle tecniche di raccolta delle informazioni, di spionaggio, di gestione delle relazioni interpersonali e del combattimento sul campo, perché da esse discendono gli attuali assetti dell’esercito ombra di cui dispongono le logge della Triade. Se analizzato da un punto di vista militare, si può certamente dire che la progressione nelle dotazioni e nelle tecniche dei rispettivi eserciti è sempre stata proporzionale, costante e attenta a mantenere l’equilibrio tra le forze. È in particolar modo nella struttura operativa della Triade che la filosofia militare sunzuista126, e, quindi, quella definita ortodossa dallo stato, ha trovato il maggiore accoglimento. Nel linguaggio gergale dei ranghi militari e nell’attribuire i nomi alle unità da combattimento, infatti, è possibile rinvenire analogie e identità che, se non colte nella 126 Per sunzuismo si intende una dottrina la cui origine affonda le proprie radici nel pensiero filosofico riconducibile del generale e stratega Sun Tzu. Vissuto probabilmente fra il VI e il V secolo a.C., a lui si attribuisce uno dei più importanti trattati di strategia militare di tutti i tempi, L'arte della guerra. 150 logica democratica con cui le società segrete si sono sempre poste nei confronti delle fasce più deboli del popolo, potrebbero lasciare intendere che differenze non ve ne siano mai state se non prima del XV secolo. Le Tigri, i Draghi, e le altre formazioni i cui nomi tradizionali triadici evocano leggende e miti mai sopiti, hanno, oltre a un chiaro riferimento agli antenati, alle Cinque Commissioni militari Principali e alle Cinque Bandiere dell’esercito regolare, uno scopo e un significato ben precisi: non creare confusione nel reclutamento dei propri affiliati. Inserire dei “soldati” in una struttura della quale conoscono la connotazione operativa e le tecniche d’impiego, significava sfruttare a proprio vantaggio l’addestramento curato dall’esercito, senza dare l’imbarazzo ai confratelli di doversi adattare alle nuove usanze e alle regole proprie del campo opposto. La “milizia contadina”, per esempio, era organizzata come difesa territoriale su base volontaria e, in quanto tale, disorganica 127 : un efficace strumento bellico quando, riorganizzandosi su input del signore locale, offriva il supporto richiesto al feudatario che la affiancava al proprio esercito. Per renderne agevole l’impiego, la società segreta mutuò l’inquadramento dei propri ranghi dalla composizione delle unità combattenti di base. I ranghi flessibili, capaci di grande mimetismo e, soprattutto estremamente mobili sul territorio (composti da un numero variabile di combattenti compreso tra i dieci e i cento uomini), permettevano di garantire quella certa capacità di fronteggiare 127 Il concetto di organica, nell’ambito militare, fa riferimento alla composizione dell’organigramma d’inquadramento dei reparti in armi in seno all’esercito. 151 efficacemente ogni situazione, anche la più inaspettata, che rendeva la Triade uno strumento militarmente efficace. Alle società segrete si deve l’iniziativa di aver contribuito, ante litteram a sovvertire l’arte militare del combattimento. Abbattendo regole che sembravano inattaccabili per la loro tipicità, infatti, si sono orientate verso tecniche d’ingaggio col nemico basate sull’estemporaneità e la rapidità di azioni irregolari, gettano le basi per quelle che, oggidì, vengono definite guerriglia o guerre asimmetriche128. Nel cogliere le differenze, non va trascurato, poi, il ruolo dell’ideologia e l’aspetto motivazionale della Triade e dell’organizzazione militare che ad essa afferisce e che differisce da quella dello stato perché affonda le proprie radici nel misticismo eterodosso delle sette buddiste e taoiste. Le filosofie, poste a fondamento anche di altre strutture clandestine consimili (la Lega di Hung e, appunto, i Nien), si sono rivelate un collante sociale di non poca importanza. Il favore del popolo compiacente, la capacità di disperdere e di riaggregare le unità da combattimento sul campo, quindi il mimetismo e la conoscenza delle arti di combattimento tramandate dai seguaci e discendenti dei monaci Shaolin hanno costituito il punto di forza sul quale incentrare ogni attività di resistenza politica e poi militare. La Triade, che arruolava i propri soldati attingendo dalle masse di diseredati e “senza nome” è il primo esempio di esercito popolare con 128 La guerra asimmetrica si connota per l’uso di tecniche non convenzionali di combattimento quali il terrorismo e la guerriglia. L’asimmetria si sostanzia nella non corrispondenza dei metodi di tattica e organica militare che gli opposti schieramenti in campo usano per perseguire la vittoria finale. Da un lato un esercito regolare che segue degli schemi preordinarti con regole d’ingaggio riconosciute, dall’altro la rimozione degli schemi in funzione dell’ottimizzazione delle risorse e l’ottenimento il risultato auspicato. 152 reclutamento su base volontaria dal quale anche Mao trarrà ispirazione per muovere contro la Repubblica. In linea di principio, dunque, l’accesso al sodalizio non escludeva nessuno. Potevano chiedere d’essere ammessi tutti: uomini e donne di qualunque classe sociale e rango, ma il reclutamento non avveniva esclusivamente per volontaria dell’adesione. Anzi, quando l’invito a unirsi a una loggia non era accettato spontaneamente e il candidato si rivelava di particolare interesse, subentrava la cooptazione. Se nemmeno difronte alle lusinghe e alle promesse di un futuro “in famiglia” il soggetto si mostrava interessato a unirsi al sodalizio, a fungere da stimolo erano il ricatto o la minaccia di morte. La letteratura che tratta dei metodi di reclutamento arcaici delle logge, rivela che, in epoca nemmeno tanto remota, queste non fossero scevre neppure dal rapimento, anche dei bambini. (Fei-Ling Davis) La ramificazione capillare raggiunta della Triade sul territorio, la sua attitudine a penetrare ogni istituzione e a servirsene per sopperire alle esigenze primarie del popolo, surrogandosi alle istituzioni, ne ha fatto, sin dagli albori, un mito e successivamente, l’interlocutore diretto e privilegiato al quale rapportarsi per ottenere giustizia e servizi, e nel quale far confluire il risentimento verso lo stato. 11. La penetrazione in Occidente. Un esercito antico al servizio di un’organizzazione criminale all’avanguardia A voler cogliere la tipicità che conferisce una connotazione moderna e attuale al modo di operare delle formazioni combattenti della Triade impegnate nelle attività delittuose e non più in episodi di resistenza 153 campale, essa può essere rinvenuta nella collaudata attitudine all’asimmetria della tecnica di combattimento che questo sodalizio conserva. La non convenzionalità nel porsi sul panorama delle organizzazioni criminali si esplicita in campi all’apparenza molto diversi tra i quali la gestione degli affari connessi alle attività delittuose che colpiscono, prevalentemente, gli interessi della vita quotidiana, all’interno delle comunità migranti, del gruppo nazionale cinese. Il Sud Europa, luogo d’insediamento dei migranti provenienti dalla provincia dello Zhejiang è, di per sé, una realtà che avrebbe da tempo dovuto mettere sull’avviso chi si occupa di sicurezza in campo internazionale facendo trattare la diaspora cinese come un fenomeno articolato, coordinato e complesso, guardandosi dal valutarlo come la collazione di varie e isolate condotte attribuibili al disegno locale di singoli attori. Dagli inizi del XX secolo il nemico che la società segreta cinese si pone l’obiettivo di colpire non è più lo stato Cina o la diseguaglianza sociale che vede la classe dei derelitti in costante patimento, ma il sistema internazionale della legalità. Un ostacolo che, quando non viene penetrato, si interpone al raggiungimento degli interessi criminali e extralegali che uniscono le logge triadiche che operano in maniera globalizzata e sinergica in tutto il mondo. Un giro di affari che, dimenticato il traffico dell’oppio del quale ha conservato a lungo il monopolio, le assicura il ruolo di preminenza su una larga parte dei profitti derivanti dal mercato che ruota attorno all’illegalità. Un settore 154 che si estende senza limite dalla tratta delle persone al traffico di droga e di armi. Tale segmento si distingue per la gestione para legale delle imprese operanti sotto l’apparente liceità garantitale dalle coperture di istituzioni compiacenti il cui interesse è quello di favorire l’espandersi delle are del mondo economicamente influenzabili e sulle quali promuovere la penetrazione economica del “marchio giallo”. Gli esempi di questa politica spregiudicata si rinvengono nell’ambito della produzione di beni succedanei, falsi o contraffatti che vengono, poi, commercializzati legalmente in tuto il mondo grazie alla rete costituita col supporto delle ambasciate e degli addetti economici che in esse operano. Nel panorama delle mafie internazionali, la Triade spicca, evidenziando una singolare sintesi (se si vuole, una concorrenza) d’interessi in cui politica interna, estera ed economia in un anomalo solidarismo sono funzionali agli interessi criminali. Quanto emerge in tema di complicità occulte, non è più solo una teoria, ma è un dato riscontrato in più occasioni sia da indagini di polizia giudiziaria che da fonti d’intelligence. Gli scopi della società ortodossa cinese sono di complemento alle finalità della struttura criminale eterodossa che ha mano libera per promuovere i propri interessi sempreché ciò sia in parte funzionale agli interessi collettivi. Sotto l’insospettabile controllo della diplomazia oggi la Triade si giova di una copertura legale fungendo, attraverso le Tong, da osservatorio e avamposto privilegiato per la raccolta di informazioni utili al Gigante Asiatico. Un’attività della quale si giova per porsi sui mercati 155 internazionali e nella società occidentale, come l’interlocutore in grado di fornire tecnologie d’avanguardia e, molto più prosaicamente, tutto ciò di cui il consumatore occidentale ha bisogno, al costo e nei tempi, a questo più congeniali. 12. Come funziona una Tong in Italia Le comunità nazionali che si formano a seguito della migrazione sono strutturate e organizzate in modo da poter ospitare e collocare con sistematicità i connazionali che vi affluiscono fino a garantire i presupposti di sicurezza e logistica utili a formare la Tong. La struttura interna di una Tong è concepita e informata ai principi di massima efficienza, indipendenza e autonomia, di modo da mantenerla non contaminabile dalla comunità autoctona che la ospita; una società indicata dagli Han come la comunità degli “stranieri”. Se volessimo trovare una metafora per spiegare cosa sia il sistema organizzativo ed economico che rende peculiari gli insediamenti cinesi, potremmo paragonarlo ad un tessuto impermeabile da un lato e permeabile dall’altro, di cui quest’ultimo rivolto verso l’esterno della Tong che consente di lasciare affluire, fagocitandolo al suo interno, tutto quanto proviene dall’esterno, senza correre il rischio di nessuna fuoriuscita verso la società dei “nasi grandi”, sinonimo di straniero. La Tong è quindi un unicum solidale economicamente indipendente e ha anche una sua rete di banche. Autonoma nei servizi, si giova di un proprio sistema normativo, di giustizia e di polizia provvedendo al 156 proprio sostentamento per mezzo dell’autofinanziamento. Il parallelismo con la Cosa Nostra, in questo, ambito è evidente. Anche dal punto di vista sanitario la Tong non accetta di affidarsi alle contaminazioni occidentali 129 ; l’insediamento è, pertanto, un’entità reale, presente, tangibile, ma che si rende e si presenta impenetrabile, evanescente, inafferrabile agli occhi di chi vorrebbe sviscerarne le dinamiche. L’affiliazione implica che il cinese che farà da prestanome, il capo della famiglia, si assuma l’onere di gestire l’impresa per conto della Loggia e che per far ciò usufruisca dei capitali, anche provento illecito del traffico di esseri umani o di droga, datigli a prestito dai parenti o dalla Triade: un’obbligazione che lo impegna ad usufruire unicamente delle materie prime e della manodopera che gli verranno fornite dalla rete del guanxi. Il debitore, accettando il credito, accetta di entrare a far parte di un network, di un sistema, protezionista e monopolista, nazionale per stare nel quale gli è fatto obbligo di approvvigionarsi dei beni da commerciare facendo esclusivo riferimento a grossisti connazionali indicatigli e preventivamente stabiliti. In questi tratti si rinvengono marcate similitudini con la gestione degli appalti e del racket con cui operano anche le organizzazioni mafiose nostrane. 129 La medicina tradizionale. Il primo e unico ospedale cinese scoperto in Italia è stato individuato a Campi Bisenzio (FI) nel 1998 in un sottotetto (mascherato) di un capannone industriale a seguito di indagini svolte dai Carabinieri del Reparto Operativo di Trieste di concerto con la Compagnia locale. Al piano terreno dell’immobile si trovava un opificio abusivo che, per la produzione di lavorati, si avvaleva di manodopera illegale. Il lavoro era ripartito su turni da 18 ore giornaliere con 1 giorno di riposo al mese, la fruibilità del quale, era subordinata alla disponibilità di un unico permesso di soggiorno. In caso di “mancato rientro” la rappresaglia si abbatteva sugli operai/ostaggi rimasti in mano dell’imprenditore cinese. (Si veda Atti d’indagine dei Carabinieri – RONO TS - Operazione “CHINA TOWN” 1997-1998). 157 I grossisti, a loro volta, comprano le merci da imprese controllate e riconducibili alle stesse Triadi che, nel ciclo produttivo, sfruttano la forza lavoro dei loro connazionali invisibili. I laboratori e gli opifici clandestini sono la spina dorsale della Tong, vera punta di diamante dell’imprenditoria etnica; si allineano dietro le imprese cinesi “regolari” che operano legalmente in Italia e all’estero producendo il 90% delle merci che giungono sui banchi di vendita dei dettaglianti. Una catena di operai, schiavi in clandestinità, dei quali è impensabile riuscire a reperire una labile traccia d’esistenza130; operai impiegati in sartorie industriali che, forti della manodopera a costo zero, sono in grado di produrre a ciclo continuo anche merci qualitativamente non inferiori a quelle prodotte e commercializzate dalle grosse industrie del settore. Questa strategia d’intossicazione del mercato ha sottilmente obbligato i commercianti italiani, decisi a conservare la propria attività preservandola dalla crescente compressione dei consumi, ad orientarsi verso i grossisti cinesi. Svanito così il timore e l’iniziale diffidenza, verso una filiera illegale che fonda sullo sfruttamento dell’essere umano la propria economia, gli italiani sono entrati nelle spire delle Tong contribuendo a far affluire, attraverso il “tessuto permeabile”, ingenti flussi di denaro che ne hanno sancito la dipendenza di fatto. 130 Operazione “CHINA TOWN”, 1997-98: scoperta fabbrica clandestina di vestiti in Campi Bisenzio (FI); i clandestini, durante le 6 ore di riposo dal turno alla macchina per cucire, erano segregati in 6, senza distinzione di sesso o età, in celle delle dimensioni di circa 3 metri per 2, a terra un pagliericcio che ricopriva l’intera superficie del vano. Un barattolo di latta fungeva da cesso per tutti gli occupanti della “cella” in tutto simile a quelle che vedremo nell’Appendice 2 della presente ricerca. 158 CAPITOLO V FORME DI CRIMINALITÀ E PERCEZIONE DEL FENOMENO CRIMINALE 1. Società e Diritto Le esperienze locali che l’Italia e l’Europa, stanno vivendo, confermano che il processo di sino-integrazione non avviene se non nella misura in cui la sinizzazione si compia validando in toto quanto il migrante porta con sé di sé. Uno sconfinato esercito di giovani cinesi non ha fratelli né sorelle. È il risultato di una severa politica di controllo delle nascite avviata dal Partito comunista attraverso la guerra all’esplosione demografica e l’imposizione di dure sanzioni alle coppie che avevano più di un figlio. L’economia di mercato ha fatto ancora di più: senza che nessuno li costringesse, Liu e sua moglie (e come loro anche molte coppie moderne) hanno deciso di non avere figli. E non rappresentano un’eccezione. Per le Coppie della loro età e del loro reddito, la scelta <<zero figli>> dilaga. Dal 1990 ad oggi, con l’esplosione del capitalismo, le nascite sono crollate del 30 per cento. In parte si tratta di una reazione speculare allo stile di vita dei genitori, resi oltremodo protettivo dalla politica del figlio unico: troppi sacrifici, troppa dedizione al prezioso discendente. Al tempo stesso questo fenomeno è l’altra faccia del disimpegno che ha accompagnato il decollo economico degli anni Novanta seguito alla repressione dei moti studenteschi di piazza Tienanmen. Liu ne è la prova. <<Prima facevo il giornalista politico, ora preferisco scrivere di business. È più eccitante. Credo che questo spostamento di interessi sia comune ai miei coetanei.131 131 Federico Rampini, Il Secolo cinese – Edizioni Oscar Mondadori, 2009. 159 Ubi socíetas ibi ius è il broccardo che meglio aiuta a comprendere quanto l’attitudine dell’essere umano a vivere socialmente organizzato, imponga, necessariamente, che i comportamenti dei partecipanti al gruppo sociale, i consociati, vengano, in qualche modo, disciplinati da regole. Quali siano, poi, i modi attraverso i quali pervenire a una “organizzazione stabile della società” che sia in grado di scegliere, applicare e far rispettare le regole che da essa promanano, offre lo spunto per un’ampia dissertazione che va ad attingere tanto all’antropologia quanto al diritto pubblico, ma devierebbe troppo dalla traccia che si intende seguire. Per l’esperienza e l’evoluzione normo-giuridica europea e, per estensione, occidentale, le norme costituiscono un reticolo. Intersecandosi tra loro in una complementarità e funzionalità che le interconnette, segnano, allo stesso tempo, l’estensione e il limite entro il quale è necessario che rimangano circoscritte le libertà a cui si richiamano sia la condotta individuale che quella collettiva dei consociati perché queste non entrino in contrasto e non prevarichino sulle intangibili libertà altrui. Chi arbitrariamente decide di ignorare le norme e, quindi, violandole con comportamenti omissivi o attivi, assume una posizione d’irregolarità, cioè antitetica ai fini che il gruppo intende salvaguardare, andrà, necessariamente, a porsi in una posizione, esterna, antagonista rispetto a questo ed alle libertà che la società intende salvaguardare. Detto ciò, non possiamo ignorare quanto appreso osservando alcuni modelli di società –quella cinese ad esempio- in cui la solidità culturale e il modello della struttura sociale 160 veicolano il singolo verso un rapporto compartecipativo e solidale la cui importanza, richiamata in precedenza e per altri motivi, pone, meglio di altre in evidenzia la similitudine che può esistere tra alcuni gruppi sociali organizzati e gli organismi viventi. Un sinergico e coordinato processo di costante e progressivo mutamento teso alla realizzazione del fine collettivo. Tale dato, connota le scelte sia su scala micro che su quella macro decretando, inequivocabilmente, il successo del modello. Edwin Sutherland132, elaborò una teoria generale del comportamento criminale, insistendo sul fatto che esso viene appreso all'interno di un ambiente sociale, un contesto in cui prendeva sempre più forma l'approccio sociologico alla criminologia. Già dall’analisi dei dati in possesso del Federal Bureau of Investigation (F.B.I.) e analizzati da Sutherland, appariva chiaro che una tipologia di persona manifestava la propensione a delinquere più di altre se proveniente da un determinato contesto sociale. Questa tipologia coincideva con i dati ecologici della scuola di Chicago, indi per cui si consolidò l'idea, allora del tutto innovativa, che la criminalità avesse più a che fare con la sociologia che con la biologia. Il pensiero di Sutherland subì l’influenza dalla Scuola di sociologia di Chicago, soprattutto nei lavori sull'”interazionismo 132 Edwin Hardin Sutherland (1883-1950), è ancor oggi considerato uno dei massimi esponenti della Scuola di sociologia criminale dell’Università di Chicago. La teoria criminologica che ha abbracciato detta un approccio sociologico all'analisi criminalità. La teoria perfezionata da Sutherland nel 1947 compie una svolta importante e si allontana dalle teorie individualiste classiche di criminalità e di delinquenza. La teoria sulle associazioni differenziali criminali che egli struttura vede il crimine come un comportamento che si apprende attraverso le interazioni con i coetanei, familiari e gruppi sociali. Sutherland fu, altresì, il primo ad introdurre l’espressione “reati dei colletti bianchi”, un’allocuzione che si riferisce alle azioni delittuose commesse da coloro che appartengono ai settori più benestanti della società. 161 simbolico”133. L'approccio metodologico sull’analisi delle “storie di vita” fu usato da Sutherland per l’indagine scientifica rivolta ai reati predatori, in particolare sul “ladro professionista”: un soggetto che abitualmente delinque e del delitto fa la propria fonte di reddito. Infine, anche dal concetto di conflitto culturale che si sviluppa nelle società multietniche e interetniche. Secondo la prospettiva teorica approcciata da Sutherland, ogni persona può essere educata ad adottare qualsiasi comportamento sia in grado di seguire. Il conflitto culturale diviene dunque lo strumento principale per spiegare la criminalità e come il comportamento criminale venga appreso con l'interazione con gli altri all'interno del gruppo di appartenenza mediante un processo di comunicazione che include i come (tecniche del comportamento criminale), e i perché (le motivazioni intrinseche per sostenere quello che si fa). Tutto dipende da questo: se i valori che apprendiamo sono prevalentemente favorevoli ad atteggiamenti devianti, allora sarà molto probabile, che commetteremo atti devianti; e viceversa se i comportamenti messi in condivisione sono di tipo legalitario il comportamento che ne deriverà lo sarà a sua volta. 133 L'interazionismo simbolico è un orientamento teorico affermatosi nell'ambito della sociologia e della psicologia sociale, soprattutto negli Stati Uniti, a partire dalla prima metà del Novecento. Il tratto distintivo di questo indirizzo consiste nel porre al centro dell'analisi l'interazione sociale e l'interpretazione che di questa danno quanti vi partecipano. In tale prospettiva acquistano centralità i processi interpersonali tramite i quali gli individui si rapportano al proprio modo di pensare e a quello che presumono essere dell'altro, per scegliere le linee di condotta da seguire. Al tempo stesso viene dato risalto all'attività di simbolizzazione svolta dagli individui nel corso dell'interazione e allo sviluppo di capacità interpretative delle proprie e delle altrui esperienze. I significati che vengono attribuiti a tali esperienze derivano dalle definizioni che Ego e Alter danno delle “situazioni” in cui sono rispettivamente coinvolti. 162 Questo non significa che, necessariamente, il soggetto cresciuto in un ambiente ad intensità criminale commetterà solo atti illegali, ma che manifesterà la propensione verso quegli atti sostenuti dalle definizioni apprese. La difficoltà d’integrazione che alcuni gruppi di migranti incontrano più di altri, può essere appunto data dall’attitudine di questi a sentirsi un Alter molto solidale; un “organismo” (la qual cosa per alcuni aspetti è encomiabile, ma per altri molto meno), cioè che è in grado di proporre nel processo d’insediamento territoriale la “replica” del modello sociale di provenienza. Un contesto nel quale tendere a mantenere il medesimo stile di vita e ad adottare norme interne assonanti con quelle lasciate in patria senza tenere conto del contesto ospite. Raramente “un modello” può essere replicato senza che insorgano delle frizioni; ecco che, dunque, con le migrazioni e con il cambiamento che queste portano all’interno dei gruppi sociali riceventi, si potrà assistere alla trasformazione – su input eterogeno- dell’esigenza di disciplinare la condotta privata e pubblica. Atteso, dunque, che i cambiamenti sociali conseguiti alla trasformazione del modo di percepire se stessi in relazione con l’altro e di comunicare ciò che di sé è ritenuto utile al fine di trovare un posto, una funzione, nel gruppo sociale d’appartenenza, o del quale il soggetto aspira di entrare a far parte, l’obiettivo è di analizzare come e perché in taluni contesti possano innescarsi delle dinamiche tese a favorire l’insorgere e lo sviluppo di comportamenti che, pur se “normali” da parte 163 di chi li assume, si pongono in modo antitetico rispetto ai fini collettivi, assumendo il valore di comportamenti antisociali. A tale proposito è interessante come Albert Cohen134, a cavallo degli anni ’50, ’60 dello scorso secolo, analizza l’insorgere di alcune forme di devianza sociale partendo dall’osservazione del mutamento delle abitudini e delle esigenze del gruppo sociale. Egli, delineando la “Teoria della sub cultura”, riconduce all’esplosione dei consumi la causa del fenomeno che connota e bipartisce la società, modificandone i valori. Il parallelismo con i mutamenti della società che enfatizza la validazione attraverso ciò che il soggetto consuma è evidente. Secondo Cohen, la classe media s’impone de facto come classe vincente introducendo il concetto di “normalità” parametrato su se stessa e sulle proprie abitudini correlandolo alla propria capacità economico-finanziaria di consumare e il consumo, in quanto tale, diviene l’indicatore auto validante. Ovviamente chi “non consuma” resta isolato e “in dietro”, emarginato. Anche se negli stessi anni, l’istruzione si afferma come un diritto per tutti e, sebbene debba essere lo strumento per garantire pari opportunità, si rivela, invece, un secondo discrimine. La massiccia urbanizzazione compie, poi, la frattura definitiva tra chi ha i soldi da spendere (e quindi può permettersi di vivere la normalità), e chi, nella più assoluta indifferenza dei primi, vive l’esclusione. I gruppi sociali che rimangono a vivere i centri storici, diventano sinonimo di povertà 134 Albert Kircidel Cohen, n. Boston, 15 giugno 1918. Laureato ad Harvard con una tesi sulla “Sostituzione delle norme sociali con quelle sub culturali”, si dedicò allo studio delle devianze sociali con particolare riferimento all’analisi degli ambienti sociali inferiori in cui il ruolo della sub-cultura si pone come principio aggregante nelle baby gangs (bande giovanili). 164 intellettuale oltre che d’indigenza. Il disagio trasforma in sub urbia i luoghi delimitati in cui vivono gli strati sociali subalterni. La teoria della subcultura della delinquenza propone una visione di questa progressiva affermazione di un’alterità e integra, nel suo approccio teorico, il pensiero che Clifford Shaw, Henry McKay, Edwin Sutherland e Robert K. Merton offrono, attraverso i loro studi. Secondo Cohen, le sub culture si caratterizzano per atteggiamenti di tipo non utilitario, prevaricatore e negativo; egli rileva che il comportamento criminale è frequente nei giovani maschi che si organizzano in bande. Analogie si rinverranno nel fenomeno criminale etnico cinese con le stesse dinamiche e gli stessi fini. In tale agire non viene identificata una apparente motivazione razionale; i devianti provano soddisfazione nel causare disagio, tentano di oltraggiare i valori delle classi medie della loro stessa comunità, per poi offrirsi, dietro compenso, di svolgere il “lavoro sporco” per chi ha interesse ad affermare e consolidare, anche attraverso il delitto, il potere personale ed economico sul territorio. La caratteristica delle bande alle quali si riferisce A. Cohen nel suo studio, e che rimane ancor oggi attuale per i contesti nei quali si formano questi sodalizi, è la versatilità. La capacità, cioè, di coinvolgere forme diverse di delinquenza mosse da una spinta edonista e, al contempo, prive di una programmazione nell’agire, di disegni a lungo termine e che mantengono una connotazione fortemente autonomista. Per Cohen, i giovani sono alla ricerca di uno status sociale e, posto che non tutti possono competere con pari opportunità alla “scalata” come i 165 figli della classe media e che, in particolar modo, ai giovani delle classi inferiori mancano molti vantaggi materiali e simbolici, ecco, dunque, che si afferma una strada indipendente per il perseguimento della propria validazione. Questa frustrazione da status è la motivazione che in assenza di uno schema di riferimento, in assenza di una prospettiva di miglioramento della propria condizione economica, conduce i giovani a riunirsi in una “gang”. È attraverso l’interpretazione freudiana della “reazione-formazione” (un meccanismo difensivo per vincere l’ansia) che A. Cohen avanza l’idea che ci si debba aspettare una reazione ostile ai valori delle classi medie e la creazione di un nuovo sistema di valori non convenzionali, che forniscono l'opportunità di avere uno status. La soluzione delinquenziale, dunque, si consolida attraverso la trasmissione dei valori da un giovane all'altro e da una generazione all'altra, sviluppando una sub cultura delinquenziale permanente che fornisce uno status a un comportamento negativo antisociale e asociale. La teoria di Edwin Sutherland, definita positivista procedurale, si occupa sia del comportamento criminale (e non del sistema penale/giudiziario) e del processo attraverso il quale un soggetto diventa deviante. Atteso che i comportamenti umani possano essere categorizzati, questo processo favorisce la strutturazione di un paradigma che aiuta ad analizzare gli effetti di determinate condotte; a seguito di ciò emergerà l’importanza delle condotte devianti assunte dai gruppi. 166 Si tratta di attività non in armonia con il diritto e, ancor meno, con la consuetudine (che sovente concorre in maniera del tutto spontanea a regolare la vita in seno a una società), che possono essere ricondotte almeno a due “categorie devianti”. La prima categoria comprende la condotta tenuta da un sodalizio che, per il perseguimento di obiettivi della stessa natura economica o politica di quelli perseguiti lecitamente dallo Stato, sceglie, per il conseguimento degli stessi, metodi illeciti o criminali. La seconda, invece, si riferisce ad attività tese al raggiungimento di obiettivi illeciti attraverso condotte altrettanto illecite. È questo il caso della compagine criminale “professionale o per tendenza” che, al fine di veder concretarsi i propri obiettivi, commette delitti di sempre “maggior risultato” con un articolato di attività criminali organizzate, funzionali e complesse. Nel trattare la tensione a delinquere, sarà affrontato il tema della devianza sociale, cercando di porre in evidenza l’importanza di alcuni fattori, in ordine a comportamenti criminali che hanno come terreno di coltura quegli stessi gruppi sociali emarginati chiusi (anche etnicamente connotati e inseriti in gruppo sociale non preparato a una politica di accoglienza) analizzati da Sutherland e Cohen. Prova ne sia che le strategie adottate dalla politica dell’integrazione non educano i cittadini all’interazione con ciò che appare “diverso”. L’importanza posta nell’osservare il comportamento dei gruppi umani, nell’ottica di una anche parziale comprensione del fenomeno, porta a cogliere, ove ve ne siano, alcuni tratti tipici, gli stessi evidenziati da Edwin Sutherland, sulla base dei quali i soggetti devianti si sentono 167 accumunati dal condividere il disagio. Dall’analisi di questo disagio, sarebbe profittevole partire per cominciare a costruire un percorso prima negativo, cioè di destrutturazione dell’isolamento, e poi positivo di integrazione e di condivisione dei territori che, per la loro peculiarità, vanno oggi ad assumere il valore di “frontiere”: luoghi d’incontro e commistione. Il ruolo e l’importanza che hanno avuto la presunzione, i preconcetti e gli stereotipi, coniugati all’estemporaneità delle politiche d’integrazione, è evidente. Nel considerare il fenomeno migratorio nella sua fase finale di ricollocamento territoriale, nonché nella sottovalutazione di alcune peculiarità di natura culturale e antropologica, si sono rivelate fondamentali nel favorire il consolidamento di condotte che potremo definire atipiche. Comportamenti, cioè, che per i soggetti attori non hanno in sé la connotazione di negatività manifesta, ma che vengono percepiti dalle società ospiti e dal sistema giuridico autoctono. Complessi di azioni “manifestamente criminali”, ma che tali non appaiono agli occhi di chi li adotta, poiché appartengono al bagaglio interiore e culturale del quale ogni migrante è depositario. Azioni che, a volte, sono ritenute legittime in virtù di una “obbligazione di risultato” poiché finalizzate a sostenere le esigenze del gruppo di appartenenza. Il modello al quale qui ci si riferisce è quello delle comunità migranti a forte identità nazionale come, ad esempio, quella cinese. La spinta aggregativa dei migranti in fase d’insediamento sui territori riceventi, non è unicamente un moto spontaneo e basato sull’identità 168 nazionale o sull’appartenenza dei soggetti a una data etnia, ma, specialmente nel caso cinese, si fonda su una valutazione economica in senso ampio. Tale logica ha avuto talvolta ragione delle politiche di popolamento (più spesso di ripopolamento) di aree territoriali a ciò destinate dalle istituzioni locali. Un’operazione così importante come l’inurbamento dei nuovi residenti è, infatti, materia che porta in sé l’imprescindibile necessità di favorire la costituzione di una società integrata nella quale la pace e l’equità sociale si coniughino alla legalità. Il che equivale a consolidare nei gruppi il grado di percezione della sicurezza (della quale sempre più sembra sentirsi il bisogno) e richiede l’intervento prodromico di scienziati dalla profonda conoscenza antropologica delle comunità d’origine delle persone che andranno a comporre i gruppi sociali d’aggregazione “volontaria” ed “emarginazione involontaria”, e, di più, la capacità di una progettualità che tenga conto non solo delle dinamiche relazionali dei soggetti all’interno dei gruppi d’appartenenza e di questi ultimi tra di loro, ma anche dell’interazione con le comunità autoctone. Per giungere al risultato atteso, quindi, la gestione della politica territoriale deve seguire una strategia preordinata tanto quanto lo è quella delle compagini etniche che si vanno insediando. L’attuazione di questo particolare progetto, segno evolutivo dei tempi, si riflette e incide nel modo d’intendere il concetto di governance135 che 135 Definizione: “Lo sviluppo e la successiva evoluzione della teoria della governance, va rintracciata nell’analisi delle attività intraprese dalle autorità politiche nel tentativo di modellare le strutture e i processi socioeconomici. In Germania il termine in uso è Steuerungstheorie [teoria della direzione] (Mayntz 1987). La parola inglese governance è stata per lungo tempo equiparata a governing, l’elemento processuale del governare, rappresentando così la prospettiva complementare rispetto a quella istituzionale negli studi dedicati al governo; quindi, governance venne utilizzato approssimativamente quale sinonimo di politiche Steuerung [direzione politica]. Tuttavia, il termine governance è stato utilizzato [di recente] in due ulteriori accezioni, entrambe distinte da guida o 169 rientra in quel novero d’incombenze da svolgersi, imprescindibilmente, a cura di chi ha il compito politico di amministrare di quel territorio. In tale quadro la collocazione sul territorio delle famiglie e degli individui, andrebbe, quindi, accuratamente seguita con l’obiettivo di limitare le precondizioni (principalmente isolamento, assenza di servizi e percezione dell’abbandono) che si rivelerebbero in grado di innescare, legittimandoli, i comportamenti autoreferenziali e d’esclusione. Attività sulla base delle quali è plausibile avvenga, poi, quella frattura perniciosa tra i due “supposti” universi paralleli (o antagonisti) territorialmente coesistenti. Durante l’osservazione del laboratorio territoriale in Emilia Romagna è emerso che l’uniformarsi a un sistema normativo condiviso, a una legge, che ancorché perfettibile è volta a regolare i rapporti giuridici o, più semplicemente, l’umano agire nella quotidianità, non è solo un’attitudine innata che coinvolge spontaneamente i gruppi sociali,, ma la risultanza di un coordinamento di funzioni sociali tra le quali assume conduzione politica. […] Attualmente si ricorre a governance soprattutto per indicare un nuovo stile di governo, distinto dal modello del controllo gerarchico e caratterizzato da un maggior grado di cooperazione e dall’interazione tra lo stato e attori non-statuali all’interno di reti decisionali miste pubblico/private. La governance, intesa come ‘alternativa al controllo gerarchico’ è stata studiata sul piano della formulazione delle politiche a livello nazionale e sub- nazionale (Kooiman 1993; Rhodes 1997), nell’arena europea (Bulmer 1994), così come nell’ambito delle relazioni internazionali (Rosenau e Czempiel 1992). Nel numero monografico dell’«International Social Science Journal» interamente dedicato alla governance intesa come modalità di coordinamento non-gerarchiche (Unesco 1998), si fa riferimento a un rapporto della Banca mondiale del 1989, e quindi al contesto internazionale. È evidente in ogni caso che i tentativi di risoluzione collettiva di problemi al di fuori di modelli gerarchici di decisione, osservabili empiricamente a livello europeo e internazionale, hanno contribuito in modo consistente a questa prima reinterpretazione del termine governance. Il secondo «nuovo» significato attribuito al concetto di governance è invece molto più generale e vanta una diversa genealogia. Governance indica qui modalità distinte di coordinamento delle azioni individuali, intese come forme primarie di costruzione dell’ordine sociale. Questo uso del termine sembra essere derivato dall’economia dei costi di transazione, e in parti- colare dall’analisi del mercato e della gerarchia quali forme alternative di organizzazione economica (Williamson 1979). La tipologia di Williamson è stata rapidamente allargata fino ad includere altre forme di ordine sociale: i clan, le associazioni e, soprattutto, le reti [networks] (Hollingsworth e Lindberg 1985; Powell 1990). La «scoperta» di forme di coordinamento diverse non solo dalla gerarchia, ma anche dal mercato strettamente inteso, ha indotto l’uso generalizzato del termine governance per indicare qualsiasi forma di coordinamento sociale –non solo nell’economia, ma anche in altri ambiti. In questo modo, l’attenzione rivolta alle forme moderne della governance, seguendo la seconda accezione del termine, ha suggerito una ulteriore distinzione semantica.” Renate Mayntz, Rivista italiana di scienza politica / a. XXIX, n. 1, aprile 1999. 170 rilevanza una corretta policy di formazione ed educazione del Popolo a percepirsi come tale. Le esperienze positive in tal senso, dunque, non mancano e sebbene non risolvano del tutto i problemi, evidenziano come la pianificazione di strategie territoriali sia possibile. Infatti, l'Assessorato Coesione e Sicurezza sociale del Comune di Reggio Emilia, nell’ottica della diffusione del concetto di legalità e di democrazia partecipata, ha provveduto, nel 2008, all’istituzione di sportelli “dedicati” alla comunità cinese. L’utenza, da allora, può, quindi, interloquire con l’Istituzione fruendo della consulenza di mediatori culturali, di interpreti e traduttori a loro dedicati e in grado di relazionarsi nella lingua madre. A questa iniziativa è seguita la redazione di modulistica ad hoc e la pubblicazione di materiale cartaceo tradotto nelle lingue dei migranti. 136 Lo scopo, com’è facile intuire, è quello di favorire e di contribuire a consolidare la predisposizione di piani di cooperazione tra gruppi etnici migranti e quelli autoctoni, lenendo, laddove se ne fossero create, le frizioni sociali. 136 Il Vademecum della buona convivenza in condominio, realizzato all'interno del progetto sperimentale “le regole del gioco” promosso dall'Assessorato Coesione e Sicurezza sociale del Comune di Reggio Emilia e co-finanziato dalla Regione Emilia-Romagna è disponibile nelle versioni in francese, inglese, arabo e cinese. La formula editoriale bi-lingua è stata appositamente studiata per fare in modo che il vademecum possa essere utile, oltre che per la sua funzione sociale, anche per l'avvicinamento degli stranieri alla lingua italiana. Il Vademecum affronta i principali temi della vita di condominio e vengono illustrati casi tipici di conflitto tra vicini (rumori, parcheggi, pulizia, antenne, spazi comuni, ecc.) indicando le possibili soluzioni. Comprende inoltre un glossario con i principali termini utilizzati per le attività di gestione del condominio e degli immobili, e un elenco delle Associazioni e dei servizi pubblici che maggiormente sono attivi (anche verso gli stranieri) sui temi della casa, delle gestioni condominiali, della soluzione dei conflitti di vicinato a Reggio Emilia. http://www.municipio.re.it/retecivica/urp/retecivi.nsf/PESIdDoc/BA227A5C6877A7EFC125754B0030A38 C/$file/Vademecum%20della%20buona%20convivenza%20in%20condominio%20-%20Cinese.pdf 171 Attraverso la risoluzione dei problemi quotidiani si giunge a prevede la costruzione di una nuova forma “sicurezza”: un bene comune che basa la propria solidità strutturale sulla conoscenza e il rispetto reciproci. 2. Stato e controllo sociale Zygmunt Bauman afferma che: […] lo Stato, per esempio. Ha fondato la propria ‘raison d’être’ e la sua pretesa all’obbedienza dei cittadini sulla promessa di proteggerli dalle minacce alla loro esistenza, […]. Quindi è costretto – qualora non vi riesca - a spostare l’accento della “protezione dalla paura” dai pericoli per la sicurezza sociale a 137 quelli per l’incolumità personale […]. Proseguendo sull’enfasi che genera tale assunto, potrebbe apparire del tutto normale, quindi, esigere dallo Stato moderno che si impegni concretamente a costruire, educando, la propria componente umana: l’elemento indispensabile per perseguire, in un clima di partecipata condivisione, gli indefettibili scopi collettivi che, come dice Bauman, questo si pongono a fondamento e legittimazione della propria esistenza. L’importanza di questo concetto assume maggiore rilievo se si prende a paradigma quanto la percezione dell’insicurezza influisca sulla collettività, destabilizzandola. Infatti, indipendentemente da quale sia il grado di sicurezza applicata138 conta solo se e come, essa sia percepita dal contesto sociale cui è destinata. 137 Z. Bauman, Paura liquida – Editori Laterza, 2006. 138 Per sicurezza applicata deve intendersi il proliferare di norme; le manifestazioni esteriori; le strategie, nonché l’adozione di dispositivi che attraverso un processo di capillare distribuzione di “occhi tecnologici” sul territorio, fanno sì che il processo di “messa in sicurezza” si tramuti in una osservazione, in controllo, costante anche a discapito delle libertà individuali. Le prime ad essere sacrificate in ragione di una asserita generale e diffusa “massima sicurezza”. 172 Ed è proprio sulla base di ciò che si ribadisce, tanto nello studio della “genesi” quanto degli “effetti” dei fenomeni criminali, la necessità della condivisione dei fini della collettività, in cui lo Stato principalmente si sostanzia attraverso la rimozione delle precondizioni; l’eliminazione delle cause del disagio che ne sono all’origine. È quindi dalla percezione del danno sociale che potrebbe derivare dal fatto delittuoso e dalla comunicazione alla massa che sarà possibile attribuire il valore d’indicatore al “livello di insicurezza percepito”, l’unico dato reale. L’osservazione effettuata attraverso questo studio agevola la presa in considerazione di un nuovo angolo prospettico dal quale osservare gli eventi categorizzati come criminogeni o criminali che entrano in contrasto con gli aspetti della quotidianità a seconda della fase cronologica in cui questi si rilevano. In questa analisi, a fianco dei concetti di sicurezza sociale e sicurezza percepita dobbiamo aggiungere quello di normalità. In quest’ambito, dare un significato al vocabolo normalità si rivela imprescindibile tanto più se ci si vuole occupare della sicurezza sociale sotto i molteplici aspetti che a questa afferiscono. Normalità, quindi, può consentire un’interpretazione delle alterazioni in pejus: elementi di criticità sociale che altri non sono, se non indicatori attraverso i quali poter prevenire le crisi. 3. Immigrazione e percezione dei fenomeni criminali Quando si decide di affrontare l’argomento sicurezza, può essere fuorviante limitare la propria azione a elencare quali si ritiene possano, o debbano, essere i fattori che contribuiscono a rendere “insicura” (a 173 volte, emergenziale) la vita nelle zone di insediamento dei migranti che, talvolta, appaiono “grigie” in quanto non perfettamente conosciute e pertanto in condizione di esposizione al crimine. Oggi nuovamente le migrazioni si presentano come uno dei fattori più visibili e controversi di cambiamento delle nostre società. Negli spazi urbani, nel mercato del lavoro, nelle aule scolastiche, nelle messe domenicali, nei circuiti delle attività illegali, avvengono sostituzioni e mescolanze di vecchi e nuovi protagonisti. E i nuovi arrivati sono quasi sempre più poveri di quanti si erano già insediati in precedenza, oltre che diversi per lingua, aspetto fisico, usanze, credenze e pratiche religiose. La percezione diffusa è quella di uno sconvolgimento dell’ordine sociale. Per alcuni, è l’alba di un mondo nuovo, all’insegna del meticciato e della fratellanza universale; per i più, è l’inizio di un’invasione. Nel complesso, i migranti rappresentano all’incirca, il 3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 214 milioni su oltre 6 miliardi di esseri umani (Caritas-Migrantes, 2010), mentre per l’Europa a 27, la stima si aggira intorno ai 25 milioni di migranti su 490 milioni di abitanti, dunque all’incirca il 5%. In Italia i dati più recenti parlano di 5,3 milioni di persone, comprese 500.000 (stimate) in condizione irregolare. Si tratta di una quota relativamente ridotta dell’umanità, ma aspetti come la concentrazione in determinate aree di destinazione, la rapidità della formazione di nuovi flussi, le modalità drammatiche di una parte degli arrivi, accrescono il senso di smarrimento e di minaccia.139 Tale percezione non è il sintomo di un fenomeno reale, vivo e presente. L’osservazione del complesso di mutamenti avvenuti nelle città più popolose negli ultimi trentacinque anni, fa sì che l’analisi su come queste si siano modificate non trascuri di evidenziare quanto abbia inciso, in particolar modo sul fattore “sicurezza percepita”, l’accoglienza 139 Maurizio Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del Partito Democratico, pubblicato il 25 marzo 2011. 174 e l’insediamento dei migranti, ossia la modificazione del dato etnico in seno alla popolazione. L’atteggiamento del singolo nel condurre la vita nonché il modo di intendere quel complesso reticolo di relazioni che costituiscono il fondamento dell’interazione nei gruppi sociali. L’immigrazione, dunque, non è solo una questione di movimenti di popolazione. E’ una vicenda ben più complessa, in cui intervengono gli Stati riceventi, con le loro politiche di categorizzazione degli stranieri più o meno graditi e di controllo dei confini, le reazioni delle società nei confronti dei nuovi arrivati, i paesi d’origine con la loro reputazione più o meno positiva, e naturalmente i migranti stessi, impegnati nella ricerca di smagliature e interstizi che consentano l’accesso ai territori in cui sperano di trovare miglior fortuna che in patria.140 A seguito degli sconvolgimenti geopolitici che tra la metà degli anno ’80 e la metà dei ’90 hanno modificato gli equilibri europei ed asiatici e a seguito delle ripercussioni economiche che questi hanno avuto sulle singole persone o sui gruppi, ecco che forti spinte migratorie che hanno interessato l’Italia facendone, se non una meta, quantomeno un luogo di transito. In concomitanza all’arrivo dei primi migranti, tra i quali il gruppo più numeroso fu quello albanese in fuga dall’ultimo regime totalitario europeo, il “circo mediatico” si mise in moto stigmatizzando, forse per la prima volta e attraverso una quantità abnorme di immagini, lo svolgersi di una tragedia. In quei giorni, o meglio sarebbe dire “da quei giorni”, i media italiani non mancarono un solo giorno d’evidenziare qualunque differenza comportamentale e di dare rilievo a ogni azione criminale commessa da un migrante contribuendo a creare l’assioma 140 M. Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del Partito Democratico pubblicato il 25 marzo 2011. 175 “migrante-delinquente”. Non si può certo dire che il servizio d’informazione pubblica, quindi, non abbia contribuito al modo d’intendere e percepire la presenza dei migranti in Italia sollecitando, in alcune frange di popolazione meno critiche e più influenzabili, l’insorgere di istanze tese ad ottenere “sicurezza” attraverso l’adozione di una politica di chiusura e conseguente respingimento, invece che di strategie di accoglienza e d’integrazione dei migranti. Va ribadito che non esistono Stati nazionali, per quanto democratici, che non presidino le frontiere e non controllino gli ingressi sul territorio nazionale, con le conseguenze relative: richiesta di passaporti e permessi di soggiorno, complessi regimi di regolamentazione dell’immigrazione, procedure di trattenimento ed espulsione degli stranieri indesiderati, anche se di fatto applicate solo ad una parte dei casi potenzialmente pertinenti. Il problema consiste nel trovare un equilibrio tra la sorveglianza dell’accesso al territorio nazionale, gli interessi che dall’interno dei confini premono per l’apertura, il pacchetto di diritti umani che dei paesi democratici, firmatari di solenni convenzioni internazionali, richiedenti asilo, devono rifugiati, comunque stranieri garantire residenti a anche temporaneamente, compresi coloro che si trovano sprovvisti di regolari autorizzazioni al soggiorno. […] L’innalzamento della rigidità dei controlli ha poi un effetto facilmente prevedibile: provoca un accrescimento della sofisticazione e del livello di organizzazione criminale dell’industria dell’attraversamento delle frontiere. Il fatto più grave, in questa spirale, è l’asservimento in varie forme di prestazioni forzate di coloro che non possono pagare il servizio. Favoreggiamento dell’immigrazione non autorizzata e traffico di esseri umani sono fenomeni diversi, ma di fatto risultano spesso intrecciati, tanto da poter essere inquadrati come i due estremi di un’unica attività.141 141 M. Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del Partito Democratico pubblicato il 25 marzo 2011. 176 Nel modificare la percezione dell’immagine del migrante si è sollecitata la creazione nell’immaginario collettivo di un alieno, un soggetto al quale attribuire secondo il sillogismo aristotelico, lo stigma preconcetto: migrante-delinquente. È innegabile che molti tra i migranti che per primi approcciarono al suolo italiano non esitarono a violare per assicurarsi un immediato profitto e una condizione economica gratificante. Da lì alla creazione mediatica del mostro il passo fu davvero breve e contribuì a far sì che alla parola immigrazione corrisponda la percezione di disagio, di una insicurezza latente, ma mai di un potenziale umano o di una “opportunità” di sviluppo sociale complesso e condiviso. Lo sfruttamento criminale della condizione d’illegalità e di disagio economico dei migranti iniziò già dai primi sbarchi degli anni Ottanta dello scorso secolo. Uno sfruttamento che in alcune sue connotazioni assunse la forma della schiavitù. Quel fenomeno sociale iniziato a profilarsi all’orizzonte in una stagione storica assai complessa è andato progressivamente a incidere su un panorama, su un teatro, che sino a quegli anni s’era supposto immutabile. Sconvolgendo le false certezze di intangibilità dei confini e protezione dei mercati a cui un’intera area culturale era stata educata. Quando l’evento migratorio ha iniziato a suggerire di sé la propria importanza attraverso il crescendo dei numeri e delle percentuali alle quali sarebbe stato destinato, non si sono volute vedere e riconoscere le implicazioni che da ciò sarebbero discese. L’analisi svolta in quegli anni dalle Agenzie istituzionali italiane sul tema 177 ha dimostrato l’incapacità di leggere e valutare il mutare della storia, degli eventi geopolitici ed economici. Le migrazioni sono antiche quanto l’umanità, se è vero che tutti abbiamo origini africane. Dalla ricerca archeologica, ai poemi omerici, alle testimonianze bibliche, sappiamo che movimenti di singoli e gruppi, scambi commerciali, colonizzazioni pacifiche e invasioni cruente, hanno costruito la storia delle civiltà umane. La sedentarietà faticosamente conquistata nel neolitico, con l’invenzione dell’agricoltura e la nascita delle prime forme urbane, non è mai stata assoluta. Il movimento di popolazioni, nelle sue varie forme e con diversi esiti, ha sempre accompagnato la formazione di società stabili.142 Non emerse mai il dubbio sull’interpretazione di ciò che stava accadendo, cioè che non ci si trovava innanzi a un fenomeno estemporaneo, bensì all’inizio di un’era di nuove migrazioni. L’Italia, per la sua posizione geografica, venne immediatamente individuata come la banchina naturale del Mediterraneo. Prossima a tutte quelle aree di crisi (quelle africane, quelle balcaniche e quelle mediorientali), nelle quali aveva avuto parte nei processi di “sviluppo, democratizzazione e pacificazione”. Alla luce di quanto precede, può apparire, dunque, difficilmente spiegabile la policy italiana che ha introdotto a una abnorme proliferazione normativa tesa a coercire e punire chi migra, criminalizzando, addirittura, la condizione naturale dell’essere umano: la propensione a migrare. A chi si occupa di sicurezza dei gruppi sociali e di criticità afferenti la pubblica sicurezza in contesti sociali etnicamente integrati è noto che la 142 M. Ambrosini, in Atti del convegno: Relazione alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del Partito Democratico pubblicato il 25 marzo 2011. 178 strutturazione di strategie preventive, ancorché si riveli un percorso tanto dispendioso quanto incerto negli esiti è il migliore degli investimenti. Non per questo, però, la lusinga di perseguire vie più populiste e svantaggiose economicamente, cioè l’intervento normativo e poi giudiziario nei confronti degli autori di reati, induce a riorganizzare il criterio di rilevanza dei valori dai quali una società trae la propria forza. Una tale presa di coscienza di fronte all’insorgere delle problematiche relative all’integrazione interverrebbe “negativamente” non consentendo più ad alcune entità di perseguire, proficuamente, le speculazioni politico-mediatiche che poco, o nulla, hanno a che fare con la reale soluzione del problema. Prevenire per governare, cioè per non dover intervenire in condizioni di emergenza è l’opzione principale che meno appartiene alla strategia del potere che si nutre della “cultura dell’emergenza” 143. Nell’ultimo ventennio non sono stati pochi i governi che, ricorrendo a tale strategia dell’emergenza, al collaudato stratagemma dell’allarmismo mediatico, hanno reso accettabili, se non addirittura spinto l’opinione pubblica a richiedere scelte drastiche di limitazione delle libertà, il cui unico esito è stato di sostituire al concetto di “pubblica sicurezza” quello di controllo sociale. Un esempio tangibile di questo processo, cioè di come si possono ridurre progressivamente le libertà del singolo e quelle collettive, 143 Appare ovvio che, per le lobby, sia più remunerativo intervenire a posteriori e nella più assoluta emergenza poiché un tale clima è più facile attingere a stanziamenti straordinari di fondi attraverso i quali arginare in modo vieppiù più tecnologico e spersonalizzante, il dilagare di fenomeni, più o meno, terrorizzanti. 179 giungendo poi alla legittimazione, alla normalizzazione di quella che David Lyon, e i più noti scienziati anglosassoni esperti in sociologia della sicurezza, definiscono la legiferazione d’urgenza. Il vero prodotto che è seguito ai fatti dell’11 settembre 2001. Attraverso l’uso di questo strumento è inevitabile che si pervenga alla “compressione di libertà individuali” alle quali, in un clima di normalità (ed ecco come risulta chiaro ed evidente, ora più che sopra, pervenire ad una definizione convenzionale del concetto di normalità) nessuno avrebbe rinunciato.144 La riflessione sulla compressione dei diritti adesso dovrebbe farsi più approfondita e suggerirci lo spunto per comprendere quanto poco sia cambiato l’esercizio “potere” nel corso dei secoli. Sono cambiati gli ordinamenti politici, sono cambiati i sovrani e sono cambiate le persone da governare, ma non è cambiato il potere che è rimasto lo “strumento di controllo sociale” nelle mani di chi esercita l’imperio. Uno strumento che spesso sfugge al controllo del popolo che ne è il titolare e che, delegandone l’esercizio, ma non con la “vigile fiducia” che spetterebbe al cittadino nel suo ruolo istituzionale di controllore, bensì con il rassegnato “affidamento” più proprio al “suddito”. Le libertà sacrificate in ragione di un’asserita emergenza sicurezza, ancorché condivisa e giustificabile da un supposto interesse superiore, sono troppo spesso perse per sempre e da tutti.145 Come abbiamo visto in Italia nel caso dei migranti 144 Si veda David Lyon, Massima Sicurezza – Ed. Raffaello Cortina Editore, 2005. 140 Ibidem 180 […] Le società contemporanee producono rischi su vasta scala proprio perché intervengono in maniera così decisiva sulla vita biologica e sulla vita sociale, impiegando a tale scopo tutta una serie di tecnologie. La gestione del rischio rappresenta un aspetto fondamentale della attività di governo. Dopo la Guerra fredda degli anni Cinquanta e Sessanta, la concezione dominante era che la sicurezza nei confronti del rischio di un’aggressione esterna (da parte dell’Unione Sovietica contro gli Stati Uniti) potesse essere garantita mediante strumenti tecnici e militari. Sono così proliferate le tecnologie della sicurezza e, con esse, due convinzioni fondamentali: la prima, che la “massima sicurezza” rappresenti un obiettivo auspicabile e, la seconda, che può essere perseguita adottando tecnologie sempre più facilmente reperibili sul mercato.146 La fragilità alla quale espone la produzione di rischi è quella di rendere invisibili le minacce reali che, per loro connotazione, sono latenti o vestono i panni accattivanti di imperdibili opportunità e accessibili possibilità. Il percorso artificiale di sovrapposizione e d’identificazione tra i distinti processi di controllo/sorveglianza e di sicurezza è, ormai, un “fatto” ed è in toto inserito nel quadro più generale della giustificata compressione dei diritti. Volitivamente dismesso il diritto a essere liberi in uno Stato libero, a vantaggio di una procedura di controllo della quale gli stessi controllori, ormai, sembrano aver perso di vista lo scopo è il più classico degli scenari che prelude all’affermazione del “potere della forza”. Chiarito che la sicurezza non è l’esaltazione del potere, né il controllo e, ancor meno lo è la soppressione progressiva delle libertà, le istituzioni al fine di prevenire l’insorgere di un fenomeno critico, devono dedicare 146 D. Lyon, Massima Sicurezza – Ed. Raffaello Cortina Editore, 2005, p.42. 181 le proprie energie all’assunzione delle informazioni e alla raccolta del dato. Questo “sapere” generale, deve essere processato in virtù dell’adozione di policy improntate alla social safety. 4. Criminalità: forme e asimmetrie di un sistema alternativo Ogni qual volta ci troviamo ad analizzare o a commentare eventi attraverso i quali emergono, sempre previste, ma fatalmente sempre inattese, le tracce tangibili dell’insorgenza, o della persistenza, di fenomeni criminali con i quali la quotidianità ci chiede di convivere, per quanto l’approccio cerchi di mantenersi il più possibile scientifico e obiettivo, non si fa altro che incrementare la teorizzazione sulle ipotetiche cause dei “disagi sociali” senza intervenire alla radice. Senza voler osservare che i gruppi sociali nascono, crescono e maturano –alla guisa di un organismo vivente– sotto gli occhi di tutti e che si nutrono di un “novero di congiunture e imponderabili eventi” sui quali nessuno sembra potere o volere intervenire. Laddove possibile, la società sembra si preoccupi più di assolvere immediatamente tutti e tutto da quelle responsabilità che, invece, sono oggettive e ben attribuibili. Si pensi a quante energie giustamente si profondano –talvolta in un clima di caccia alle streghe- nel perseguire i tecnici progettisti, ingegneri e architetti, per il crollo, anche a seguito di eventi naturali, di stabili che cagionino la perdita di vite umane; senza, però, che nulla si muova o venga eccepito nei confronti dei “tecnici della sicurezza” quando falliscono nella loro “arte” contribuendo in modo egualmente dannoso alle implosioni, agli attriti, del “sistema società”. 182 Quello con cui s’instaura il confronto non è un terremoto che danneggia strutturalmente edifici o che uccide sotto le macerie. Il danno e le vittime, sparpagliate su un territorio ampio, derivano dalla non volontà di gestire un fenomeno assai complesso da cui derivano criticità e frizioni sociali. Trattando gli eventi criminali con “fatalismo” o, peggio, riconducendoli a sconosciuti fattori antropologici e culturali automaticamente le istituzioni assolvono se stesse dall’inerzia e impreparazione. La giustificazione più usata è che queste emergenze insorgono per “germinazione spontanea”, sotto gli occhi attoniti del mondo, senza che questo possa in qualche modo intervenire. Quando ci si trova di fronte agli effetti quotidiani dell’interazione tra crimine e legalità ci si trova, in buona sostanza, innanzi alla normalità. Un mondo nel quale vivere sicuri, ma non controllati, dovrebbe rappresentare lo standard. In questo ipotetico mondo, a guidare il Legislatore nelle sue scelte in tema di sicurezza, sono i processi d’approfondimento deduttivi legati alla declinazione di informazioni, talvolta parziali e frammentarie, più votate a rispettare l’orientamento ideologico di chi le commissiona che la connessione alla realtà del fenomeno. La scientificità del dato l’attendibilità del quale non deve, necessariamente, affondare le proprie radici nell’arida rappresentazione della socialità che si desume dall’analisi statistica dei fenomeni, sarebbe dunque auspicabile derivasse dallo studio del fenomeno dal quale è bene che emergano gli umori percettivi prima che gli eventi tipizzanti di un territorio assumano la connotazione dell’irreversibilità. 183 Il problema risiede, dunque, nell’adozione di una chiave di lettura falsata, di fatto legata meramente all’individuazione (e non alla soluzione del problema, ma al disegno di politicizzazione dello stesso) di indicatori parzialmente attendibili sulla base dei quali è divenuta prassi concettualizzare le soluzioni e teorizzare rimedi che però, da soli, non sono in grado di risolvere le problematiche esasperate in quelle “culture criminali” che, non essendo state analizzate con il pragmatismo e la scientificità riservati ad altre emergenze, rimangono il “problema sul campo”. La politica della sicurezza basata su questo modo di approcciare “il problema” è essa stessa il maggiore dei problemi da affrontare e risolvere. 5. Criminali, per scelta? Sulla base della teoria della sub cultura si può, forse, affermare che sia l’istinto, coniugato alla volontà di raggiungere un fine, porta gli uomini a scegliere la condotta attraverso la quale concretizzare il risultato atteso. Ma è lo stesso istinto volto alla conservazione e alla sopravvivenza che sembra permanga come giustificazione alla base anche dell’eversione dai principi su cui si vorrebbe venisse organizzata l’aggregazione all’interno di uno Stato? L’essere umano non è criminale per “istinto” (così come non è sommo bene) ma sceglie di delinquere personalmente, anche sulla base di condizioni ambientali o di frustrazioni (talvolta solo percepite, ma in quanto tali dotate di effettività). Come evidenziato da Sutherland, sono le condizioni che connotano gli scenari e l’ambiente in cui viene a 184 trovarsi il soggetto che lo possono condurre ad assumere comportamenti devianti (e anche criminali). Avvertendo il senso d’abbandono da parte dello Stato, cede di fronte alla propensione di riorganizzare la propria socialità e di procurarsi ciò che percepisce irrinunciabile e ingiustamente preclusogli per assicurarsi la sopravvivenza. Una sopravvivenza che non è solo ed esclusivamente quella fisica, ma afferisce al ruolo sociale nel quale assume una posizione centrale la relazione. Sulla base della percezione di ciò che ritiene necessario per sé, l’individuo struttura e impegna l’intelletto fino al punto di determinarsi a scegliere quella che ritiene essere l’unica via perseguibile in grado di assicurargli un percorso altro per giungere al riconoscimento sociale. Detto percorso è, spesso, in antitesi a quello ritenuto valido, quindi lecito, dalla generalità dei consociati. Nel far ciò, però, compie un singolare processo di standardizzazione dei comportamenti, non sfugge cioè alla coazione che lo spinge verso la “necessarietà della regola”, normando, così, anche i comportamenti devianti che si prefigge di perseguire. Tutte le organizzazioni criminali ne sono testimonianza. Ecco, dunque, che un “codice” alternativo, ma egualmente vincolante, sostituisce quello condiviso, promosso dalla società nella sua forma organizzata da quello Stato (status) al quale sente di non appartenere. Innanzi a tale evidenza, risulta più immediato, tanto per chi è deputato a prevenire i comportamenti devianti che per chi li persegue, far risalire le motivazioni della trasgressione -l’origine della condotta antisociale che 185 in questo caso viene, propriamente, indicata come “criminale”- a fattori esterni, indipendenti e sempre ragionevolmente validi. Tra chi in assenza di rivendicazioni sociali riconducibili a supposti soprusi e, per contro, ben uniformato e ben collocato all’interno del vincolo del “bisogno/desiderio”, sceglie di procurarsi il feticcio attraverso attività delittuose che non lo inglobino nello schema lavoro-reddito, e chi delinque, ancorché inserito nella società ufficialmente organizzata, per preservare una propria posizione di vantaggio, non v’è molta differenza se non per la categoria alla quale vengono ricondotti i reati perpetrati: delinquenza comune e white collars. 6. Le enclave criminali, isole da riconquistare La programmazione del complesso di scelte, proprie di una politica volta a garantire la sicurezza interna, che gli Stati compiono al fine di opporre un contrasto efficace alle attività della criminalità, sia comune sia organizzata, e la sempre maggiore tendenza ad analizzare le cause che condizionano, modificandoli, gli usi relazionali all’interno dei gruppi umani in cui tali devianze sociali prendono piede, divengono sempre più urgenti. Talvolta il ritardo istituzionale nel provvedere a organizzare questo settore ad alto rischio di emergenza sociale è deputato a ingenerare nei consociati un senso di sfiducia; si tratta di una fragilità epidemica che si diffonde e alla quale corrisponde, simmetricamente, un’azione progressiva più agguerrita e determinata delle compagini criminali che abitano questo “organismo”. 186 I gruppi sociali, così come i singoli individui, sono resi vulnerabili dalla percezione che essi hanno dell’isolamento (anche se non effettivo, ma, come abbiamo visto, egualmente reale in quanto “percepito”), al punto che nei gruppi stessi si consolidano e vengono avvallati più facilmente i comportamenti devianti, contigui a chi si dimostra “il più forte sul campo”, sino ad avere esiti che strutturano l’anti-socialità facendola divenire “sistema” e favoriscono la formazione di un humus fertile e omogeneo ove la metastasi criminogena ha modo di nutrirsi e prosperare. In tale quadro è fondamentale che si riesca a determinare e comprendere, anche solo per deduzione, come e in cosa, sia mutata la società, privilegiando, nell’osservazione, le aspettative disattese degli individui che la compongono, nonché il modo che questi hanno di relazionarsi tra loro. La costante evoluzione delle scienze sociali e giuridiche, effettivamente, ha di recente riconosciuto –specialmente nella galassia anglosassonel’utilità pratica, oltre che teorica, che deriva dallo studio analitico dei prodromi ai fenomeni criminali. Tale via è stata scelta non solo nell’intento di quantificarne “il danno sociale” che si rivela operazione funzionale all’attribuzione di un valore oggettivo sulla base del quale preordinare una strategia (anche economicamente vantaggiosa) atta a reprimerne le manifestazioni criminali e contenerne gli effetti, o coercirne gli autori, ma anche, o soprattutto, per rielaborare la strategia difensiva militante, condivisa e compartecipata che è propria di un Popolo libero. 187 L’efficacia e la bontà di una tale politica di prevenzione -lo si ripete, quando non degenera in controllo sociale- è rinvenibile e computabile, sulla base stessa degli sforzi, responsabili e partecipati, volti ad identificare ed isolarne i “germi” della devianza; comportamenti cioè ai quali ricondurre l'origine della condotta criminogena: le così dette precondizioni. Tale volontà ben si può sintetizzare e tradurre in un obiettivo condiviso che pretenderebbe, attraverso un attento screening dei comportamenti reiterati e più ricorrenti in determinati contesti, anche definibili patologici, di impedire la formazione e il radicamento delle precondizioni socio-degenerative poste alla base della formazione di micro/macro comunità con indici criminogeni e delinquenziali di tutto rilievo. Per precondizioni vanno intese tutte quelle sottaciute presunzioni, quelle disattenzioni compiute nell’ambito della policy della sicurezza sociale che permettono alle sub urbia di venire a esistenza, radicandosi come realtà alternative al sistema sociale regolato dal Diritto. Territori in cui è troppo poco remunerativo affrontare il discorso prevenzione e ai quali è riservato il destino di trasformarsi in laboratori sociali d’integrazione nei quali si sviluppano, spontanee, strutture parallele o di “legalità alternativa”. Per moderne sub urbia si intendono quei luoghi dove, di fatto, viene favorita la concentrazione abitativa di nuclei familiari con evidenti sintomi di disagio sociale che può concretarsi nella propensione all’insofferenza verso le regole dello Stato, alla devianza. Luoghi dove la strategia dell’emarginazione è istituzionalizzata e perseguita con la 188 creazione, all’interno delle città, di quartieri “impermeabili” in cui è più facile relegare e controllare i borderline o gli outsider che promuoverne il recupero e l’inserimento. In queste “cittadelle” s’insediano comunità in cui gli individui subiscono il collocamento, così come, in altre occasioni, taluno di loro ha subito esperienze carcerarie o di comunità riabilitative. La realtà si sviluppano le relazioni e i processi di socializzazione devoluti a progetti rieducativi etero-indotti esaltano quelle problematiche che, in ultimo, si scoprono essere l’unico comune denominatore sulla base del quale s’incardina il rapporto di relazione/interazione sociale. Una autoreferenzialità impermeabile a influenze esterne propositive. Il senso di appartenenza, quindi, è spesso riconosciuto e avvertito, non tanto perché esiste un motore di aggregazione basato sulla condivisione di una progettualità di un fine futuro, ma, al contrario, affonda nel passato; nell’esperienza “condivisa” in cui affonda l’origine di un vincolo. In tali contesti, il vincolo si identifica nell’aver conosciuto una situazione di disagio che, di per se stessa rappresenta un collante significativo sulla base del quale fondare e strutturare la compagine criminale. Si tratta di un vissuto aggregante, di un’esperienza comune da confrontare, esaltare e schierare in opposizione e contrasto a quello della società “normale”: la società in cui chi è “diverso da” è percepito come una potenziale minaccia. (A. Cohen) Questa presa di coscienza di appartenenza porta alla coniazione di un modello di riferimento alternativo ma altrettanto rigido rispetto a quello 189 da cui traggono il “proprio” ordine gli Stati e la società normale dalla quale sono esclusi o si sentono esclusi. La coscienza di essere riconosciuti “Altro” (Alter, E. Sutherlan) è avvertito come un valore da preservare e condividere. Un esempio di tale assetto proviene dalla terminologia gergale che i sodalizi criminali usano per stigmatizzare il “loro essere altro”, ma validi e valenti. Gli “uomini d’onore” per la mafia; i balentes, cioè i valorosi, nella criminalità sarda; il “sandalo di paglia” nella criminalità cinese ed è così per tutte quelle società nelle quali l’essere stati espulsi o posti ai margini dal mondo omologato è la condizione introduttiva all’essere orgogliosamente “Altro”. 7. Genesi del gruppo deviante Nel corso della ricerca è emerso che le società segrete cinesi, sebbene non siano di per sé, o necessariamente, dei sodalizi criminali, impongono all’affiliato un grado di emarginazione, di chiusura verso l’esterno, connotandolo all’interno del gruppo. Ciò aiuta il consociato a raggiungere livelli di responsabilità e di vertice che hanno nomi che evocano creature celesti e mitologiche tratte, per lo più, dalla tradizione arcaica o dalla filosofia confuciana e buddista. Si tratta di un’elevazione di fatto delle strategie di auto-validazione e di accreditamento che avviene attraverso il linguaggio e il simbolismo dai più conosciuti e comprensibili unicamente dai confratelli. Il vincolo di affiliazione e l’accettazione delle regole che da questo discendono è forte al punto tale da originare quel senso di 190 “indispensabilità”, proprio della regola giuridica (con tanto di precetto e sanzione in caso di violazione del dettato in esso contenuto), sulla base del quale il gruppo sociale fonda la propria ragion d’essere. È così quindi che si assiste al passaggio, dall’improvvisazione di atti “delittuosi” estemporanei, in genere tesi all’affermazione del “sé” rispetto “all’Io collettivo”, all’organizzazione dell’attività criminale o, meglio, alla riorganizzazione del gruppo in una società parallela e asincrona in cui la convivenza forzata, su porzioni di territorio eterodelimitate, costituisce lo start up verso la legittimazione a esistere e agire. Dal punto di vista antropologico, questo processo introduttivo e organizzativo è assimilabile alla nascita di una fratria147, di una famiglia nella quale è possibile riconoscere un capo, una élite, dei soldati e, infine, dei gregari. Una struttura alla quale affidare la trasformazione dell’interesse privato in un fine collettivo supportato da valori condivisi che per le connotazioni di base che li caratterizzano e contraddistinguono, sono definibili antisociali e, talora, criminogeni. L’esempio di una tale struttura sociale è facilmente rinvenibile all’interno degli opifici gestiti dai Lao Ban. In Prato, ad esempio, la struttura organizzativa della fabbrica a gestione cinese si connota per il rapporto che il lavoratore ha con l’impresa che, come in Cina, si sostituisce in tutto all’organizzazione statale. La violazione dei precetti che regolano i turni di lavoro, il trasferimento di denaro in Patria attraverso canali non interni alla Tong, la rivendicazione di una equa retribuzione per il lavoro 147 Fratria: unità sociale elementare basata sull’interazione di gruppi familiari diversi. Diverse fratrie formano un clan o una tribù (Paul H. Stahl). 191 o la delazione a persone esterne al gruppo cinese di particolari che ne svelano le dinamiche, costituiscono dei veri e propri reati che il gruppo stesso, l’associazione (segreta) di fatto vincolata alla rete solidaristica del guanxi e alla fratellanza di cui il migrante entra a far parte all’atto del suo inserimento lavorativo, vengono perseguite con sanzioni, anche cruente a seconda della gravità dell’infrazione commessa, emanate da un organo giurisdizionale interno, una “cupola”, verso la quale il rispetto e la deferenza degli affiliati è totale ed il cui giudizio è inappellabile. Una socialità questa che non ha la percezione di sé come criminale poiché valida e traferisce all’estero, insieme al migrate, un sistema di vita e di relazioni tradizionale e, pertanto, “normale”. Il processo di formazione del gruppo deviante supportato dagli evidenti e positivi risultati economici derivanti dall’affermazione dell’interesse e del facile guadagno che questo consente (fondato sull’esaltazione “dell’io a dispetto degli altri”), rafforza la convinzione nel consociato che lo Stato, ed ogni sua regola, siano nemici ai quali resistere opponendo una condotta positiva: il guanxi. La solidarietà anche criminale nell’esaltazione dell’Io collettivo. Astrattezza e generalità non difettano alla regola che vincola, assoggetta e contraddistingue gli affiliati. L’omertosa complicità del sodalizio criminale si sostanzia, dunque, nell’affermazione di una regola vincente poiché economicamente vantaggiosa. Da qui deriva il convincimento che le risposte e gli strumenti per enucleare una tattica ottimale su “come intervenire”, efficacemente, per prevenire e arginare la “deriva criminale” nei contesti metropolitani, non 192 vadano cercati esclusivamente nel rinforzo ai mezzi di controllo sociale e repressione, bensì scaturiscano dall’analisi attenta dei contesti sociali e dall’attività preventiva che le Agenzie territoriali riescono a porre in essere attraverso controlli e ispezioni148. 8. La territorializzazione Il processo in trattazione, definito di territorializzazione, implica una fase d’insediamento che, come abbiamo già evidenziato in precedenza, prescinde dalla volontà dell’attore. Si tratta di un provvedimento autoritario sul quale il destinatario non ha voce in capitolo. Collocato in un luogo da un’autorità alla quale spetta istituzionalmente il compito di organizzare geograficamente i gruppi umani. Questa fase, molto delicata e che dovrebbe essere vigilata dalle autorità del paese d’insediamento che con le conoscenze e la consapevolezza avrebbe la possibilità di intervenire onde evitare processi di ghettizzazione, è determinante, poiché sarebbe grado di scongiurare il radicamento nell’individuo del convincimento (anche inconscio) di essere stato, alternativamente, o inserito o emarginato. Comunque, allocato in un contesto che non ha scelto e dal quale non vi sono risultati attesi se non quelli del mantenimento in una condizione di diversità, di alterità. Tenendo a mente quali sono i risultati delle indagini di polizia sul traffico internazionale di migranti cinesi, si oggettiva un dato: il cinese che parte dal villaggio d’origine alla volta dell’Europa non conosce la propria destinazione, ma è l’unico a non saperla. Infatti, l’organizzatore del 148 Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica della Prefettura Ufficio del Governo di Prato, Tavolo di coordinamento delle attività di polizia promosso dal questore dott. D. Savi. 193 “viaggio”, la struttura criminale internazionale alla quale viene affidato il trasferimento del soggetto è già in contatto con il referente europeo che si occuperà del suo collocamento di una Tong preesistente e strutturata per riceverlo. Un luogo individuato e circoscritto del quale il gruppo sociale, valendosi delle precondizioni ottimali a generare devianze di cui abbiamo detto sopra, sente di essere divenuto dominus. Lo scopo, quindi, dello studio scientifico delle attività criminali è oggettivare, per quanto ciò sia possibile, una griglia analitica volta a individuare quali siano le analogie da osservare, gli indicatori da riconoscere, per prevenire, la nascita di queste aggregazioni, ossia per impedire che si consolidino “zone franche” di territorio nelle quali sia consentito lo sclerotizzarsi di processi comportamentali criminogeni: una delle patologie “dell’organismo società”. 9. Condotte sociali e percezione della loro antigiuridicità È importante evidenziare come nell’ambito della ricerca, il comportamento non debba essere necessariamente analizzato e interpretato sempre con il medesimo metro giuridico, sociale e antropologico, con la medesima matrice, ma debba, anzi, rispecchiare quelle che sono le rispondenze e le propensioni sociali in cui si sviluppa l’osservazione. Con il mutare del modo e del grado d’intensità di percepire i seppur ondivaghi significati con cui intendere bene e male, e, parimenti, ciò che è giusto o ingiusto, è opportuno che muti l’attenzione verso le istanze della società, cercando di cogliere la direzione verso la quale si 194 orientano i comportamenti collettivi ritenuti “conformanti”, socialmente validi. A una tale ricettività si può giungere solo attraverso il monitoraggio dei segnali spontanei, rilevabili ricorrendo all’impiego di metodologie ritenute, di volta in volta, le più pertinenti. È stato acquisito quindi un dato che seppur relativo, conduce a una percezione condivisa e allarmante della relatività dell’evento che storicamente è contestualizzato; ciò che oggi è visto come una minaccia sociale, lesiva dei diritti dell’uomo e dei lavoratori, quindi, dell’ordine e della sicurezza pubblica, potrebbe in breve risultare rispondente alle mutate esigenze di mercato e sociali tanto da portare alla modifica della normativa in tal senso. L’assolutizzazione di taluni “valori” che oggi fungono da indicatori e assumono un ruolo determinante serve a tramutare i fatti in storia, così come a trasformare “l’insicurezza percepita” in pericolo reale. Si tratta, in sostanza, di condotte che nel corso degli anni assumono valenze diverse tanto da sollecitare il Legislatore, via via che i tempi lo richiedono, a qualificarle ora come criminose e socialmente censurabili, ora a decretarne l’irrilevanza. Una riflessione va fatta sull’iter di depenalizzazione del falso in bilancio. 10. Cos’è il reato? Le ‘matrici’ criminali Nel principiare la disamina delle diverse “matrici criminali”, cioè a dire dei variegati modi di delinquere, che ci si propone di analizzare, appare, fin d’ora, opportuno fare chiarezza circa l’uso di una terminologia 195 strettamente connessa al diritto. Ci si prefigge, infatti, di tracciare una linea guida, asciutta e al contempo efficace, che consenta di comprendere i tecnicismi dei quali il testo si avvarrà senza però trascurarne le sfumature. Quelle zone grigie lessicali che linguaggi simili usati in contesti contermini (come lo sono il diritto e la sociologia della devianza), ingenerano. Fraintendimenti o generalizzazioni perniciose che rendono i diversi linguaggi, del Diritto e dell’analisi sociale, talvolta ostici nel comunicare. Tale forzo è richiesto, dunque, al mero fine di evitare fuorvianti interpretazioni. Iniziamo, quindi, proponendo la definizione che la dottrina penalistica italiana prevalente dà del reato e che consiste nella violazione di un precetto dell’ordinamento giuridico-penale, la cui nota fondante è il contrasto, l’opposizione col diritto. Questa contraddizione viene indicata col termine ‘antigiuridicità’ ed anche illiceità. 149 O, anche Si definisce reato quel comportamento umano volontario, che si concretizza in un’azione o omissione tesa a ledere un bene tutelato giuridicamente e a cui l’Ordinamento giuridico fa discendere l’irrogazione di una pena del tipo della sanzione penale.150 In assonanza, dunque, con la dottrina di Francesco Antolisei che definisce il reato “ogni fatto al quale l’ordinamento giuridico ricongiunge come conseguenza una pena” è necessario porre delle precisazioni che aiutino a riconoscere quanto queste definizioni siano prettamente “formali” in quanto si fermano a connotare i “segni esteriori che 149 Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Dott. A Giuffrè Editore, Milano, 2000, p.194. 150 FONTE: http://www.studiocataldi.it/guide-diritto-penale/ilreato.asp 196 caratterizzano l’illecito penale”, ma, sempre attingendo da Antolisei, comprenderemo come […] la scienza giuridica non può esimersi dal fornire del reato anche una determinazione sostanziale, giacché essa è necessaria per comprenderne l’effettiva natura ed anche per avere un orientamento nell’interpretazione della legge […] che obbedisce a criteri di generalità e astrattezza; criteri dai quali, si vorrebbe, che la norma si giovasse per non subire condizionamenti etici, politici e sociali. Una teorizzazione purtroppo smentita dai fatti legislativi degli ultimi decenni che si sono caratterizzati per una proliferazione normativa ad personam. La Costituzione italiana onde non escludere nessuno dall’effettività della norma che prevede un comportamento come ipotesi di reato, stabilisce, all’art. 27, che: “La responsabilità penale è personale”.151 Sarà, quindi, proprio l’ordinamento a tutelare il principio che incardina “sulla persona” la responsabilità penale: Da tale principio consegue che tutte le persone fisiche possono essere considerate soggetti attivi del reato (l’età, le situazioni di anormalità psico-fisica e le immunità non escludono la sussistenza del reato, ma incidono solo ed esclusivamente sull’applicabilità o meno della sanzione penale) e quindi assoggettabili alla sanzione penale mentre restano escluse (almeno sino ad oggi) da responsabilità penale le persone giuridiche. 152 Intesa in tal senso, la norma è oltremodo chiara nell’intendere la natura “strettamente personale della responsabilità nel reato” e ciò implica che nessuno possa essere considerato responsabile, quindi reo, per un 151 art. 27 Costituzione della Repubblica Italiana. 152 F. Antolisei, Manuale di diritto penale. 197 fatto compiuto da altre persone. Il che, seppur oggi possa apparire scontato, sino al principiare del secolo scorso, tanto ovvio non era ritenuto. Lo scopo principale della giustizia penale era, secondo l’interpretazione che dava la scuola classica (nel XIX secolo), di cui Cesare Beccaria e Jeremy Bentham sono considerati i padri e massimi esponenti, di fungere da deterrente per la popolazione, vista la concezione razionale ed edonistica dell'uomo. Il fattore “deterrenza”, quindi, sia se rivolto verso l’iniziativa criminale individuale che verso quella nelle sue forme associate è l'unica giustificazione alla punizione, ma, secondo il pensiero di Bentham è “un male in sé”. Un tale orientamento deriva dalla tradizione filosofica e del diritto anglosassoni, dei quale buona parte della filosofia sociale di quegli anni è permeata. È in questo secolo che si struttura l’attualissimo concetto secondo il quale la punizione denota efficacia e quindi assolve al fattore deterrenza, se in essa si rinvengono certezza, celerità e “severità proporzionata”. Ciò che discende dalla violazione della norma, deve obbedire al principio di proporzionalità e non all’arbitrio punitivo. Nella fase della concettualizzazione della sanzione posta a tutela dell’interesse tutelato dalla norma, inizia, dunque, a farsi strada il principio per cui tra, “delitto e pena”, deve vigere una relazione proporzionale e non prevalere l’affermazione del potere punitivo del sovrano. A fronte della tutela esercitata dal precetto nei confronti dell’interesse (sociale) protetto dalla norma, la sanzione in essa contenuta deve (come tutt’oggi) essere proporzionale e non eccedente il “piacere del crimine”. 198 Alla proporzionalità, si aggiunge anche il concetto di ufficializzazione, attraverso il “due process of law” cioè la stigmatizzazione della “uguaglianza” dei soggetti giudicati innanzi alla legge. Punizioni e procedure da questo momento devono essere determinate con puntualità, in modo da circoscrivere l'enorme discrezionalità di cui giudici godevano. Razionalizzazione delle procedure, divisione dei reati per tipo, per gravità, distinzione tra reati privati e pubblici sono passi progressivi e concorrenti nel rendere il Diritto una scienza sociale consapevole del ruolo del soggetto cui sono destinati. Questi principi, dei quali sono permeati i codici contemporanei, redatti o emendati successivamente al secondo conflitto mondiale, sono la prima forma di garanzia che lo Stato rivolge alla tutela dei consociati. Stabilito quindi cosa si debba intendere per violazione della norma penale e quale siano i limiti e la funzione della sanzione, è ora d’uopo prendere in considerazione il distinguo e la classificazione che espressamente il codice fa all’interno della voce “reato”. Un sostantivo generale sotto il quale vanno rinvenuti dei distinguo. L’articolo 39 del codice penale, infatti, compie la prima, e fondamentale, distinzione per comprendere che non ogni violazione alla Legge penale ha eguale impatto e incidenza negli effetti sociali: I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice. Il criterio formale sulla base del quale il Legislatore ha scelto di operare la distinzione tra queste due categorie è, dunque, quello che il codice penale stesso indica all’art. 17: “Pene principali: specie. Le pene 199 principali stabilite per i delitti sono: 1) la morte (abrogata); 2) l’ergastolo; 3) la reclusione; 4) la multa. Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: 1) l’arresto; 2) l’ammenda.” 153 e come è desumibile dalla sola lettura del titolo, tale distinzione si basa sulla “pena prevista” per il soggetto che, violando il precetto, incorre nella sanzione prevista dalla norma. Così si apprende che i delitti sono puniti con una pena fortemente incisiva che prevede la limitazione della libertà personale per un adeguato lasso di tempo (che dovrebbe essere congruo alla rieducazione del soggetto) e con il pagamento di una somma, la multa 154 , a cui viene riconosciuta una funzione sia rieducativa che risarcitoria per il danno cagionato nei confronti dell’interesse di cui lo Stato si pone come garante nei confronti dei consociati. Le contravvenzioni, diversamente, sono punibili con l’arresto, una tipologia di pena assai più lieve perché di minore afflittività (che raramente sfocia in una detenzione), perché l’interesse della Norma violata e le azioni commesse per incorrere in tale reato, hanno un minore impatto sociale perché recepite con meno clamor 153 Corte costituzionale, sentenza 28 aprile 1994, n. 168, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui non esclude l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile. Secondo l’evoluzione dei principi normativi seguita al diverso modo di sentire sociale della pena come mezzo rieducativo e nei confronti della sacralità della vita umana stigmatizzata dalla Costituzione, ecco che il Legislatore ha abolito la pena di morte che è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo. 154 La multa è una pena pecuniaria, che in Italia è prevista per i delitti, secondo l’Art. 24 del Codice Penale e consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore 50 euro, né superiore a 50.000 euro. Per i delitti determinati da motivi di lucro, ovvero vantaggio patrimoniale, proprio o altrui, se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da euro 50 a euro 25.000. Per taluni delitti è prevista la sola pena della multa, mentre per altri la multa si applica alternativamente o congiuntamente alla pena della reclusione; inoltre la reclusione fino a 6 mesi può essere sostituita dal giudice con la multa, ad eccezione di alcuni casi espressamente previsti dalla legge. 200 dall’opinione pubblica. Anche nelle contravvenzioni è prevista una pena pecuniaria che è chiamata ammenda155. Attesa, dunque, l’importanza che assumono il complesso di azioni, le attività, che vengono poste in essere per commettere il reato, sia esso un delitto o una contravvenzione, ha senso individuare il “grado di gravità” del fatto. È da tale gradualità, infatti, che al Giudice provengono anche gli strumenti che gli permettono di emettere una sentenza che non sia solo commisurata e giusta rispetto al fatto commesso, ma non avulsa dal contesto storico e sociale in cui l’evento è stato commesso A ciò si deve anche aggiungere che il ruolo pubblicamente assunto dall’imputato, non più e non solo come uno dei principali imprenditori incidenti sull’economia italiana, ma anche e soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della sua condotta. 156 155 L’ammenda è una pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni, che consiste nel pagamento di una somma di denaro allo Stato, secondo l’Art.26 del Codice Penale. La cifra da pagare va da un minimo di inferiore a 20 euro ad un massimo di 10.000 euro. Nella determinazione dell’ammontare dell’ammenda il giudice deve tener conto dell’eventuale concorso di più circostanze aggravanti e anche delle condizioni economiche del contravventore; per questi motivi può aumentarla fino al triplo o ridurla fino ad un terzo, qualora ritenga che la misura massima sia inefficace e quella minima sia eccessivamente gravosa. Inoltre può ammettere che l’ammenda venga pagata in rate mensili, in numero non inferiore a 3 e non superiore a 30, d’importo non inferiore a 15 euro. Per alcune contravvenzioni è prevista la sola pena dell’ammenda, per altri l’ammenda si applica alternativamente o congiuntamente alla pena dell’arresto; inoltre l’arresto fino a 3 mesi può essere sostituito dal giudice con l’ammenda, salvo alcuni casi. 156 Motivazioni della sentenza 22/2013 del 1 agosto 2013 della Corte Suprema di Cassazione; in linea con i giudizi di primo, di secondo grado essa riconosce responsabile dei reati ascrittigli l’imputato Silvio Berlusconi: «è stato ritenuto ideatore, organizzatore del sistema (...) creato anche per poter più facilmente occultare l'evasione». L’imputato, in tale contesto, è stato giudicato tenendo in considerazione, oltre la norma, il ruolo politico ricoperto (quindi una circostanza additiva in grado di influire eticamente e moralmente sul delitto commesso), ritenuto strumento basilare del quale si è avvalso per affermarsi come «ideatore» e «organizzatore del sistema» creato per frodare il Fisco e «operante in vaste aree del mondo, attraverso numerosi soggetti, società fittizie di proprietà di Berlusconi o di fatto facenti capo a Fininvest». Per il Giudice «l'oggettiva gravità del fatto deriva dalla complessità» di tale sistema e dal ruolo pubblico ricoperto dall’imputato all’epoca dei fatti commessi: “È appena il caso di rilevare, al riguardo, come la conservazione della pena accessoria in parola -peraltro in ambiti più ristretti rispetto alla normativa (pre)vigente- risulti pienamente giustificata a fronte 201 In apparente disaccordo, quindi, con quanto affermato dall’Antolisei, ecco che le modalità, l’etica e l’ambito d’attuazione nel quale viene portato a compimento un disegno criminoso, assumono una valenza determinante nell’ambito della giurisprudenza. Hanno rilievo e implicano, sicuramente, l’analisi delle condotte, svolta dal giudice, che connotano e caratterizzano le azioni dei rei. Il processo di categorizzazione sulla base del quale una condotta umana è qualificata antisociale, illegale o criminale per la sua pericolosità, è l’esito di una sintesi di fattori certi, che vanno dalla violazione delle norme alle contingenze ambientali e situazionali (ad esempio la storicizzazione dell’evento) che in quanto tali, non possono che essere complementari. 11. Criminalità e le sue forme espressive (Criminalità semplice, criminalità occasionale, criminalità comune, criminalità organizzata, criminalità mafiosa e criminalità eversiva)157 Il numero di soggetti che partecipano alla realizzazione di un reato costituisce di per sé la connotazione che, anche da sola, è in grado di modificare la natura stessa del reato e va ad aggiungersi alla varietà di “modi” per perseguire obiettivi criminali. Non mancano nemmeno alcune procedure che, nel tentativo di raggiungere lo stesso obiettivo, si propongono di registrare e categorizzare i delitti partendo dall’analisi degli effetti cagionati. Ma la differenziazione dei singoli eventi e la loro riconduzione a un contesto preciso, non è affidata esclusivamente alla dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i doveri di probità e fedeltà all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus publicum. 157 La criminalità eversiva è, per definizione, di “matrice” politica/ideologica e per la peculiarità del complesso di attività che richiedono l’esecuzione del disegno criminoso, ricade nell’ambito dei reati plurimi e/o associativi. 202 scientificità di un’attività d’analisi e alla schedatura dei fatti attraverso la quale si conviene associare a una posizione data quel dato fenomeno delittuoso, ma ad una serie di tipicità comuni che, ritenute rilevanti, coerenti e concordanti nell’esaltare le peculiarità delle precondizioni e della condotta, assumono il ruolo di indicatori. Si tratta di evidenze sulla base delle quali è possibile individuare i fattori sociali devianti criminogeni utili a ricondurre l’evento criminoso a una categoria. È, al contempo, necessario dare un’interpretazione puntuale al complesso di tutte quelle attività che, anche se in sé non sono propriamente criminali ma criminogene, e che troppo spesso sono generalizzate e banalizzate con l’allocuzione a matrice criminale, possono far discendere e sviluppare condotte gravemente lesive dell’ordine e della sicurezza pubblica. La realizzazione del reato può avvenire ad opera di una persona sola o di più persone. Nel secondo caso si ha quella che i pratici medievali chiamavano societas sceleris e che ora, generalmente denominata compartecipazione al reato o compartecipazione criminosa, è designata dal nostro codice con l’espressione <<concorso di persone nel reato>>. È questa, senza dubbio, una delle materie più spinose del diritto penale. Allorché nel reato si verifica una molteplicità di compartecipi o soci, bisogna anzitutto distinguere due ipotesi. Esistono non pochi reati che per la loro intrinseca natura non possono essere commessi se non da due o più persone, come, ad es., l’incesto, la rissa, la cospirazione politica. In tali situazioni la pluralità di agenti è indispensabile per l’esistenza del reato. […] Nella direttiva della dottrina tradizionale il codice Zanardelli distingueva la compartecipazione in primaria e secondaria, e, quindi, in fisica (o materiale) e psichica (o morale). La compartecipazione primaria nel concorso fisico era denominata <<correità>>; la secondaria <<complicità>>. Al concorso psichico si dava generalmente il nome di 203 <<istigazione>>. Distinguendo i compartecipi primari dai compartecipi secondari, il codice del 1889 stabiliva per gli uni e per gli altri un trattamento penale diverso. […] Il codice attuale ha messo da parte le distinzioni che figuravano nel precedente ed ha adottato in linea generale il criterio di una eguale responsabilità per ogni persona che comunque abbia partecipato al reato, disponendo all’articolo 110 (Pena per coloro che concorrono nel reato) che: “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti. 158 Nel leggere l’interpretazione che dei reati plurisoggettivi fornisce l’Antolisei e l’enunciato della norma del codice, appare evidente che si tratti di un’ipotesi nella quale il Legislatore non intende solo porre l’attenzione sulla centralità del numero delle persone nella compartecipazione alla condotta prevista dalla Legge come reato, ma anche, e di più, sulla concetto di corresponsabilità. Sulla disgiunta e indipendente determinazione da cui discende l’applicazione della pena prevista per il reato commesso “in concorso”. Nella volontà di commettere il crimine non è, dunque, necessario che i correi addivengano ad alcun previo accordo; il Legislatore, infatti, commina ad ognuno di essi la pena prevista dal reato senza che coloro che vi concorrono siano necessariamente uniti in un sodalizio, cioè in una organizzazione strutturata di tipo associativo. Per ognuno di loro si tratta di un percorso criminale autonomo, per il quale non è data per assunta l’esistenza di uno stabile disegno comune.159 158 F. Antolisei, Manuale di Diritto penale, Milano Dott. A. Giuffrè Editore – 2000, pp. 545-547. 159 SU 22.11.00, Sormani, CP 01,2998. 204 12. La criminalità semplice, occasionale e comune Al mero fine di ottenere una consecuzione logica e non certo una graduazione gerarchica delle condotte delittuose, è conveniente partire con la considerazione dell’episodio criminale usualmente definito semplice, occasionale e, ancora, d’impeto. Tale definizione trae la propria origine in ragione dell’unicità ed estemporaneità della motivazione che si pone all’origine della condotta tenuta dal reo. La semplicità e l’occasionalità sono, dunque, qualificazioni proprie di tutti quei delitti “situazionali” che, con poca probabilità, potrebbero essere reiterati. L’azione delittuosa “semplice”, oltre ad indicare un indubbio disagio dell’autore e la scelta del soggetto di porsi al di fuori delle regole del gruppo sociale nel cagionare un evento scellerato, resta connessa al particolare momento in cui il reato è perpetrato. Per quanto riguarda l’ordinazione di delitti di particolare gravità ed efferatezza (ad esempio, l’omicidio), va tenuto conto dei parametri di valutazione giudiziari (il pericolo della reiterazione del reato) e criminologici (la dinamica con cui l’evento è stato portato a compimento) che fanno ricadere le condotte (non professionali o seriali, quindi non dettate da lucro o turba psichica) in un alveo di “eccezionalità” in cui è allocato l’evento stesso. L’omicidio per vendetta o con movente passionale è, ad esempio, il tipo di reato situazionale che denota la sfiducia dell’autore nel sistema punitivo istituzionalizzato e chi vi incorre pretende di vedere riparato il torto subito, erogando egli stesso la “sanzione”. 205 L’autore, di solito, agisce sotto la spinta passionale dell’impeto. Ancorché la gravità del delitto non sia in discussione, il pericolo della reiterazione del reato, però, si affievolisce all’atto della soppressione del soggetto ritenuto responsabile della condizione di malessere e di frustrazione. Altrettanto si può affermare per quanto riguarda l’acquisto (non la cessione e quindi il commercio) di una dose di sostanza stupefacente o psicotropa commercializzazione (che sistematica e ben si dal traffico differenzia di droghe) dalla per un’esigenza terapeutica personale. Un discorso diverso va fatto per quella forma di criminalità conosciuta con l’aggettivazione: comune. Una forma di delinquenza che, non estemporanea, può essere inquadrata nel complesso di un’attività (quindi un complesso di azioni coordinate e protratte nel tempo) continuativa, ma che manca della struttura dell’organizzazione. La criminalità comune è un tipo di devianza che tende a comparire e far emergere il disagio di cui trattano Sutherland e Cohen, ponendosi alla base di una successiva evoluzione criminale del contesto deviante in cui insorgono. Quella di cui parliamo è, forse, la prima e più spontanea forma di “disobbedienza” alle regole sociali che si radica in porzioni di territorio emarginate e autoreferenziali al punto da considerarsi “franche”; sottratte, cioè, ai processi d’integrazione e di vigilanza dove chi vi vive ha già, tacitamente accettato. È appena il caso di richiamare il paragrafo soprastante nel quale più approfonditamente si è trattato del processo di “ghettizzazione” di soggetti a rischio in riserve di disagio ritenute “degradate”. La cosa d’interesse è che queste aree, in realtà, 206 sono già tali prima ancora che le sperimentazioni e le alchimie sulle strategie di popolamento naufraghino miseramente . L’utilità marginale che promana dal dimostrare la validità di talune teorie divenute scelte effettive e la volontà di affermare che non manca “l’impegno collettivo al recupero dei soggetti devianti”, supera la propensione alla devianza stessa (una tendenza che scaturisce dalle problematiche socio economiche che si rivelano, spesso, unico collante di queste comunità di degrado umano). Pur rimanendo lontani da ogni forma di generalizzazione, potremo notare che i residenti di queste aree, solo perché tali, si trovano innanzi un destino segnato, sono “condannati” ad assumere ruoli definiti: ostaggi in mano alla delinquenza, oppure compartecipi monadi di articolate strategie criminali che hanno la finalità di acquisire il dominio sui territori. La particolarità del dato che emerge, in questo caso, è assolutamente interessante, si assiste ad una inversione dei valori socialmente riconosciuti di “giusto-sbagliato” e “legittimo-illegittimo”. Infatti, il comportamento “antisociale” è dato dalla violazione della norma non scritta, ma di fatto generalmente riconosciuta e accettata per “buona”, che asseconda le violazioni della Legge, riconoscendo nell’ottemperanza al potere statuale la potenzialità a “disgregare” il vincolo che lega i partecipanti al gruppo emarginato, al ghetto in cui sono stati costretti. Lontano, quindi, dal riconoscere alle esigenze ed alle finalità legali dei residenti la necessaria dignità ed il diritto alla protezione degli interessi legittimi, “l’ordine costituito” cessa d’essere tale e di imporsi attraverso 207 l’esercizio della confermandosi potestà sordo alla cui sarebbe logica tenuto. scientifica e In realtà esso, mantenendo un atteggiamento assolutamente autoreferenziale, “stalla”. Involvendo su se stesso, lo Stato, abbandona i territori alla perversione di rapporti sociali aberranti più tipici delle comunità primordiali che di aree organizzate da uno Stato. Nel comportamento borderline o criminogeno degli abitanti di questi ghetti, risiede la normalità dell’agire e, in buona sostanza, la quotidianità. La criminalità comune non regola secondo principi ferrei i rapporti tra i consociati, ma, facendo leva sul “comune denominatore”, costituisce l’ispirazione per cui nelle “società criminali di base”, le singole attività divengono spesso una compartecipazione spontanea. Si tratta di una collaborazione di tipo economico (non eminentemente finanziario) che nasce per lo più dalla assuefazione, dalla contiguità, del soggetto al fenomeno criminale che diviene una certezza, la struttura portante sulla quale basare lo sviluppo locale che, va detto, raramente assurge a parte di un disegno “organizzativo”. Ad essa manca, per lo più, il fattore temporale durante il quale viene preordinata “la commissione di più delitti” e la ripartizione dei ruoli determinati per il raggiungimento di un fine condiviso. Tipicità questa dell’associazione a delinquere. 208 13. La criminalità organizzata Il vincolo associativo nella condotta criminale modifica sostanzialmente il genus del sodalizio, riconducendolo alla categoria che include la criminalità organizzata. Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni. Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni. I capi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori. Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie si applica la reclusione da cinque a quindici anni. La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più. Se l’associazione è diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, nonché all’articolo 12, comma 3 bis, del testo unico concernente la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a nove anni nei casi previsti dal secondo comma.160 L’ambiente, le dinamiche e le precondizioni situazionali o sociali che si trovano alla base della così detta “criminalità organizzata”, trovano il fondamento e muovono da ragioni diverse, ma non incompatibili o concettualmente distanti, da quelle che motivano ed armano il crimine non organizzato? Quello che abbiamo indicato come “comune” e disorganico. Nell’analizzare le complesse fasi organizzative ed operative in cui si sostanziano le esternazioni della delinquenza organizzata, potremo accorgerci che gli obiettivi sono perseguiti attraverso l’esecuzione di 160 Art. 416 codice penale italiano. 209 disegni criminali definiti che vengono concepiti, muovono e si sviluppano, attorno ad una motivazione qualificata, quasi fosse uno “scopo ideale” che diviene il fine, individuato con determinatezza, per cui associarsi ed al quale tendere. Il coordinamento strategico (politico e militare) delle operazioni svolte dalla compagine criminale, estrinseca, poi, doti manageriali ragguardevoli per cui ad ogni associato vengono attribuiti un ruolo sociale ed una mission. Questa ripartizione prevede, quindi, l’organizzazione delle risorse umane e logistiche in modo da portare a compimento la strutturazione di una compagine criminale, di un “sodalizio” (come spesso viene chiamato), nel quale gli obiettivi medio tempore e le strategie per raggiungerli, divengono lo “scopo sociale” dell’impresa criminale che è e rimane quindi criminogena. Le associazioni, i clan criminali di questo tipo, hanno come obiettivo quello di creare benessere, cioè di elevare il tenore di vita dei soggetti che le governano e che vi partecipano, preferibilmente aumentando esponenzialmente il proprio condizionamento sul territorio dove risiedono. Questo fine diviene tanto più raggiungibile, quanto aumenta l’acquisizione e la capitalizzazione di liquidità o utilità, mediante le quali alimentare, partecipandovi, i mercati illegali. Le organizzazioni, infatti, operano investimenti, alla guisa di qualsiasi altra impresa, partecipando finanziariamente ai traffici internazionali di armi, di stupefacenti, di esseri umani e di ogni altra merce che –su un qualsiasi mercato– 210 obbedisca alla semplice legge della domanda e dell’offerta e che, quindi, possa essere considerata di facile smercio. La particolarità dell’associazione a delinquere, che meglio esprime le peculiarità della criminalità organizzata, sta nella competenza con cui le scelte economiche vengono compiute. Si pensi a quanta attenzione possa essere posta da un sodalizio criminale nella scelta dei vettori ai quali affidare il proprio commercio. La merce deve preferibilmente essere infiltrata e veicolata seguendo rotte gestite legalmente, delle quali salvaguardare il rigore della gestione al fine di massimizzarne il profitto. La possibilità del perseguimento di utili maggiori derivante dalla caduta degli storici confini che dividevano l’Europa ha innescato un fenomeno spontaneo d’integrazione e di compartecipazione “al delitto” (o, più corretto, ai delitti), tra le maggiori organizzazioni criminali. Anticipando e superando di gran lunga, per slancio ed efficacia, le istituzioni giudiziarie dei singoli stati europei (a cui ne viene affidato il contrasto) che, ancor oggi non hanno completamente armonizzato il proprio Diritto né ottimizzato le risorse umane devolute alla sicurezza, i sodalizi criminali continentali hanno preso ad operare alla guisa dei trafficanti di droga centramericani. Per esempio, i contrabbandieri d’armamenti dell’Est Europa o centrafricani hanno superato ogni sorta d’intolleranza razziale e tra loro non rilevano assolutamente più l’origine o la nazionalità di provenienza del partner. Di fronte all’efficacia dimostrata sul campo dalle strutture internazionali del crimine di matrice interetnica tutto viene relativizzato. Attraverso una stretta cooperazione conosciuta 211 al grande pubblico con il nome di “cartello”, la criminalità organizzata internazionale, pur non assumendo i tratti tipici della “mafia”, impone regole ai mercati non solo illegali. Il profitto che proviene dai “traffici” è denaro contante da “ripulire”. Non tutte le società di comodo in paesi offshore o le finanziarie di copertura riescono a garantire l’insospettabilità delle transazioni e quindi, per giungere al medesimo scopo, la criminalità internazionale ha dovuto divenire lo sponsor occulto (ma nemmeno tanto) di alcuni Stati, istituzionalizzando così il money laundering e ponendosi in grado di condizionare le politiche interne ed internazionali di governi. Alla guida di stati nazionali fragili con economie influenzabili o inesistenti, la penetrazione economica criminale ha fatto sì che nella geopolitica recente queste forme statuali iniziassero ad essere indicate come “stati canaglia”. 14. Le bande criminali etniche Se è importante considerare come nasce la criminalità organizzata e, soprattutto, dove trova il terreno di coltura ideale per radicarsi è utile vedere se vi sono degli indicatori che rivelino l’esistenza delle precondizioni idonee a far sorgere ed evolvere un sedimento umano criminogeno così complesso e strutturato, nonché se siano ravvisabili delle convergenze o dei punti di tangenza, con pregressi percorsi delinquenziali riferibili alla criminalità comune. Nel corso degli ultimi decenni in Italia è emerso un nuovo fenomeno criminale organizzato che non si occupa solo della gestione dei flussi 212 migratori illegali, ma anche della collocazione e dello sfruttamento dei clandestini sul territorio nazionale. La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati, ancorché illegali, ha contribuito significativamente a modificare la componente umana del gruppo sociale. È in questo segmento che, dalla metà degli anni Novanta del 1900, entrano a pieno titolo le bande criminali etniche. L'esperienza investigativa e giudiziaria, maturata soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni novanta, consente di ricostruire le caratteristiche fondamentali delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico degli esseri umani verso il nostro Paese. In questo nuovo mercato criminale, i sodalizi che vi operano si differenziano tra loro in base ad una serie di fattori, tra i quali: le dimensioni, la capacità di agire in uno ovvero contemporaneamente in più territori e in più mercati illeciti, la capacità di utilizzare una o più rotte clandestine e, infine, la capacità di fornire uno o più servizi illeciti specifici. […] se a medio livello Le organizzazioni criminali etniche gestiscono i flussi migratori illegali provenienti dall'Asia (es. Filippine, Cina), dal Sub-continente indiano (es. Bangladesh, Sri Lanka) e dall'Africa. Le persone vengono trasferite da un continente ad un altro non solo in virtù della stipulazione di un contratto illecito di trasporto (immigrazione clandestina), ma anche per essere successivamente sfruttate dal punto di vista sessuale, del lavoro forzato, della bassa manovalanza criminale e dell'accattonaggio (tratta)., ecco che al livello massimo, però […] Le organizzazioni etniche non partecipano né alla fase del trasporto dei clandestini né a quella successiva del loro attraversamento del confine. Dopo averli reclutati, debitamente «istruiti» ed avviati alla partenza del viaggio, gli emissari dei queste organizzazioni riprendono i clandestini nel territorio di destinazione, li consegnano ai parenti ovvero ai loro «padroni», ricevendo in cambio la quantità di denaro pari al prezzo stabilito anticipatamente. Per di più, […] I capi svolgono specifiche azioni, quali: gestiscono i capitali, stabilendo i prezzi e, nella 213 maggior parte dei casi, finanziando i costi del processo migratorio; scelgono i fornitori di determinati servizi illeciti (organizzazioni criminali di medio livello) e con essi stipulano le condizioni contrattuali, operative e finanziarie, di subappalto di tali servizi; stabiliscono accordi di collaborazione con altri sodalizi criminali di alto livello sia per lo scambio di servizi, sia ad esempio, per la compravendita di clandestini; decidono l'avvio di un'azione conflittuale con altri sodalizi criminali di alto livello, nel caso in cui vengano violati i patti stabiliti, come nel caso, per esempio, del furto di un carico di clandestini; relazioni con persone del mondo politico, gestiscono le burocratico, diplomatico, imprenditoriale e finanziario, soprattutto attraverso il compimento di azioni corruttive; […].161 L’affermazione di un gruppo etnico in migrazione su un territorio contribuisce, dunque, alla creazione di realtà aggregate che si fondano principalmente su un collante di tipo nazionale. Queste realtà, però, oltre a creare un virtuoso bacino di rinnovamento in cui gli usi e costumi migrati si coniugano, attraverso l’interazione spontanea e/o indotta, con quelli del gruppo sociale autoctono, favorisce l’insorgere di una “resistenza” (di alcuni tra consociati) tesa ad avversare quanto non comprendono, o non li favorisca, della società civile che li ospita. I gruppi criminali in antagonismo, coesi nell’autoreferenzialità, rifiutano un’idea di legalità lontana da quella in cui sono cresciuti sconfessando le aspettative sulle quali essi fondarono, migrando, la speranza di un futuro migliore. Serbi, bosniaci, bulgari, romeni, moldovi, albanesi e, in particolar modo i cinesi, tendono strenuamente a far sopravvivere nelle terre d’adozione quei principi che regolano la loro vita negli stati dai quali provengono. 161 Camera dei Deputati, Doc. XXIII n.49, Roma, 2000. 214 L’integrazione non nasce spontaneamente a seguito della mera accoglienza del popolo migrante, ma è un processo graduale; un percorso assistito che vede, nella condivisione dei principi ispiratori che regolano i rapporti umani all’interno del gruppo sociale ricevente, il vettore sul quale far scorrere i primi segnali, le prime funi alle quali assicurare, per il futuro, quel patrimonio sociale ed economico da preservare e implementare, con politiche di cooperazione transfrontaliere. Va specificato cosa, oggi, debba intendersi per frontiera. In contrapposizione al vecchio concetto di confine, sono frontiere tutti quei territori di convivenza e commistione sui quali interagiscono le diverse comunità nazionali che s’incontrano. Non è assolutamente improbabile, dunque, che, come sostiene la Scuola di Chicago, anche alla base della spinta aggregativa che unisce le bande in base all’etnia di provenienza, vi sia una condizione di emarginazione. Ma, di più, è necessario comprendere se e in che modo, queste siano la circoscritta manifestazione del problema locale o se possano essere in grado di operare su un piano internazionale. Il fatto che la matrice etnica sia una garanzia di costante relazione e interazione tra gli affiliati e la madre patria, fornisce una risposta implicita, ma non per questo scontata. Non è raro che l’internazionalizzazione delle azioni delittuose si osservi comunità omologhe ospiti in paesi stranieri. È questo il caso della stretta collaborazione che è emersa dalle indagini della Questura di Prato del 2008 che ha accertato l’esistenza di una stretta e consolidata 215 collaborazione tra i gruppi di criminalità cinese italiani e quelli francesi. L’uso di “scambiarsi favori” si sostanzia nello scambio di prostitute da destinare alle sale massaggio 162 , col favoreggiamento personale in favore di ricercati o latitanti, nell’estorsione di danaro in danno di connazionali debitori, fino a giungere alla rapina o, ancora, all’omicidio su commissione.163 In altri casi, invece, l’internazionalizzazione dell’impresa criminale avviene proprio con riferimento a strutture consorelle che operano nella madre patria e con le quali l’intesa e la fiducia, si sviluppano in base al medesimo luogo di origine. Alla conoscenza e conoscibilità diretta di familiari –che spesso si trovano inconsapevolmente a fare da garanti/ostaggi per la buona riuscita degli affari- si aggiunge lo spirito cameratesco che inevitabilmente nasce tra i paesani.164 La conoscenza dell’una e dell’altra realtà (quella di provenienza e quella d’origine) da parte degli appartenenti al sodalizio criminale, nonché i forti legami consortili e familiari che stanno alla base delle relazioni sociali sono un collante importantissimo e divengono il centro nodale attorno al quale si sviluppano i traffici criminali e le conseguenti sinergie economiche. A titolo d’esempio si può citare il traffico internazionale di esseri umani organizzato e gestito dalla Triade cinese e al modo, sempre rispondente al “modello cinese”, che hanno dimostrato di avere le Tong 162 Migration, Prostitution and Human Trafficking, the voice of Chinese Women, Min Liu, Criminology Asian Studies Sociology. Ed.: Transaction Publishers, New Brunswick (U.S.A.) and London (UK) – 2011. 163 Stralcio dell’intervista al Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato dott. Francesco Nannucci, Dirigente la Squadra Mobile di Prato. Appendice 1, intervista n.4. 164 I.M.D., Dragoni e lupare, Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra leggenda e realtà - I.M.D. Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2011. 216 per penetrare e sostituirsi alle economie implose degli stati occidentali “colonizzati dal sistema Cina”. Un fenomeno di cui si sa sempre troppo poco e che non dà risposte, ma suscita interrogativi di sempre maggiore respiro. […] Ad esempio, lì, nella zona del Macrolotto uno dei problemi per le indagini che ne abbiamo fatte molte e ce ne abbiamo anche in corso sono le rapine nelle aziende cinesi. Cioè, di notte, entrano queste bande, anche abbastanza violente, picchiano legano e portano via tutto quello che trovano; telefoni, computer e denaro contante che ce n’è sempre tanto. E molti non denunciano perché hanno tanto denaro contante a nero e non vogliono, quindi, far apparire. Molti non denunciano inizialmente, ma ora non l’ho più riscontrato, anche per sfiducia; cioè noi avevamo avuto un periodo in cui tanti cinesi ci venivano a dire: “No, ma io non denuncio perché intanto, poi, non ho fiducia nella giustizia italiana e questi vengono scarcerati e non gli fate niente”. E noi dobbiamo spiegargli che la ratio della denuncia non doveva essere solo questa, ma situazioni più complesse e articolate, però non è facile perché loro preferiscono rivolgersi alle loro Associazioni. Noi abbiamo quattro, cinque Associazioni forti qua a Prato che sono associazioni tipo: Associazione del Fujiang, perché sono i cinesi che vengono dal Fujiang; Associazione Amici dello Zhejiang, quelli che vengono dallo Zhejiang; Associazione dell’Amicizia che riassume le esigenze di più gruppi e diversi; poi abbiamo l’Associazione Buddista, che ha una parvenza più religiosa, ma anche lì trattano di tutto, cioè preferiscono avere una “giustizia” dalle loro associazioni che da noi. Molto spesso. D.: Hanno dei legulei, degli jurisdicenti…? R.: Esatto, esatto… Hanno queste “figure” che fanno un po’ da mediatori, pacieri e persone che danno e dettano legge fra di loro. Fanno una giustizia spicciola, diretta sul buon senso più che sull’applicazione di norme o cose varie. Oppure, abbiamo anche delle intercettazioni di qualche indagine, dove parlano proprio di un problema sorto fra due gruppi rivali che si sono affrontati e il 217 figlio di una persona cinese molto importante a Prato ha subito delle lesioni brutte e allora dice “Ma che facciamo?”; no rivolgiamoci a lui, si rivolgono a questo Capo dell’Associazione che chiama questi dell’altra parte, fanno una trattativa, pagano dei soldi e tutto torna apposto e problemi non ce n’è più stati. Quindi, una situazione dove a fronte di, mi ricordo di questo ragazzo che fu preso a sprangate, insomma, quindi una cosa abbastanza violenta, poi tutto risolto e fra i due gruppi non c’è stato più problemi di scontri né niente; quindi, quello che ha detto lui, ha avuto una forza probabilmente più pregnante di un giudice italiano. Però, comunque, le questioni tendono molto a risolverle in questo senso. D.: C’è un’effettività della sentenza? R.: c’è una concretezza, si, sicuramente della sanzione più forte della nostra. Mi dispiace dirlo, però a volte… D.: Che ci dispiaccia dirlo, si, però… R.: Ma non solo per i cittadini cinesi per tutti vale…insomma, da noi…[…]. 165 La criminalità organizzata cinese non è riconducibile alla semplice e istintiva propensione a replicare usi e costumi di una terra lontana (che in Italia si rivelano sicuramente criminali, propri di quella delinquenza “disorganizzata” di cui si è trattato precedentemente), ma agisce all’interno di una programmazione e di un disegno strategico preordinato anche all’interno delle comunità di nuovo insediamento. […] Per ora noi stiamo alla finestra, controlliamo e cerchiamo di capire cosa hanno intenzione di fare e abbiamo fatto immediatamente capire che non devono e non possono operare con loro regole o loro idee; ci sono delle norme ben precise e le devono rispettare anche perché qua loro sono molto giustizialisti. Tendono molto a farsi una giustizia loro, spicciola, diretta anche pericolosa, come attività, insomma, riscontriamo tutti i giorni che, 165 Stralcio intervista al dottor Francesco Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Appendice 1, intervista n.4. 218 giusto per rientrare anche un po’ in quella che era il suo quesito, delitti dove ci sono cinesi vittime ce n’è tantissimi. Sono anche denunciati, si si, molti sono anche denunciati. Non tutti, ma tanti sono anche denunciati, io in nove anni quasi che sto qua ho notato molto questo cambiamento, cioè sono arrivato nella situazione in cui non veniva denunciato niente a una situazione dive, man mano, viene il rapporto e la fiducia nelle Istituzioni è maggiore quindi si denunciano. Credo che si arrivi a denunciare forse il 50% di quello che succede, ma comunque a fronte di quasi zero iniziale arrivare ora al 50% è già un “risultato” […]. 166 Un altro esempio differente, per alcuni versi in controtendenza rispetto all’esperienza cinese, proviene dalle storie criminali delle bande dei paramilitari dell’ex Jugoslavia. Con il loro operato e principalmente con la gestione del traffico di armi e di droga da e per, la ex Jugoslavia, sono state in grado non solo di avere un ruolo centrale nella storia criminale di Stati contermini, ma, attraverso il potere economico finanziario acquisito con le attività delittuose, di finanziare, di sponsorizzare, l’esponente della compagine politica –del clan- più favorevole ai propri obiettivi finali sino a ripensare se stessi elevando il proprio rango penetrando la politica, condizionando i governi e sino ad assicurarsi il potere di incidere direttamente, sulla politica dell’intera area balcanica e mediterranea in generale. In tale processo, […] Ovviamente esistono delle differenze sostanziali fra situazioni in cui una certa misura di attività illecite è tollerata, e situazioni in cui attori criminali arrivano alla “cattura” delle istituzioni pubbliche. La differenza è esprimibile in termini di autonomia dello stato e del proprio apparato rispetto 166 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011. Appendice 1, intervista n.3. 219 all’espandersi di interessi criminali, o comunque di pratiche extralegali. La compresenza <<stato debole>> e <<proibizione>> è una mistura che nutre le dinamiche di collasso e facilita la cattura da parte del crimine organizzato. Si apre così un’ulteriore fase, che si potrebbe definire trasformativa o di emersione. Essa riguarda il passaggio degli attori criminali alla piena legalità e alla legittimità domestica e internazionale. Dunque, si tratta tanto di ripulire i bassi fondi, diventati impresentabili, di eliminare le prove, di adottare il giusto protocollo comunicativo, di rimpiazzare gli occhiali da sole con occhiali da vista dotati di montature d’oro leggere, di passare dai fuoristrada blindati scortati da auto civetta alle mercedes blu di stato scortate da compagnie di sicurezza privata, il più delle volte internazionali.167 In Italia, sono sempre più evidenti alcune delle interconnessioni che stigmatizzano sia il sinallagma che la complementarità, degli interessi tra la vis criminale e la politica. Un’alleanza, questa, finalizzata ad aumentare il controllo sociale. Nel ventennio che va dagli anni ’70 agli anni ’90 dello scorso secolo, e bene lo evidenzia Paul Ginsborg, v’è ormai più che qualche fondato indizio che fa supporre come lo Stato si sia servito del nemico per sopravvivere a se stesso. Di come organizzazioni criminali di primo livello, quali la banda della Magliana, l’anonima sequestri sarda e le compagini terroristiche posano essere state uno strumento di destabilizzazione interna funzionale, paradossalmente, a corroborare il potere. L’asse portante di un percorso che, secondo chi lo aveva preordinato, sarebbe dovuto sfociare nell’affermazione del potere forte al quale affidare il compito di riportare, attraverso la compressione dei diritti e delle libertà, l’ordine in un Paese in cui la struttura democratica 167 Francesco Strazzari, Notte Balcanica. Guerre, crimine, stati falliti alle soglie dell’Europa, Ed.: Il Mulino – Bologna 2008. 220 poteva essere ritenuta in serio pericolo; un baratro effettivo costituito dall’incombenza di una crisi economica dissimulata dall’avvento del consumismo e dei suoi strumenti finanziari. Alla domanda posta all’inizio del paragrafo e, cioè, se vi è la possibilità che la delinquenza comune condivida con la criminalità organizzata un minimo comune denominatore e se la criminalità comune oltre che essere strumentale e gregaria a essa, possa compiere il salto qualitativo per divenire, a sua volta, un sodalizio organizzato, appare acclarato che la risposta sia positiva. La trasformazione, di fatto, dipende dal momento storico, dalla complessità delle frizioni sociali e dal frame time in cui intende completare il perseguimento degli obiettivi che si è data ma, e soprattutto, da quanto interesse vi sia a che questa compia tale balzo. Le precondizioni e gli indicatori coheniani che rivelano l’attitudine del delinquente comune, spesso isolato o solo gregario nel sodalizio organizzato, a coalizzarsi e a evolvere, sono comunemente rinvenibili nella storia del delinquente di grosso calibro. A monte della maggior parte dei percorsi criminali si trovano, quasi a fattor comune, storie di frustrazione, di degrado culturale ed economico, il senso di emarginazione e di ghettizzazione nel quale vive chi muove i propri passi nelle sub urbia e che muove gli abitanti di queste verso il riscatto sociale. Un affrancamento inteso, troppo spesso e unicamente, come un arricchimento che gli consenta di imporsi all’attenzione del proprio gruppo sociale e divenire “temuto” quindi rispettato. 221 Questo desiderio di “miglioramento” passa, con una rarissima possibilità di perseguire tali obiettivi emeriti in condizioni di legalità attraverso la via più breve che conduce al delitto: all’apprensione indiscriminata della cosa che possa servire a dimostrare l’affrancamento dell’individuo dalla miseria dalla quale proviene. Se tale condotta è fruttuosa, ancorché degenere, e viene, al contempo supportata dall’attitudine e da doti manageriali, ecco che il soggetto criminale si rivela intelligente e, avvalendosi spesso di un naturale carisma che gli promana dalla scaltrezza e dall’abilità a rimanere impunito, organizza, indirizza, e monopolizza le attività dei singoli delinquenti “indipendenti”, strutturandole di modo da attuare il più elementare dei principi economici: accrescere il rendimento minimizzando i rischi. E’ così, quindi, che il gruppo criminale spontaneo, composto da “monadi occasionalmente cooperanti”, diviene un sodalizio alle dipendenze di un leader che, se si dimostra in grado di gestire non solo le attività criminali strictu sensu, ma anche le relazioni politiche con il potere che regola la vita nell’universo criminale metropolitano e può condurlo a livelli di pericolosità sociale e di turbativa dell’ordine pubblico ragguardevoli ancorché diventi egli stesso “strumento del potere”. Due esempi, uno legato all’evoluzione di un gruppo criminale semplice italiano e l’altro etnico, aiuteranno a dare concretezza a quanto detto sin qui circa la genesi e la trasformazione della criminalità semplice in criminalità organizzata. 222 L’esperienza investigativa della Procura della Repubblica di Venezia, negli anni Novanta dello scorso secolo, ha identificato prima e sconfitto poi, quel fenomeno criminale ricco di connessioni e contiguità con il potere politico e con le mafie nazionali, nonché internazionali, che lo facevano apparire invincibile: la così detta mala del Brenta. L’excursus criminale di Felice Maniero, che all’inizio degli anni Ottanta era da considerarsi un delinquente comune dedito quasi esclusivamente alla commissione di reati contro il patrimonio e a qualche piccola rapina o estorsione, pone in evidenza come egli inizi a intrattenere e gestire relazioni politiche con altri delinquenti del territorio e come si affermi su questi attraverso l’esercizio di un’azione criminosa sempre più ardita, allargando, progressivamente, la propria influenza sulla zona limitrofa a quella di sua residenza, il così detto piovese.168 In quegli anni, però, le provincie di Padova e di Venezia, con particolare riferimento alla zona della Riviera del Brenta, vengono scelte dalle istituzioni come zona dove inviare al soggiorno con obbligo di dimora, ex Legge 27 dicembre 1956 n.1423169, i personaggi di spicco dei clan mafiosi calabresi e siciliani. La delinquenza locale, quella della quale Maniero 170 era esponente, riesce a intessere con essi le relazioni necessarie ad acquisire il knowhow indispensabile a compiere un ‘salto di qualità’ affermandosi quindi sul sugli altri sodalizi criminali del territorio. L’organizzazione criminale veneta intesse, altresì, relazioni influenti nell’ex Jugoslavia divenendo contigua (o strumentale) agli 168 Piove di Sacco – cittadina posta sulla riviera del fiume Brenta sotto la provincia di Padova. 169 Legge 27 dicembre 1956, n. 1423 - Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità. 170 ‘Felicetto’ era il soprannome con il quale era chiamato. 223 interessi dei più eminenti sodalizi criminali balcanici e mafiosi italiani consentendo ai clan Santapaola e Fidanzati di rafforzarsi ulteriormente in nuove zone d’espansione. La strategia operativa attuata da Felice Maniero consente al suo clan di imporsi sul mercato internazionale delle armi e della droga come un interlocutore autonomo e indipendente giovandosi di appoggi politici e interagendo alla pari e senza preclusioni ideologiche tanto con ex brigatisti rossi che con eversori di estrema destra. Egli intimida, manipola e domina legandosi ai servizi segreti delle parti in guerra nei Balcani assicurando a sé e al proprio ‘stato maggiore’ oltre a lauti guadagni immediati, la fruibilità di eventuali territori dove vivere (all’occorrenza) una latitanza. I legami fra nazionalismo armato e criminalità organizzata italiana sono ben documentati: gli emissari di Cosa Nostra si sentivano al sicuro lungo le coste dalmate. Giambattista Licata –uno dei massimi esponenti del clan siciliano dei Fidanzati e della mafia del brenta, radicata nell’Italia del Nord- aveva il suo quartier generale vicino a Rijeka/Fiume: disponeva di passaporto croato e operava in connessione con noti esponenti dell’estrema destra italiana. Intercettando Licata, gli investigatori veneziani smantellarono un canale illegale di approvvigionamento di armi del valore stimato di circa 50 milioni di dollari. Le armi erano state spedite via nave da Israele ai porti croati.171 La “mala del Brenta” fu, dunque, un esempio di come la criminalità semplice abbia potuto trasformare la propria struttura in una tra le espressioni di maggior rilievo del crimine organizzato italiano. Servendosi di metodi propri dei clan mafiosi per svolgere le proprie 171 F. Strazzari, Notte Balcanica. Guerre, crimine, stati falliti alle soglie dell’Europa, Ed.: Il Mulino – Bologna 2008. 224 attività delittuose, divenne a sua volta mafia senza che, però, nessuno potesse coglierne le peculiarità connotanti in itinere e contestare, in sede processuale, il reato associativo di cui all’art. 416bis. Un fenomeno analogo può essere rinvenuto anche tra le organizzazioni criminali straniere presenti in Italia. La c.d. mafia cinese, infatti, particolarmente strutturata e radicata su aree geografiche, sta trasformando i territori d’insediamento dei gruppi migranti, in avamposti, in basi operative dalle quali poter muovere i passi per una penetrazione criminale. Il trafficking e lo smuggling sono, ancora oggi, attività delittuose tipiche e maggiormente riconducibili alle organizzazioni criminali etniche, in particolar modo a quelle cinesi. Alla commissione di tali reati sono connessi altri delitti che possono essere definiti funzionali: la falsificazione di documenti, i sequestri di persona in danno delle persone trafficate e le estorsioni nei confronti dei parenti o dei committenti che hanno richiesto l’introduzione del clandestino. Il radicamento sul territorio delle Tong ha portato, poi, le organizzazioni malavitose etniche ad attivare dei servizi legati alla tradizione che nei territori ospiti assumono la veste di fenomeni squisitamente criminali. Organizzando il gioco d’azzardo e la prostituzione su canali diversificati a seconda se questi siano diretti a sopperire alle esigenze dei propri connazionali o a quelle del mercato degli stranieri, le logge triadiche si sono assunte l’impegno di garantire al migrante una continuità -anche nelle attività di svago- con il paese d’origine. Al contrario della mala del Brenta, le organizzazioni criminali cinesi evitano con ogni mezzo di 225 emergere dall’anonimato in cui consumano i delitti che, almeno sino a oggi, sono perpetrati all’interno e solo in danno degli appartenenti al gruppo etnico. La criminalità cinese è strutturata su più livelli: le bande giovanili, le organizzazioni criminali e le Triadi (formata in modo complesso e con la caratteristica di infiltrarsi in altre organizzazioni). Capasso le descrive in modo dettagliato: “Esistono i Draghi senza testa e senza coda che rappresentano i giovani, di solito minorenni particolarmente feroci, specializzati in omicidi, sequestri, estorsioni e inviati a commetterli anche in luoghi diversi dal territorio di appartenenza. Poi ci sono i Draghi con la testa e con la coda, termine che definisce le organizzazioni criminali. […] È necessario sapere che la caratteristica di queste associazioni è il guanxi, termine che indica la rete di rapporti che i cinesi stringono tra loro o per vincoli familiari o perché legati da interessi economici comuni. Queste associazioni, dislocate soprattutto nell’Italia dividendosi i centrale e settentrionale, compiti, per esempio è stata si alleano scoperta un’organizzazione il cui unico incarico era quello di nascondere i cadaveri, o si contrastano dando vita a guerre tra clan per contendersi il predominio su un territorio. 172 Non ci sono guerre o faide che si consumino in modo plateale coinvolgendo la comunità autoctona e ciò per non attrarre l’attenzione delle istituzioni ponendo così a rischio la segretezza dell’organizzazione criminale d’appartenenza. Quando, e se, ciò accade è perché le contingenze l’hanno reso inevitabile. Una caratteristica delle organizzazioni illegali cinesi emersa in modo evidente dalle diverse inchieste condotte in Italia è che cercano di rimanere il più possibile celate, evitando di compiere azioni eclatanti nei confronti degli autoctoni. L’attività criminale è 172 In, Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso, Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu, pp.2,3. 226 circoscritta all’interno delle loro comunità. L’attività criminale è 173 circoscritta all’interno delle loro comunità. La tipologia di reati in cui maggiormente si distingue e che sorregge la comunità cinese in Italia resta contenuta nell’ambito squisitamente economico finanziario. La contraffazione di marchi legati a beni di largo consumo e l’evasione fiscale costituiscono l’ossatura delle attività illecite e allo stesso tempo pongono in connessione la criminalità cinese con il tessuto sociale ospite. L’operazione Cian Liu, che significa “fiume di denaro”, vide coinvolte otto regioni (Toscana, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Campania, Sicilia), con più di cento indagati, ventiquattro arresti tra cittadini italiani e cinesi, e soprattutto il sequestro di settantatré aziende, centottantuno beni immobili, centosessantasei macchine di lusso e una quantità enorme di denaro: quasi tre miliardi di euro che tra il 2006 e il 2009 lasciarono illecitamente l’Italia per ingrassare ‘oscure casse cinesi’174.175 L’esempio descrive un’associazione per delinquere che, come vedremo, ha intessuto alleanze tanto salde da contribuire a consolidare il muro di omertà che protegge la struttura loggistica delle attività d’impresa cinesi all’estero e nella quale si rinvengono i presupposti, le caratteristiche e le finalità riassunti nel testo dell’art. 416 bis del c.p. L’accusa formulata dal sostituto procuratore della repubblica di Firenze Pietro Suchan, esperto e già impegnato altre volte in indagini sulle organizzazioni criminali cinesi (come 173 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2011, p.159. 174 Oscure casse cinesi: Riccardo Stagliano articolo nel Venerdì di Repubblica del 6 agosto 2010. 175 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2011, p.157. 227 nell’operazione “Gladioli rossi”), fu chiara: associazione per 176 delinquere di stampo mafioso […]. L’assenza di una approfondita conoscenza della realtà sociale e delle strutture interne al fenomeno associazionistico cinese nella sua connotazione reale, che richiama l’atavica tradizione delle società segrete – si veda il capitolo , pose le basi per una reinterpretazione originale da parte del giudice per le indagini preliminari che, pur mantenendo il capo d’imputazione ai massimi livelli di attenzione per l’allarme sociale suscitato dai delitti commessi dagli appartenenti al sodalizio criminale, derubricò l’ascrizione in […] associazione per delinquere semplice, finalizzata però alla commissione di gravissimi reati come il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite quali il traffico di clandestini, la contraffazione [di marchi] e l’evasione fiscale.177 L’importanza del fenomeno in ambito nazionale ha fatto sì che gli organi di governo, sulla scorta delle numerose risultanze d’indagine e giudiziarie, abbiano mutato l’approccio nei confronti delle connessioni esistenti tra le attività economiche e i gli interessi criminali etnici, infatti Le analisi avviate dalla Commissione antimafia sui dati raccolti dalle varie forze dell’ordine hanno delineato alcune caratteristiche di queste organizzazioni: sono in grado di diversificare le loro attività illecite, godono dell’appoggio della comunità autoctona, dispongono di ingenti capitali , restano defilate per non attirare l’attenzione delle forze di polizia e si accreditano socialmente attraverso le vie lecite (Associazioni culturali), oltre che illecite. Da queste analisi risulta che i criminali 176 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2011, p.157. 177 Ibidem, pp.157-158. 228 cinesi utilizzano sistemi non convenzionali per il trasferimento di fondi all’estero; concentrano competenze e funzioni, anche di tipo economico, nelle zone d’origine; investono nelle aree economiche più remunerative (per esempio, la zona vesuviana consente loro di avere un florido mercato tessile, di livello mediobasso, che è controllato dalla camorra e caratterizzato da una fortissima domanda); non disdegnano l’uso della violenza e dell’intimidazione se ritenute necessarie.178 Genera perplessità, nonostante quanto acclarato, la tendenza da parte di referenti istituzionali, nonché dell’associazionismo cinese in Italia, a relativizzare e a circoscrivere all’ambito dell’episodicità un sistema economico e di condurre gli affari che è stato dimostrato essere il fondamento e la solidità della base economica delle imprese cinesi in Italia: La signora Liu ZhiYuan, esponente dell’Associna, sostiene che una cosa è parlare di affari illeciti, un’altra di triadi e di mafia cinese. […] le persone coinvolte nell’operazione “Cian Liu” hanno sicuramente utilizzato un metodo illegale e finanziariamente criminale per gestire il proprio giro d’affari, ma non li si può certo paragonare a dei Totò Riina d’Oriente. A suo dire, se alcuni cinesi in Italia si comportano da malviventi non sono quelli che provengono dallo Zhejiang, ma gli immigrati del Fujian e del sud della Cina, alcuni dei quali non rispettano il rigido controllo delle famiglie già insediate.179 La difesa maldestra, quella della signora Liu ZhiYuoan, pone in risalto, invece, l’atavismo culturale di alcune pratiche che presuppongono il controllo, il vincolo e la gerarchizzazione delle relazioni nei rapporti dei gruppi familiari (come visto nel capitolo IV, paragrafo La famiglia e le 178 I.M.D., Dragoni e lupare. Immigrazione e criminalità cinese in Italia tra realtà e leggenda, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2011, pp.159,160. 179 Ibidem, p.158. 229 associazioni parentali): il guanxi. Il razzismo infra nazionale, poi, nemmeno viene dissimulato nella dicotomia: han e non han. 15. La criminalità mafiosa Quando si parla di mafia o si affronta, in generale, il tema della criminalità, così detta di stampo mafioso, non è difficile che si ricorra a delle immagini stereotipate. La mafia, la Cosa Nostra, con la sua struttura sospesa tra l’arcaico e il postmoderno è il soggetto di riferimento. Una compagine criminale che agendo sotto la spinta del profitto attrae nelle proprie logiche tutto quanto possa consentirle di acquisire potere: la vera finalità, il reale tesoro, di cui si nutre per sopravvivere e, spesso sostituendosi ad esso, vincere sullo Stato. Il mafioso, nell’iconografia classica è rappresentato da un individuo “lombrosiano” con la lupara in spalla e la coppola in testa, che si interpone tra la Legge e i diritti attraverso l’affermazione della forza bruta quale strumento di controllo del territorio. La mafia che per un lungo tempo le cronache hanno insegnato a conoscere è stata solo questo: l’affermazione della forza in dispregio del diritto. Un’organizzazione di etimologia rurale, verticistica e brutale, in grado di condizionare ogni aspetto della vita, anche nelle città. Ma ciò fino a quando, nei primi decenni del secolo scorso, attraverso una escalation di tipo sociale ed economico, non si è sostituita alle istituzioni diventando, così, la coprotagonista della vita politica dello Sato. Si può sorridere all’idea di un criminale, dal volto duro come la pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano un’immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i 230 deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorridere, come di un cerimoniale arcaico, o considerarla una vera e propria pressa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio, che impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi.180 Consapevoli e dominati da tale, inquietante, definizione di cosa significhi essere un mafioso, non è difficile comprendere che la criminalità mafiosa ha incidenze sempre più importanti sia in ambito metropolitano che internazionale e la sua azione criminale può essere ricondotta al concetto operativo della criminalità organizzata in senso proprio. La mafia incide sulla vita criminale metropolitana e condiziona la quotidianità dei consociati. La strategia mafiosa, seppur esuli dalle logiche operative dei sodalizi riconducibili alla criminalità organizzata, li gestisce al pari di ogni altro aspetto della polis. Essa, infatti, ha dimostrato che la sua forza fondante risiede nell’attitudine a penetrare e occupare i gangli vitali delle attività socio politiche ed economiche in ottemperanza a una logica di “illegalità condizionata”. Lo scopo rimane quello di sottrarre alle istituzioni alcune aree di territorio sulle quali la “Cosa Nostra” diviene essa stessa istituzione. A tal proposito è utile richiamare l’art. 416 ter del codice penale che affronta il tema del condizionamento dello strumento democratico elettorale che attraverso il “voto di scambio”, il sodalizio è in grado di gestire. 180 Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra - Edizioni Rizzoli, Milano 1991. 231 L’Articolo 416 bis del codice penale così recita: (omissis) L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. (omissis) Leggendo il testo estrapolato dall’art. 416 bis c.p., risulta agevole individuare e comprendere le diversità che insistono tra i due tipi di associazionismo criminale: quello organizzato e quello mafioso. Nella criminalità organizzata non mafiosa, le strutture operative hanno un impianto legato alla mera dominazione dei fatti criminali e tendono alla gestione degli stessi in accordo con altre strutture affini sino a ritagliarsi delle frange di potere “militare” condizionato e subordinato all’immediata acquisizione di un potere economico in grado di sopperire alle esigenze del gruppo stesso ed eventualmente deputato a incrementare ricchezza investibile per l’ampliamento e l’accrescimento del potere malavitoso stesso. Un investimento d’impresa propriamente detto. La Cosa Nostra, come si ricordava poco sopra, aggredisce lo Stato interponendosi essa stessa come soggetto di garanzia e punto di riferimento per la tutela dei bisogni dei cittadini. Delegittimando lo Stato, condiziona le Istituzioni al punto da far coincidere gli interessi di queste con quelli criminali. La mafia, con metodologie varie che vanno dall’intimidazione, alla concussione, alla promessa, sempre mantenuta, di utilità di ogni tipo è 232 sempre più in grado di condizionare il territorio che assoggetta alla logica di una legalità alternativa. Riconoscendo l’impossibilità a sottrarsi all’indefettibilità e all’efficacia del potere mafioso, ecco che interi gruppi sociali scelgono di essergli contigui, contribuendo, così, a legittimarne l’esistenza e facendola divenire l’espressione della volontà democratica della popolazione di un territorio. Le “Agenzie di controllo sociale”181 (polizia e magistratura), nonché le cronache giudiziarie che da esse assumono le informazioni dalle quali trarre le notizie, hanno preso a parlare, con sempre maggior frequenza, di mafie internazionali, riferendosi, però, con tale allocuzione, a fenomeni più propriamente riconducibili al, non meno grave, crimine organizzato. La criminologia moderna pone un freno in tale direzione e, per quanto riguarda le mafie internazionali, tenendosi lontana dalla parola “mafia” (per le implicazioni sociologiche dalle quali questo termine non può prescindere), fa, piuttosto, riferimento a due modelli criminali definiti: il crimine organizzato transnazionale e il crimine organizzato internazionale. La criminalità organizzata transnazionale si connota per la ricerca d’interazione con sodalizi consimili in terra straniera. Il fine è di rendere sempre più efficaci i traffici illegali ottimizzando logistica e risorse, e di sfruttare al meglio le discrasie che esistono tra i sistemi normativi in vigore negli stati coinvolti dalle attività delittuose. 181 Si veda Gabrio Forti; Roberto Redaelli, La rappresentazione televisiva del crimine: la ricerca criminologica in atti del convegno “La televisione del crimine”, Edizioni V&P Università, Milano, 2005. 233 Per quanto attiene, invece, la criminalità organizzata internazionale, essa si connota sulla base dell’articolazione e della collocazione che il sodalizio criminale riesce a effettuare negli Stati dove opera e diversi da quello di origine. Un esempio in tal senso lo fornisce la Triade. Essa, pur mantenendo la sua “testa” in Cina, si colloca, attraverso la fondazione di proprie logge, ovunque vi sia un interesse a che queste operino solidalmente per i fini collettivi del sodalizio. Dagli studi sul fenomeno effettuati dal Ministero degli Interni e scaturiti a seguito delle risultanze d’indagine compiute in questo ambito, emerge che le organizzazioni criminali non italiane agiscono sul territorio secondo due diritture ben definite: da un lato risentendo dell’influenza criminale del paese d’origine e mantenendo inalterate le regole che le contraddistinguono -la criminalità cinese ne è un esempio- e, dall’altro, come hanno fatto la criminalità organizzata serba e albanese, intessendo relazioni e coniugando i propri interessi con organizzazioni criminali storiche italiane, quali: la ‘ndrangheta, la sacra corona, la camorra e la Cosa Nostra (si veda pag.210).182 Nei rapporti dell’Antimafia che analizzano tali peculiari atteggiamenti criminali, si legge, infatti, che dal punto di vista operativo i due diversi modi di atteggiarsi, vengono ricondotti alle categorie di “aperto-chiuso”. Si parla di gruppi criminali aperti quando questi interagiscono con quelli del territorio ospitante: si pensi alla criminalità organizzata magrebina, a quella russa e romena che, proprio in virtù di una minore chiusura, si 182 Per sopperire a tale nuovo assetto e colmare le lacune anche lessicali, la “Commissione bilaterale d’inchiesta sul fenomeno mafioso” durante la XVI legislatura ha mutato la propria denominazione in Commissione bilaterale di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre organizzazioni criminali, anche straniere. 234 rendono permeabili anche alle attività di contrasto delle istituzioni perdendo, in qualche modo, pericolosità sociale. Si parla, invece, di organizzazioni criminali chiuse laddove le manifestazioni criminali –di altissima pericolosità sociale- tendono a rimanere circoscritte e a consumarsi all’interno di un ambito etnico. Ad esempio le estorsioni, i sequestri di persona e gli omicidi che si consumino “nell’intimità” di una Chinatown (quindi coperti dall’omertà, dall’impermeabilità, della comunità etnocentrica-autoreferenziale), non emergono se non quando la platealità del fatto di reato non può essere nascosta perché avviene sotto gli occhi degli stranieri. Sebbene gli organi d’informazioni abusino di terminologie giudiziarie evocanti la mafiosità di organizzazioni criminali straniere (mafia cinese, mafia russa, mafia rumena, mafia bulgara) a livello di Terzo Grado di Giudizio è ancora nullo il dato che definisce questi sodalizi: tecnicamente mafiosi. Le sentenze definitive –unici indicatori affidabili non si sono ancora espresse in tal senso, stigmatizzando la mafiosità delle organizzazioni criminali straniere in ordine al dettato dell’art. 416 bis del codice penale. È da ritenersi, tuttavia, un indicatore significativo che la “Commissione bilaterale d’inchiesta sul fenomeno mafioso”, durante la XVI legislatura, abbia mutato, ampliandola, la propria denominazione in Commissione bilaterale di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre organizzazioni criminali, anche straniere. L’aggiunta della dicitura “anche straniere” è, di fatto, la presa d’atto che il crimine, così come le sue metodologie attuative, ricada ormai a pieno titolo all’interno dei 235 fenomeni globali e globalizzanti, tanto da renderne indispensabile la trattazione in sede di Commissione Antimafia. 16. Matrice politica e ideologica: la criminalità sovversiva La criminalità politica sovversiva, o eversiva come viene usualmente e convenzionalmente indicato quel novero di attività delittuose supportate da un movente ideologico, ha come scopo finale quello di modificare, o addirittura sovvertire attraverso l’uso della violenza, l’assetto di un ordinamento economico e statuale. La sovversione, per la tipologia dei delitti commessi nel concretarne il disegno finale e per la peculiarità degli attori nei reati connessi, raccoglie attorno a sé una particolare branca della criminalità che, per la sua insospettabilità, offre i maggiori problemi alle agenzie di controllo. Anche nella disamina dei punti salienti relativi alle organizzazioni criminali di matrice politica, non mancano gli argomenti per evidenziare il parallelismo con l’origine storica delle società segrete cinesi e, quindi, delle logge triadiche. Nella Cina imperiale, infatti, si rinvengono numerosi esempi di come attraverso la sostituzione della filosofia confuciana con quella buddista e taoista le società segrete, le organizzazioni terroristiche di allora, affermano il loro potere tra il Popolo e sul Popolo organizzando il dissenso e l’avversione verso quella tipologia di potere che veniva identificato come elitario e distante dai bisogni primari delle persone. Rendendone condivisibili gli ideali e le finalità, furono organizzate in varie parti del Paese rivolte e insurrezioni di chiara matrice politica 236 eversiva e che assunsero efficacia attraverso concomitante strutturazione di un reticolo di logge (che oggi chiameremmo cellule operative) le quali, sinergicamente, si muovevano nella direzione condivisa di una rivoluzione. Nel motto originale della Loggia del Loto Bianco, che ancora oggi sopravvive all’evoluzione socio-criminale della Triade arcaica, si legge la connessione tra la funzionalità criminale alla logica politica: Rovesciare i Ch’ing e restaurare i Ming (Fan-Ch’ing-Fu-Ming). L’Art. 270 del codice penale italiano definisce le Associazioni sovversive: Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato ovvero a sopprimere violentemente l’ordinamento politico e giuridico dello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Chiunque partecipa alle associazioni di cui al primo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni. Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni di cui al primo comma, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento. Articolo così modificato dalla L. 25 gennaio 2006 sui reati di opinione. Quando l’analisi afferisce la criminalità politica, è opportuno considerare che non è la condotta in sé a determinare come verrà qualificato il gesto che, nel quadro di una violazione al codice penale è e rimane un delitto, ma sarà invece l’esito delle attività ostili, del conflitto asimmetrico che si incardina, nei confronti del soggetto verso cui le attività delittuose sono preordinate. 237 La matrice politica di gesti ritenuti criminali non promana da un ambiente tipico, omogeneo o da un gruppo sociale dato (come quelli analizzati precedentemente da Cohen e Sutherland) verso il quale concentrare, eventualmente, il controllo, la sorveglianza di polizia, l’analisi sociologica e l’azione di prevenzione e sicurezza propria dello Stato, ma è assolutamente trasversale in quanto raccoglie attorno a sé un disagio esistenziale del pensiero che diventa ideologia. Il crimine politico non persegue utilità individuali particolari o economico-finanziarie, ma ha il tratto distintivo del pensiero frustrato di chi agisce per sovvertire uno status quo divenuto ormai intollerabile. Una parte dichiara unilateralmente guerra a un pensiero avversario ortodosso e riconosce nei mezzi tipici dei conflitti bellici l’unica via per raggiungere lo scopo. Un altro esempio, questo, che lega l’efficacia del pensiero resistente ed eterodosso dei primi monaci guerrieri buddisti che concettualizzarono, secondo categorie alterative, un nuovo ordine sociale da sostituire a quello in essere. È una visione che riprende anche von Clausewitz nel XIX secolo quando definisce la guerra come una fase naturale del proseguimento della politica. Che la guerra, poi, sia un interna a uno Stato o internazionale non differisce se non per il metodo che viene scelto e seguito dai belligeranti. La tipicità della guerra che si svolge attraverso l’impiego del terrorismo è oggi identificata nella locuzione: guerra asimmetrica183. 183 Per definire la guerra asimmetrica è necessario preventivamente definire il concetto di asimmetria. Questo compito può essere svolto basandosi sull’etimologia stessa della parola (a-syn-métron), ovvero “incommensurabile”, “non reciprocamente misurabile”. Non si tratta quindi di una qualunque semplice disuguaglianza, ma di una vera e propria incomparabilità. Tale “incomparabilità”, se applicata alla 238 Alla base della sovversione, dunque, si trova, spesso, la rilettura di fenomeni che hanno dato luogo a criticità sociali. Una crisi occupazionale, l’inflazione, un provvedimento giurisdizionale asseritamente iniquo o, ancora, un forte sentimento di contrasto ideologico verso un gruppo politico considerato “dominante” possono essere fattori idonei ad amplificare le frizioni e destabilizzare l’ordine costituito. Compromettere la percezione del senso di giustizia sociale su cui lo Stato fonda il proprio operare è, tra gli altri, un ulteriore spunto cui il terrorismo s’ispira. Le strategie di autotutela che gli stati preordinano in tema di lotta alla criminalità, dimostrano dei limiti nel caso in cui entri in gioco la matrice politica. É davvero difficile prevenire l’eventuale insorgere, lo svilupparsi, di fenomeni “antagonisti e asimmetrici”; al più si può pensare e confidare in una solerte azione persecutoria e repressiva dopo che l’evento criminale s’è consumato. Ricostruire lo scheletro operativo di una fazione politica in lotta con strumenti criminali, (laddove si rinvenga una qualche utilità che vada al di là della mera volontà di conoscere o riconoscere il fenomeno) è una operazione che appartiene più al lavoro dello storico e del sociologo che del giurista e del poliziotto. guerra definita sulla base della concezione clausewitziana che vuole il gesto come la naturale prosecuzione della politica, non potrà che manifestarsi sotto forma di disparità fra i diversi fronti del conflitto comprendendo anche quelli interni allo Stato o internazionali non “convenzionali”, ossia tra due o più eserciti di Paesi diversi. FONTE: www.difesa.it Ministero della Difesa. Asimmetria e trasformazione della guerra. Spazio, tempo ed energia nel nuovo contesto bellico. Autori: maggiore Ruggero Cucchini e dott. Stefano Ruzza. 239 L’associazione per delinquere finalizzata alla sovversione di un ordinamento è, di fatto, una “organizzazione militare del dissenso politico”; organizzata per perseguire il proprio obiettivo strategico con logiche di rigorosa attenzione alla dissimulazione della propria esistenza e alla raccolta di consensi tra coloro i quali percepiscono come ingiusta, frustrante, ingiusta la condizione di soggezione all’imperio dello stato. La migliore strategia difensiva che questi sodalizi hanno affinato con il trascorrere degli anni, e forti delle esperienze dei vecchi gruppi terroristici, è, anche in questo caso, assimilabile a quella dalla Triade cinese che fonda la propria solidità sulla segretezza dell’identità degli associati e, spesso, sulla impermeabilità di ogni gruppo operativo rispetto alle altre logge/cellule cooperanti. L’esperienza millenaria triadica conferma come la non conoscenza diretta dei membri di una unità operativa consorella, possa essere considerata un’arma efficace atta ad impedire che, in caso di cattura di un militante, possano essere rivelate informazioni in grado di compromettere l’intera struttura organizzativa e le identità dei correi. Il vero punto di forza, quindi, di questo tipo di attività criminale, lo abbiamo detto, risiede nell’attitudine alla mimetizzazione e alla mutazione del proprio assetto esteriore in funzione di una maggiore efficienza operativa. La semplicità di allestimento e smobilitazione dei covi (si pensi al caso Lioce184, la base era un computer palmare che la 184 Nadia Desdemona Lioce, ex esponente dei Nuclei Comunisti Combattenti (Ncc), è stata arrestata nel 2003 dopo una irreperibilità che perdurava dal 1995. Il suo nome venne inserito nell'ordinanza di custodia emessa nei confronti di Alessandro Geri, accusato di essere il telefonista che rivendicò l'omicidio D'Antona. Secondo la Procura, N. Desdemona Lioce avrebbe fatto parte del gruppo che ha 240 terrorista portava con sé all’interno di una borsetta) e la duttilità delle strategie spesso attuate da un solo militante, non costituiscono un problema, se non per chi deve combatterle. Il progresso tecnologico e delle telecomunicazioni è un supporto consolidato al crimine politico internazionale, ma, allo stesso tempo, permette di alzare il velo e rendere pubbliche anche le istanze di democrazia e libertà che taluni governi vorrebbero fossero riconducibili a fenomeni di pura illegalità. Le proteste di Piazza Tienanmen, la Primavera araba e la Rivolta dei gelsomini ne sono la dimostrazione. I media, poi internet e i telefoni cellulari palmari stanno rivoluzionando la rivoluzione. segnato la fase di ricostruzione delle Brigate Rosse. Dopo l'omicidio D'Antona, il suo nome ricompare sulle cronache il 2 marzo 2003 quando Nadia Desdemona Lioce venne arrestata a seguito del conflitto a fuoco sul treno Roma-Arezzo nel corso del quale morirono il sovrintendente di polizia Emanuele Petri e il brigatista Mario Galesi. 241 CAPITOLO VI I MEDIA, UNA FINESTRA SUL MONDO LA COSTRUZIONE DELLA REALTÀ 1. Quod non est in “media”, non est in mundo Nel complesso delle trasformazioni che afferiscono il modo di rappresentare la realtà, appare evidente quanta importanza abbia assunto la narrazione, la comunicazione mediatica dell’evento. Oggidì, infatti, non è sufficiente che un evento si verifichi perché abbia rilevanza, ma è imprescindibile che esso sia veicolato e proposto all’opinione pubblica nella veste più idonea a suscitare interesse e in modo da risultare accattivante. Ciò implica che spesso la diffusione di una notizia non avvenga per ottemperare al dovere d’informare e al diritto a essere informati ma per obbedire alle leggi del marketing. Il diritto di essere informati, cioè a essere posti a conoscenza di quanto di rilevante accade nel mondo, sembra essere stato sostituito dalla corsa alla divulgazione compulsiva di tutti fatti –soprattutto di corollario e che talvolta poco hanno a che fare con il dovere di informare– i quali, per la loro scarsa importanza, soddisfano la curiosità e non l’esigenza di sapere. Non notizie, ma un crogiuolo di voci che, rivelandosi poco più di pettegolezzi, sono comunque in grado di condizionare la quotidianità dei gruppi sociali stimolando, o scoraggiando, il desiderio e la necessità di mutare il modo di mettersi in relazione con “l’Altro”. Si parla di un comportamento collettivo orientato verso una maggiore, o minore, attenzione al fenomeno posto sotto la lente d’ingrandimento. 242 I media, oggi, sembrano aver assunto il valore di indicatori del fenomeno criminale. Il fatto esiste se essi ne parlano e diventa tanto più rilevante quanto più se ne parla: non esistono più periferie, almeno per quanto riguarda l’informazione. La “processazione” dell’informazione e la costruzione della notizia sono mutate. Nell’informare raramente vengono forniti quegli elementi validi a sollecitare nel destinatario la formazione di un’opinione critica; al contrario, sembra essere divenuta autocelebrativa, fine a se stessa, e proiettata a creare una “storia” lasciata aperta che può essere eventualmente ripresa e rilanciata per fronteggiare un calo d’ascolti. La notizia, così trasformata, sarà funzionale dunque a diffondere nuovi messaggi d’allarme che, ormai, sembrano essere divenuti una droga del teledipendente. In Italia, il ruolo d’informatore “per eccellenza” è ancora appannaggio della televisione e sembra che, almeno per qualche anno, nessuno sarà in grado di modificare nei telespettatori la “coazione a ricevere”, dagli show verità, l’input a agire o reagire. Il web che spopola nel mondo ed è stato in grado di sollevare rivoluzioni, non è recepito appieno come un servizio e trattato con familiare confidenza, ma anzi è ancora percepito come uno strumento ludico o prettamente di lavoro. Le nuove generazioni, tuttavia, dimostrano una sempre maggiore familiarità tanto da utilizzarlo come strumento comparativo e di confronto globale. Questa facilità di trasmettere l’informazione, che in alcuni casi assume la forma della disinformazione185porta alla conoscibilità dei fatti e alla 185 H. Michael Sweenney: la disinformazione è un'informazione falsa o inesatta che viene diffusa deliberatamente. Certe volte viene chiamata anche con il sinonimo di black propaganda. Essa può 243 proiezione della loro eco senza che questi si affermino come tali nel contesto quotidiano. Nel contribuire a rendere estremamente difficoltosa la percezione della reale dimensione dei fatti di interesse sociale, i media hanno minato quella antica consapevolezza sulla fisicità e tangibilità di un evento. L’opinione pubblica, dunque, non viene più a conoscenza della notizia o del fatto in sé e, sollevata dall’impegno di affinare la capacità critica di valutazione di ciò che le viene riferito, si pone supina di fronte alla rappresentazione della realtà, del virtualmente vero. La televisione è il più importante narratore di storie nella società contemporanea e ha la possibilità di raggiungere un gran numero di destinatari, assumendo funzioni che, in passato, erano assolte dalla narrazione epica, dal teatro, dalla pittura, dalla letteratura, ma anche prestando caratteri nuovi e specifici.186 Il fenomeno mediato dal mezzo d’informazione, quindi, elargisce il suo sapere al riparo da ogni confronto o da confutazioni giovandosi includere la distribuzione di documenti, di manoscritti e di fotografie falsificati, o la diffusione di pettegolezzi maliziosi e informazioni costruite a tavolino. La disinformazione non va invece confusa con l'informazione falsa o inaccurata in modo non intenzionale. La disinformazione viene realizzata in vari modi. Ecco alcuni esempi: una notizia di cronaca potenzialmente pericolosa può essere ignorata dai mass media. La maggior parte delle persone crede che qualcosa che non è stato riportato dai media semplicemente non esiste; una notizia di cronaca può essere presentata come un'accusa priva di fondamento, specialmente da qualcuno che ha autorità. Le persone che godono di largo consenso o ricoprono posizioni importanti in politica, nell'economia o in ambito militare possono fare leva sulla loro reputazione per etichettare un fatto come falso e ridicolo; una copertura massiccia da parte dei media di un evento importante può creare una distrazione sufficiente per deviare l'attenzione della gente da un problema reale; una diceria che non viene né smentita né confermata può generare confusione e dubbi in un pubblico vasto. Un individuo o un gruppo di persone possono essere costrette o pagate per fornire informazioni false che danno vita a false notizie di cronaca. L’uso della disinformazione nell’intelligece militare ha lo scopo di fornire notizie false al nemico che le troverà, comunque, verosimili; serve anche per orientare un pensiero collettivo piegandolo a uno scopo politico (Le armi chimiche di Saddam Hussein). L’intelligence civile usa la disinformazione per orientare i mercati internazionali; a tal riguardo è assai frequente nelle c.d. guerre economiche. 186 Si veda Fiske, Hartley, 1978; Carey, 1988. 244 dell’unidirezionalità della comunicazione che pone l’interlocutore nell’impossibilità di obiettare, negare o interagire. 2. Criminalità e media: la spettacolarizzazione del delitto. L’attività di informazione svolta da alcune testate giornalistiche, anche televisive, nell’ambito del giornalismo d’inchiesta e di denuncia, pone in evidenza che il servizio pubblico è ancora attento a suscitare l’interesse verso fenomeni che possono avere rilevanza sociale e criminale e che prescinde dalla spettacolarizzazione del delitto. Relativamente al topic della ricerca è da sottolineare quanto i redattori di alcuni tra i programmi televisivi d’approfondimento, si siano dimostrati sensibili e utili a permettere la conoscibilità, non solo al grande pubblico, ma anche alle agenzie di sicurezza, degli aspetti critici della situazione in cui la comunità cinese vive e lavora in Italia e nel distretto industriale di Prato in particolare. 187 La divulgazione per immagini e l’approfondimento sul fenomeno in essere e di alcuni gravi fatti di cronaca, quali il decesso di sei operai in un rogo sviluppatosi il giorno 1 dicembre 2013 all’interno di un laboratorio tessile di Prato gestito da un Lao Ban, ha consentito che emergesse una situazione di discriminazione e sfruttamento delle persone, ormai sclerotizzata e ignorata dai più. L’asservimento dell’operaio cinese all’impresa, le condizioni igienico sanitarie in cui queste persone sono costrette a vivere e lo stato di alienazione conseguente alla segregazione all’interno di immobili con finestre oscurate è una realtà che è entrata 187 “Annozero”, LA7. Puntata del 9.01.2010; Piazza Pulita, LA7. Puntata 11.10.2013, A. Dal Lago; 245 nelle case italiane grazie alle immagini raccolte dai reporter. Tale restituzione alla realtà ha imposto al pubblico di prendere atto e consapevolezza di una realtà spesso volutamente ignorata: non sapere come e dove un processo di produzione avvenga può rendere meno colpevolizzante l’acquisto di beni da filiere sulle quali non c’è chiarezza o contezza di legalità ed eticità. Dalla registrazione d’immagini e quindi dall’evidenza sono quindi scaturite denunce all’autorità giudiziaria relative a casi di interesse che hanno consentito alle agenzie di sicurezza di approfondire e dare la giusta connotazione a ciò che poteva apparare solo eticamente e moralmente riprovevole. La funzione che i media assolvono nella diffusione della notizia, quindi nell’amplificazione o nella relativizzazione dei fatti di reato, non ha poca importanza e ciò tenuto conto che la percezione della gravità di un evento è, da sola, in grado di aumentare la sensazione di insicurezza tra i consociati e ciò implica che la domanda di controllo/sicurezza possa aumentare. Il concetto di gravità mediatica, dunque, si insinua e orienta l’opinione pubblica rendendo più complesso […] verificare il rapporto tra la rappresentazione giornalistica del crimine e la configurazione che questo fenomeno assume nella prospettiva criminologica e politico-criminale[…] 188 A fronte di un’informazione di stimolo sociale, v’è poi una spettacolarizzazione del pruriginoso che si nutre non della denuncia di 188 Sulla questione, si veda Gabrio FORTI; Roberto REDAELLI, La ricerca criminologica in La televisione del crimine (Atti del Convegno), p.168. Editore V&P, Milano 2005. 246 fatti, bensì dell’attrazione che il morboso riesce a suscitare tra gli spettatori. Grave è dunque il ruolo e la responsabilità che i mass media si assumono nella formazione dell’opinione collettiva della devianza, se è vero che altresì tra i fattori diretti di effettività di cui si avvale il paradigma di osservanza delle norme è da annoverare anche il grado e il tipo di informazione del destinatario e fra quelli di rinforzo, la rilevanza sociale dello scopo e la legittimità morale del legislatore così come socialmente percepite. E solo se il processo sociale di definizione della criminalità converge in termini di sinergia e non di alternatività con il processo istituzionale di definizione del penalmente rilevante, si può sperare che il sistema penale funzioni. Ciò significa infatti, nella prospettiva che rileva ai fini della presente indagine, una corrispondenza tra le scelte di criminalizzazione già attuate o in atto e il consenso sociale di cui esse godono, requisito quest’ultimo, che –come ormai dovrebbe essere chiaro- non può identificarsi con quello che la dottrina chiama consenso artificiale, consenso cioè precario, non duraturo in quanto artificialmente prodotto a favore di modelli di legislazione penale segnati dall’ipertrofismo, dal simbolismo e conseguentemente dall’ineffettività.189 È palese che alcuni programmi apparentemente dedicati all’analisi criminologica compiano un processo di semplificazione del fatto criminale, rendendolo funzionale non tanto a diffondere l’informazione, quanto, piuttosto, alla pubblicizzazione, come fossero la stessa cosa, della politica della sicurezza o di un prodotto di largo consumo. Sarà compresa meglio l’importanza del processo di trasformazione e rielaborazione che porta il fatto di reato a diventare notizia, quando l’analisi verterà sulla percezione che i gruppi sociali hanno di se stessi e 189 Si veda Marta BEROLINO, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato in La televisione del crimine (Atti del convegno), Editore V&P, Milano 2005, pp.198-199. 247 di cosa possa porre in pericolo la normalità, cioè l’alterazione della quotidianità nella misura in cui, questa, rappresenti perdita di sicurezza. Il proliferare del taglio scandalistico e sensazionalistico dei titoli d’apertura con cui i telespettatori o gli utenti del web vengono attratti nel vortice dell’informazione, ha indotto taluni a tralasciare lo stimolo all’educazione alla criticità nell’approccio al sapere, cioè, a tralasciare la naturale spinta a conoscere di più e meglio. Spesso, purtroppo le espressioni artificiali di sintesi con cui viene elaborata la cronaca evitano al cliente/spettatore di considerare, nella generale valutazione del messaggio recepito, le cause del fenomeno al quale la notizia fa riferimento. […] la selezione delle notizie sul crimine, soprattutto attraverso i giornali, avviene secondo diversi criteri: di tipo quantitativo alcuni, di natura qualitativa altri. Quanto a quelli quantitativi, un primo effetto distorsivo è costituito dal fatto che la frequenza dei resoconti criminali non dipende dalla frequenza del reato oggetto della notizia. Un secondo effetto distorsivo è rappresentato dal fatto dall’enfasi che caratterizza le notizie relative ad alcune tipologie di reato. Essa varia infatti a seconda della dimensione pubblica o privata del reato. Così, particolarmente enfatizzati sono i reati che attengono alla sfera individuale e privata dei soggetti, al punto da creare troppo spesso nella collettività l’idea che si tratti di reati ampiamente diffusi e pericolosi.190 In tale solco risulta che la relativa rilevanza data ai reati aventi come vittima la società e l’interesse pubblico in senso stretto (ad es.: il danneggiamento o la soppressione di beni di pubblica utilità), sebbene siano quelli maggiormente commessi, porta a ritenere che questi non 190 Si veda Marta BEROLINO, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato in La televisione del crimine (Atti del convegno), Editore V&P, Milano 2005. pp.201-202 248 abbiano incidenza e non siano idonei a creare allarme sociale e solo perché non creano audience. Nella narrazione mediatica dei particolari scabrosi che le storie criminali sottendono, si compie un paradosso: l’inversione della curva dell’attenzione verso la soggettività. La vittima dell’atto criminale, infatti, rimane schiacciata, sbiadita e relativizzata sullo sfondo della notizia, mentre le telecamere mettono a fuoco l’autore del delitto tralasciando, però, di dedicare attenzione all’ambiente, alle concause e alle motivazioni in cui questi è cresciuto e nel quale si sono sviluppate e sostanziate le attività criminose. A conferma dell’analisi svolta, a fronte del decesso dei sette operai nell’incendio del dicembre 2013 nella fabbrica di Prato, la notizia non fu il fatto in sé, cioè la morte di sette lavoratori dovuta a negligenza sul lavoro dalla parte datoriale, ma che le vittime erano cinesi. Questo particolare, evidente, ha anche spostato l’attenzione e la sensibilità dello spettatore sulle diversità del modus vivendi di una comunità etnica senza, però, stimolare la comprensione delle abitudini “altre” di questo gruppo sociale che non sono censurabili a prescindere, ma lo diventano in Italia, dove il dettato normativo in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e di urbanistica, disciplina altrimenti. Il risultato ottenuto è un sentimento generale di discriminazione. Il panorama nel quale si stagliano i format che nel palinsesto si occupano della cronaca “criminale” è vasto e si intensifica sempre di più, al pari della propensione del pubblico a rendersi spettatore/investigatore/giudice davanti allo schermo. 249 L’esito di tale, massiva, intrusione nella privacy, porta con sé una apparente confidenza con gli argomenti trattati e induce a una tendenziale eccessiva “semplificazione” della materia. Provocando distorte e perverse interpretazioni, non solo del fatto in sé, ma dell’articolato dettato normativo sulla base del quale operano le competenti autorità. Questa presunzione di competenza contribuisce a diffondere una sensazione di sfiducia nelle istituzioni alle quali viene imputato di non saper risolvere i casi di “maggior allarme sociale”. In questo capitolo abbiamo visto che l’analisi sugli indicatori dei fenomeni criminali non può essere solamente indirizzata a cogliere le emergenze criminali, ma passa attraverso un monitoraggio dei gruppi sociali, della loro organizzazione e attraverso la diffusione delle notizie in grado di orientare la percezione del problema nella comunità. Qualunque sia il crimine di cui si intenda parlare, sia se commesso dal singolo in modo isolato che da un numero di rei in concorso o in associazione, vi sono dei fattori che tendono a delineare un comune denominatore che afferisce all'ambiente in cui maturano le condotte antigiuridiche. Le storie criminali hanno a fattore comune il senso, la percezione, del disagio in cui nascono. Si può trattare di un disagio sociale, economico o, ancora, di una frustrazione politica, ma pur sempre di disagio si tratta. Sempre a fattor comune, troviamo la scelta che l’individuo compie sul “come agire” per perseguire i fini che lo affranchino da una frustrazione e, a tal riguardo, sappiamo che la persona può sempre scegliere se e 250 come agire, consapevole del fatto che, poi, dovrà rendere conto della propria condotta dinnanzi alla Legge, dinnanzi al Popolo. Alfred Schütz 191 , interprete del programma di “sociologia comprendente” di Weber, radicato nella visione moderna degli uomini come creature guidate da fini, si dedicò a smascherare l’autoinganno che si manifesta nella formula, troppo spesso utilizzata: l’ho fatto a causa di sostenendo che le azioni degli esseri umani nel perseguire i propri fini, andrebbero più correttamente descritte in termini di: “L’ho fatto al fine di”. Non c’è, dunque, assoluzione per chi viola la legge che il Popolo si è dato e ricade in capo al Popolo stesso il compito di vigilare sul rispetto della volontà espressa e manifestata nelle forme che egli stesso, in quanto Legge vivente, si consente. 191 Alfred Schütz (filosofo e sociologo austriaco), deriva la sua formazione sociologica da uno studio della metodologia weberiana, della quale compie un riesame critico. Formatosi alla scuola Husserl, teorizza la fenomenologia del mondo sociale coniugando la sociologia comprendente, evidenziando l'importanza dell'approccio weberiano come tentativo di comprendere i significati oggettivi dell'azione del singolo e come elaborazione di modelli adeguati allo specifico oggetto di studio. La teoria sociologica di S. integra l'impostazione fenomenologica e quella weberiana avvicinandosi anche alle posizioni degli interazionisti simbolici (Mead, Cooley e Thomas). Propone schematizzazioni delle forme di vita quotidiana in termini di "tipi ideali" attraverso l’analisi sull'azione sociale e sui diversi motivi che portano l'individuo ad agire, sulle sue modalità di relazione e sui suoi aspetti sociali come possibilità di conoscenza di se stesso attraverso gli altri. 251 CAPITOLO VII LA CRISI E IL MERCATO DEL LAVORO DEI LAOBAN. ENORMI PROFITTI TRA LEGALITA’ E ILLEGALITA’ L’analisi svolta in questo capitolo non si pone unicamente l’obiettivo di analizzare il carattere emergenziale della crisi economica che ha investito ogni settore delle attività produttive in Italia, ma vorrà trarne spunto per compiere una più ampia riflessione su come questa si sia coniugata con alcuni aspetti all’accresciuta autonomia delle politiche occupazionali e lo sfruttamento dei lavoratori. Da tale contesto emergerà che la flessione dell’attenzione e la contrazione delle tutele nei confronti delle garanzie poste dal Legislatore a tutela della classe operaia, nonché l’incidenza della variabile “illegalità”, si siano dimostrate funzionali unicamente alla nuova interpretazione del modello di occupazione improntato alla “flessibilità” dell’impiego (in nome dell’incremento dell’occupazione stessa) della manodopera. La crescita, la maggiore concorrenza tra imprenditori e lo sviluppo del settore delle esportazioni sono ormai solo degli slogan, ma vengono posti come obiettivi da raggiungere per superare la “crisi”. Di fatto, però, restano unicamente delle parole a effetto, specialmente per quanto riguarda il settore delle piccole e medie imprese che operano nella stretta legalità e che sono ritenute, ormai a torto, “la spina dorsale” dell’economia italiana. I fatti, come vedremo nei casi pratici analizzati nel prosieguo, dimostrano invece che la crisi è superata più agevolmente da quelle imprese che eludendo il fisco, sfruttando la classe operaia e 252 asservendo le condizioni di debolezza dell’essere umano alla logica del profitto, si fanno interpreti di una economia illegale e, talvolta, criminale. 1. La nuova ‘classe operaia’ La crescente disoccupazione involontaria tra i lavoratori (autoctoni) è un effetto della tendenza, sempre maggiore, allo sfruttamento della nuova “classe operaia”. Oggi, infatti, […] sono i migranti provenienti dai paesi poveri a rivestire quel ruolo di "classi pericolose" che centocinquant'anni fa era riservato alla classe operaia.192 In Italia, prima con l’arrivo degli operai cinesi e poi con l’affermazione delle imprese etnicamente connotate, s’è andata a colmare la domanda d’occupazione in alcuni specifici distretti produttivi. Nel caso di specie, sarà considerato come questo fenomeno abbia inciso sul settore del tessile e del pronto moda che, sino agli anni Ottanta dello scorso secolo, era gestito quasi esclusivamente da imprenditori della provincia di Prato con il coinvolgimento massivo, nelle varie fasi della lavorazione dei manufatti, di buona parte della manodopera locale. A fronte di una contrazione delle commesse e di una sempre minore produttività da parte delle imprese tessili così dette storiche del pratese, l’osservazione critica pone in evidenza come una nuova categoria di imprenditori abbia colto l’opportunità di proporre al mercato un’efficace, seppur discutibile, alternativa al concetto di produzione. Si tratta dei Lao Ban, di padroni, di manager, rimasti indenni da questo fenomeno ai 192 A. Dal Lago, Non persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999. 253 quali la riduzione del volume di affari (soprattutto connessi al mercato estero della grande distribuzione), non ha nuociuto, ma, anzi, li ha avvantaggiati, favorendoli, nel proporre in Occidente metodi e ritmi di lavoro che si pensavano propri dello sfruttamento, della sottocultura del lavoro. Le corazzate dell’imprenditoria spregiudicata e concorrenziale sono i laboratori artigianali e gli opifici (anche clandestini) di proprietà e gestiti da imprenditori cinesi che, grazie all’impiego di mano d’opera formata a una diversa concezione del lavoro e capace di produrre il maggiore quantitativo di beni richiesti dal mercato, si sono affermati in settori produttivi ritenuti, erroneamente, appannaggio della moda Made in Italy prodotta in Italia. Nel prosieguo si comprenderà quanto l’allocuzione Made in Italy prodotto in Italia, non è inutilmente ridondante, ma è una specificazione che le caratteristiche del mercato impongono nei confronti di quei prodotti, egualmente Made in Italy, ma che di italiano non hanno più molto a parte alcuni passaggi della lavorazione. L’industria del tessile nel distretto pratese che di qui in poi assumerà il valore di paradigma per la ricerca, si è rivelato il segmento produttivo nel quale, in assoluta controtendenza rispetto al trend nazionale i Lao Ban, hanno affermato l’attitudine a soddisfare le istanze del mercato interno e anche ad imprimergli nuova energia ampliandolo verso l’estero. Per i migranti cinesi, essere divenuti dei Lao Ban, ha un significato atavico e intrinseco, una valenza culturale di validazione sociale. Un tanto emerge chiaramente proprio dal testo di un articolo 254 apparso sul sito ufficiale dell’Associazione “Italia-Cina” nel mese di settembre del 2007 […] il sogno di tutti i cinesi essere chiamati Lao Ban, padroni. Proprietari di ristoranti, negozi, bancarelle ambulanti di abbigliamento e di cineserie varie. E i Lao Ban in Italia non fanno che aumentare, non solo: si spostano da una parte all’altra per incrementare il giro d’affari e conquistare un’indispensabile stabilità economica.193 La produzione di quantitativi considerevoli di beni di largo consumo; lo sviluppo e l’implementazione del giro di affari dimostrano come il migrante proveniente dalla Cina, sia questi un operaio o un imprenditore, abbia esportato oltre a se stesso, anche un modello di vita. Con i cinesi, approda in Occidente una concezione di vita, di relazione e lavorativa, nella quale domina l’autoreferenzialità delle consuetudini. Nella impermeabilità delle Tong si alimenta e si consolida l’autoreferenzialità a dispetto del tessuto sociale ospitante. In esse rimangono dominanti, dunque, gli usi nazionali connessi alla filosofia confuciana, integrati col solidarismo collettivista del comunismo maoista prevalendo sulla disciplina del lavoro e sull’etica dei Paesi di adozione. Le imprese gestite da imprenditori locali della vecchia scuola, cioè in regime di legalità e nel rispetto della norma, hanno continuato a ripiegarsi su se stesse e a perdere la capacità di stare sul mercato, i laboratori e gli opifici etnici cinesi hanno prosperato inducendo talune correnti di economisti e giuslavoristi a riconsiderare la bontà (l’efficienza) delle conquiste e delle garanzie offerte ai lavoratori in tema di sicurezza, di orari da trascorrere sulla linea di produzione e di tutele 193 Fonte: sito ufficiale Associazione Italia-Cina (http://www.associna.com). 255 sindacali in generale, delle quali si registra un significativo affievolimento. Se un tale patrimonio di civiltà giuridica non vuole smarrirsi a beneficio esclusivo dell’aumento dei profitti, a dover essere posto in discussione è proprio il metodo in virtù del quale gli assetti nel distretto pratese sono stati modificati. Questo nuovo metodo che passa attraverso la licitazione del processo di asservimento dell’uomo all’azienda che, nell’immaginario collettivo del gruppo ivi occupato, si identifica con la realizzazione del Sé attraverso un processo d’affermazione dell’Io collettivo a prezzo della rinuncia implicita alla valorizzazione del lavoratore in quanto essere umano e, quindi, portatore di diritti inalienabili. La riflessione dalla quale partire riguarda, dunque, la perdita della centralità dell’uomo rispetto all’affermazione del suo ruolo di bene economico (manodopera) nella produzione e confezione dei manufatti. Per far ciò, però, bisogna formulare una considerazione che non trascuri di delineare con chiarezza come e perché i primi immigrati cinesi siano giunti nella provincia di Prato e lì si sono insediati. Tutto cominciò all’inizio degli anni Novanta, quando i primi immigrati cinesi provenienti dalla provincia dello Zhejiang, e in particolare da Wenzhou, arrivarono a Prato attratti dalla sua fama di polo manifatturiero operoso. Quegli immigrati –scarsa cultura e scarse competenze- cominciarono a cucire magliette e vestiti per conto delle piccole aziende di abbigliamento locali, concentrate nelle zone di Iolo, Tavola, Poggio a Caiano e Seano. Erano terzisti, o come si dice in gergo ‘façonisti’, con scarsa tecnologia –qualche macchina da cucire usata, sistemata in uno scantinatoe due sole garanzie da offrire, velocità di consegna e basso costo della manodopera, che ben presto consentirono di 256 conquistare spazi di mercato. Nei periodi <<caldi>> i cinesi erano disponibili a lavorare giorno e notte, senza orari e senza garanzie, dietro compensi (a cottimo) di gran lunga inferiori alla 194 media, per inseguire un rapido riscatto economico e sociale. La parzialità della prospettiva d’analisi, o il pregiudizio, emergono chiaramente dalle prime parole della citazione, quando si tendono a considerare gli operai terzisti provenienti dallo Zhejiang e da Wenzhou, città e porto commerciale della Cina meridionale da secoli economicamente dinamica, di ‘scarsa cultura e scarse competenze’195. I fatti hanno ampiamente dimostrato, invece, che generalizzare sulle competenze di questi migranti (“da sfruttare”), non è stata, come del resto lo sono le generalizzazioni, la giusta chiave di lettura del fenomeno. I migranti, infatti, non si sono dimostrati degli sprovveduti, ma, anzi, hanno dimostrato di essere la competente avanguardia di un antichissimo nuovo pensiero-lavoro; il prodromo di una rivoluzione dell’etica del lavoro il cui fine si riassume nella odierna penetrazione economica, una colonizzazione efficace. Pensare al Sud-Est della Cina come a una zona arretrata e a Wenzhou, in particolare, come alla sua massima espressione è significato essere stati precipitati nel macroscopico fraintendimento verso il quale la strategia cinese della disinformazione globale, in funzione dell’attrazione degli investimenti economici internazionali, aveva attratto il mondo. Da qualche decennio, infatti, questo porto si era riaffermato quale centro privilegiato di investimenti speculativi degli imprenditori occidentali e, in particolare italiani, che l’avevano “scelto” come terra di 194 Silvia Pieraccini, L’assedio cinese. Il distretto senza regole degli abito low cost di Prato. Edizioni Gruppo 24ORE, Roma 2010, pag.4. 195 Ibidem p.5. 257 conquista per l’internazionalizzazione delle loro imprese da delocalizzare in Cina cogliendone solo il momentaneo vantaggio dell’abbattimento dei costi di produzione e per l’aumento dei margini di profitto. Tradizionalmente all’avanguardia nel settore dell’imprenditoria privata, lo Zhejiang (e quindi Wenzhou), che già fu laboratorio economico capitalista sotto l’impero di Mao, ha formato un “esercito” di manager preparati a interagire secondo i canoni dell’economia occidentale, e di lavoratori specializzati che, proprio grazie agli imprenditori che avevano tentato la via di una colonizzazione industriale della Cina, erano divenuti competitivi anche (o soprattutto) nella produzione dei prodotti di nicchia del made in Italy. […] Il wenzhunese è una persona che pensa solo agli affari, pensa solo a come può guadagnare; sacrifica tutta la sua esistenza a questo. I rapporti di relazione padre-figlio sono improntati a questa regola. Ora lo dico senza offesa, no… seguendo la volgata comune, dicono dei wuenzhunesi un po’ come spesso in tempi andati, a me non mi piace ovviamente, “sono gli ebrei della Cina”. Sono i danarosi, sono… quindi questo elemento culturale, cioè di non scavare a fondo su questa presenza sul territorio… “Chi sono questi che stanno qui? Da dove vengono e lì come sono considerati?” È stata totalmente non presa in considerazione. Cioè, questi, quando arrivano, “ti mangiano” se vogliono. Hanno un livello culturale del lavoro elevatissimo; non sono, come qualcuno ha immaginato, gli straccioni con il sacchetto e la borsa di cartone; questi sono gli artefici della prima potenza economica mondiale; hanno un orgoglio del lavoro e del successo che è inimmaginabile ed ecco 258 che questa è la ragione per cui hanno completamente sostituito quell’ambito economico in cui si sono insediati.[…] 196 2. Il “Modello Cina”: economia, migrazione e criminalità Sebbene all’interno dello stato cinese si fosse radicato un modello economico e politico del tutto singolare (soprattutto se osservato da Occidente) e permanessero in vigore le rigidità del comunismo maoista, ben presto è emerso come questo status quo non abbia influito sulla sua declinazione con una politica estera aggressiva e liberista improntata sul capitalismo di Stato. Un tale assetto non ha trascurato l’implementazione degli affari della criminalità organizzata locale che, in funzione e in prospettiva dell’ampliamento delle zone di influenza commerciale ed economica cinesi, aveva immediatamente ripristinato i propri canali, anche illegali, di collegamento e connessione con l’Occidente. Il compito devoluto alle organizzazioni criminali che a Wenzhou hanno sempre avuto la loro base operativa - molte delle quali legate a vario titolo alla Triade o alla sua logica - è stato quello di disciplinare e ordinare lungo le rotte della migrazione clandestina, il desiderio di miglioramento economico e del tenore di vita, dei propri connazionali. Avviati verso le mete occidentali dove poteva essere remunerativo soddisfare la crescente domanda di manodopera low cost, i maggiorenti delle comunità cinesi “storiche” ivi insediati, iniziano a diventarne i referenti europei delle organizzazioni dedite al traffico di esseri umani. 196 Stralcio intervista ad Andrea Frattani, già Assessore alla Multiculturalità del Comune di Prato dal 2002 al 2009. Si veda Appendice 1 intervista n.5. 259 Occupandosi di raccogliere e coniugare la domanda con l’offerta di collocamento dei lavoratori (clandestini), questi allestiscono i primi centri di raccolta e smistamento dove i committenti dei viaggi (talvolta parenti) che intendono servirsi dei migranti, possono riscattare e prelevare i “quantitativi” desiderati della pregiatissima “merce umana”. In ciò interviene anche un aspetto che ai più è sempre sfuggito: Il professor Liu Xiaoxi, direttore generale del Dipartimento di ricerca macroeconomica all’Ufficio di ricerca del Consiglio degli affari di stato, cioè il governo cinese, mi spiega: “I miei servizi non si dedicano a operazioni di spionaggio ma piuttosto all’informazione aperta, alla vigilanza economica su grande scala. […] La ricerca dell’informazione economica si organizza secondo tre canali: gli istituti di ricerca economica propriamente detta, le organizzazioni non governative e le istituzioni private. Con una quarantina di ricercatori centralizziamo queste informazioni per permettere al governo di delineare i grandi orientamenti per il futuro.”197 Appare plausibile che il fenomeno migratorio dovrà essere riletto non solo come un atto volitivo del singolo, ma anche, e talvolta, come l’operazione preordinata, strategica, avviata dal PCC198 che prevede il trasferimento di capitale umano teso alla raccolta di informazioni utili a favorire la progressiva espansione del così detto modello Cina. Quando si parla di ‘modello Cina’ ci si riferisce al modello di sviluppo economico cinese, in una certa misura al suo sistema politico e in una misura minore alla cultura (il cosiddetto ‘soft power’). […] un modello Cina può essere riscontrato in ambito economico, politico e culturale; in ciascuno di questi settori vi sono elementi originali, esclusivamente legati al particolare 197 Roger Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton Editori, Roma, 2011, p.245. 198 P.C.C., Partito Comunista Cinese. 260 contesto del paese, che se però esaminati nel loro insieme non costituiscono un modello generale, che sia esportabile e replicabile in altri paesi a causa delle loro peculiarità. Il tratto distintivo del ‘modello Cina’ risiede nella capacità di integrare con un alto tasso di flessibilità gli elementi importanti, piuttosto che nell’esportazione delle proprie caratteristiche. La Cina ha importato modelli culturali dall’estero sin dagli anni Settanta del XIX secolo e dal cosiddetto ‘movimento per l’autorafforzamento’ del tardo periodo Qing; e sin da allora il paese è andato alla ricerca di svariati modelli, di diverse tecnologie, pratiche, istituzioni e idee in varie parti del mondo. Ha importato ciò che ha ritenuto più adeguato e l’ha saldato alla propria tradizione culturale, creando così un ibrido unico. Posto quindi che si possa parlare dell’esistenza di un ‘modello Cina’, si fa riferimento a questo ibrido in cui degli elementi di origine straniera si sono fusi con il retroterra culturale tradizionale del paese. Ad esempio, l’odierno sistema politico cinese è caratterizzato da una combinazione di leninismo sovietico e confucianesimo cinese con elementi del neo-autoritarismo dell’Asia orientale, del corporativismo latino-americano e del socialismo europeo, unitamente ad alcuni concetti ‘indigeni’ elaborati dai leader politici della Repubblica popolare cinese (Rpc), Mao Zedong, Deng Xiaoping e Hu Jintao. Si tratta dunque di un sistema politico ibrido, tuttora in evoluzione, eclettico e unico nel suo genere. Anche il sistema economico risulta analogamente eterogeneo, costituito da elementi dell’economia pianificata di tradizione sovietica ed elementi dello ‘Stato sviluppista’ proprio dell’Asia orientale, riscontrabili in particolare nella politica industriale, negli stretti legami tra governo e mondo degli affari, e nella fusione delle grandi imprese in conglomerati, chiamati ‘jiutan’. […] ci si trova di fronte a un modello economico contraddistinto dal capitalismo di Stato, da investimenti mirati e dal protezionismo, a cui si combinano le forze di mercato e l’internazionalizzazione dell’economia determinata dalla globalizzazione. Troviamo quindi, anche in questo settore, un modello ibrido ed eclettico, le 261 cui caratteristiche sono per la maggior parte importate 199 dall’estero. Il fenomeno migratorio e i numeri per i quali esso incide sono, dunque, l’apice di un iceberg sul quale è ovvio che cada l’attenzione. A ben vedere, si tratta di una rivisitazione della strategia militare sunzuista di occupazione e penetrazione di territori applicata all’economia che non muove eserciti in armi, ma colloca la Cina nel suo complesso, come cardano irrinunciabile della motilità dei mercati e, ancor più, della quotidianità delle famiglie occidentali di consumatori. Tutte in crisi, ma tutte determinate a non privarsi di nulla. Il generale Daniel Schaeffer, ex addetto alla difesa a Pechino, ha descritto con precisione, durante un colloquio a Parigi, la ‘pratica dell’intelligence economica cinese nell’acquisizione delle alte tecnologie’. […] ha elencato i ‘modi operandi cinesi’ meritevoli di essere presi in esame per captare le informazioni capitali di cui si nutrono l’informazione cinese e i suoi attori.200 Tra i nove punti stigmatizzati nella relazione del generale Schaeffer il punto n.8 (L’appoggio sulla fibra nazionale) coglie appieno l’importanza del fattore migrazione e evidenzia come anche il guanxi sia un fattore fondamentale nella acquisizione e circolazione delle informazioni. L’appoggio sulla fibra nazionale. È il vasto mondo dei cinesi d’oltremare, gli ‘huaoqiao’, le cui relazioni con il Paese d’origine restano solide. Si tratta anche di relazioni, di guanxi, regionali. Queste giocano un ruolo anche nel campo della criminalità organizzata, come testimoniano alcuni settori nelle mani delle etnie teochew e wenzhou, ma naturalmente non la maggior parte di questi. Queste relazioni vengono usate per lo spionaggio, 199 David Shanbaugh, Dentro il ‘modello Cina’ – Quadro politico e sviluppo economico, intervento effettuato al convegno svoltosi a Roma il 3 novembre 2010 (traduzione degli atti di Aurelio Insisa). 200 R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton Editori, Roma, 2011, p.249-251. 262 come si è constatato nel caso della talpa della CIA, Larry Wu Tai Chin, negli anni Ottanta, o come sospetta (e sottolinea) il generale Schaeffer, nell’affaire dello studioso sino-cambogiano di Strasburgo. […] Molte di queste tecniche meritano la definizione di ‘stratagemma della lampreda’, come vengono a volte chiamate. […] Lo stratagemma della lampreda (ba mu man ji – l’anguilla a otto occhi) è così chiamato perché questo pesce viscido e verdastro si mimetizza nel paesaggio marino, si attacca alle rocce e poi, quando ha pazientemente scelto la sua preda, le si avvicina il più possibile e si incolla su di essa, prima di aspirarne il sangue con i molteplici orefizi… una bella metafora per le tecniche di spionaggio cinesi.201 In questa guerra non si conquistano avamposti militari né postazioni strategiche, essa si manifesta attraverso la promozione di una nuova forma di colonialismo, quello economico. Il fenomeno espansionista del “capitale umano cinese” va quindi riletto come progetto strategico teso a inserirsi, penetrandoli dal basso, nei gangli economici dell’obsoleto e indebolito sistema capitalistico occidentale. Un modello vecchio fiaccato dall’indebitamento che, nell’intento di aumentare i consumi, ha decretato una dipendenza dell’uomo, divenuto ormai solo consumatore, di beni la cui inutilità è inversamente proporzionale solo al desiderio di possederli. 3. Migranti e lavoro Le rotte della migrazione che avevano costituito sul finire del XIX secolo il ponte con gli Stati Uniti d’America e l’Australia, ora si diramano verso l’Europa, verso un continente che da immemore è sempre stato in relazione con la Cina e con il quale persiste una connessione fondata 201 R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton Editori, Roma, 2011, pp.250-251. 263 sulla complementarità, sugli scambi commerciali e sull’interazione culturale. Oggi, quindi, è l’Occidente a costituire un’opportunità ed ecco che entra nel panorama orientale come un bacino economico nel quale la domanda di manodopera incontra l’offerta low cost degli operai cinesi. Una opportunità, dunque, che è posta in evidenza dalla propensione verso una progressiva contrazione del costo del lavoro, un indicatore, questo, di certo non sfuggito all’occhio attento del colosso orientale, pronto a piegare al capitalismo di Stato e senza mutare se stesso, gli effetti dell’incombente crisi del “modello-sistema” capitalista liberista anglosassone. La migrazione è la Via che consentirà a questi migranti istituzionalizzati di cogliere la vittoria, il proprio miracolo economico, sul terreno del nemico imperialista. L’operaio cinese, come il manager della new economy, non nascono d’improvviso, ma sono il prodotto delle riforme strutturali già avviate da Mao Zedong e, successivamente, raccolte con maggior coraggio e vigore Deng Xiaoping dopo la morte di Mao. La politica della porta aperta ha, di certo, attratto verso la Cina cospicui investimenti, ma ha fatto sì che molti cinesi, sul finire del secolo scorso, fattisi migranti, abbiano avuto la possibilità di raccogliere la sfida di un riscatto economico e sociale che in Cina non sarebbe ancora stato possibile ottenere. Per la stragrande maggioranza di questi il “passaggio” in Occidente è stato la tappa necessaria per sfuggire alle misere condizioni di vita delle zone di provenienza e l’opportunità di 264 accumulare il denaro necessario a consentire un onorevole ritorno in patria. Non tutti i cinesi giunti in Europa, e in Italia in particolare, infatti, hanno l’intenzione o la necessità di rimanervi stabilmente. Il lavoratore in condizione di clandestinità, come emerge da molte interviste di polizia acquisite durante indagini tese a infrenare il fenomeno dello sfruttamento della manodopera degli immigrati, rimane asservito al Lao Ban e all’impresa gestita da questi, solo per il tempo necessario a sanare il debito contratto per il trasferimento in Italia e ad accumulare le risorse finanziarie necessarie ad avviare una propria attività al ritorno in patria. Tali liquidità sono trasferite in Cina da una rete di risparmio interna alla Tong stessa e che funge da servizio bancario, illegale. L’avvicendamento della forza lavoro riguarda i più, mentre la stabilizzazione e la radicazione delle famiglie è un fenomeno assai ridotto e riguarda solo chi offre all’organizzazione le necessarie garanzie e suscita interesse per l’attitudine a condurre i propri affari. Gli imprenditori cinesi, inseritisi silenziosamente nelle recessioni di settore, hanno dimostrato di essere in grado di sfruttare il “ventre molle” di una branca della produzione tipicamente italiana che già ben conoscevano e della quale i segnali di crisi erano stati ampiamente raccolti in una Cina attenta a invogliare l’ondata di delocalizzazioni. L’analisi svolta dalla Cina su se stessa evidenzia che Nonostante la grave crisi internazionale che ha investito tutte le economie del mondo dalla fine del 2008 e per tutto il 2009, la Cina è uno dei paesi che ha saputo (e potuto grazie alla propulsione del governo centrale) reagire con maggiore rapidità alle difficoltà dei mercati, mantenendo elevato il proprio livello di 265 crescita, sino a diventare alla fine del 2010 la seconda potenza economica mondiale con interessanti previsioni di crescita per il 2011. Proprio tale solidità dell’economia cinese continua ad attrarre investimenti esteri del tipo green field e, soprattutto negli ultimi anni, a stimolare operazioni di fusione ed acquisizione […] 202 Va nella stessa direzione con l’eguale finalità di continuare ad attrarre verso la Cina investimenti e competenze, il saggio di Suisheng Zhao, il quale si spinge oltre l’analisi sopra citata dettagliando come: La Cina ha superato il Giappone diventando la seconda economia del mondo nel 2010. Di conseguenza, proprio mentre alcuni studiosi cinesi iniziavano a sostenere la nascita di un ‘modello Cina’ che aveva funzionato meglio per la Cina e altri paesi emergenti rispetto al modello di modernizzazione occidentale, alcuni esperti occidentali cominciavano a guardare con preoccupazione al modello di capitalismo di Stato cinese in grado di mettere in crisi quello di stampo occidentale: la Cina << non si trova ad affrontare tutta una serie di problemi che hanno investito i paesi occidentali in seguito allo scoppio della crisi finanziaria: giganteschi disoccupazione e debiti impasse pubblici, politica>>. alti livelli […] di Secondo Fukuyama203, negli anni Novanta, subito dopo la fine della guerra fredda, gli Stati Uniti occupavano una posizione di predominio. Il modello di democrazia americano era largamente emulato, anche se non sempre amato; la tecnologia statunitense imperversava nel mondo e il capitalismo di stampo ‘anglosassone’, caratterizzato da una limitata regolamentazione del mercato, era visto come l’orizzonte del futuro. […] un decennio più tardi, mentre la crisi di Wall Street poneva fine all’idea che si potesse affidare ai mercati il compito di autoregolamentarsi, l’ammirazione spontanea nutrita in passato dai cinesi per tutto ciò che fosse americano ha lasciato il passo a 202 Giovanni Pisacane e Daniele Zibetti, Acquisizioni e fusioni in Cina. Guida pratica all’M&A per gli operatori italiani. Ed. Italia Oggi-Milano Finanza, 2011. 203 Francis Fukuyama, US democracy has little to teach China in “Financial Times”, 17 gennaio 2011. 266 una visione molto più sfumata e critica delle debolezze degli Stati Uniti –che, per alcuni, sfiorava il disprezzo. 204 La politica di sviluppo della Cina da Deng Xiaoping in poi, ha puntato, con l’applicazione di sgravi fiscali per gli investitori e facilitazioni nella costituzione di società in partecipazione con quelle statalizzate, ad attrarre gli investimenti stranieri e, con essi, le competenze che giungevano, per poi rinvestire all’estero le liquidità ottenute. Attraverso una diversificazione mirata degli investimenti nei settori merceologici e di mercato, in flessione in Occidente, le migrazioni organizzate furono di certo una parte importante di una strategia che nulla aveva d’improvvisato e la cui finalità era di spostare la produzione mantenendone la gestione più vicino al destinatario finale. Una sorta di “chilometro zero” che ha consentito negli anni, e ancora oggi consente, di superare le barriere poste dal protezionismo introdotto attraverso l’istituzione di dazi doganali, e, allo stesso tempo, di riqualificare il bene –che rimane, in effetti, lo stesso prodotto in Cina- apponendovi un marchio di manifattura familiare, sinonimo di pregio e utile a rassicurare il consumatore. Quella che agli industriali delocalizzanti appariva, dunque, come l’opportunità di sfruttare la percepita arretratezza di un popolo e l’indigenza nella quale viveva, era stata, invece, letta da Pechino come un interessante segnale: l’allerta che annunciava l’esigenza degli investitori stranieri di espandersi e, portando occupazione in Oriente, contrarre il costo del lavoro in patria. 204 Suisheng Zhao, Il ‘Modello Cina’ e la sua sostenibilità in “Il modello Cina. Quadro politico e sviluppo economico, di Marina Miranda e Alessandra Spalletta, Università La Sapienza, Roma – AGI CHINA24 L’asino d’oro edizioni, 2011. 267 Cercando e creando nuove opportunità che permettessero di mantenere in attivo le aziende, l’avvento imminente della crisi del sistema occidentale era così annunciato. Come zona d’insediamento per la migrazione, quindi, l’area produttiva del distretto pratese era, anche se indirettamente, quella più conosciuta. La consapevolezza, poi, che il bagaglio esperenziale con cui il migrante giungeva in Occidente potesse essere un fattore d’interesse per l’imprenditoria tessile locale, lo rendeva consapevole della relativa facilità con cui sarebbe stato occupato e inserito nella catena produttiva. Nelle imprese italiane che avevano conosciuto la realtà imprenditoriale in Cina, il lavoro del contoterzista e del cottimista erano già parte di un bagaglio e, al contempo, costituivano una risorsa dalla quale attingere a piene mani. La sola innovazione “vantaggiosa” si rinveniva nella sostituzione della più costosa manodopera locale con quella fresca e con poche pretese, proveniente dalla Cina. L’operaio cinese, nella maggior parte dei casi vincolato da un contratto part time a un datore di lavoro connazionale, il più delle volte un prestanome riconducibile all’imprenditore italiano che lo aveva inserito nella catena produttiva, era chiamato a sostenere ritmi di lavoro full time assolutamente concorrenziali. Il Lao Ban, non perdendo l’autonomia e l’iniziativa proprie dell’imprenditorialità cinese, coglieva l’opportunità di competere con se stesso producendo e ponendo in commercio per conto proprio il medesimo bene che confezionava per il committente. Così facendo, 268 poteva disporre di una parte di quella parte di produzione in eccesso rispetto alla commessa e, ponendola in commercio con un proprio marchio o con un marchio contraffatto, acquisiva, progressivamente, una sempre maggiore autonomia e sicurezza eliminando alla fonte il rischio dell’invenduto e delle giacenze. L’opportunità di bypassare gli intermediari che si interponevano tra la fase produttiva e la grande distribuzione giunse quasi immediatamente e, con questa, l’apertura di magazzini e di punti vendita per grossisti nelle aree di maggiore smercio che consentì l’accesso ai mercati più floridi. In questo caso, a funzionare come un ingranaggio perfetto fu l’invisibile rete di connessioni relazionali e solidaristiche che l’appartenenza nazionale, il guanxi, alimenta facendo di ogni comunità una cellula operativa connessa alle altre; un rilevatore sensibile di bisogni e delle esigenze del territorio sul quale insiste. La problematica che evidenzia, però, questa grande concorrenzialità dei laboratori e, in generale, delle imprese con gestione etnica è data dall’inclinazione di queste a operare in regime di illegalità. Sottrarsi agli obblighi e alle specifiche della normativa in tema di lavoro, complice – se si vuole- l’inerzia o i ritardi nelle verifiche e nei controlli da parte delle strutture istituzionali a ciò devolute è la norma. Questa tendenza a eludere o, in alcuni casi, a ignorare, per quanto sia possibile o utile, il quadro normativo in tema di legislazione sul lavoro che disciplina i rispettivi ambiti d’impiego, fa la differenza in termini di produttività. A tale propensione devono, quindi, essere sommate 269 l’esiguità numerica e la scarsa efficacia dei controlli da parte delle autorità preposte alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori. Una deficienza, questa, che è attribuita a un effettivo problema d’interazione e di comprensione linguistica, nonché alla penuria di organico. A più di trent’anni dall’insediamento della prima comunità di lavoratori cinesi, però, la presenza sporadica di uffici d’intermediazione culturale in seno alle camere di commercio e di raccordo tra le comunità a livello socio-assistenziale che connota troppi comuni investiti dalla problematica, assume più la forma dell’alibi, utile a entrambe le parti, per sottrarsi agli obblighi previsti dalla Legge. Il dato, che emerge da questa inerzia è, dunque, inquietante e lo è nella misura in cui agevola la strutturazione e il consolidamento di condotte spregiudicate che gettano le basi per un malinteso senso di libera concorrenza nel perseguire fini economici e nell’affrontare illegittimamente le sfide imprenditoriali. I ritmi di lavoro ai quali sono chiamati gli operai dai Lao Ban, stigmatizza di fatto la possibilità di replicare un modello (con qualche piccola rivisitazione) a cui il lavoratore deve sottostare: come produce in Cina così deve produrre in Italia. […] una delle cose che mi stupì all’inizio della mia attività investigativa a Prato, era che nelle intercettazioni telefoniche emergeva che parlavano di “stranieri”; i cinesi che parlavano di stranieri, gli stranieri siamo noi, insomma. E questo inizialmente per me era una cosa atipica; chi segue le indagini sui cinesi da anni mi dice: “No, guardi dottore è così da sempre, per cui siamo considerati…” noi siamo gli stranieri, siamo stranieri non solo come etnia, ma siamo stranieri anche come legislazione, siamo stranieri come attività di 270 lavoro, siamo stranieri come regole, cioè siamo noi gli atipici rispetto alla loro tipicità. Quindi, loro portano qua il loro mondo, le loro attività. […] Molti lavorano, un’altra cosa che ho notato, la notte; cioè, lavorano tanto in orari notturni. Perché c’eravamo resi conto, ora poi, con la tecnologia anche televisiva che è cambiata la situazione si è modificata, ma molti lavoravano la notte perché lavoravano con le televisioni accese, con la parabola che prendeva i canali cinesi. Il telegiornale cinese, la televisione cinese e quindi “lavoravano col fuso orario” della televisione cinese che guardavano mentre lavoravano. 205 Si tratta, dunque, di una coazione a ripetere funzionale all’impresa che può giovarsi di un surplus di energia lavoro alla quale attingere, ma che incide sul lavoro stesso in termini di scarsa sicurezza sociale nella misura in cui alla migrazione segue la penetrazione di attività economiche etniche secondo schemi e prassi di fatto incontrollabili. 4. La sicurezza sociale Al concetto di sicurezza sociale va data dunque un’accezione comprensiva dei due concetti che, in lingua inglese, sono espressi dai vocaboli safety e security: protezione sociale e pubblica sicurezza. Un processo di gestione delle relazioni nel e del gruppo sociale che non riguarda solo la pubblica sicurezza, cioè il lato delittuoso delle azioni commesse dagli affiliati alle Triadi, ma anche, se non prevalentemente, quello della prevenzione e correzione delle plurime condotte extralegali e illegali che si consumano, diuturnamente, negli ambienti domestici o nei luoghi di lavoro, oasi di illegalità che sfuggono agli organi di 205 Stralcio intervista al dottor Francesco Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4. 271 controllo perché normalizzate dalla reiterazione indisturbata delle condotte stesse. L’endemica scarsità di risorse umane da destinare al controllo delle attività d’impresa sul territorio, denunciata dai rappresentanti delle istituzioni a giustificazione dell’esiguità del numero di controlli svolti su ditte e imprese nel biennio 2009-2011 e le oggettive difficoltà nel fare incontrare le diverse culture di provenienza sono l’effetto di una politica dell’accoglienza e dell’integrazione che non ha tenuto conto della diversità culturale dell’approccio al lavoro. Il convenire sull’indefettibilità dell’osservanza della norma, si è tradotto nella licitazione di fatto di un modus vivendi autoimmunizzatosi al Diritto. Infatti, la pericolosa e generale flessione del rispetto delle tutele poste dal legislatore internazionale e italiano a salvaguardare i diritti umani e dei lavoratori, sono, insieme ai lavoratori stessi, le prime vittime di una discriminazione che vede controllate solo le imprese gestite da imprenditori italiani e le maestranze, ivi occupate, garantite da eventuali abusi. Le concorrenti imprese cinesi, invece, asseritamente protette dalla difficoltà d’approccio e dall’incomprensibile idioma, spesso operano sul mercato occupando lavoratori immigrati clandestinamente mantenendoli in un regime di costante sfruttamento e talvolta anche segregati. La parte di ricerca sul campo svolta nella provincia di Prato è stata improntata all’acquisizione di informazioni utili a sviluppare l’indagine scientifica e si è fondato principalmente sul contatto col territorio e con 272 chi, di questo, ne vive in prima persona le problematiche. Questo approccio ha consentito di prendere contezza, attraverso la partecipazione diretta ad attività di controllo svolte dalle forze di polizia e degli enti preposti consistiti in accessi e verifiche presso laboratori tessili di manifattura del pronto moda gestiti da imprenditori cinesi. Ingresso del laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 Ingresso del laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 che evidenzia l’oscuramento del vetro che isola gli operai dall’esterno dell’opificio Il contatto diretto con gli operatori e con i loro coadiutori, quali gli interpreti e mediatori culturali, ha poi favorito l’impiego dello snowball 273 sampling che ha permesso di raccogliere dati oggettivi e unici nel loro genere perché attinti direttamente da fonti che, altrimenti, difficilmente si sarebbero dimostrate proclivi ad avere contatti con persone non appartenenti alle istituzioni. Quanto emerge dalle interviste, evidenzia che nel collaborare o svolgere la propria prestazione professionale per conto dei rappresentanti delle istituzioni italiane, i cinesi acquisiscono un ruolo di alterità rispetto al gruppo sociale di appartenenza che li allontana perché su di loro cala l’ombra del sospetto tradimento. Nonostante l’impegno profuso da queste figure professionali sia quello di comporre e agevolare la comunicazione tra le due comunità/realtà (asincrone), i loro sforzi costituiscono una grave violazione del guanxi: una falla nel sistema Cina. Viene immediatamente meno, quindi, quella forma di fiducia, di solidarismo e di mutuo soccorso che, mantenendo attivi i legami tradizionali atavici, impermeabilizza e consolida l’autocollocazione cinese in una condizione di alterità rispetto alla comunità e, quindi, nei confronti della legalità eterodossa e di chiunque non è han. […] quando io sono arrivato a Prato ho impattato questa situazione molto particolare dell’etnia cinese sotto vari aspetti, sotto vari profili. Quello che mi ha indotto di buttarmi un momentino a corpo morto nell’andare ad approfondire questi aspetti è stata, certamente, la grandissima pressione mediatica; le grandissime pressioni che venivano dai cittadini, “gruppi organizzati di cittadini”, che esprimevano le doglianze più disparate relativamente al tipo di convivenza con la comunità “cinopopolare”, legata - essenzialmente - a situazioni di disagio nell’ambito dei quartieri dove l’insediamento dei cinesi è stato più 274 massivo quindi. La così detta Chinatown pratese, ma anche a ridosso di tutti gli insediamenti produttivi gestiti da cinesi.[…] 206 Di seguito sono riportati degli stralci di interviste a dalle interpreti che cooperano con le agenzie del territorio e che aiutano a comprendere, richiamando le loro stesse esperienze di vita e di migrazione (diverse tra loro), come concretamente sia vissuta la contaminazione di un cinese che intrattiene rapporti e si relaziona stabilmente con gli appartenenti alla comunità italiana. È indicativo che l’interprete detta “ANGELA”, seppure da diversi mesi collabori con le istituzioni chieda che il suo nome cinese non venga reso pubblico. Nel descrivere la propria posizione, Angela pone in evidenza come i suoi connazionali la guardino con sospetto e le attribuiscano un ruolo di spia o di delatrice. […] qualche, qualche, qualche cinese anche incazzato, titolare, incazzato… […] con me, si… però qualche cinese titolare arrabbiare anche con noi interprete… perché quando viene controllo pensare mandare noi. Hai capito? […] Si, si… pensavo mandato io. Capito?! Poi operai dipendenti, qualche dipendente onesta dice vissuto, ho lavorato sei mese… però titolare solo fare bugia, dice non è lavorato qua allora anche dice io tratto te male per loro, capito!? 207 L’intervista rilasciata da Angela pone in evidenza come la propensione a orientare la propria vita diversamente rispetto ai connazionali e il fatto che abbia accettato, o addirittura promosso, rapporti e relazioni sociali 206 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011, Si veda Appendice 1 intervista n.3. 207 Stralcio dell’intervista all’interprete “Angela”, Prato 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista n.1. 275 con persone che sono al di fuori della ristretta cerchia della comunità cinese, l’abbia resa invisa agli appartenenti alla Tong. L’ammissione di una interazione con soggetti esterni pone la donna, all’atto della registrazione dell’intervista, in uno stato di afflizione palese, quasi lei per prima si sentisse responsabile di una defezione, di un tradimento. Di fatto Angela sa di essere incorsa in una violazione a obblighi non scritti ai quali ogni cinese è vincolato per il solo fatto di essere parte della comunità. L’intervista prosegue con il coinvolgimento della seconda interprete presente all’operazione di polizia. Dopo aver osservato a lungo da distante la conversazione avvenuta con Angela è la donna stessa ad avvicinarsi e a iniziare una conversazione. Monica, questo il nome italiano con il quale si presenta, dapprima interloquisce sulla situazione in generale e sui controlli che si stanno svolgendo, poi chiede di essere intervistata e non ha ritrosie nel rivelare il proprio nome cinese: Wu Zen Mej. Dalle sue parole emerge una posizione parzialmente diversa da quella di Angela; Wu Zen Mej, infatti, dimostra apertura e la consapevolezza del ruolo che gioca quale interprete attribuendo alla propria figura professionale una connotazione di mediazione culturale tra la comunità autoctona e quella cinese. Sono MONICA, mio nome cinese è WU ZEN MEJ, io faccio interprete con Vigili Urbani. Mio ruolo è quando vanno a fare i controlli interforze nei laboratori, cioè vengo… a fare interprete per i miei connazionali e praticamente devo chiedere le domande che mi viene posto dai vari Enti e tradurre da cinese a italiano per loro, per i vari Enti e poi… e poi praticamente, inizialmente credevo di essere vista male, no?! Perché faccio questo lavoro, sembra che sono contro i cinesi. E poi, andando a fare, ho 276 dimostrato cioè, diversamente… riesco anche a fare capire, però… magari, cioè… davanti me, mi dicono che sembra che aiuto loro, magari in realtà loro pensano che noi siamo, comunque, della parte dei.. della Polizia… 208 Resta evidente, comunque, che la posizione di raccordo tra i gruppi sociali non sia cosa semplice e venga percepita dagli imprenditori cinesi, dalla comunità in generale, come frattura dell’omertà e della solidarietà che il guanxi presuppone. Lo sforzo di Monica è volto a far percepire ai suoi connazionali che le regole vigenti nello Stato italiano sono diverse da quelle in Cina, ma che vanno, comunque, rispettate. Da quanto riferisce Monica, emerge anche che la violazione delle norme da parte degli imprenditori cinesi è una scelta di strategia economica. La consapevolezza di violare le leggi è strumentale e funzionale all’aumento dei profitti d’impresa: […] Si, cerco di spiegare, però la realtà è difficile cambiare[...] Secondo me anche loro capiscono, però se mettono tutto in regola, cioè, non c’è guadagno è difficile continuare il mestiere… Per questo continuano, cioè anche se viene controllato questo laboratorio, questi vanno in altri posti e riaprono… magari , cioè, c’è un continuo… perché i controlli sono già da un po’, no!? I cinesi, secondo me, quelli che sono stati controllati capiscono che oramai devono integrare, però è difficile! Certi stanno iniziando[…] Wu Zen Mej, nel definire il proprio ruolo di mediatore tra la comunità cinese e quella autoctona ammette che a confronto ci sono due mondi: Si, due mondi… perché i cinesi non sono integrati … Un po’ perché è anche la cultura, poi perché se vieni integrato non si sopravvive! 209 […] Eh, si, loro affittano la casa, mettono tutti in 208 Stralcio dell’intervista all’interprete “Angela”, Prato 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista n.2. 209 Si ritiene significativo che a stigmatizzare l’assenza di volontà all’integrazione non sia un soggetto appartenente alla comunità locale storica, bensì alla comunità migrante. Il percorso d’integrazione è un 277 regola come italiani no… come, perché “pratesi” tutti i “confezionisti” italiani hanno chiuso perché non si sopravvive… se continua così anche… credo che anche loro no ce la fanno 210 […] La disponibilità a raccontarsi e la loquacità di Monica sono il segno della consapevolezza di quanto impegnarsi a essere diversamente cinesi conferisca ai gruppi sociali coesistenti sul territorio, opportunità reciproche. Allo stesso tempo, però, non ha timori di denunciare, confermare e circostanziare, quanto la chiusura della comunità cinese possa essere strumentale per gli scopi economici e imprenditoriali del Lao Ban. Di come la diversità delle usanze e la lingua possano divenire una scelta politica delle imprese etniche che cercano in tutti i modi di sottrarsi alla rete di controlli da parte degli organismi a ciò devoluti. Trova, quindi, conferma nelle dichiarazioni della donna, la tesi secondo la quale le incomprensioni linguistiche tra imprenditori cinesi e autorità italiane non sono effettive, ma, spesso, sono la scusa per non ottemperare agli obblighi e sfuggire alle responsabilità derivanti dalla violazione di questi. Per Wu Zen Mej il vantaggio economico nei confronti delle imprese italiane concorrenti risiede essenzialmente nella violazione sistematica della norma, nello sfruttamento e nell’asservimento dei lavoratori agli interessi dell’azienda. processo bilaterale e la mediazione tra culture diverse non può trovare sfogo in una sostanziale realizzazione qualora manchi la volontà a cooperare e a mettere in sinergia le rispettive risorse in un progetto comune di sviluppo del territorio che dovrebbe essere visto e percepito come il patrimonio comune. 210 Stralcio dell’intervista all’interprete Monica, Prato 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista n.2. 278 5. Gli Enti di vigilanza e controllo L’ipotesi paventata da Monica, cioè che sussista una doppia velocità nella valutazione e nel controllo delle attività degli opifici, trova riscontro anche nelle interviste ottenute dai funzionari delle diverse agenzie territoriali di vigilanza impegnati nei controlli e nelle verifiche ai luoghi di lavoro che seguono. L’approccio, il tenore informale e colloquiale con il quale sono stati avvicinati gli interlocutori e raccolte le interviste, ha consentito una maggiore apertura da parte dei soggetti coinvolti nella ricerca, dando così modo a costoro di sviscerare le problematiche e di condividere le frustrazioni professionali che in quanto pubblici impiegati, essi vivono nello svolgere il proprio servizio e nel vederlo, talvolta, vanificato. Seppur evidenziando le difficoltà quotidiane, spesso soverchianti e penalizzanti, l’obiettivo dei funzionari permane quello di ricondurre, almeno in linea di massima, alla legalità una metodologia di lavoro, il modello Cina, che, malgrado si basi sullo sfruttamento dell’essere umano, non incontra alcuna difficoltà a radicarsi nei territori d’insediamento delle comunità e a contaminare anche le imprese virtuose giovandosi, spesso, della solidarietà delle rappresentanze istituzionali cinesi e della forza che le “Associazioni” etniche esprimono su di esse. Le Associazioni, si desume da quanto dichiarato da funzionari degli organi di polizia, ripropongono almeno in parte e in chiave attuale, l’essenza del vincolo solidaristico consortile già analizzato durante l’analisi svolta sulle Società segrete: essere parte del gruppo equivale a essere parte di una “fratellanza che tutela”. 279 […] Un Consolato, Consolato Generale di Firenze, con cui c’era una… una difficoltà d’interlocuzione, una sorta un po’ di “muro di gomma” relativamente all’aspetto immigratorio e quindi il meccanismo che appariva era quella, era quella… di questa copiosa comunità che si era insediata e che viveva pressoché totalmente al di fuori delle regole cioè, non avevano assolutamente assorbito alcun tipo di “regola” e, in maniera più o meno palese, erano condizionati da, un po’ dai “maggiorenti” della comunità; dai “loro punti di riferimento” essenzialmente coagulati nell’ambito delle varie Associazioni. La più forte, probabilmente, è quella “dell’Amicizia”. E quindi, per il cittadino cinese l’imprenditore cinese sembrava, che il porsi in quella maniera, quindi produrre al di fuori di ogni regola di natura fiscale di spendersi sul territorio accumulando rifiuti dove capitava nella maniera più… proprio… senza porsi alcun tipo di problema. Vivere i rapporti nell’ambito delle loro residenze con, con… che so io… quello che mi è rimasto impresso è il pesce appeso ad essiccare, piuttosto che i polli accanto alla… al confinante, davano un quadro effettivamente di una situazione che faceva, la faceva apparire una sorta di “zona franca”, con una incapacità di poter portare… cioè, di creare la giusta deterrenza, il giusto incanalamento di, di questa comunità. Quindi, passaggi funzionali a una pur lenta e graduale, comprensione e quindi recupero a quelli che sono i canoni della vita sociale nell’ambito di una città. E questo mi ha fatto un attimino riflettere su quello che, obiettivamente, si poteva fare; cioè, che tipo di incroci di incastri, si potevano fare per creare, per dare, un’immagine, invece, di uno Stato che esiste, che vuole “spendersi” e che vuole “recuperare”, magari anche, il “cammino perduto”.[…] 211 L’esigenza di ricondurre alla legalità il territorio, quindi, non perde mai d’importanza e costituisce l’obiettivo principale delle istituzioni. Nel corso dell’intervista svolta al dottor Francesco Nannucci, dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato, si pone in evidenza la 211 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3. 280 grande disinvoltura con la quale alcuni Stati dell’Unione Europea rilasciano visti e Permessi di soggiorno. È evidente la successiva facilità con quale, successivamente all’acquisizione del titolo, avvengono le migrazioni interne tra le comunità cinesi negli Stati comunitari. Noi a Prato troviamo tanti “regolari” con Permessi di Soggiorno non rilasciati da noi (inteso dalla Questura di Prato), ma rilasciati da Questure italiane o autorità estere. Abbiamo cittadini cinesi con permessi di soggiorno portoghesi, francesi, spagnoli, inglesi pochissimi, qualcheduno inizia ad esserci con documenti della Repubblica Ceca, dell’Est Europa, dell’ex Est Europa e questo è sintomatico del fatto che loro vengono in area Schengen e entrano in varie zone dell’area Schengen e poi vengono a lavorare, a stabilizzarsi economicamente a stabilirsi su Prato. Prato attira molto i cinesi. 212 Il funzionario di polizia, già nelle prime battute dell’intervista, pone immediatamente l’accento sulla motivazione principale che rende Prato un centro d’interesse per i cinesi; la città toscana rappresenta, infatti, per importanza dell’economia etnica e per il numero di presenze, la seconda Tong europea dopo quella storica di Parigi. Il numero di imprese cinesi operanti o, comunque, attive nel pratese che viene riferito è l’ulteriore dato, forse quello che maggiormente dà contezza della reale situazione economica della comunità e della sua importanza, proviene dai registri della Camera di Commercio di Prato […] Noi abbiamo, a differenza dell’articolo che è uscito oggi, l’ho fotocopiato, e GlobalTime parla di tremila aziende cinesi, in realtà noi Camera di Commercio, ne abbiamo quasi quattromilacinquecento; quindi abbiamo anche una difficoltà nel fare i controlli. E ripeto, quattromilacinquecento, non tutte sono 212 Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4. 281 aziende cinesi legate solo al territorio di Prato, ma anche ad altre realtà nazionali e internazionali perché questi cinesi arrivano dalla Spagna, arrivano dal Portogallo hanno aziende qua con le difficoltà che poi ci sono anche per noi qui anche a livello fiscale di controlli e tutto il resto. Poi la mobilità dei cinesi; troviamo a volte nelle discoteche dei cinesi, ragazzi, che per esempio, cinesi partono da Napoli e vengono a ballare una sera a Prato e poi ritornano a Napoli. Per dirla la semplicità con cui si muovono che fuoriesce un po’ dai nostri canoni e modi di pensare. Questo perché lo dico? Lo dico perché il dato dei cinesi a Prato è un dato difficilmente quantizzabile, difficilmente calcolabile, difficilmente… è difficile dire quanti sono i cinesi a Prato. Tanti. Fra regolari, clandestini e tutto il resto tantissimi; Global Times scrive che sono il 25% della popolazione pratese, penso che sia una “dato” molto vicino a quello reale.[…] 213 La presenza del numero di cittadini cinesi che vivono stabilmente, saltuariamente o che hanno, comunque, a vario titolo interessi a gravitare nel pratese non è, dunque, quantificabile. L’aspetto interessante che si coglie nell’intervista rilasciata dal dottor F. Nannucci, discende dall’attenzione con la quale sono stati approfonditi ambiti d’analisi del fenomeno territoriale d’insediamento cinese. Il dato dal quale emerge con chiarezza è l’interesse dei migranti a vivere stabilmente il territorio e si rinviene nella crescente propensione delle donne a servirsi delle strutture sanitarie per far nascere i propri figli. Un segno non trascurabile dal quale comprendere che l’intenzione non è più solo quella di rimanere in Italia per il tempo strettamente necessario al proprio interesse economico finanziario immediato, ma di 213 Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4. 282 creare progettualità; un saldo legame con il territorio anche disertando la medicina tradizionale e affidandosi alle strutture sanitarie locali. […] Due anni fa feci un piccolo studio, un’analisi, vidi che all’ospedale di Prato un bambino su quattro che nasce è cinese. Un bambino su quattro vuol dire che il 25% dei bambini che nascono all’ospedale di Prato sono di origine cinese. Non so quante realtà in Italia ci siano dove in un ospedale nasce il 25% è straniero dei bambini che nasce, insomma, quindi è un dato che non va sottovalutato. Quando parlo a volte, mi son trovato in una scuola, a parlare di “diaspora cinese”, un termine forse improprio, però la diaspora cinese la vedo come… non come una diaspora che si studia nelle scuole, siamo abituati… ma una situazione dove è più una via di mezzo tra una diaspora e una colonizzazione, cioè abbiamo questi grossi gruppi cinesi, non so se lei ha fatto… una zona, un viaggio nella nostra zona cinese, Via Pistoiese questa zona qua, ma è una zona impressionante; la cartellonistica è tutta in cinese, siamo in un mondo completamente diverso tipico degli insediamenti cinesi. Io non parlo mai di Chinatown, perché non è un termine che mi piace moltissimo, cioè una zona Chinatown in una città non mi piace, ma parlo di “zone ad alta densità cinese […].214 L’analisi del dirigente di Polizia di Stato è molto obiettiva, interessante nella misura in cui evidenzia anche la propensione delle istituzioni a superare gli stereotipi e i pregiudizi che fornirebbero una chiave di lettura semplicistica e ghettizzante della comunità cinese, ma non si astiene dal cogliere e valutare i segnali di chiusura e autoreferenzialità, purtroppo tipici della tradizione Han. […] E… in queste zone, l’italiano si sente a disagio è fuori da ogni luogo, però si percepisce che non è una situazione di un popolo che arriva; è un popolo che probabilmente viene via dal suo Paese per tanti motivi, però ha anche l’intelligenza di 214 Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4. 283 sapersi piantare bene, radicare bene in una certa zona e 215 attirarla alle proprie regole.[…] L’esistenza del doppio canale, già annunciata da Monica e confermata dai rapporti di polizia, diversifica le categorie d’impresa cinesi rispetto a quelle italiane ed è ufficialmente riconosciuta. A tal proposito, di seguito si riportano anche le interviste rese dai funzionari della Direzione Provinciale del Lavoro (DPL), dell’Istituto Nazionale contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) e dell’Azienda Sanitaria Locale (ASL) di Prato, raccolte durante un accesso ispettivo a un laboratorio di manifattura tessile gestito da imprenditori cinesi. Le interviste alla dott.ssa Costanza Bellini, Ispettore del Lavoro della Direzione Provinciale del Lavoro di Prato e alla dott.ssa Maria Vittoria Taverna, funzionario di vigilanza dell’INPS pratese, descrivono un accesso ispettivo: Allora, quindi… L’accesso ispettivo consiste, quindi, nell’entrare in questi locali che vengono chiaramente prima identificati o da parte della Polizia Municipale oppure da parte della Questura o dei Carabinieri delle Tenenze varie che possono essere qua… Montemurlo oppure Prato delle zone della provincia di Prato. Una volta identificato l’obiettivo viene, chiaramente, fatto un acceso quindi, preferibilmente tutti insieme perché l’importante è dare la “fotografia” del momento, proprio nell’entrata quando i lavoratori ”sfruttati” chiaramente, vengono trovati al lavoro, quindi il “momento fondamentale” è trovare al lavoro, all’impiego, al lavoro di questa “manodopera” cinese. Tendenzialmente si cerca di… – compatibilmente con quel che accade – perché, certe volte, sono chiusi, non aprono, di notte sono, ovviamente, con lucchetti vari quindi non sempre è facile entrare insieme per vedere questa ‘fotografia’. Comunque, una volta entrati e ‘messa 215 Stralcio intervista al dottor F. Nannucci, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, dirigente la Squadra Mobile della Questura di Prato. Prato, 3 dicembre 2012. Si veda Appendice 1 intervista n.4. 284 in sicurezza la situazione’, vengono identificate tutte le persone chiaramente con l’interprete cinese di cui abbiamo necessariamente bisogno e a quel punto viene poi, vengono redatti i vari verbali. Tutti per le loro competenze redigono questi verbali e poi, al seguito dei quali, ci sarà la presentazione di documentazione presso i vari Uffici che hanno partecipato all’accesso e, poi, la redazione delle sanzioni, insomma, se ci 216 sono violazione che ovviamente troviamo sempre. È interessante apprendere come sia stato modificato il lato operativo in ordine alla comunicazioni delle notizie di reato e per quanto riguarda l’escussione di eventuali operai. Allora, è molto difficile riconvocarlo perché se troviamo un clandestino, normalmente quindi seguono poi le procedure di Legge e quindi il ‘foto segnalamento’ 217 e tutti i rilievi che vengono fatti o alle Tenenze dei carabinieri oppure presso le locali questure. Quindi a quel punto è fondamentale sentirli di solito durante l’accesso per il fatto che poi, dopo, li “perdiamo”. Spesso e volentieri vengono “sentiti” dai carabinieri magari anche alla tenenza se non possono essere “sentiti” sul posto, quindi vengono escussi. Dichiarano? Dichiarano? Si… diciamo che spesso si. Il clandestino, invece dichiara. Devo dire la verità, forse meno del dipendente assunto che di solito, invece, tende a ritrattare o comunque a dire l’inizio del rapporto di lavoro sempre inferiore rispetto anche alla regolarità che poi presenta. Quindi, se ha cominciato nel 2011 a gennaio, dice che ha cominciato ad aprile; ecco questo è, anche se è regolare. È proprio una paura del dipendente. 216 Stralcio intervista ispettore del lavoro Direzione Provinciale del Lavoro di Prato dott.ssa C. Bellini; funzionario di vigilanza INPS dott.ssa M.V. Taverna. Si veda Appendice 1 intervista n.7. 217 ‘Foto segnalamento’, si tratta di una procedura di identificazione svolta dagli operatori di polizia tesa ad attribuire una identità certa al soggetto che viene rintracciato. Tale attività può essere svolta per fini amministrativi, come nel caso della violazione degli obblighi connessi alla posizione di migrante, oppure per ragioni di polizia giudiziaria, nel qual caso la finalità è di attribuire al soggetto autore di un reato un’immagine che concorra, insieme al rilevamento delle impronte papillari, ad attribuire un’identità certa che non consenta errori nell’imputazione di fatti dai quali derivino delle responsabilità penali a questi connessi. 285 Diciamo che c’è una compartecipazione all’impresa criminale anche da parte del dipendente? Sicuramente, si. Forse questo si, si può dire… Si, però il clandestino io ho notato che parla […] Interviene il funzionario di Vigilanza dell’INPS, dott.ssa Maria Vittoria Taverna: Si, il clandestino parla. Generalmente cosa succede; se ci sono i carabinieri li sentono loro a sommarie informazioni218 quindi gli fa ‘paura’ la divisa. Se invece non ci sono i carabinieri, li sentiamo noi dell’INPS perché, non essendo polizia giudiziaria, ma polizia amministrativa li possiamo ascoltare senza la presenza dell’avvocato. E quindi, a quel punto, ci raccontano. Parlano! Quindi vi avvale di questo tipo di attribuzioni per… Si, per forza! …si cerca di perfezionare il tutto e poi noi dobbiamo fare il calcolo dei contributi, chiaro. Noi lo possiamo fare solo successivamente. All’inizio noi raccogliamo le dichiarazioni e sappiamo quando ha inizio il rapporto di lavoro, dopo di che viene controllata e confrontata la dichiarazione con quelle che sono le scritture sui “libri obbligatori”; il “LUL” (Libro unico del Lavoro) per esempio. Confrontiamo per vedere se quanto dichiarato, la data dell’inizio del rapporto dichiarato, è lo stesso che risulta dal LUL; dopo di che se non corrispondono, facciamo noi gli “addebiti” relativi. Tutta l’evasione contributiva? Si tutta l’evasione contributiva. Poi, il cinese, ha una “prerogativa”… ad esempio, anche se sono dipendenti a tempo indeterminato, loro cosa fanno? Loro dichiarano al massimo una o due giornate di lavoro a settimana e pochissime ore, anche se noi sappiamo benissimo che lavorano anche sei giorni alla settimana, se non sette, e addirittura per oltre dieci ore di lavoro al giorno. Dieci, dodici ore al giorno in media. Cioè c’è una evasione contributiva? Enorme, enorme! Spropositata… 218 Sommarie informazioni testimoniali da parte della polizia giudiziaria, art. 351 codice di procedura penale. 286 Che è un danno… È un danno per tutto e poi cosa succede che c’è un enorme sfruttamento del personale in quanto, poi, al personale non gli vengono dati gli importi relativi all’attività svolta, ma generalmente, dato che vivono, dormono, mangiano all’interno dei “magazzini”, il datore di lavoro si trattiene una parte dello stipendio dove (dal quale) si “paga” tutte le spese; e per il mantenimento “normale” e, eventualmente, se “questi” li hanno fatti venire dalla Cina. Se sono loro che li han fatti venire dalla Cina… quindi si trattengono soldi. Quindi… Per questo che non mettono (computano) le ore che effettivamente lavorano; queste persone, ma ne mettono molte di meno in modo da non pagarci i contributi. Però li fanno lavorare “un’ira di Dio”. Quindi sono “sfruttati al massimo”. Infatti non hanno quasi mai i documenti. I documenti gli vengono levati, soprattutto al clandestino, che agli altri. Ai clandestini la prima cosa che gli succede, gli viene levato subito il documento… I documenti li avete trovati qualche volta a seguito delle ispezioni? No, quello dei clandestini, si trovano solo se hanno voglia di farsi rimpatriare… Allora si fanno trovare con il documento, con il passaporto, perché almeno così possono essere “presi” e rimpatriati in Cina. Se non vogliono essere rimpatriati, naturalmente, non hanno nessun tipo di documento e poiché il cinese… chi lo dice che è cinese!? Solo perché ha gli occhi a mandorla? Non è mica detto, eh!? … Lo sono, eh… eh… ma non è dimostrato… Interviene nuovamente la Dott.ssa Costanza Bellini: Per quanto riguarda le normative sulla sicurezza sul lavoro? Per quanto riguarda la sicurezza, in questo caso è la ASSL, si, però in questo caso è la competenza della ASSL… spesso, anche oggi, in questo caso c’è anche la ASSL che, per quanto riguarda la sicurezza sui luoghi di lavoro, interviene. La Direzione Provinciale del Lavoro si occupa dell’edilizia… 287 Voi applicate il Regolamento Comunale? Si, si, ma in questo caso sono i Vigili, a questo punto sono i Vigili della Polizia Municipale e non noi… non noi. In questo caso la Comunicazione di Notizia di reato? Si però in questo caso, qui a Prato, funziona con i vari “patti” che ci sono; i vari tavoli che ci sono… dove tutti gli Enti presenziano. C’è un Verbale Unico 219 , il così detto “Verbale di sequestro generale” che appunto sta redigendo la Dottoressa della Polizia Municipale dove dà atto di tutte le operazioni che vengono compiute ogni volta da tutti i vari funzionari che hanno partecipato. Quindi, ognuno per la propria competenza, dà atto di quello che ha fatto e a quel punto il sequestro dell’immobile perché c’è la “promiscuità” tra… chiaramente il lavoro e il dormire insomma, come si vede spesso ci sono questi loculo dove si dorme, si mangia e poi la macchina da cucire sotto, c… Quante postazioni di lavoro avete trovato oggi? Eh, oggi mi sembra nella mia… ventitré forse in totale su due ditte; quindi ventitré macchine da cucire che vengono sequestrate e gli vengono messi i sigilli e poi ulteriormente… Il funzionario di vigilanza dell’INPS, dott.ssa Maria Vittoria Taverna, aggiunge, poi che i Lavoratori dichiarati dal titolare nessuno nella nostra; poi, invece, almeno due siamo riusciti a trovarli, ma senz’altro ne sono molto di più… l’ideale sarebbe venirci di notte è più probabile che di notte si trova qualcosa di più. Di giorno, a quest’ora, trovi meno… Lavorano soprattutto di notte, però gli accessi li facciamo anche di notte (qui le voci della Taverna e della Bellini si sovrappongono) e troviamo… Operate anche in tempo di notte? Si, si, si 219 Il verbale unico (Verbale di sequestro generale) costituisce uno strumento di sintesi attraverso il quale avviene la stigmatizzazione delle operazioni svolte dai vari organi di polizia e vigilanza sociale. Un documento unico con il quale è data comunicazione all’autorità giudiziaria (un pool di magistrati che si occupa di perseguire reati in materia di lavoro e violazione delle norme sull’urbanistica della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Prato) della situazione così come “fotografata” all’atto dell’intervento, per i successivi adempimenti di Legge. 288 In tempo di notte l’accesso viene fatto con l’Ordinanza del magistrato? No, no, no… sempre d’iniziativa da parte dei vigili, della questura (sotto si sente la Bellini che ripete “di questo tavolo”…) o dei vari Enti che fanno delle “proposte”… La particolarità delle Ditte cinesi è il lavoro notturno, qui si lavora sempre di notte; un’altra particolarità è la continua apertura, la continua apertura e chiusura di Ditte. Giornalmente in Camera di Commercio vengono aperte un numero incredibile di ditte e vengono chiuse perché quando noi facciamo i controlli “dopo poco la ditta cessa e riapre sotto altro nome”, sotto un altro titolare. Quindi, quando noi facciamo questi controlli troviamo quasi sempre, poi, le stesse facce, la stessa gente e così si evita di pagare sanzioni, verbali. Vi avvalete di interpreti, di mediatori culturali? …no, l’INPS non ha interpreti perché pare che non abbia i mezzi finanziari per procurarci un interprete […]ci avvaliamo degli interpreti di altri Enti. Ogni volta che usciamo, in base alla grandezza dell’obiettivo, partecipa uno, due, tre interpreti dipende, perché si decide preventivamente quali sono le Ditte da andare a controllare. Quindi si fanno le visure; si sa quante ditte ci sono all’interno (dei capannoni) e quindi, quando si arriva, si portano un tot un numero di interpreti adeguati… non sempre, comunque… I controlli sono? …efficaci ed efficienti… non sappiamo quali sono i risultati di questi controlli; se effettivamente hanno una funzione deterrente […]deterrente no, basta vedere quanti continuano a farne… Il fatto che continuino ad arrivare, vuol dire che non c’è deterrenza se no, probabilmente, andrebbero in un’altra zona. Il fatto che qua continuano ad arrivare e noi continuiamo a trovare clandestini, anzi, ora è un periodo che son di nuovo aumentati i clandestini, vuol dire che non c’è deterrenza. Perché se ci fosse deterrenza, eh… 289 Il quadro che emerge del fenomeno dalla narrazione degli Ispettori è una fotografia dello stato dell’arte tutt’altro che rassicurante. Da queste parole giunge anche la conferma di una incomunicabilità non solo tra i gruppi sociali, ma anche tra gli operatori sul territorio e i vertici nazionali delle Agenzie di controllo. […] Quindi, analizzato quello che facevamo, come lo facevamo e il tipo di risultato che “portavamo a casa” di un’attività comunque intensa che già veniva svolta, ho pensato di creare questo d’intesa con il Prefetto con cui c’era un… come dire, una sinergia totale, tant’è che la riunione, la, la prima riunione, l’abbiamo proprio fatta in Prefettura ed era una riunione eminentemente tecnica, sedendoci a un tavolo con tutte le Amministrazioni del territorio. Abbiamo tentato di fare una ricognizione palese, interrogandoci, per tentare di capire quale delle Amministrazioni potesse detenere le procedure di carattere Amministrativo, di carattere Penale che potessero essere le “più incisive possibili” per iniziare a fare questa “grossa, forte, affermazione di presenza dello Stato sul territorio” affinché si potesse, come dire, creare il giusto rapporto di deterrenza; si potesse comunicare che l’infrazione non paga, cioè vivere al di fuori delle regole non paga, perché “lo Stato è in grado di importi” il rispetto delle regole. E questa ricognizione eh… come dire, è stata utile, sconcertante per taluni versi, proprio in virtù del fatto che alcune Amministrazioni, importantissime nell’ambito della… della… controllo di questi fenomeni, in particolare dei fenomeni di sfruttamento del lavoro clandestino, di avviamento e di sfruttamento del lavoro clandestino, vivessero la fenomenologia non in una logica emergenziale, come – viceversa – i canali forze polizia e anche i canali, comunque, amministrativi del territorio, ormai accreditavano, perché la massività della presenza, effettivamente, toccava aspetti di carattere emergenziale, bensì come un’attività… “una delle attività” deputate alle competenze di “quell’Amministrazione”. 290 Le faccio un caso tipico, che forse è stato quello più eclatante… tipo la Direzione Provinciale del Lavoro che riceveva dall’Amministrazione Centrale gli “obiettivi annuali”, cioè gli input , “sganciati” da un’analisi, vera, di quelle che erano le fenomenologie del territorio. Perché se, a livello di verifica il D.P.L. riceveva, che so io, il controllo di benzinai e parrucchieri a fronte di 4.500 (quattromilacinquecento) aziende cinesi sul territorio, obiettivamente, qualcosa che non quadrava c’era… c’era questa distonia, disassamento, a livello di obiettivi.[…] 220 Non viene dunque taciuta nemmeno la consapevolezza che l’impermeabilità verso le regole sociali dello Stato che, colpevolmente e in qualche modo sconnesso dal territorio, consente l’affermarsi della condizione di auto-emarginazione della comunità cinese. Una scelta, un atto cosciente e consapevole, la cui utilità è di eludere il reticolo normativo che, laddove venisse rispettato, non consentirebbe di realizzare l’extraprofitto necessario a mantenere la posizione dominante in termini di competitività, nei confronti delle imprese (anche cinesi) che operano lecitamente. L’intervista che segue è stata rilasciata da Lorenzo ALPI, tecnico della prevenzione dell’ASSL n 4 di PRATO - Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza nei luoghi di lavoro. Si tratta di una descrizione della situazione che solleva definitivamente il velo sui rischi, spesso ignorati, ai quali i lavoratori sono esposti quotidianamente. Da questa istantanea emergono condizioni di vita igienico-sanitarie allarmanti in cui queste persone vivono e lavorano. 220 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3. 291 Le dichiarazioni spontanee rese dai lavoratori all’atto del loro rintraccio da parte degli organi di polizia, confermano che non appena questi prendono coscienza di avere dei diritti, in parte, li esercitano. Nei nostri interventi con “l’interforze”, normalmente riscontriamo reati relativi a quelle che sono la normativa, il Decreto Legislativo 81/08, sulla prevenzione infortuni e l’igiene dei luoghi di lavoro. Sostanzialmente [si sottintende nelle ditte cinesi ispezionate] manca tutta la documentazione. Quelli, insomma, più contestati. Manca tutta la documentazione relativa al Servizio di Prevenzione e Protezione Interno: alla nomina degli addetti ai “pronto soccorso” e la Gestione dell’Emergenza; alla nomina del responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dai Rischi, nonché, nello specifico, anche reati connessi a quelle che sono normalmente l’impianto elettrico - che è molto carente - ed alla pulizia dei locali. In alcune parti abbiamo trovato anche, pur essendo macchine semplici, sono macchine da cucire, reati relativi alla “sicurezza delle macchine” in quanto non c’era il “Carter di protezione” sulla puleggia che trasporta il “moto” dal motore alla macchina da cucire. Per quanto riguarda le unità abitative che si trovano all’interno…? Quelle lì non siamo competenti noi… Ma è usuale trovarle? È sempre, sempre a questa maniera; è sempre così. È un dato di fatto! Secondo lei qui quante persone trovano lavoro? Ma qui, ci possono trovare lavoro una, in tutte e due le Ditte, a secondo, anche una ventina di persone; perché le camere ci sono e ci sono anche un cospicuo numero di macchine da cucire e taglia e cuci, comunque…221 221 Stralcio intervista al tecnico della prevenzione dell’ASSL n 4 di PRATO -Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza nei luoghi di lavoro- Lorenzo ALPI. Si veda Appendice 1 intervista n.8. 292 Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 Laboratorio e suddivisione degli spazi tra le due ditte coesistenti nel capannone Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 Particolare che evidenzia le condizione di manutenzione di una macchina da cucire 293 Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 Particolare che evidenzia la violazione alla normativa sanitaria sugli impianti elettrici 6. Il “Tavolo Savi”. Strumenti normativi e Nucleo Interforze Le difficoltà oggettive di eseguire i controlli alle imprese e la diffusa propensione degli imprenditori a eludere ogni forma di controllo da parte degli organi preposti, convincono le autorità locali sull’opportunità di trasformare radicalmente l’approccio verso la problematica, solitamente attagliato su controlli svolti dai singoli uffici in maniera isolata e per settori di competenza, promuovendo la cooperazione e la complementarità tra le specifiche attribuzioni dei soggetti operanti. Questa procedura dal 2007 diviene prassi con la costituzione di un Nucleo Interforze, un pool, con a capo alcuni magistrati esperti in reati ambientali e urbanistici della Procura della Repubblica di Prato, ma che coordina le attività delle agenzie di sicurezza sul territorio. 294 […] ho tentato di studiare quella che era la qualità della risposta che gli “apparati” avevano fornito, cercando di verificare, di storicizzare, quindi di tornare indietro di due/tre anni facendo una comparazione dei dati legati ai servizi svolti; che impostazione era stata data; quali risultati, effettivamente, erano stati raggiunti. Perché l’impegno nel contrasto, essenzialmente e per quanto riguarda la Questura ai profili dell’immigrazione clandestina, era iniziato da tempo. Quindi, una presenza sul territorio a livello di servizi, anche svolti in termini più o meno congiunti o pianificati, con altre Forze di Polizia, è un dato che c’era. Quello che poco veniva analizzato era, effettivamente, il risultato. S’era di fronte a una sorta di empaces sotto il profilo della “operatività vera” dei provvedimenti espulsivi che venivano assunti.[…]222 Per consentire l’attuazione della strategia scelta e rendere operativo il Nucleo, diviene essenziale la predisposizione di un reticolo di norme in grado di dare operatività alla policy scelta in tema di sicurezza sociale e a tal fine risulta essenziale la predisposizione e l’approvazione di norme locali, nonché dei relativi regolamenti attuativi, utili a rendere il più possibile efficace l’azione svolta in copresenza dai funzionari delle diverse Agenzie territoriali. […] E quindi, dopo aver fatto una ricognizione di dettaglio di tutte le Norme applicabili per, per ciascun attore che era presente al “tavolo”, abbiamo fatto una selezione, uno studio, un approfondimento e devo dire, in particolare, qui è stata preziosa la Polizia Municipale perché per quanto riguarda il controllo sulle attività produttive, che è un po’ il nocciolo duro della situazione e in questi capannoni come lei, non so se le è capitato di vedere o di visitarne qualcuno, ma “praticamente si mangia, si dorme e si… ci sono un po’ di sepolti vivi per qualche anno fin quando il clandestino non si affranca dagli oneri” che deve liquidare all’organizzazione che l’ha portato o, in ogni caso, 222 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista 3. 295 “alle intese che ha assunto in madrepatria” con l’imprenditore “a cui si è offerto”, è veramente una situazione che dire “scabrosa” è sicuramente riduttivo perché parliamo di condizioni di vita assolutamente allucinanti. Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 servizio igienico che serve circa cinquanta tra operai e familiari Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 Alloggio interno all’opificio per operai e familiari 296 Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 Bambino all’interno della cucina improvvisata che serve i dipendenti dell’opificio E quindi i passaggi che abbiamo fatto di seguito sono stati… cioè, innanzitutto, come dire, si è realizzata una disponibilità, un’attenzione; cioè le Amministrazioni così come sono state “stimolate” in questo modo, perché poi il mese dopo abbiamo rifatto una riunione cominciando a lanciare qualche ipotesi di modifica, di miglioramento, di quelle che potessero essere, che potesse essere la situazione derivante dall’analisi iniziale e abbiamo iniziato a lavorare su vasta scala con una programmazione, con una programmazione… importante e, onestamente, anche molto visibile perché il discorso della “visibilità dei nostri servizi”, l’abbiamo stimata come “necessaria” per iniziare a “lanciare questo tipo di messaggio”. Infatti, il mese di maggio del 2008 è stato un mese di lavoro intensissimo, anche molto grosso; abbiamo controllato tantissime aziende finanche con blocchi di aziende e con l’impiego di operatori in maniera proprio molto visibile, anche con l’aiuto del Ministero che ci ha mandato rinforzi esterni… e “il fatto che iniziavamo a colpire interessi precisi” e che “il messaggio fosse passato” è partito dalle reazioni, “un po’ scomposte”, da parte del Console 297 Generale che nel maggio del… nel maggio del 2008 ha iniziato a lamentarsi, a dolersi della tipologia dell’intervento, della tipologia della nostra attività, della… dei numeri impressionanti che trovavamo; perché, ricordo, probabilmente era, era quella, quella la prima volta in cui, accedendo in orari notturni in questi capannoni, trovammo un numero di clandestini assolutamente sproporzionato. Più di 100 (cento) clandestini, ci ponemmo finanche il problema di dove collocarli e come fare l’analisi della loro situazione personale; quindi, attrezzammo, grazie all’aiuto della Protezione Civile del Comune di Prato, un locale, addirittura, dedicato allo spettacolo quindi lo attrezzammo con brandine e affini, proprio per poter poi gestire in termini cadenzati, poi, i fotosegnalamenti e l’esame della situazione personale di ciascuno.[…] 223 Il Nucleo Interforze nasce, dunque, con la vocazione a perseguire la violazione della Legge sull’immigrazione, della normativa posta a tutela dei lavoratori, dell’igiene e della sicurezza sui luoghi di lavoro, in combinato disposto con la violazione del regolamento comunale sull’edilizia adottato dal comune di Prato. Laboratorio di Prato, Via Mazzini, 3 Particolare che evidenzia la ripartizione in ambienti diversi fatta con l’impiego di “cartongesso” 223 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista 3. 298 Essa costituisce, quindi, un’innovazione procedurale di non poca significatività. Tale metodo, nella sostanza, non solo si rivela efficace perché interviene riducendo al massimo gli abusi nei confronti dei lavoratori, ma pone un argine agli effetti di una politica territoriale che anziché perseguire l’integrazione, si era rivelata inadeguata consentendo la strutturazione di un autoisolamento da parte della maggior parte degli appartenenti alla comunità cinese, e il consolidamento di uno status quo “altro” spesso permeato di extralegalità e illegalità. Nell’adozione di tale procedura non c’è nulla di razzista o discriminante come, invece, sostenuto da alcuni esponenti della comunità cinese che, per il solo fatto di essere stati sottoposti a verifiche congiunte, si erano sentiti al centro di una trama persecutoria. La volontà di non consentire la creazione di zone franche nonché di ricondurre all’osservanza della norma un settore d’impresa e di uniformare il trattamento degli esseri umani di fronte al diritto, resta al centro delle priorità del pool. L’adozione di strategie concordate tese a disarmare la mano degli sfruttatori di esseri umani, rientra nel progetto di legalizzazione del territorio ed è stigmatizzato nell’intervista rilasciata dal comandante della Polizia Locale di Prato, dott. Andrea Pasquinelli, che si ritiene di dover riportare integralmente nel testo poiché rilevante per la dimostrazione della tesi sostenuta in questo lavoro di ricerca. Egli, infatti, spiega l’iter storico e giuridico attraverso il quale, dalla sanzione a fronte della violazione di norme contro l’edilizia, si giunge a reperire i 299 lavoratori sfruttati, nonché a garantirne la sicurezza e la dignità di persone ritenute invisibili -perché clandestini o segregate nei luoghi di lavoro- che per le condizioni di vita a cui sono costretti, sfuggono alle tutele che la legge prevede. Allora, l’organizzazione e la creazione del Nucleo Interforze, o meglio, il rafforzamento, diciamo, il nuovo assetto del Nucleo è avvenuto attorno alla metà del 2007, in concomitanza con un cambiamento, deciso, di rotta da parte della Procura della Repubblica sulla definizione di “illecito edilizio” che… legato anche una diversa approccio da parte degli “uffici tecnici” perché in un primo momento, diciamo, la “violazione edilizia” veniva considerata “bagatellare”; e pannelli in “cartongesso”, diciamo, strutture che si potevano facilmente demolire o asportare, quindi qualcosa di provvisorio e non di definitivo… Ma quando poi il fenomeno è esploso ci siamo accorti, tutti si sono resi conto, che non era più possibile affrontarlo con un approccio di quel tipo e quindi, anche gli Uffici Tecnici hanno cominciato a rivedere l’atteggiamento, anche perché risultava che finito l’intervento, demolita la “pannellatura”, la struttura “risorgeva, esattamente com’era prima nel giro di un mese, un mese e mezzo. Quindi questo faceva sì che l’approccio che voleva la violazione edilizia “provvisoria” cominciasse a vacillare. E, dopo di che siamo, ci si è passati, decisamente, invece a configurare la violazione come una violazione di tipo “permanente”, quindi ecco l’applicazione della Norma Penale e quindi, successivamente all’applicazione… all’applicazione alla Norma Penale, l’applicazione del sequestro preventivo e in maniera costante. Contemporaneamente si è cominciato a ragionare sul fatto che era necessario che tutti i diversi Enti che comunque avevano a che fare, insomma addetti alla vigilanza e controllo di questo tipo di attività dovevano come dire, assumere un atteggiamento più “afflittivo”, cioè applicare la Norma nella maniera più efficace [rigorosa] possibile per evitare un dispendio di risorse e giri inutili e via dicendo. E quindi “ripetizioni d’interventi” quando “tutto ritornava come prima”. Che cosa succedeva!? Che, magari, la Polizia Municipale applicava il 300 sequestro per quanto riguardava l’edilizia e tutti gli “altri” (Enti intervenuti) si limitavano a dare prescrizioni. In particolare, Vigili del Fuoco e ASL avevano questo atteggiamento. Con il nuovo Questore (dott. Domenico SAVI) cominciammo a convocare, cominciò lui a convocare in Prefettura, quindi in un ambiente, come dire, “neutro” e, tute le “Forze” che, in gran parte, “dipendevano dallo Stato”, perché il “DPL” dipende dallo Stato, i Vigili del Fuoco dipendono dal Ministero dell’Interno… la ASL no, però, comunque il fatto di essere riuniti in Prefettura dava, come dire, “maggior peso all’invito” e, con un non facile, con una “non facile opera di mediazione” di convincimento, di affinamento di procedure, si è arrivati, anche tramite “un tavolo” che fu costituito appositamente in Prefettura con lo scopo di analizzare le procedure e di studiare le prassi più efficaci e più afflittive, che per altro nel corso del tempo fu superato perché, voglio dire, non è che le norme si possono produrre continuamente, ci fu una serie di proposte a livello governativo; qualcuna è stata accolta più recentemente, qualcuna no e comunque veniva a sovrapporsi con il “tavolo di coordinamento” che contemporaneamente veniva fatto in Questura. C’erano due tavoli, uno che analizzava i risultati dell’azione precedente e studiava “l’obiettivo” successivo, dopo di che, operativamente, c’era il tavolo di coordinamento in Questura. Piano, piano questi due tavoli, però, tendevano, come dire, a diventare – più o meno - la stessa cosa, tanto è vero che una volta che si arrivò a definire la procedura in maniera completa, il “tavolo in Prefettura” cessò di avere, di avere… di tenersi perché non ce n’era, poi, effettivamente più bisogno. Uno dei risultati del tavolo prefettizio fu, però, lo studio, la messa a punto, la condivisione di quella “famosa” Ordinanza, ex art. 54, che cominciammo ad adottare, mi sembra, nei primi del 2009 o fine 2008, o primi del 2009… Art. 54 del Testo Unico degli Enti Locali, novellato dalla Legge 92 del 2008 “Primo pacchetto Sicurezza”224. 224 Testo Unico degli Enti Locali, art. 54 - Attribuzioni del sindaco nelle funzioni di competenza statale. 1.Il sindaco, quale ufficiale del Governo, sovrintende: a) all'emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalla legge e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica; b) allo svolgimento delle funzioni affidategli dalla legge in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria; c) alla vigilanza 301 Quindi noi, quella Ordinanza che attualmente viene emessa anche oggi che dichiara “inagibile” e ordina lo sgombero dell’immobile e che si sovrappone o viene notificata, contemporaneamente al dissequestro penale. Quindi, o viene notificata quando ancore c’è in atto il sequestro penale, o, comunque, nella fase della notifica del dissequestro in modo che non ci siano ‘iati’ temporali nel mezzo. Di fatto questi immobili, dai controlli che abbiamo eseguito, non vengono poi “riportati sul mercato”; nel senso che, vengono riportati solo quelli i cui proprietari “si mettono all’anima” di investire soldi per mettere a su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone il prefetto. 2.Il sindaco, nell'esercizio delle funzioni di cui al comma 1, concorre ad assicurare anche la cooperazione della polizia locale con le Forze di polizia statali, nell'ambito delle direttive di coordinamento impartite dal Ministro dell'interno - Autorità nazionale di pubblica sicurezza. 3.Il sindaco, quale ufficiale del Governo, sovrintende, altresì, alla tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e agli adempimenti demandatigli dalle leggi in materia elettorale, di leva militare e di statistica. 4.Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono tempestivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione. 5.Qualora i provvedimenti di cui ai commi 1 e 4 possano comportare conseguenze sull'ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o limitrofi, il prefetto indice un'apposita conferenza alla quale prendono parte i sindaci interessati, il presidente della provincia e, qualora ritenuto opportuno, soggetti pubblici e privati dell'ambito territoriale interessato dall'intervento. 6.In casi di emergenza, connessi con il traffico o con l'inquinamento atmosferico o acustico, ovvero quando a causa di circostanze straordinarie si verifichino particolari necessità dell'utenza o per motivi di sicurezza urbana, il sindaco può modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, adottando i provvedimenti di cui al comma 4. 7.Se l'ordinanza adottata ai sensi del comma 4 è rivolta a persone determinate e queste non ottemperano all'ordine impartito, il sindaco può provvedere d'ufficio a spese degli interessati, senza pregiudizio dell'azione penale per i reati in cui siano incorsi. 8.Chi sostituisce il sindaco esercita anche le funzioni di cui al presente articolo. 9.Al fine di assicurare l'attuazione dei provvedimenti adottati dai sindaci ai sensi del presente articolo, il prefetto, ove le ritenga necessarie, dispone, fermo restando quanto previsto dal secondo periodo del comma 4, le misure adeguate per assicurare il concorso delle Forze di polizia. Nell'ambito delle funzioni di cui al presente articolo, il prefetto può altresì disporre ispezioni per accertare il regolare svolgimento dei compiti affidati, nonché per l'acquisizione di dati e notizie interessanti altri servizi di carattere generale.10.Nelle materie previste dai commi 1 e 3, nonché dall'articolo 14, il sindaco, previa comunicazione al prefetto, può delegare l'esercizio delle funzioni ivi indicate al presidente del consiglio circoscrizionale; ove non siano costituiti gli organi di decentramento comunale, il sindaco può conferire la delega a un consigliere comunale per l'esercizio delle funzioni nei quartieri e nelle frazioni. 11.Nelle fattispecie di cui ai commi 1, 3 e 4, anche nel caso di inerzia del sindaco o del suo delegato nell'esercizio delle funzioni previste dal comma 10, il prefetto può intervenire con proprio provvedimento. 12.Il Ministro dell'interno può adottare atti di indirizzo per l'esercizio delle funzioni previste dal presente articolo da parte del sindaco. 302 Norma i capannoni. Perché, la nostra idea era: “Come è possibile che venga dissequestrato e restituito così com’è, un capannone al cui interno sono stati effettivamente demoliti i “loculi”, ma dove dal punto di vista puramente edilizio la violazione non era certo… cioè costruire loculi, suddividere spazi non è come costruire una casa abusiva in un parco e quindi è dal punto di vista puramente edilizio od urbanistico non è che la violazione singola fosse particolarmente grave ed era un po’ singolare che di fronte a violazioni, anch’esse penali, come quella sul Decreto Legislativo 81 in materia di Sicurezza sui Luoghi di Lavoro e sulle Norme Antincendio e in quei casi ci si limitasse a dare “prescrizioni”, mentre invece la Polizia Municipale operava sulla parte edilizia ripeto, non certamente manifestazione della Violazione più grave - il Sequestro Penale. E quindi, la conclusione è stata quella di arrivare ad un sequestro penale che titolasse, cioè che chiamasse, tutti i Titoli più gravi, in modo che il singolo sequestro veniva valutato dal singolo magistrato che, per convenzione, poi, sono stati due magistrati; uno che si interessava maggiormente di edilizia e l’altro che si occupava maggiormente della sicurezza sui luoghi di lavoro. E comunque sono diventati dei “punti di riferimento” unici per questo tipo di fattispecie. E, diciamo, a questo punto, il Sequestro plurititolato fa sì che i tempi del dissequestro si allunghino, perché non si restituisce più l’immobile solo perché “si sono levati di mezzo i loculi”, ma perché anche sono state eliminate, o comunque si intendo eliminare anche, tutte quelle altre violazioni; di tipo, appunto, Norme Antincendio o cos’altro. L’obiettivo finale sarebbe questo. Comunque, nelle more, c’è anche questa Ordinanza che s’interpone nel mezzo e quindi, comunque… Perché, naturalmente il Sequestro Preventivo è più efficace perché c’è l’iscrizione alla Conservatoria; quindi se il sequestro preventivo resta in atto per dei mesi e, l’immobile non solo non può venire utilizzato, ma non può neanche essere venduto e quindi insomma è sicuramente più, più, come dire... più, più… più grave come provvedimento. Però, insomma, anche l’Ordinanza del Sindaco il suo effetto lo fa perché, comunque, costringe il 303 proprietario a investire per risolvere le problematiche che si sono evidenziate. 225 A seguito dell’applicazione di tale metodologia di contrasto al fenomeno dello sfruttamento e delle violazioni in materia di disciplina sulla tutela dei lavoratori nonché all’ingresso operativo sulla scena del Nucleo Interforze, nel 2008 l’Ambasciata cinese indirizza al Ministero degli Interni italiano una nota formale di protesta evidenziando come il “Tavolo Savi”, in sé e per le modalità attuative dei controlli effettuati attraverso gli accessi, costituisca non solo una forzatura giuridica, ma persegua intenti discriminatori. […] Mentre sotto il profilo tecnico, a livello di approfondimento procedurale, abbiamo iniziato creando un “tavolo” di approfondimento prima ristretto, per cui era rappresentata la Prefettura, la Questura, la Polizia Municipale e la Direzione Provinciale del Lavoro; proprio per iniziare a lavorare su quelle che potessero essere le “nuove procedure”, in particolare per rendere efficaci i provvedimenti di “sequestri”. Di sequestro preventivo, soprattutto degli impianti, che venivano disposti anche prima, ma che venivano “restituiti con una liquidazione di una Sanzione Amministrativa veramente banale” per cui macchine irregolari che non potevano produrre che non avevano garanzie sotto il profilo della sicurezza e quant’altro rientravano, comunque, in possesso dell’imprenditore. Allora ci siamo sforzati di capire come si potesse agire sfruttando, nel frattempo, anche i provvedimenti che il Governo aveva licenziato in tema di “Pacchetto Sicurezza”, quindi, qui parliamo del maggio 2008; il Decreto che, poi, è stato convertito, se non erro, con la Legge 125 dell’agosto successivo; in particolare la modifica dell’Art. 54 del TUEL e gli “spazi aggiuntivi che potevano appartenere al Sindaco” per quanto riguarda l’emissione delle sue Ordinanze. 225 Intervista dott. Andrea Pasquinelli, Comandante della Polizia Municipale di Prato (PO), testo integrale della trascrizione dell’intervista effettuata a Prato il giorno 11.04.2011. Si veda Appendice 1 intervista n.6. 304 E quindi, “ci si è inventati”, si è fatta l’opzione, per rendere sempre più incisiva questa attività, fermo restando poi il lavoro, l’itinerario comune, che si è iniziato a svolgere associando alle nostre attività tutti gli Enti che ritenevamo potessero essere utili nell’ambito dell’attività sanzionatorie, quindi diciamo ASSL, nella duplice veste della, della… di responsabilità per quanto riguarda la Sicurezza sul Lavoro dell’igiene pubblica; e di tutele della, della salubrità e Direzione Provinciale del Lavoro ovviamente, il… tutti gli Enti Assicurativi e quindi: INPS, INAIL; Vigili del Fuco, Polizia Municipale, in maniera tale che l’attività di sanzione potesse essere contestuale e potesse esplicare il massimo della sua efficacia. Però, il coronamento a livello procedurale di questi sforzi è stato proprio l’esame della possibilità di fare assumere al Sindaco delle “Ordinanze mirate” a immobilizzare l’immobile togliendogli l’agibilità fino all’intero ripristino di tutta la situazione. Quindi, morale della favola, abbiamo iniziato non solo ad agire nei confronti degli impianti irregolari immobilizzandoli, ma finanche nei confronti delle strutture. Quindi nei confronti dei capannoni nel cui ambito i cinesi andavano a lavorare. Questo ha, ovviamente, suscitato un piccolo vespaio, soprattutto per quanto riguarda i proprietari dei capannoni che, mediamente, sono tutti pratesi e, cioè, imprenditori che si sono, che hanno annusato il “buon affare” di locare ai cinesi magari capannoni semi diroccati, facendogli… facendogli pagare affitti se non a pesi d’oro, ma sicuramente sproporzionati rispetto al tipo, al tipo d’investimento, al tipo di immobile che mettevano loro a disposizione.[…]226 Come spiegato dal dott. Pasquinelli e dal dott. Savi nell’intervista, questa strategia d’interventi concorrenti si è rivelata l’unico strumento per perseguire e scoraggiare il raggiungimento di legittimi fini economici attraverso l’uso di metodi illegali e rientra -a pieno titolo- nell’attività 226 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3. 305 istituzionale del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica 227 nell’ambito della pianificazione di controllo del territorio su base provinciale. Il coordinamento di tali servizi, per legge è affidato al Prefetto. Un’attività, questa, che incarna la propensione all’efficacia degli sforzi dello Stato in funzione del raggiungimento di risultati concreti; un principio al quale la Pubblica Amministrazione si vuole obbedisca. Concertata tra i diversi attori istituzionali, dovrebbe sempre propendere 227 Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica. La legge 1.4.1981, n. 121 ha attribuito la responsabilità della tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica al Ministro dell'Interno, al quale è stata altresì riconosciuta la qualifica di responsabile nazionale di pubblica sicurezza. Alle sue dipendenze è collocato il complesso di uffici definito come Amministrazione della Pubblica Sicurezza: ne fanno parte a livello centrale il Dipartimento della Pubblica Sicurezza ed a livello provinciale e locale le autorità di Pubblica Sicurezza ed il personale che da queste dipende. A livello provinciale la figura del Prefetto è caratterizzata da un duplice ruolo: egli, infatti, è preposto all'attuazione delle direttive ministeriali ed al coordinamento delle forze di polizia. Ed è anche responsabile provinciale dell'ordine e della sicurezza pubblica. In particolare, il Prefetto è all'esterno della struttura gerarchica che fa capo al Capo della Polizia (e di cui fa parte il Questore) ed è, invece, vincolato gerarchicamente al Ministro. Il Prefetto predispone, in attuazione delle direttive ministeriali, piani coordinati di controllo del territorio, che i responsabili delle forze di polizia devono attuare. Nella formulazione di questi, come più in generale nell'attuazione dell'attività di coordinamento, il Prefetto si avvale del Comitato Provinciale per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica, organo consultivo del quale fanno parte il Questore, il Comandante Provinciale dei Carabinieri ed il Comandante il Gruppo Guardia di Finanza, la cui composizione, allargabile anche a soggetti esterni all'Amministrazione della pubblica sicurezza, contribuisce a rendere trasparente la natura della funzione prefettizia. Il Sindaco, invece, quale autorità locale di PS, è inquadrato in una posizione di subordinazione funzionale nei riguardi del Prefetto e del Questore, dai quali può essere chiamato a collaborare negli ambiti di competenza dell'ente locale per il migliore espletamento della funzione di pubblica sicurezza. La salvaguardia dell'ordine pubblico va oltre un'attività di tipo repressivo per estendersi fino a ricomprendere ogni determinazione capace di evitare l'insorgere di conflitti ed il loro degenerare in episodi di turbativa. In tal modo tutelare l'ordine pubblico significa soprattutto prevenire le cause che potrebbero incrinarlo. In questo scenario si colloca il ruolo fondamentale del Prefetto al servizio delle istituzioni e del cittadino. Tutela dell'ordine pubblico, quindi, come prevenzione degli atti collettivi di violenza e di arbitrio, ma anche come garanzia dell'ordine sociale, dell'armonico sviluppo dei rapporti nel mondo del lavoro, dell'impresa e della scuola, come quieto svolgimento della vita comunitaria in tutte le sue manifestazioni d'ordine economico, culturale, volontaristico etc. (FONTE, sito web del Ministero dell’Interno http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/ministero/prefetture/il_prefetto/sched a_15777.html) 306 per avere un maggiore e puntuale controllo delle attività d’impresa ove si sospetta lo sfruttamento di persone. L’effettività di tale metodo operativo ha portato al reperimento di molti lavoratori stranieri –alcuni dei quali illegalmente presenti sul territorio comunitario in condizione di sfruttamento e segregazione- e all’emersione di reati finanziari con episodi di evasione fiscale totale. Con il sequestro di numerosi immobili e la denuncia dei proprietari per il favoreggiamento in concorso dello sfruttamento della manodopera clandestina e per la violazione alla normativa in tema di edilizia, ecco che sono emerse anche le profittevoli collusioni con taluni pratesi; figure che dalla presenza dei cinesi in Prato traggono, insieme ai Lao Ban, altrettanti illeciti profitti. Il questore Savi, dopo aver riscontrato che i controlli erano spesso infruttuosi, decise che un cambiamento d’approccio al fenomeno andava compiuto e propose di intervenire sulla problematica in modo radicale, spostando l’obiettivo dei controlli dall’attività d’impresa in sé, ai luoghi ove essa aveva sede. Le attività ispettive svolte in modo disarticolato e asincrono dai singoli organi di polizia e dalle agenzie di vigilanza sulla salute e sui posti di lavoro, più che frenare il fenomeno dello sfruttamento del lavoro e ridurre la presenza di clandestini, erano divenute esercizi di forza e avevano assunto una ciclicità assolutamente preventivabile da parte degli imprenditori etnici che, nell’imminenza delle verifiche e degli accessi, spostavano velocemente le sedi dei laboratori, facendo trovare agli operatori del controllo gli opifici vuoti. 307 Di concerto con il Prefetto, la magistratura e gli altri operatori di polizia (anche sanitaria), seguì programmata l’attivazione di un tavolo di lavoro comune, al quale affidare lo studio della problematica, presso la Prefettura Ufficio del Governo. Attraverso l’istituzione dell’organo interforze venne poi promosso un coordinamento teso al cambiamento degli obiettivi strategici che dispiegasse la propria efficacia minando i punti di forza dei Lao Ban che consistevano nella grande disponibilità di immobili da adattare e convertire ai propri fini economici. I capannoni, gli scantinati, le soffitte e gli appartamenti in cui trovano sede i laboratori, infatti, sono usualmente modificati. La costruzione e l’apposizione di pareti in cartongesso, la realizzazione di soppalchi e di ogni altra modifica degli spazi interni (eseguita senza alcuna autorizzazione) diveniva dunque il mezzo, l’unico, per lo spossessamento dal bene e l’inibizione di condotte antigiuridiche. Al Lao Ban, il cui fine di ottimizzare gli spazi e usare i medesimi ambienti in promiscuità sia per l’attività lavorativa sia per dare vitto e alloggio ai lavoratori era quello di costringere e sfruttarne il lavoro, veniva così sottratto un punto di forza. Tale promiscuità asserve e aliena la persona. Al lavoratore che dismette se stesso, non è più necessario, dunque, alcun contatto con ciò che avviene all’esterno del luogo di lavoro, se non in modo residuale. Ma questa condotta, normalissima in un’impresa cinese in Cina, oltre a incidere sulla libertà dell’individuo, costituisce la palese violazione della norma urbanistica all’accertamento della quale corrisponde, de iure, il sequestro penale degli immobili modificati. 308 Si tratta, dunque, di uno strumento giuridico importante che, se impiegato con la giusta ratio, consente agli operatori di polizia e agli ispettori delle varie agenzie, di porre sotto sequestro per abuso edilizio gli immobili, vanificando, così, gli sforzi strumentali a sottrarsi ai controlli degli imprenditori cinesi e liberando i lavoratori dal regime di sfruttamento al quale la loro attività lavorativa è legata. Se per anni tali formazioni sociali cinesi sono state ignorate, l’emersione di problematiche afferenti taluni aspetti della vita quotidiana ha consentito di scoprire che la presenza delle comunità di migranti cinesi, ha dato origine al progressivo processo di alienazione, allo spossessamento, di intere aree urbane e industriali sulle quali, una volta insediatasi la Tong (che definiremo exclave), sono stati tracciati, di fatto, dei confini definiti. Se ciò non fosse vero non si spiegherebbero le molteplici ammissioni in tal senso delle istituzioni, nazionali e locali, dalle quali, comunque, si percepisce chiara la volontà di rispondere a istanze di sicurezza per ricondurre alla legalità il territorio. […] Vivere i rapporti nell’ambito delle loro residenze con, con… che so io… quello che mi è rimasto impresso è il pesce appeso ad essiccare, piuttosto che i polli accanto alla… al confinante, davano un quadro effettivamente di una situazione che faceva, la faceva apparire una sorta di “zona franca”, con una incapacità di poter portare… cioè, di creare la giusta deterrenza, il giusto incanalamento di, di questa comunità.[…] 228 È più che mai vero, occorre che venga recuperato il pieno possesso di queste aree, dapprima individuandone una corretta definizione sotto l’aspetto sociologico, e successivamente proponendo una nuova 228 Stralcio intervista al dottor D. Savi, già Questore della Polizia di Stato per la Provincia di Prato. Reggio Emilia, 22 luglio 2011. Si veda Appendice 1 intervista n.3. 309 interpretazione del concetto di “frontiera”, simile a quella nazionale e politica che si protende verso uno Stato ma, solo, interna. In questi anni abbiamo infatti assistito alla creazione di un vero e proprio confine e all’emergere di tutte le problematiche relazionali di carattere internazionale conseguenti alla costituzione di questa entità politica. La capacità di farne una frontiera, cioè un territorio di “meticciato” basato sulla reciproca “contaminazione”, sullo scambio e conferimento di conoscenze e tradizioni, dipenderà dall’autorevolezza e dalla capacità diplomatica delle Istituzioni locali e nazionali. Giungere a questo obiettivo non sarà facile, perché i rappresentanti della comunità cinese in Italia sono inquadrati e strutturati in una rete interconnessa di associazioni che replicano degli standard tipici dell’associazionismo tradizionale e storico cinese: le società segrete. I referenti di tali strutture sono gli interlocutori degli addetti diplomatici cinesi in Italia i quali in questa veste hanno il potere, che volentieri esercitano, di rappresentare solo ciò che appare loro utile. Un esempio delle conseguenze di questa distorsione dei fatti e della realtà è, ad esempio, l’azione di travisamento di controlli di polizia o di atti di normale amministrazione -controllo da parte dell’INAIL o dell’ASL a un’azienda- come fossero dei veri e propri “atti di discriminazione razziale persecutoria” nei confronti dei loro connazionali; interpretazione dolosamente distorta dei fatti, che ha talvolta fatto sfiorare incidenti diplomatici. Da quanto riferito è comprensibile che circostanze come queste citate, mettano a repentaglio l’eguaglianza di fronte alla Legge e la stessa sicurezza sociale. 310 7. “Non vogliamo diventare come Prato!” Con questa frase che Silvia Pieraccini, economista e giornalista de “Il Sole 24Ore”, apre l’introduzione del libro: “L’assedio cinese”229. L’opera, che per puntualità del dato riferito, schiettezza e pragmatismo assume un valore scientifico d’analisi sociale, coniuga l’elaborazione di dati economici, che forniscono l’ottimale angolo prospettico dal quale fotografare “lo stato dell’arte” di un settore d’impresa e di un territorio, all’aspetto giornalistico-letterario riconducibile più all’inchiesta che alla cronaca. Una verità critica, l’assedio cinese, alla quale si perviene attraverso la disamina approfondita delle frizioni e criticità che insistono tra i Lao Ban e ciò che resta dell’imprenditoria locale autoctona, per numeri e volume d’affari ormai residuale, frustrata ed in piena recessione. Dai primi anni del secolo a oggi, quindi in circa un decennio, l’imprenditoria locale del territorio di Prato ha subito una trasformazione epocale perdendo più di 2 miliardi di fatturato, dei quali uno e mezzo sull’estero, registrando la chiusura di circa tremila aziende con una perdita di forza lavoro di circa 20.000 unità. Analizzando lo stesso lasso temporale, a questa flessione è corrisposto, invece, un visibile aumento degli operatori dell’imprenditoria cinese, in particolare nel settore dell’abbigliamento. Questo segmento produttivo, infatti, non solo si è fortificato con l’apertura di 2.000 nuove aziende (che, attualmente, si calcola siano addirittura più che raddoppiate), ma ha inciso anche sull’occupazione “a base nazionale ed etnicamente connotata”; una 229 Silvia Pieraccini, “L’Assedio cinese. Il distretto senza regole degli abiti low cost di Prato”. Ed. Gruppo 24ORE, Milano, 2010. 311 operazione, in controtendenza sul dato generale, che ha consentito 4.000 nuove assunzioni di operai cinesi. La cosa assai strana, però, è che questi numeri non incidano né sull’export né sul fatturato; secondo le valutazioni effettuate da Confindustria Prato esaminando i bilanci delle “sino aziende”, non è stata registrata, infatti, alcuna crescita. A partire dagli anni duemila l’economia della provincia inizia, invece, ad avvertire evidenti problemi, tanto che la sua posizione in termini di valore aggiunto procapite passa dal 14.mo posto del 2001 al 41.mo posto del 2008; anche all’in- terno della regione, sempre per valore aggiunto procapite Prato, oltre che da Firenze è superata anche da Pisa, Lucca e Siena. Siamo, quindi, di fronte ad un arretramento significativo documentato da un incremento medio annuo del valore aggiunto procapite tra il 2001 ed il 2008 dello 0,8% in termini nominali: peggio di Prato in quegli anni solo Parma. […] Nello stesso periodo l’economia pratese ha avuto cadute superiori, determinate soprattutto dalle peggiori performances sui mercati internazionali: le esportazioni sono calate del 12,3% portando con sé anche la caduta degli investimenti e quindi del PIL (che è diminuito dell’8,6%). 230 Sul finire del decennio appena conclusosi, le aziende cinesi contate a Prato sono poco meno di 4.500, la maggior parte delle quali sono ditte individuali, un 5% società di persone e il 7% società di capitali. Una presenza massiccia che ha scalzato, così, il tradizionale primato milanese, facendo divenire la piccola provincia Toscana il primo polo d’insediamento cinese. Al secondo posto resta Milano, dove negli anni Trenta del ‘900 arrivano i primi cinesi, mentre in terza posizione vediamo Firenze e, infine, Roma con il quartiere Esquilino. 230 Stefano Casini Benvenuti, Prato: il ruolo economico della comunità cinese, IRPET, Firenze 2013 pp.1215. 312 Le cifre sulla base delle quali lavora Silvia Pieraccini sono fornite dall’Area Studi dell’Unione Industriali di Prato che le ha elaborate su base di dati forniti dall’ISTAT e dall’Ufficio Studi della Camera di Commercio. Dette cifre, messe a confronto con quelle rese disponibili dai Servizi Anagrafici e Demografici dai Comuni della Provincia pratese richiamano ad un’attenta riflessione. Lo studio commissionato dalla Provincia di Prato all’Università di Firenze, fornisce un’analisi generale sulle imprese gestite da immigrati dedicando particolare attenzione alle tipicità di quelle cinesi- dalla quale emerge che L’imprenditoria immigrata nelle economie sviluppate è molto cresciuta negli ultimi decenni, a seguito di cambiamenti economici, sociali, tecnologici e politico-istituzionali. Questo fenomeno, sebbene con ritardo rispetto ad altri paesi, ha interessato anche l’Italia, dove in relativamente pochi anni ha assunto una dimensione di rilievo, arrivando a rappresentare circa il 10% di tutte le imprese registrate presso le Camere di Commercio italiane (Unioncamere 2012). […]Tipicamente, gli immigrati e quindi le loro imprese non si distribuiscono in modo uniforme né sul territorio, né fra le attività produttive, bensì si sono concentrati in particolari località e settori, differenti a seconda della provenienza degli immigrati. In Italia, le imprese di immigrati si concentrano nelle attività terziarie quando sono localizzate nelle grandi aree urbane, viceversa si con- centrano nelle attività manifatturiere quando sono nei distretti industriali. Nei distretti italiani, e in particolare nei distretti della moda, le imprese di immigrati cinesi sono diffuse. […] a Prato i cinesi si inserirono come subfornitori, non delle imprese tessili, bensì di quelle di maglieria e delle allora relativamente poche imprese di confezioni che, a causa delle mutate aspettative di lavoro dei giovani e delle donne, avevano difficoltà a trovare lavoranti a domicilio per la cucitura dei capi di abbigliamento. Questa 313 circostanza, unita alla già menzionata disponibilità di spazi produttivi e al meccanismo delle catene migratorie tipico di questo gruppo di migranti (Tassinari 1994, p. 116), fece sì che in poco tempo i laboratori di cinesi si moltiplicassero e l’immigrazione cinese a Prato divenisse un fenomeno vistoso. Dopo solo alcuni anni dall’arrivo dei primi cinesi, i residenti nel comune di Prato nati in Cina, nel 1994 erano già quasi 2.000 e le loro imprese iscritte alla locale Camera di Commercio quasi 300. È allora che per acquisire le conoscenze necessarie per far fronte ad un flusso migratorio così consistente e relativo a una popolazione con una lingua e una cultura così diverse da quelle locali, gli Amministratori di Prato istituirono presso l’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune il Centro Ricerche e Servizi per l’Immigrazione. Questo Centro, oltre a fornire servizi, aveva l’obiettivo di svolgere attività di ricerca sugli immigrati cinesi e sul loro inserimento lavorativo. Così, per iniziativa dell’Amministrazione comunale vennero svolte le prime indagini sui cinesi a Prato i cui principali risultati vennero diffusi attraverso convegni e pubblicazioni (Rastrelli 2001; Ceccagno 2001, 2003, 2004).231 Vista l’evidenza del fenomeno, verrebbe da pensare che non si tratti di “numeri sconosciuti”, ma, piuttosto, di cifre che potremmo dire essere state ignorate. Nelle Tabelle che seguono, sono riportati i dati relativi alle variazioni demografiche dalle quale desumere l’andamento della comunità sinopopolare e pubblicati sul sito del Comune di Prato, riferiti al periodo 2005-2013. L’Ente locale pone l’accento sulla presenza e l’andamento in crescita della comunità dei residenti cinesi. Va, di modo, tenuto presente che la presenza di persone non legalmente immigrate rende il dato assolutamente aleatorio. 231 S. Casini Benvenuti, Prato: il ruolo economico della comunità cinese, IRPET, Firenze 2013, p. 21. 314 Popolazione totale, Stranieri e Cinesi dal 2005 al 2013 40.000 totale stranieri cinesi 30.000 20.000 10.000 0 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Tabella 2 % stranieri su pop. totale, % Cinesi su pop. straniera e su pop. totale 50,0 45,0 40,0 35,0 % stranieri su pop. Totale 30,0 % Cinesi su pop. Straniera 25,0 % Cinesi su pop. Totale 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Tabella 3 Popolazione straniera per cittadinanza dal 2005 al 2013 17.500 15.000 12.500 Cinesi 10.000 Albanesi Romeni 7.500 Pakistani Marocchini 5.000 Altri stranieri 2.500 0 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Anni Tabella 4 315 Cinesi residenti al 31/12/2013 per luogo di nascita e fasce di età 12.000 10.000 8.000 6.000 4.000 2.000 0 Nati a Prato Nati in Italia Nati all'Estero Minorenni Totale Adulti Tabella 5 Nuclei familiari con capofamiglia CINESE per numero componenti (val. %) oltre 6 6,48% 6 7,09% 1 19,41% 4 20,27% 2 16,82% 3 17,73% 5 12,20% Tabella 6 Il quesito sul quale interrogarci riguarda, quindi, il come si sia potuti giungere ad una così massiccia penetrazione del quotidiano e dell’impresa da parte della comunità migrante. Si tratta quindi di un’operazione strategica che si presenta in tutta la sua efficacia e richiama la filosofia e le tecniche di guerra stigmatizzate nell’omonimo manuale che Sun Tzu mise a punto per il suo imperatore circa 3000 anni fa. Una silente penetrazione alla quale, di converso, è corrisposta di fatto la progressiva e rassegnata “dismissione” del legame che i 316 pratesi avevano dimostrato di avere col territorio e col sentimento che avrebbe dovuto stimolarli a farne il centro d’interesse di una ripresa economica. Quella cinese è stata un’operazione coloniale in piena regola partita da lontano, ha richiesto sicuramente del tempo, innanzitutto un periodo di sommesso e costante radicamento su un’area territoriale previamente definita e identificata come idonea all’infiltrazione da parte della comunità etnica. Un’entità sociale che si scoprirà essere un organismo monolitico, solidale e plurisoggettivo i cui contorni risultano indefiniti e indefinibili dal lato delle strutture, ma assolutamente segnati quando si tratta di estromettervi gli stranieri autoctoni. La classe operaia cinese (A. Dal Lago), inserita come mano d’opera a basso costo nelle imprese del tessile gestite da imprenditori pratesi, ha risalito la china sino ad assicurarsi la competenza professionale necessaria per giungere alla posizione gestionale con competenze non solo tecniche, ma con i giusti contatti per rendersi autonoma in tutte le fasi del ciclo produttivo e della distribuzione delle merci. Ci si è trovati quindi di fronte a una “congiuntura astrale quasi irripetibile”, così la definisce Silvia Pieraccini, in cui il fattore tempo ha giocato un ruolo fondamentale e ha consentito all’economia orientale di sferrare il colpo ferale alle vestigia di quella autoctona e morente. Una imprenditoria, quella pratese, abituata un tempo a vincere ovunque per il solo fatto di essere italiana, e ora stretta alle corde dall’avanzata impetuosa delle aziende di abbigliamento orientali e dalla cura dimagrante delle storiche imprese di tessuti e filati, pressate dalla 317 concorrenza internazionale esplosa con l’apertura delle frontiere, e obbligata a riposizionare prodotti e mercati.232; un’imprenditoria che non dà ancora cenni di potersi riprendere. La presenza massiccia dei cinesi non consente molti margini di manovra; non si può pensare di competere con loro in quanto alla capacità di lavorare in condizioni igienico sanitarie malsane e con ritmi che per un qualsiasi operaio occidentale sarebbero assolutamente inaccettabili. A essere determinante è, come s’è avuto modo di constatare sopra, il fattore numerico. A Prato, in particolare, l’immigrazione cinese ha assunto caratteri eccezionali per l’impatto sulla città – che conta 187.000 abitanti e circa 50.000 orientali, di cui meno di 20.000 regolari – e sull’economia locale, fondata sul manifatturiero.233 L’effettiva presenza cinese non è stata ancora censita precisamente e ciò grazie alla presenza di un numero di immigrati illegali; il computo e la “tracciabilità” dei quali è ancora lontano da una reale approssimazione in quanto è il territorio stesso in cui si sono insediati a renderli invisibili. Un territorio la cui espropriazione di fatto è un dato. Un’analisi generale del fenomeno, comunque, deve tenere conto dell’incidenza rilevante che in Toscana, e a Prato in particolar modo, ebbe la prima ondata migratoria che giunse dalla Cina, gradita e auspicata, nella prima metà degli anni ’80 dello scorso secolo. In quel periodo, la realtà imprenditoriale del tessile in Emilia, in Toscana e in Lombardia, che costituiva un settore di punta dell’economia in 232 S. Pieraccini, L’assedio cinese. Il distretto senza regole degli abiti low cost di Prato, Ed. Gruppo 24ORE, Milano, 2010. 233 Ibidem 318 quelle Regioni e ancor più una voce di rilievo delle esportazioni italiane, subisce, consapevolmente, la progressiva penetrazione cinese attraverso assunzioni e impiego di mano d’opera clandestina, così da far compiere all’economia i primi passi di una trasformazione sostanziale. 8. Il “pronto moda” e l’affaire migrazione Il Made in Italy, grazie anche al contributo di questi atipici lavoratori, sembrava lanciato in una crescita esponenziale che sarebbe dovuta proseguire, senza trovare concorrenti all’altezza di coniugare economicità e qualità nell’industria del “pronto moda”. Il distretto del tessile si sentiva inattaccabile, assestato su una posizione di rilevante preminenza tra i settori economici dell’esportazione, perché sinonimo di garanzia e di qualità. La prospettiva che si presentava agli imprenditori del settore era, quindi, florida e non lasciava presagire grossi mutamenti di sistema. La distribuzione all’ingrosso, lanciata verso l’apertura a nuovi mercati esteri sempre più vasti, richiedeva di occupare più manodopera di quanta fosse possibile reperire sul territorio. Qualcosa stavano mutando rapidamente e proprio questi silenti operai sarebbero stati i promotori di tali mutamenti. L’evidenza dei fatti svelò che i cinesi non erano affatto sprovveduti o incapaci di gestirsi in autonomia, ma avevano studiato e compreso la debolezza di un sistema imprenditoriale. 319 La migrazione è organizzata su aree di territorio prestabilite. È stata, e a tutt’oggi rimane, un’operazione tanto complessa quanto articolata che, come si diceva sopra, richiede da parte di chi organizza i flussi migratori all’interno della comunità, una conoscenza completa e approfondita dei territori. La casualità non fa parte della mentalità e della filosofia di vita di cui questo popolo è permeato e nella quale ha dimostrato, nel corso della sua storia, di sapersi muovere. Al contrario, in esso si riscontra la predisposizione al calcolo e alla pianificazione, enfatizzate, ancor più, dalla filosofia dei Figli dell’Impero Celeste sin dal tempo degli imperatori, poi dalla politica repubblicana e, infine, del regime maoista. Una forza interiore, quella cui possono attingere, straordinaria, che porta a non avere incertezze sulla propria persona e a identificarsi, come singolo, col “fine collettivo”. Una invidiabile consapevolezza d’essere, ovunque e comunque, Il Popolo, cioè una comunità che, se vuole sopravvivere, deve crescere. L’attitudine alla sopportazione e le molteplici forme d’obbedienza, testimoniate dalla camaleontica capacità d’adattamento sia al territorio, che al cambiamento politico, non sono sufficienti a mutarne l’identità e l’anima. Nel XVII secolo un detto cinese attribuito a Confucio recitava: “Se i contadini sono contenti, l’impero è stabile”. La rivoluzione maoista ebbe, tra le altre, la responsabilità di non aver saputo cogliere appieno il significato e la saggezza intrinseca di un tale insegnamento confuciano. Nella fretta di mescolare o rimuovere ogni traccia del “passato reazionario” Mao Zedong trascurò di considerare un valore: l’attaccamento alla terra e alla tradizione del suo popolo che, avvezzo a 320 difendersi da chiunque dando l’impressione di piegarsi ad ogni abuso degli Uomini superiori, in realtà sapeva essere la personalizzazione del Resistente, un guerrigliero imprendibile che difendeva la propria socialità. Il sogno di tutti i contadini era quello di possedere la terra su cui lavoravano. I comunisti promisero loro proprio questo e […] i figli dei braccianti senza terra andarono a combattere nell’Armata Rossa di Mao”. […] I contadini erano soddisfatti ed i comunisti lentamente introdussero il concetto di collettivizzazione. Prima vennero le cooperative, poi, nel 1958, le Comuni Popolari. […] La Comune possedeva tutto […]. Staccato così dalla sua terra il contadino si ritrovò a essere come un operaio di una grande impresa (ogni Comune era fatta di 30 – 50.000 persone) oggi chiamato a zappare un campo e domani spedito a tagliar legna o a costruire una diga. Non c’erano stipendi, e ogni persona veniva pagata in base all’opera compiuta dall’intera unità di lavoro. Una parte di questa paga era rappresentata dalle <<sette garanzie>>: cibo, vestiti, assistenza medica, educazione, casa, maternità, spese per matrimoni e funerali. Una parte era costituita dai buoni-lavoro, che potevano venire spesi soltanto negli spacci della Comune. Il denaro era praticamente eliminato.234 In questo frangente, l’occidente non si è dimostrato meno colpevole e, distratto com’era dagli strabilianti profitti del “miracolo economico”, ha trascurato i “sogni infranti” di ottocento milioni di contadini cinesi in fibrillazione. Quale che sia la causa oggi rileva poco (intelligence insufficiente, sottovalutazione del potenziale riconducibile al “continente Cina”, non rileva) e non si sa se vi sia stato “un errore” di previsione, ma si sa che i 234 Tiziano Terzani, La porta proibita, Ed TEA, 1984, Milano p.114. 321 contadini cinesi attinsero alla silente forza nella quale si erano sempre riconosciuti e dalla quale erano stati protetti: le società segrete. La rivincita su un terreno, quello dell’emigrazione favorito dalla Triade, che inconsapevolmente li avrebbe riaggiogati al potere statale. 9. Le Società segrete nell’era della globalizzazione Le Società Segrete, infinite nel numero e inserite in ogni ganglio sociale, si dimostrano attente alla situazione generale cercando – principalmente - la via per riaffermare il proprio ruolo di collettore occulto di ogni desiderio del “popolo basso”. Silenti e radicate, queste consorterie hanno immediatamente cercato di rinsaldare il proprio potere, sensibilmente compromessosi con l’avvento del comunismo, scegliendo di operare allo stesso tempo sui due fronti possibili, il primo teso a scrutare l’estero per cogliervi l’occasione di “sollevare i contadini” dalla condizione d’insoddisfazione in cui versavano in patria collocandoli altrove; il secondo, rivolto verso Pechino, dove lo Stato centrale comunista si scopriva in serie difficoltà nella gestione della crescente frizione sociale già sfociata nelle dimostrazioni di piazza Tienanmen che Pechino continua ancora oggi a definire eufemisticamente “l’incidente di Tienanmen”. Uno Stato nei confronti del quale Hong Mon, la principale e risalente tra le Società Segrete, non si è mai posta come interlocutore “secondo”, ma come un’entità alternativa e de facto legittimata dalla storia, tanto da poter interloquire alla pari con esso. 322 Una cineseria verrebbe da dire, ma tutto rimane nella logica suntzuista dell’illogicità apparente. L’efficacia e la peculiarità con cui sono state predisposte e attuate le strategie d’insediamento in territori esteri, nonché la conseguente penetrazione un’operazione degli stessi, “militare” hanno assunto d’accerchiamento, l’aspetto tipico soprattutto di degli insediamenti produttivi che diventeranno delle immense “lavanderie di danaro”, e di penetrazione affatto improvvisata, frutto, invece, di un lavoro svolto da undercover 235 - i silenti operai degli anni ’80 – e coniugato all’autoreferenzialità endemica di una diaspora tentacolare etnocentrica da sempre in movimento. Superata l’apparenza delle coreografiche manifestazioni esteriori di tradizioni e ritualità (che a molti farebbe gioco credere l’unico aspetto delle comunità cinesi), la Tong sfoga la malinconia dell’emigrante promuovendo repliche sistemiche di una Cina (delle molteplici Cina in essa coesistenti) che, seppur lontana e incompatibile con l’organismo sociale di cui diviene “l’ospite”, trova la sua concretezza nella creazione di una società artificiale, coerente e contigua con quella lasciata in patria. 10. Il Teorema della scelta territoriale Il testo sull’intelligence cinese di R. Faligot svela che l’area prescelta per l’insediamento della comunità cinese è dunque il prodotto di un’attività di intelligence. Il territorio, monitorato preventivamente con 235 Undercover, vocabolo inglese di uso tecnico nell’intelligence che sta a indicare l’agente che agisce sotto copertura, ossia sotto mentite spoglie. 323 grande attenzione, infatti, deve corrispondere a dei “canoni inversi”; criteri opposti rispetto a quelli che, normalmente, muoverebbero un imprenditore a effettuare degli investimenti, cioè quelli orientati ad assecondare le leggi del mercato. La penetrazione economica passa, quindi, attraverso l’acquisizione di informazioni afferenti l’andamento di un determinato mercato su un territorio e se il dato ottenuto rivela una criticità ecco che viene operata la scelta di acquisizione dell’impresa che manifesta scarsa produttività e segnali di crisi. L’insediamento avviene, infatti, laddove le attività economiche, l’impresa locale più in generale, dimostrano inequivocabili segnali di cedimento prodromici a una successiva, più grave e irreversibile, crisi che convincerà l’imprenditore autoctono a cessare ogni attività onde evitare il fallimento. Un indicatore cui spesso non si pensa. Il primo passo è, dunque, l’osservazione e lo studio del campo di battaglia (Sun Tzu docet) sulla base del quale si analizzano le potenzialità del nemico (non trascurando quali opportunità offra a lui il terreno su cui avverrà lo scontro); il passo successivo è quello, se valutato conveniente, dell’ingaggio delle ostilità: la penetrazione. In questo caso, però, raramente l’input proviene da parte di un imprenditore etnico singolo o di una società ma, attraverso questi, direttamente dal crimine organizzato il cui interesse internazionale è individuare continue e nuove “lavatrici” per gli ingenti capitali liquidi da “ripulire”. Quanto di più semplice, perché la quantità di denaro liquido di cui dispongono queste entità criminali è difficilmente stimabile tanto 324 quanto lo è il volume dei traffici dei quali la criminalità organizzata cinese è gestore in tutto il mondo. Se il popolo dell’Impero di Mezzo ha attraversato i millenni rimanendo essenzialmente se stesso, è proprio perché ha compreso che l’abilità risiede nel lasciare che le opportunità si manifestino e coglierle al momento opportuno: mai cercare di modificare gli eventi o diventarne gli artefici. I precetti che seguono costituiscono una sintesi di cosa è la Cina di oggi e sono la visione che Deng Xiaoping aveva del processo di ammodernamento del suo popolo. 236 I sette precetti fondamentali di Deng Xiaoping Il piccolo Timoniere, artefice della seconda Rivoluzione lascia, dunque […] una sorta di testamento che consiste in sette precetti fondamentali (e in 24 ideogrammi) per permettere all’Impero di Mezzo di sollevarsi e ripartire alla conquista. […] Inoltre c’è un riferimento implicito ai grandi classici della dissimulazione e della manipolazione, che si trova nel 13° capitolo de ‘L’ arte della guerra’ di Sun Tzu o ne ‘I trentasei stratagemmi’, altro testo antico che ha regolato l‘arte della guerra clandestina e della 236 Tabella tratta da: R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton Editori, Roma, 2011, pp.159-160. 325 diplomazia segreta attraverso i secoli e che conosce una ripresa 237 con i servizi segreti della nuova Cina. La maggiore di queste opportunità, almeno per quanto riguarda il campo imprenditoriale, s’è proposta con la crisi degli anni Novanta e dei primi anni del nuovo Millennio, che ha portato all’Occidente estremo una riduzione drastica dei guadagni. Per la Triade, ma non solo, quello è stato il segnale. Si è trattato solo di saper aspettare che gli antenati dimostrassero, per l’ennesima volta, di aver ragione. Agganciare gli imprenditori in difficoltà e fare loro un’offerta di denaro tale da non consentire un rifiuto è stato sin troppo semplice. Ma per gli imprenditori, essere sollevati dall’imminente fallimento con denaro contante, può essere la spinta motivazionale sufficiente a deporre sul campo armi e fuggire? Si, per noi occidentali sicuramente si. Un cinese, però, non lo avrebbe mai fatto! Un cinese avrebbe reagito, si sarebbe rivolto alla Tong che, solidalmente, avrebbe operato in nome del guanxi attraverso l’elargizione di prestiti in denaro o col conferimento di lavoro, a titolo gratuito, per soccorrere il “fratello” in difficoltà. Ma non siamo cinesi e un tanto è bastato ai proprietari delle imprese per sgravarsi del problema mettendo in atto attraverso una precipitosa fuga con l’affittanza degli opifici o, addirittura, la cessione frettolosa di quella che, divenuta un’attività in perdita, piuttosto che un mezzo di sostentamento e di guadagno, paventava di divenire una gogna giudiziaria. 237 R. Faligot, I servizi segreti cinesi. Tutta la verità sull’intelligence più potente al mondo, Newton Compton Editori, Roma, 2011, p.159-160. 326 Per le avanguardie cinesi che più di un decennio prima erano arrivate in Italia a farsi sfruttare è stata l’occasione, di invertire la rotta. L’impresa acquisita dal sodalizio criminale, come riporta il saggio di S. Pieraccini, viene intestata o a una persona fisica, di norma un prestanome, oppure a una società pulita, ma questi sono dettagli che, per l’imprenditore cinese e per chi gli copre le spalle, non hanno rilevanza: il più è fatto e il nome dell’intestatario è solo inchiostro sulla carta. La città di Prato degli anni Ottanta, può essere indicata come il primo insediamento industriale e commerciale a conduzione totalmente cinese e, quindi, l’inizio della metastasi dell’imprenditoria locale. Da lì partirono e ancora si dipartono i tentacoli, sottilissimi ma resistenti, della rete inter-familiare che dall’occupazione del territorio circostante, con acuta e silente lentezza, è riuscita a penetrare il quotidiano senza destare sospetto alcuno. Secondo l’antico adagio per cui il piccolo cinese ha attraversato la grande Cina un passo alla volta. Con l’insediamento di piccole attività commerciali gestite da famiglie referenti si assiste a questo nuovo viaggio, il progressivo spossessamento del territorio che, sottratto alla Legge e alla disponibilità di chi ne aveva il controllo, diviene, sic et simpliciter, una zona franca extraterritoriale. Il popolo che abita la Cina in Italia, di fatto sottrattosi all’imperio, ha assunto le tipicità e le abitudini del consumatore occidentale senza però attribuire al denaro lo stesso valore, che per lui rimane assolutamente relativo. 327 Il ruolo della persona nella società di cui è l’espressione non conosce prezzo e non è quantificabile. Il cinese, avido di denaro per divertirsi, si rivela altrimenti incorruttibile e malgrado la diffusa prostituzione e le sale da gioco clandestine possano indurre a pensare l’opposto, la sua anima non si compra. La penetrazione non è stata quindi solo un problema. Dato che la vendita dei beni immobili ha costituito, per il cedente, un vero, ma apparente, affare posto che il prezzo corrispostogli per la cessione ha potuto superare anche del triplo il valore nominale del bene o dell’impresa. In ordine a tale fenomeno e per quello che le indagini svolte dagli organi di polizia hanno consentito di acclarare, tutto è avvenuto e tutt’ora avviene, con il versamento della quasi totalità dell’importo pattuito, detratto quello che serve a tacitare eventuali sospetti del fisco italiano, in denaro contante ed al di fuori di ogni forma contrattuale. 11. La reinterpretazione cinese del concetto di “reciprocità” Visto l’interessamento che le rappresentanze diplomatiche cinesi hanno manifestato e le rimostranze opposte alle operazioni di polizia amministrativa, tributaria e giudiziaria condotte nei confronti di operatori economici sedenti nei distretti ad alta densità cinese, Hong Mon238 e il governo della Repubblica Popolare Cinese talvolta sembrano operare solidalmente e sinergicamente con un’unica strategia: spostare in 238 Hong Mon o Lega di Hong o Famiglia di Hong: antica Loggia che, fondata nel monastero di Shaolin istruì per secoli i monaci guerrieri che animarono la lotta contro i Ming e di cui i moderni seguaci delle Triadi, millantano d’essere gli eredi. 328 l’Occidente la risoluzione di problematiche che in patria hanno avuto, nel corso dei secoli, i tratti distintivi di vere e proprie guerre tra stati. Ortodossia e eterodossia delle società segrete a confronto. Verso l’Italia, in particolare, l’assetto attuale fa presupporre che sia in atto una vera e propria delocalizzazione di tali problematiche e qui trovano il modo di coesistere . Come ci suggerisce la ragguardevole letteratura che in questi ultimi anni ha proliferato nel tentativo di fornire sempre maggiori angoli prospettici –più o meno referenziati o scientificamente validi- dai quali poter studiare i fenomeni economici cinesi in Europa, la classe operaia della Cina popolare si è sempre distinta per essere stata organizzata in modo gerarchico ed eterogeneo. Un modello standard che resiste senza alcuna possibilità di porre in discussione l’assetto e la congruità con cui il Lao Ban decide di sfruttarla. Anzi è l’operaio che, convenendo sull’opportunità di rendere, cioè a dire di fornire il massimo rendimento per il profitto della propria struttura produttiva, malgrado la sussistenza di condizioni di vita e lavoro proibitive, si pone scientemente nella disponibilità possessoria del datore di lavoro. La Cina è ancora un paese povero. Se dovessimo vivere come tutti gli altri, non saremmo in grado di svolgere il nostro lavoro.239 Questa frase porta in sé la condanna e l’assoluzione di un sistema politico ed economico ed è la frase che un funzionario del partito di Stato consegna a Tiziano Terzani, per spiegare l’abitudine al lavoro dei cinesi. 239 Tiziano Terzani, La porta proibita, Ed TEA, Milano, 1984, p. 62. 329 Una vocazione basata prima di tutto sull’intimo convincimento del lavoratore che l’asservimento, l’autosfruttamento, siano l’unico modo di operare nel e per il sistema, e sull’indotta – ma ritenuta innata attitudine a propendere, in modo pedissequo, per i desiderata di chi “sta sopra di lui” e che, perché sovraordinato, ha il dovere, oltre che il diritto, di decidere cosa sia “il meglio” per la collettività. Alla resa dei conti, quindi, che sia lo Stato o il partito comunista nelle sue molteplici e multiformi organizzazioni del lavoro collettivo (unità di base; brigata agricola, etc.), o l’organizzazione segreta e criminale (da noi ritenuta tale per i metodi con cui opera e dei quali si avvale) a curare l’introduzione e lo sfruttamento del soggetto trafficato, poco importa; nella sostanza rinveniamo che esiste una ferrea linea gerarchica alla quale “è dovuta obbedienza”. L’attuale conoscenza delle tradizioni di un continente/sistema- economico e lo studio delle condizioni in cui i lavoratori cinesi sono collocati nelle imprese in mano ai connazionali in Italia, sembra non servano più a modificare lo stato dell’arte. Ancorché le autorità italiane si sforzino (come testimoniato dai dati della Questura di Reggio Emilia e di Prato) ed effettuino controlli e accertamenti volti a verificare il rispetto della Norma in materia di lavoro, sicurezza ed igiene nei posti di lavoro o, ancora, sulle condizioni di vita negli stabuli messi a disposizione dei lavoratori è emerso che per i cinesi non cambia nulla. 330 12. I “falsi d’autore” Il mercato che maggiormente subisce, e sin da subito ha subito, un vero e proprio assedio è quello dei marchi di pregio. Gli abiti e gli oggetti falsi, replicanti quelli delle grandi firme della moda e della pelletteria italiana o internazionale, raggiungono un tale grado di somiglianza agli originali che sono smerciati, oltre che dai punti di distribuzione cinesi, dai concessionari dei brand originali che ne fanno incetta. Produzione a ritmi serrati, prodotti accettabili e verosimiglianti agli originali. La strategia del mercante cinese è abbattere il costo di produzione e mantenere l’output costante: vendere tutto a tutti e comprare all’interno della propria comunità. Quest’operazione si traduce in un aumento, esponenziale, dei profitti, ai quali vanno sottratti i soli costi di gestione dei punti vendita (hardware e forza lavoro esclusi) recuperati dal “nero” prodotto e distribuito. Riassumendo, non è falso affermare che le Triadi investono denaro “sporco” acquistando, o prendono in affitto, imprese e immobili sul territorio e li intestano ai propri “sandali di paglia” - dei “prestanome” che, avviati ad attività commerciali, solitamente vendendo beni a prezzi irrisori. In questo modo minano la solidità delle imprese autoctone tanto da indurre i proprietari a cederle alle Tong o a giovarsi dei canali di rifornimento dei grossisti cinesi. Il commerciante cinese compra dal grossista cinese che a sua volta compra dall’opificio cinese che importa la materia prima dalla Cina agevolato e protetto da norme sull’importazione di prodotti “etnici” che, provvidenzialmente, lo Stato italiano gli ha messo a disposizione. 331 mentre il commerciante italiano, se vuole sopravvivere, deve comprare dalla stessa filiera. Il consumatore, stante la convenienza senza pari, acquista al “mercato delle lanterne rosse”, divenendo l’ultimo, inconsapevole, finanziatore della Tong e, quindi, delle Triadi. Grazie all’analisi compiuta sul macchinoso sistema di “scatole cinesi” (mai contesto fu più azzeccato per usare questa locuzione) che sin qui è stato sviscerato, appare evidente che il sodalizio criminale si ripaga della propria esposizione iniziale. Ripulisce i soldi, colloca manodopera sfruttandola e acquisisce capitali “puliti” per operare lecitamente sui mercati internazionali e lì, progressivamente espandersi, penetra e assorbe, fagocitandole, sempre più piazze. Le Tong, i luoghi dove si trovano le famiglie allargate, sono realtà che contestualizzate nella Cina Popolare hanno un senso e una connaturazione culturale che può giustificarne l’esistenza, ma in occidente, in Europa e, segnatamente, in Italia, sono realtà illegali che attraverso metodi riconosciuti come criminali dal nostro ordinamento, trattengono individui e moneta e assorbono capitali. Sono comunità impermeabili che finanziano se stesse e, con costanti e quotidiane rimesse di denaro in Cina, operano, con mani pulite, su mercati lontani dal nostro. Un altro aspetto connotante delle Tong è il costo che la collettività ospitante, ma “straniera” ai loro occhi, sostiene per contrastare il fenomeno criminale. 332 In tale quadro è allora forse ancora più doveroso aguzzare la vista con l’intento di individuare i contesti in cui la disinformazione o un malinteso senso di solidarietà umana, forniscono alibi utili a mantenere vive queste devianze. Soluzioni fondate più sulla supponenza che sulla conoscenza non fanno altro che rinsaldare capisaldi criminali e alimentare la formazione di “economie parassite” annidate tra le pieghe della crisi (non solo economica) in cui versa la nostra società; sacche entro cui si fortificano catene di isolamento, degrado e asservimento già molto robuste. 13. Friuli Venezia Giulia, la frontiera da conquistare La Regione autonoma Friuli Venezia Giulia s’inserisce, rispetto al resto d’Italia, come esempio virtuoso per la tempestività con la quale ha saputo riconoscere i segnali premonitori di una penetrazione che, sebbene con i dovuti distinguo da applicarsi al dato numerico, riproponeva uno scenario analogo a quello che nel pratese connotò gli anni Ottanta del secolo scorso. Nel 2007, infatti, a fronte del calo delle commesse che interessò il settore produttivo del manzanese 240 , distretto leader mondiale nel campo dei mobili di pregio conosciuto come “il triangolo della sedia”, e della chiusura di numerosi opifici, si iniziarono a registrare le prime immigrazioni di cittadini cinesi provenienti da altre zone d’Italia e, in particolare, da Prato. 240 Il distretto riferito alla zona industriale di Manzano (Ud) che dagli anni Settanta sino al 2008, con la conversione delle piccole e medie aziende agricole in opifici dedicati alla produzione di sedie, tavoli e complementi, ha avuto il proprio “boom economico” affermandosi sul mercato internazionale con beni di altissima qualità. 333 Le attività commerciali gestite da cittadini cinopopolari presenti sul territorio friulano e segnatamente nella zona orientale della provincia di Udine erano costituite, sino alla metà del 2007, da un numero esiguo di ristoranti e bar deputati a servire in prevalenza la clientela locale e da qualche negozio al dettaglio di maglieria e altri beni di largo consumo. Questi ultimi tutti nella zona urbana del capoluogo friulano. Nel distretto della sedia, a Manzano (UD), i numeri scendevano ancora riducendosi a due ristoranti, uno a San Giovanni al Natisone e uno nel comune di Buttrio, e a un emporio. Nonostante la comunità cinese a Trieste, già dalla metà degli anni Novanta del 1900, contasse una presenza ragguardevole, l’interesse verso le opportunità che il territorio friulano poteva offrire era sempre rimasto basso, ma iniziò a farsi concreto solo con l’implosione del settore industriale legato alla produzione di mobili. La crisi. La chiusura delle numerose fabbriche di tavoli e sedie, nonché delle aziende e dei laboratori che si dedicavano alla rifinitura dei manufatti rappresentò una sciagura per l’economia locale, ma aprì una nuova frontiera da conquistare per il modello Cina. I laboratori, le piccole imprese, per lo più a conduzione familiare, di contoterzisti che si dedicavano ai semilavorati provvedendo alla verniciatura, alle rifinitura di tappezzeria e alla lavorazione di singole componenti dei mobili, fallirono l’una dopo l’altra e la crisi occupazionale con il conseguente svuotamento dei capannoni liberati dai macchinari o chiusi con questi all’interno, suscitò l’interesse delle imprese e delle ditte del “pronto moda” pratesi che iniziarono a 334 prendere in affitto o, in alcuni casi ad acquistare, gli ampi spazi produttivi rimasti vuoti. La conversione delle aziende in magazzini all’ingrosso, in spazi commerciali dove i grossisti cinesi pratesi o di nuova immigrazione, ma comunque legati ai propri connazionali di Prato, ricevevano e soddisfacevano le richieste dei clienti provenienti dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Russia, dall’Ucraina e dai Balcani fu il passo vincente. La riduzione della distanza che i clienti dell’Est dovevano percorrere per acquistare e approvvigionarsi della merce per i propri negozi era di più di trecento chilometri, con vantaggi indiscutibili per entrambe le parti. Meno chilometri per gli acquirenti e, al contempo, meno controlli sui beni viaggianti. Anche per gli imprenditori locali rimasti privi di lavoro l’arrivo dei Lao Ban non fu del tutto sconveniente, anzi, il progressivo interessamento dimostrato sulla zona dai cinesi e la solvibilità dei nuovi affittuari, costituiva per i friulani una garanzia di sopravvivenza. Nella logica della diversificazione degli investimenti, alcuni imprenditori cinesi rilevarono anche i laboratori di tappezzeria che erano sopravvissuti e iniziarono, con metodologia analoga a quella del “pronto moda” pratese, ben descritta da Edoardo Nesi nel saggio di analisi sociale “Storia della mia gente”, a praticare una concorrenza fondata sulla contrazione dei prezzi talmente al ribasso che solo lo sfruttamento della forza lavoro poteva consentire. Scalzate le vestigia delle ultime aziende autoctone, i Lao Ban presero dunque a rifornire di semilavorati di tappezzeria le imprese di sedie più affermate sui mercati mondiali 335 (Calligaris, Modonutti) che, grazie alla garanzia di qualità legate al proprio marchio erano uscite indenni dalla crisi. Nella provincia di Udine, nei comuni di Buttrio, Premariacco, Manzano, Corno di Rosazzo e San Giovanni del Natisone, lo scenario è quello ottimale ove rinvenire le condizioni per l’affermazione del modello Cina, ma il Friuli non è la Toscana. La giunta regionale friulana, sulla base dell’art. 1, comma 439, della legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (Legge finanziaria per il 2007), che prevede la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la sicurezza dei cittadini, il Ministero dell’interno, e per sua delega, i Prefetti, possono stipulare convenzioni con le regioni e gli enti locali che prevedano la contribuzione logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni per il perseguimento di condizioni ottimali di sicurezza delle città, del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini, si attiva e predispone, di concerto con i responsabili delle forze di polizia comprese quelle locali, l’istituzione di un tavolo di coordinamento molto simile a quello “Savi”. L’input al controllo e alla sorveglianza di ogni attività imprenditoriale di nuova istituzione consente agli operatori delle agenzie di vigilanza di non perdere il controllo sui nuovi residenti e dimoranti e di mantenere monitorato costantemente il dato. 336 Stranieri residenti in FVG con cittadinanza cinese al 1° gennaio di ogni anno Provincia 2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 Gorizia GO 292 265 251 217 208 187 154 Pordenone PN 596 566 526 474 407 362 293 Trieste TS 1.051 991 893 818 753 665 595 Udine UD Totale Regione 960 862 791 705 618 578 484 2.899 2.684 2.461 2.214 1.986 1.792 1.526 Tabella 7 Classifica delle province FVG ordinata per numero di cinesi residenti sul territorio Provincia Cinesi Maschi Femmine Totale % su tutta la popolaz. % straniera Variazione % anno precedente 1. Trieste TS 556 495 1.051 36,3% 5,52% +6,1% 2. Udine UD 489 471 960 33,1% 2,44% +11,4% 3. Pordenone PN 297 299 596 20,6% 1,65% +5,3% 4. Gorizia GO 148 144 292 10,1% 2,69% +10,2% 1.490 1.409 2.899 2,8% +8,0% Totale Regione Tabella 8 Su scala regionale i dati relativi all’immigrazione dei cittadini cinesi assumono un valore particolarmente indicativo. Dal limitato aumento delle percentuali di immigrati è possibile desumere che il passaggio di livello dalla gestione del punto vendita al dettaglio alla gestione di impresa produttiva è stato, per i cittadini cinopopolari, scoraggiato, se non nelle forme consentite dalla legge, dal costante esercizio di controlli. I cittadini cinopopolari presenti nel comune di San Giovanni al Natisone, a fronte di un numero di residenti pari a 6.700 unità, nel 2006 sono 54 (31 uomini e 23 donne); nel 2007 sono 81 (43 uomini e 38 donne); nel 2008 sono 114 (63 uomini e 51 donne); nel 2009 sono 104 (54 uomini e 50 donne); nel 2010 sono 113 (64 uomini e 59 donne); nel 2011 sono 142 (77 uomini e 65 donne) e nel 2012, quasi invariato il numero restano 141 (72 uomini e 69 donne). Come s’evince, l’incremento non è stato significativo al punto da connotare il territorio. 337 I comuni di Buttrio, Premariacco, Manzano, Corno di Rosazzo e San Giovanni del Natisone consorziano, quindi, i servizi di polizia municipale e, sulla base dell’accordo siglato il 26 novembre 2010 tra l’assessore regionale Seganti e il Prefetto di Udine, creano un Corpo unico di polizia locale alle dipendenze del capitano Fabiano Gallizia il quale, preso contatto con il suo omologo di Prato dott. Andrea Pasquinelli e recepiti i suggerimenti che hanno fatto del “tavolo Savi” un paradigma, inizia a svolgere, di concerto con la Polizia di Stato, i Carabinieri e la Guardia di Finanza e con i funzionari dell’INAIL, dell’INPS e della DPL, servizi di prevenzione e di accertamento in tutti gli opifici. Nonostante la tempestività dell’azione non manca l’accertamento di gravi violazioni in materia di lavoro e di reati finanziari e, nemmeno il rintraccio di lavoratori irregolari in regime di sfruttamento. I dati in tal senso sono, comunque, significativi se rapportati alla popolazione del comune friulano. Le violazioni alle normative sulla sicurezza sui luoghi di lavoro si attestano, infatti, al 48% su un totale di 150 aziende gestite da imprenditori cinesi sottoposte a controllo e ispezione. L’immediata istituzione della struttura operativa da impegnare sul territorio nei servizi di controllo e la tempestività degli intervento, oltre alle diversità tipiche del territorio, non consentono spazi per la diffusione e sclerotizzazione di sacche di illegalità o la formazione di comunità chiuse e territorialmente referenziate come in Toscana. Il modello Tong non passa. Il rintraccio di 24 lavoratori cinesi irregolari e di 5 minori, figli di coppie di immigrati irregolari, segregati e mantenuti in condizioni igienico 338 sanitarie pessime da un Lao Ban nel 2010 e l’attuazione di altri servizi dagli esiti meno eclatanti, ma significativi, influiscono decisamente sul calo dell’immigrazione cinese in Friuli e getta la popolazione locale in uno stato d’allerta tale che si sostanzia nel sostegno attivo agli sforzi delle forze di polizia e delle agenzie di controllo. S’è ancora lontani dal comprendere quale sarà il punto di arrivo che le Triadi si sono prefissate, ma le Tong sono lo strumento sul campo. Le notizie sino ad ora sintetizzate sono sufficienti per affrontare il tema della sicurezza o dell’insicurezza che derivano da una gestione del territorio accorta e che ha dato luogo alla prevenzione di criticità che nella convivenza tra i gruppi sociali possono essere scongiurate. L’esito della strategia friulana d’intervento sulla problematica è di assoluta efficacia. La costanza del dato riferito al numero di immigrati e di aziende cinesi registrate alla camera di commercio nell’area ne sono la prova. L’evoluzione del “Continente Giallo”, come viene indicato dalla nota rivista di geopolitica “Limes”, in fibrillazione ed espansione come non mai, ci consegna a un sistema che negando a se stesso l’avvento di una crisi di cui era imminente l’arrivo, proietta l’Occidente, vittima di se stesso e dei bisogni indotti dalla realtà virtuale delle ricchezze digitali, verso il debito come unico mezzo/sistema per operare sui mercati o consumare. Un sistema d’impoverimento progressivo globale che porterà a un graduale e progressivo accentuarsi delle condizioni d’insicurezza nella vita di ognuno di noi. 339 Conclusioni La riflessione che questo lavoro di ricerca ha inteso porre in evidenza è che non esistono fenomeni o eventi dei quali, se osservati con attenzione servendosi di un approccio interdisciplinare, non siano pronosticabili l’insorgere, l’evoluzione e l’epilogo. Attraverso l’analisi delle condizioni socio-economiche occidentali prima e, poi, delle riforme avviate nella società e nell’economia cinese dal presidente Deng Xiaoping dopo la morte di Mao Zedong, ma precorse dallo stesso già negli anni del fervore rivoluzionario, s’è inteso spiegare perché il modello Cina si sia rivelato vincente e abbia trovato terreno fertile per insediarsi, prosperare e in alcuni casi sostituire quello occidentale asseritamente moderno e asseritamente evoluto. Ponendo i bisogni del capitalismo consumista in una posizione servente rispetto al capitalismo di stato, la Cina comunista ha evidenziato la propria ecletticità, estrinsecando una duttile capacità di impostare e sostenere strategie di politica economica internazionale che, se all’apparenza potevano anche risultare inconciliabili col comunismo, si sono rivelate premiali. La Cina comunista del basso profilo e della penetrazione economica silenziosa politicamente preordinata a non farla diventare ufficialmente il leader in alcuno dei settori di mercato in cui opera, ha assunto, suo malgrado, un ruolo di sostanziale preminenza sui mercati internazionali. La crescita continua e il volontario deprezzamento dello Yen, giocano in questo campo un ruolo essenziale così come la rete fittissima, e sempre più solida, di realtà satellite, le Tong, dalle quali assume 340 sempre le informazioni indispensabili a migliorare progressivamente l’offerta di tutto ciò che l’Occidente estremo consuma. Nel tracciare la mappa di questa evoluzione, s’è rivelato molto utile conoscere, analizzandole a fondo, le tipicità culturali arcaiche e tradizionali che contraddistinguono il suo popolo e, mutatis mutandis, la formazione delle classi imprenditoriali e l’organizzazione delle comunità sociali cinesi sia nei luoghi d’origine, che nelle terre d’insediamento occupate dalle avanguardie del gigante asiatico. Finora gli economisti prevedevano che il sorpasso sarebbe avvenuto intorno al 2019. L’Icp ha però aggiornato il suo sistema di calcolo della parità di potere d’acquisto, l’aggiustamento che va applicato alle statistiche dopo la conversione da una valuta all’altra per riflettere le differenze tra il prezzo dei beni e dei servizi nei vari paesi. Nel caso della Cina e degli Stati Uniti questo fattore è cambiato del 20 per cento rispetto all’ultimo aggiornamento nel 2005. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, nel 2012 il pil della Cina era ancora la metà di quello degli Stati Uniti (8,2 trilioni di dollari contro 16,2). Ma come spiega Linda Yueh sulla Bbc, la moneta cinese ha un tasso di cambio sottovalutato (Pechino è stata spesso accusata di tenerlo artificialmente basso per favorire le esportazioni), quindi il valore reale dei beni e dei servizi scambiati è maggiore. La stessa considerazione vale anche per le altre economie emergenti. Secondo i dati dell’Icp la quota del pil globale rappresentata dai paesi a medio reddito passa dal 32 al 48 per cento.241 241 Fonte: La Cina potrebbe diventare l’economia più grande del mondo entro la fine dell’anno, Fonte: L’internazionale, 30 aprile 2014. 341 242 Tabella 9 Per quanto riguarda la ricerca empirica svolta sul territorio in Italia, e segnatamente dalle interviste di alcuni funzionari di vigilanza è emerso, con sconcertante trasparenza e candida ammissione di rassegnazione, quanto l’iniziale disorganizzazione e superficialità nel trattare taluni degli indicatori (gestione criminale dei flussi migratori, conduzione illegale delle imprese e sfruttamento del lavoro da parte dei laoban ampiamente conosciuti all’estero e i dati dei quali potevano essere reperiti e assunti a paradigma) che preannunciavano l’insorgere delle problematiche relative alla costituzione delle prime comunità chiuse etnicamente connotate, sia stato condizionante e prodromico alla perdita di contatto con il territorio. Il problema è reale e attuale, ma sembra che ancora non si sia ben compresa l’effettiva potenzialità delinquenziale delle organizzazioni criminali provenienti dalla Cina. Le comunità cinesi inoltre sono impenetrabili e la costituzione di Chinatown in cui si tendono a ripristinare le regole e le tradizioni del proprio Paese d’origine, unita alla difficoltà della lingua, alle azioni criminose perpetrate sempre a danno dei connazionali e 242 Istogramma relativo alla crescita della Cina. Fonte: The Economist. 342 all’assenza di pentiti, ha portato a una totale chiusura verso l’esterno che ha permesso ai clan asiatici di svolgere indisturbati 243 le attività illegali e occultare i meccanismi interni. L’immigrazione massiccia di cittadini cinesi ha portato con sé forme di strutturazione di gruppi sociali legati all’atavismo delle relazioni e, con esse, nuove coniugazioni dell’associazionismo segreto al quale si legano la presenza di nuove forme di criminalità organizzata molto vicine al concetto mafioso. Le diverse modalità di aggregazione sociale gravitano attorno a tre principali criteri: i legami familiari e parentali in senso ampio, la comunanza territoriale (essere tongxiang, ovvero compaesani, ma anche appartenere allo stesso gruppo geodialettale) e, infine, le relazioni incentrate sul guanxi, ossia lo scambio reciproco di aiuto e favori (Cologna 2003b; Ceccagno 1998; Rastrelli 2008). Queste tre dimensioni tendono a strutturare le relazioni economiche e sociali di ciascun appartenente alla comunità.244 Scoprire l’esistenza del fenomeno Cina in Italia quando ormai aveva assunto le dimensioni e la connotazione dell’emergenza radicandosi anche nelle sue tradizionali forme di espressione criminale, però, ben si concilia con la presunzione di superiorità che ha visto, per quasi un millennio, l’Occidente servirsi delle condizioni di asserito sottosviluppo, di presunta arretratezza e di bisogno, di popoli ritenuti, ancora e in qualche modo, parte del Terzo Mondo e non di un Mondo Terzo (Mao Zedong), quindi asservibili ai propri interessi. Popoli dai quali, però, l’Occidente, di fatto è stato economicamente conquistato e colonizzato a propria volta. Uno stereotipo, quello della presunzione di superiorità, 243 In Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso, Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu, p.1 244 Rapporto di ricerca, La criminalità organizzata cinese in Italia. Caratteristiche e linee evolutive, CNEL, Osservatorio socio-economico sulla criminalità, Roma, maggio 2011. 343 che è stato invece studiato, compreso e piegato dall’Impero Celeste (la cui solidità interiore ed economica -basata sull’effettività dei bisogni e l’abitudine a non assecondarli- è risultata lo strumento vincente attraverso il quale conquistare, penetrandolo, un intero sistema. Quando si parla della Cina, anche quella “delocalizzata” in Occidente, e del nuovo assetto che la sua economia sta assumendo sui mercati internazionali sarebbe prudente usare l’allocuzione trasformazione economica e non la parola crescita. Ciò, sostanzialmente, perché non è, di fatto, rispondente al significato che si riassume in questo secondo termine. Permane, infatti, nell’operare in modo capitalista e sistemico della Cina, l’impostazione solidarista e “comunista” che le comunità della “diaspora sino-occidentale” mantengono e che sono evidenziate da R. Faligot nel rapporto citato nel lavoro di ricerca. La riassunzione del controllo sulle isole etniche, chiede che l’Italia non solo rimuova i confini linguistici, culturali e le riserve di extralegalità erettisi attorno alle chinatown, ma anche l’affermazione indiscutibile della generalità e indefettibilità dei principi di legalità nei cicli produttivi e di trattamento nei rapporti di lavoro tra laoban e operai. Per giungere a ciò è necessario rimuovere la connotazione omertosa del guanxi su cui si reggono le relazioni tra datore di lavoro e dipendente cinese in Italia ponendo a repentaglio l’incolumità e la salute pubblica. I cinesi sono una comunità in grado di assicurarsi i servizi essenziali tramite una serie di strutture, aperte rigorosamente solo a connazionali, che includono scuole, cliniche, attività commerciali, farmacie e banche. Si tratta ovviamente di banche illegali e non autorizzate ma che invece avviano operazioni come mutui, prestiti, trasferimenti di denaro all’estero. Esistono anche 344 associazioni pseudo-culturali, al vertice delle quali si insedia la criminalità cinese. Sicuramente in Italia le Chinatown più note sono quelle di Piazza Vittorio a Roma e di Via Sarpi a Milano. 245 […] Un tale gesto, incisivo e forse politicamente scorretto potrebbe risultare determinante per rimuovere l’attuale, parziale, affrancamento della comunità sino-italiana che promuove una politica sociale autonomista di quasi totale alienazione e decontestualizzazione. Ma le agenzie di sicurezza, per stessa ammissione dei loro vertici come evidenzia il Magistrato antimafia Olga Capasso, sono ancora impreparate a riprendere il controllo del territorio È necessario iniziare a interpretare l’art. 416 bis in maniera estensiva per poterlo così applicare a diverse tipologie di organizzazioni criminali ed è essenziale la formazione di organi specializzati e competenze specifiche. La DIA246 ha affermato in un rapporto di non essere in grado di occuparsi di questo 247 fenomeno perché non ha il personale e gli strumenti adeguati. L’integrazione e l’inclusione sociali sono una priorità, la via che non deve poter tollerare l’apposizione di nuovi confini. Dato per assunto che dalla frontiera nascono le opportunità per le comunità integrate del terzo millennio (quelle che l’antropologia del CERCO definisce il tertium genus), non è più possibile consentire che un solco separi ancora due nazioni e avvantaggi l’evoluzione di un sistema anarco-liberista com’è quello cinese che opera in Occidente. 245 In Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso, Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu, p.3 246 Acronimo, Direzione Investigativa Antimafia. 247 In Come si muove la criminalità cinese sul territorio italiano, Intervista alla dott.ssa Olga Capasso, Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia - Direzione Nazionale Antimafia, Fonte: www.eastonline.eu, p. 4. 345 Non basta, dunque, sottrarre il migrante alle mafie etniche (o locali) durante la fase dell’attraversamento dei confini, oggi è indispensabile colpire le organizzazioni criminali nella ulteriore fase che le vede attive nello sfruttamento della persona e sui mercati internazionali. Non può essere accettata, quindi, nessuna forma di umiliazione o di asservimento della persona, la tacita accettazione dello status quo delineerebbe la propensione alla connivenza e ciò andrebbe a discapito della dignità e dei diritti dell’essere umano: di ogni essere umano. Mao Zedong alla conferenza di Bandong del 1958 annunciò che la Cina sarebbe divenuta il Mondo Terzo e non sarebbe rimasta il Terzo Mondo. Con quelle parole, Mao, intendeva dire che l’Impero di Mezzo sarebbe divenuta la “terza via” rispetto al bipolarismo dei sistemi economici rappresentati da Usa e URSS; un “sistema economico originale” che fosse in grado di interporsi, sintetizzandole e conciliandole, tra le opposte filosofie economiche sulla base delle quali le due “superpotenze” vincitrici al termine della Seconda Guerra mondiale, si erano accordate per bipartire il mondo. 346