Psicologia 2 - Università "La Sapienza" Facolta` di Medicina e

Università Degli Studi “La Sapienza”
-Roma-
Appunti delle Lezioni
di
Psicologia Generale e Clinica
Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia
I° Anno
II° Semestre
Prof.ssa Daniela Arnaldi
Anno Accademico
2005 – 2006
La Motivazione
Etimologicamente il termine motivare significa "mettere in moto"; in psicologia, il termine
motivazione è usato (LUCIDO 1) per indicare tutti i fattori, sia interni sia esterni
all'organismo, che causano il comportamento dell'individuo in un determinato momento.
I fattori interni all’organismo possono essere identificati con le pulsioni, termine usato per
indicare una condizione interiore, che cambia nel tempo in modo reversibile e che spinge
l'individuo a raggiungere determinati scopi. Pulsioni diverse hanno scopi diversi. Per
esempio la pulsione della fame spinge l'individuo verso il cibo, la pulsione sessuale lo
spinge alla ricerca della gratificazione sessuale, la curiosità alla ricerca di sempre nuovi
stimoli e così via. Le pulsioni sono considerate concetti ipotetici. Infatti non si può
osservare direttamente in un animale lo stato di fame o di sete o di curiosità, ma piuttosto si
può ipotizzare la pulsione in base al comportamento dell’animale stesso. Se egli mostra un
comportamento che lo porta ad avvicinarsi al cibo, si dice che è spinto dalla pulsione della
fame; se manifesta un comportamento che lo porta a contatto con un partner, si dice che è
spinto da una pulsione sessuale; se invece si aggira esplorando nuovi ambienti, lo si
definisce curioso.
La pulsione, come abbiamo visto, cambia nel tempo perché qualcosa di interiore si modifica
nell'animale causando comportamenti differenti in momenti diversi, cioè in alcuni momenti
più che in altri, l'animale è disposto ad affrontare maggiori fatiche o disagi per raggiungere
un determinato scopo.
Ma l'interno interagisce costantemente con l'esterno, per cui anche l’ambiente ha la sua
importanza. Infatti, il comportamento motivato è diretto verso incentivi, cioè verso gli
oggetti o gli scopi che si trovano nell'ambiente esterno. (Gli incentivi vengono chiamati
anche rinforzi, ricompense o mete.) Vediamo un esempio: la pulsione che vi fa fare la fila
davanti ad una pizzeria probabilmente è la fame, ma l'incentivo a farlo è la pizza che avete
intenzione di comprare. Pulsioni e incentivi si completano a vicenda nel controllo del
comportamento; se uno è debole, l'altro deve essere forte per motivare un'azione finalizzata
ad un certo scopo. Perciò se già sapeste che le pizze di quella pizzeria hanno un pessimo
sapore (incentivo debole), probabilmente continuereste ad aspettare in fila soltanto se la
fame fosse tanta (pulsione forte); ma se facessero delle pizze buonissime (incentivo forte),
probabilmente aspettereste anche se spinti da una pulsione debole, cioè se aveste poca fame.
Pulsioni e incentivi non solo si complementano, ma si rafforzano a vicenda (LUCIDO 2).
Una pulsione forte può aumentare l'attrattiva di un particolare oggetto; inversamente, un
incentivo forte può intensificare una pulsione. Per tornare al nostro esempio, nel primo caso
(tanta fame) persino una pizza dal pessimo gusto potrebbe sembrarvi attraente se siete molto
affamati. Invece nel secondo caso (poca fame), l'aroma gustoso che, spandendosi da una
pizza nel forno, arriva fino a voi mentre aspettate in fila, potrebbe intensificare la vostra
fame, al punto da indurvi poi a mangiare anche un'altra cosa, che prima non vi avrebbe
minimamente interessato, se arrivati al banco scopriste che la pizza che volevate è finita.
Nell'uomo, persino le pulsioni primarie come la fame e la sessualità sono fortemente
influenzato da controlli, valori e convinzioni sociali, che possono diventare molto più
determinanti delle influenze biologiche fondamentali. Gli esseri umani non mangiano
soltanto ma pranzano, un termine che sottintende influenze sociali e cognitive di ogni tipo, e
la pulsione della fame è nell’uomo fortemente influenzata da componenti psicologiche.
Ugualmente degli esseri umani non si può dire semplicemente che copulano, poiché si
scelgono, si innamorano, si corteggiano, si promettono fedeltà, ecc. Gli esseri umani,
inoltre, possono avere un enorme potere di controllo conscio sulle proprie pulsioni, anche le
più profondamente istintuali, come dimostrano, per esempio, coloro che fanno, di propria
volontà, uno sciopero della fame per protesta.
L’approccio fisiologico allo studio delle pulsioni
Quando si è cominciato a studiare le pulsioni, in un primo tempo esse furono considerate
come semplici bisogni metabolici dei tessuti.
In un libro che ebbe notevole risonanza, intitolato La saggezza del corpo (The wisdom of
the Body) (1932),il fisiologo Walter B. Cannon descriveva i bisogni metabolici dei tessuti
che compongono il corpo umano. Egli diceva che affinché processi vitali siano mantenuti,
certe sostanze ed alcune proprietà del corpo devono restare costantemente entro i limiti di
un ristretto intervallo di variazione, cioè non possono salire troppo al di sopra né scendere
troppo al di sotto di tali limiti. Rientrano nei fattori di questo tipo la temperatura corporea,
l'ossigeno, l'acqua e le molecole di sostanze nutritive che sono fonti di energia. L'attività di
alcuni processi fisiologici, come la digestione e la respirazione, deve continuamente tendere
al raggiungimento di questo stato definito da Cannon omeostasi, ovvero la costanza delle
condizioni interne che il corpo deve mantenere attivamente per sopravvivere. Inoltre
Cannon sottolineò che il mantenimento dell'omeostasi non coinvolge solo i processi interni
dell'organismo, ma anche il suo comportamento verso l'esterno. Per tenersi in vita gli
individui devono trovare e consumare cibo, sali e acqua; devono anche mantenere la
temperatura corporea a un certo livello sfruttando vari accorgimenti, come ad esempio
coprirsi con i vestiti o trovandosi un riparo. Cannon ipotizzava che il meccanismo
fisiologico alla base di molte pulsioni fosse proprio il perturbamento dell'equilibrio
omeostatico, capace di indurre comportamenti finalizzati a correggere tale squilibrio.
Molti psicologi e fisiologi, seguaci delle teorie di Cannon, ottennero dimostrazioni
sperimentali del fatto che gli animali si comportano coerentemente con i bisogni metabolici
dei loro tessuti. Se, ad esempio, il contenuto calorico del cibo aumenta oppure diminuisce,
l'animale compensa il cambiamento mangiando una razione minore, oppure maggiore, di
cibo, e così facendo tiene relativamente costante l'apporto giornaliero di calorie. Per citare
un altro esempio, sappiamo che la rimozione chirurgica delle ghiandole surrenali provoca
una perdita eccessiva di sali attraverso le urine, se noi asportiamo ad un animale le
ghiandole surrenali, vediamo che in lui questa perdita aumenta notevolmente la pulsione
dell'animale a cercare e a mangiare cibi salati, perché, fintanto riesce a trovarne, può
mantenersi in vita.
Ma questo non avviene solo negli animali, una dimostrazione evidente ed inoppugnabile
dell'influenza dell'omeostasi sul comportamento umano viene dal caso clinico di un
bambino il quale dall’età di un anno sviluppò un appetito insaziabile per il sale. I suoi cibi
preferiti erano i cracker salati, le patatine fritte, le olive e i sottaceti e il bambino aveva
addirittura l'abitudine di mangiare il sale prendendolo direttamente dalla saliera. Quando il
sale gli veniva negato, il bambino cominciava a piangere finché i genitori non cedevano, e
quando incominciò a parlare, "sale" fu tra le prime parole che imparò, e una delle preferite.
Egli sopravvisse fino a tre anni e mezzo, età in cui venne ricoverato in ospedale per altri
sintomi e sottoposto alla dieta ospedaliera standard. Il personale non cedette alle sue
richieste e il piccolo morì in pochi giorni. L'autopsia rilevò un deficit delle ghiandole
surrenali; solo allora i medici che avevano avuto in cura il bambino si resero conto che la
sua insaziabile fame di sale era la conseguenza di un bisogno fisiologico. La sua voracità
per il sale e la capacità di indurre i genitori a fornirglielo, nonostante non sapessero che ciò
soddisfaceva un suo effettivo bisogno, lo avevano tenuto in vita. Una dimostrazione
piuttosto drammatica di quanto sia reale la "saggezza del corpo".
Il concetto di omeostasi è utile per capire la fame, la sete e il bisogno di sali, di ossigeno o
di mantenere costante la temperatura, ma non serve a spiegare altri tipi di pulsione.
Prendiamo ad esempio la pulsione sessuale. Le persone sono fortemente motivate a
impegnarsi in attività sessuali, ma a spingerle non è certamente un bisogno metabolico a
livello dei loro tessuti. Il comportamento sessuale non influisce su nessuna sostanza
essenziale per il corpo; nessuno muore per mancanza di attività sessuale. Per cercare di
elaborare una teoria generale, valida per tutte le pulsioni, alcuni psicologi proposero
l'esistenza di ipotetici bisogni anche rispetto alla sessualità e a tutte quelle pulsioni per le
quali non è evidente alcun bisogno fisiologico, ma questo contraddiceva il principio base.
Oggi gli psicologi distinguono tra pulsioni regolative e non regolative. Si dice pulsione
regolativa una pulsione che, come la fame, contribuisce al mantenimento dell'omeostasi; si
dice invece pulsione non regolativa una pulsione che, come quella sessuale, è funzionale a
qualche altro scopo.
La fame
Nessuna altra pulsione è stata studiata nei suoi aspetti fisiologici così a fondo come la fame.
In effetti, una delle prove che più contribuirono alla formazione, circa 50 anni fa, della
teoria degli stati pulsionali centrali fu il dato sperimentale che la lesione, o la stimolazione
elettrica, di aree specifiche dell'ipotalamo altera completamente la naturale tendenza
dell'animale a cercare cibo e a sfamarsi. Agli inizi degli anni '50, Stellar poté formulare una
teoria molto semplice relativa al controllo del cervello sulla fame.
La teoria di Stellar affermava che il comportamento alimentare di un animale è controllato
da due centri ipotalamici fra loro interagenti: il centro della fame e il centro della sazietà.
L'attivazione dei neuroni che compongono il centro della fame, localizzato nell'area laterale
dell'ipotalamo, induce l'animale a cercare il cibo e a mangiarlo. Infatti si è visto che gli
animali con lesioni bilaterali in quest'area ipotalamica ignorano completamente il cibo e
morirebbero di fame se non venissero nutriti per via endovenosa e che, invece, se si stimola
elettricamente quest'area l’animale immediatamente mangia.
Al contrario l'attivazione dei neuroni che formano il centro della sazietà, localizzato
nell'area centromediale dell'ipotalamo, riduce invece l'impulso a cercare il cibo e a
mangiare. Infatti vediamo che gli animali con lesione bilaterale dell'area ipotalamica
centromediale sono estremamente voraci e diventano obesi e che se vengono stimolati
elettricamente in quest'area cessano di mangiare anche se prima erano affamati. Stellar
ipotizzò che l'area centromediale (sazietà) eserciti i suoi effetti tramite connessioni inibitorie
con l'area laterale (fame), per cui l'attività neurale nel centro di sazietà ridurrebbe
direttamente l'attività neurale nel centro della fame.
Ma, le prove emerse dalle centinaia di esperimenti condotti dopo il 1954 hanno complicato
immensamente il quadro delineato da Stellar, benché non abbiano annullato la validità della
sua teoria.
Quando le ricerche sui meccanismi fisiologici della fame erano ancora nella fase iniziale,
molti studiosi speravano di riuscire ad individuare un unico segnale che, raccolto dal
cervello, attiva o disattiva tale pulsione. Alcuni studiosi ritenevano potesse trattassi del
glucosio, che è lo zucchero che rappresenta la principale fonte di energia per i tessuti
cerebrali, o di qualche altra sostanza nutritiva veicolata dal sangue; altri, invece, ritenevano
che ne fossero responsabili i segnali inviati dallo stomaco. Oggi si crede che il sistema
nervoso centrale risponde a una vasta gamma di influenze, nessuna delle quali ha il
controllo esclusivo della pulsione della fame. Alcune di queste influenze sono (LUCIDO 3).
1. I segnali di sazietà inviati dallo stomaco. Alcuni stimoli che segnalano quando smettere
di mangiare provengono dallo stomaco. Sembra infatti che lo stomaco invii al cervello due
diversi tipi di segnali, che hanno l'effetto di indurre la sazietà. Un tipo di segnale è relativo
alla quantità di cibo presente nello stomaco. Il secondo tipo di segnale riguarda, invece, la
natura chimica delle sostanze presenti nello stomaco. Le ricerche hanno dimostrato che, a
parità di quantità, se i cibi presenti nello stomaco sono ricchi di sostanze nutritive, l'animale
smette di mangiare prima di quanto faccia se il cibo è povero, o totalmente privo, di
nutrimenti.
2. Segnali che indicano la concentrazione delle sostanze nutritive nel sangue.
3. Segnali che indicano la quantità di grasso corporeo. La fame regola non solo l'assunzione
a breve termine di molecole caloriche, ma anche il peso corporeo. Sia nei ratti, sia nell'uomo
il peso tende a rimanere relativamente stabile per tutta la durata della vita adulta (se si
eccettua, in entrambe le specie, una lieve e graduale tendenza ad acquisire peso dalla
giovinezza fino alla mezza età). Per ogni individuo esiste un peso particolare, definito "set
point del peso" che risulta più facile da mantenere.
Alcune teorie motivazionali
In generale esistono alcune teorie motivazionali che hanno cercato di interpretare e spiegare
in che modo le pulsioni possono indirizzare il comportamento animale ed umano. Le
principali sono la teoria pulsionale freudiana, nata dall'esigenza di applicare il modello
omeostatico alle osservazioni fatte in psicoterapia, e la teoria pulsionale etologica, derivata
dalle osservazioni sistematiche degli animali nell'ambiente naturale.
Teoria Freudiana delle pulsioni
L'idea alla base della costruzione teorica di Freud è che le cause prime del comportamento
umano si trovino profondamente sepolte nella mente inconscia, ovvero in quella parte della
mente che, nonostante influenzi i nostri pensieri e le nostre azioni consce, non è accessibile
all'indagine cosciente della persona. Le ragioni che gli individui adducono per spiegare a se
stessi e agli altri il proprio comportamento non sono sempre le vere cause motivanti. Le vere
ragioni del nostro comportamento spesso stanno nella mente inconscia, e le ragioni consce
che portiamo non sono che coperture, razionalizzazioni plausibili, ma false, che servono a
giustificare a noi stessi e agli altri ciò che facciamo. Il fatto che tali ragioni siano false non
vuole dire, comunque, che si tratti di bugie volontarie e consapevoli, poiché a livello
conscio noi le crediamo effettivamente vere. Infatti secondo Freud nell'individuo operano
fondamentalmente due tipi di pulsioni: la pulsione di vita comprendente la libido e la
pulsione di morte comprendente l’aggressività che si manifesta in tendenze distruttive verso
sé stessi e verso gli altri.
Sia la libido che l’aggressività devono essere controllate e indirizzate in altre direzioni
perché le persone possano convivere pacificamente nella società..
Secondo Freud, gran parte del comportamento umano consiste in manifestazioni delle
pulsioni sessuali e delle pulsioni aggressive, mascherate sotto altre forme.
Freud non si preoccupò dei bisogni sociali perché nella sua concezione le persone sono
fondamentalmente asociali, costrette alle relazioni con gli altri più dal bisogno che da un
vero desiderio, e interagiscono con gli altri unicamente spinti dalle pulsioni sessuali ed
aggressive od a forme mascherate di questi istinti. Quasi tutti gli analisti post-freudiani
hanno invece considerato le persone come intrinsecamente portaste alla vita sociale, per cui
i loro bisogni rispetto agli altri non si riducono alla gratificazione degli impulsi sessuali ed
aggressivi.
Teoria pulsionale etologica
I primi etologi, tra i quali spiccano Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen, studiarono varie
specie di insetti, pesci, rettili e uccelli e trovarono che molti aspetti del loro comportamento
sono altamente prevedibili. Tutti i membri di una stessa specie producono infatti, la stessa
risposta di fronte a specifici stimoli ambientali (risposta specie-specifica). Gli etologi
chiamarono questi comportamenti schemi di azione fissi, o azioni stereotipate,
sottolineando con questa definizione il fatto che i meccanismi di controllo di tali
comportamenti sono “fissati” dall’eredità nel sistema nervoso dell’animale e che
l’apprendimento li può solo relativamente modificare. Lo stimolo capace di provocare
un’azione stereotipata fu chiamato stimolo liberatorio. In questi comportamenti la
relazione stimolo risposta è essenzialmente di tipo riflesso, ma si distingue dai riflessi veri e
propri per il fatto che la risposta provocata da uno stimolo liberatorio di solito è di tipo più
complesso, e si verifica solo se l’animale si trova nelle condizioni fisiologiche appropriate.
Vediamo meglio con un esempio. Tinbergen (1951) studiò gli schemi di azione fissi e gli
stimoli liberatori di un piccolo pesce delle acque dolci in Europa, lo spinarello. Nella
stagione degli amori il maschio dello spinarello cambia colore nella regione del ventre, che
passa dal grigio cupo al rosso brillante, costruisce il nido e attacca qualsiasi altro spinarello
maschio che invada il suo territorio. Per determinare quale fosse lo stimolo liberatorio che
innescava l’attacco contro gli altri maschi, Tinbergen costruì dei modellini di spinarello,
sagomati con maggiore o minore precisione e, tirandoli con un filo sottile, li trascinò dentro
al territorio del maschi. In questo modo Tinbergen scoprì che qualsiasi modellino, anche se
poco somigliante a un vero spinarello, era in grado, di scatenare un attacco da parte del
maschio che difendeva il proprio territorio, purché il ventre fosse di colore rosso. Se il
modellino non aveva il ventre rosso, per quanto somigliante fosse ad uno spinarello, non
provocava la risposta di attacco. Tinbergen dimostrò così che lo stimolo liberatorio in grado
di provocare l’attacco del maschio era il ventre rosso.
Anche se il comportamento istintivo è specifico ed innato, lo stimolo scatenante la risposta
comportamentale specie-specifica può, anche se solo in condizioni particolare, essere reso
inattivo ed il comportamento motivato specie-specifico può essere scatenato da uno stimolo
diverso che in questo caso non è più naturale ma è appreso. Questa sostituzione può
avvenire solo in un determinato periodo critico, molto limitato. Infatti è nel corso di questo
periodo che si forma la prima associazione tra lo stimolo e l’innesco del comportamento
istintivo, associazione che poi rimarrà stabile e immodificabile per tutta la vita. Questo
speciale tipo di apprendimento permanente viene detto imprinting. Konrad Lorenz (1935)
osservò che, quando degli anatroccoli appena usciti dall’uovo vedevano lui anziché la
propria madre, passare davanti al proprio nido, cominciavano a seguirlo come se fosse la
propria madre. Non solo: gli anatroccoli continuavano a seguirlo per intere settimane e, una
volta che questo attaccamento di era stabilito, non potevano più essere indotti a seguire la
vera madre.
Nell’uomo il fenomeno dell’imprinting avviene per quanto riguarda il linguaggio ed il
periodo critico è intorno ai tre anni. Nel 1970 una ragazzina americana di circa 13 anni,
indicata col nome di Genie nella letteratura scientifica su questo caso, fu salvata dalle
condizioni inumane in cui il padre, gravemente squilibrato, e la madre, una donna
totalmente succube del marito e quasi cieca, l’avevano tenuta fino ad allora. Da poco dopo
la sua nascita fino al momento in cui venne salvata, Genie era stata tenuta rinchiusa in una
piccola stanza e aveva avuto pochissime occasioni di udire discorsi di altre persone. La
ragazza riusciva a capire soltanto poche parole e non era in grado di combinare tra di loro
più parole, cioè non aveva mai imparato a parlare. Quando il fatto venne alla luce, Genie fu
affidata a una famiglia, e in questo ambiente si trovò esposta alla lingua inglese come
qualsiasi bambino che vive in condizioni normali e fu anche seguita da speciali insegnanti di
sostegno. Dopo questi cambiamenti delle sue condizioni di vita, Genie arrivò ad acquisire
un ampio vocabolario e imparò a produrre frasi dotate di significato, intelligenti. Tuttavia,
all’età di 20 anni, cioè dopo sette anni di esposizione e di addestramento al linguaggio, la
sua competenza a usare e a comprendere la grammatica restava notevolmente al di sotto di
altri indici della sua intelligenza. Un esempio tipico delle frasi che la ragazza riusciva a
produrre è: “Sento musica furgone dei gelati”; inoltre dopo aver udito una frase come “Il
ragazzo colpì la ragazza”, non era sicura su chi avesse colpito chi.
Il caso di Genie viene assunto come una delle prove che confermano l’ipotesi del periodo
critico per l’apprendimento del linguaggio.
Motivazioni secondarie
Fino a qui abbiamo parlato di motivazioni legate alla sopravvivenza dell’individuo (fame,
sete, ecc.) o della specie (sesso) ma vi è un altro gruppo di motivazioni dette secondarie, che
sebbene non siano legate alla sopravvivenza, rivestono una particolare importanza per
l’uomo.
A titolo di esempio parleremo della motivazione al successo o bisogno di realizzazione e
della motivazione affiliativa.
La motivazione al successo o bisogno di realizzazione include il desiderio di eccellere, di
portare a termine compiti complessi, di raggiungere prestazioni di alto livello e di superare
gli altri. Le persone che hanno un bisogno di realizzazione molto alto sono diverse per vari
aspetti da coloro che hanno poche motivazioni al successo. Per esempio, tendono ad essere
migliori in compiti di soluzione dei problemi, dimostrano prestazioni migliori e più veloce
miglioramento in problemi verbali. Essi tendono inoltre a porre a se stessi fini realistici, ma
impegnativi. McClelland ha dimostrato ciò con bambini di 5 anni divisi in due gruppi
classificati rispettivamente come "poco ambiziosi" o "molto ambiziosi". I bambini dovevano
lanciare degli anelli tentando di infilarli in un piolo piantato nel pavimento ed erano lasciati
liberi di scegliere la distanza dalla quale eseguire il lancio. McClelland trovò che i bambini
che avevano forte bisogno di realizzazione sceglievano di stare ad una distanza intermedia
dal piolo, cioè non tanto vicini da rendere il gioco troppo facile, ma neppure così lontani da
renderlo praticamente impossibile. Invece i bambini che avevano un bisogno di
realizzazione basso fecero esattamente l'opposto, cioè o si misero così vicini da essere sicuri
del successo, o si misero così lontani da rendere il successo praticamente impossibile.
Sembra che l'atteggiamento dei genitori e il tipo di cure parentali abbiano un ruolo
importante nello sviluppo della motivazione al successo, ma questo non è stato ancora
dimostrato.
Un altro motivo importante è la motivazione affiliativa o di attaccamento che corrisponde al
senso di piacere legato al contatto con un altro individuo e al dispiacere di esserne separato
o di restare da soli. Questo bisogno è stato messo in evidenza da Harry Harlow (1959) che
studiò gli effetti che la separazione dalla madre produce sui piccoli di scimmia rhesus.
L’idea di questo lavoro era stata suggerita ad Harlow da uno studio condotto negli anni ’40
da Renè Spitz, sui bambini ospitati nei vari ospedali nel Canada e negli Stati Uniti. Spitz
aveva notato che, nonostante ricevessero cure alimentari ed igieniche adeguate, circa un
terzo di questi bambini moriva prima di compiere un anno e numerosi altri mostravano
segni di grave ritardo, sia fisico che psicologico. Da questi dati Spitz giunse alla conclusione
che i bambini deperivano per la mancanza di un caldo contatto fisico e di stimoli affettivi.
Per scoprire quali condizioni provocavano questo effetto sui bambini, Harlow allevò alcuni
macachi rhesus tenendoli in completo isolamento sia dalle madri che dalle altre scimmie, e
trovò che queste scimmiette si comportavano come se fossero in preda ad una depressione
ed ad uno spavento estremi, e che una volta riunite alle altre scimmie, erano incapaci di farsi
accettare dal gruppo.
Ma ancora più importanti al fine di scoprire il bisogno di attaccamento, furono gli
esperimenti che Harlow condusse allevando piccoli macachi in presenza di madri artificiali.
In uno di questi esperimenti Harlow (LUCIDO 4) allevò i piccoli macachi tenendoli isolati
in gabbie che contenevano due madri artificiali, l’una formata da nudi fili metallici e l’altra
da un’intelaiatura di ferro ricoperta di morbido tessuto spugnoso. I piccoli furono divisi in
due gruppi: metà poteva nutrirsi poppando il latte dal biberon appeso dalla madre di filo
metallico, mentre per l’altra metà il biberon era sulla madre artificiale di tessuto morbido.
Il risultato più rilevante di questi esperimenti fu che, indipendentemente da quale delle due
madri artificiali portasse il biberon, tutti i piccoli macachi mostrarono di trattare come
madre quella coperta di tessuto morbido. Le scimmiette trascorrevano gran parte della
giornata abbracciate a questa madre artificiale e si rifugiavano correndo su di essa ogni qual
volta si sentivano minacciate. Nell’esplorare una stanza sconosciuta i piccoli macachi si
mostravano più coraggiosi in presenza della madre artificiale morbida che in sua assenza.
Da questi risultati Harlow concluse che, in determinate condizioni, nelle scimmie il fattore
bisogno del contatto è più importante del nutrimento.
Sono stati fatti moltissimi tentativi per classificare i motivi. Un esempio è quello di Maslow
(LUCIDO 5) che suppone che i bisogni siano ordinati secondo una gerarchia di priorità e di
forza. Quando i bisogni che hanno maggiore potenza e priorità sono stati soddisfatti, gli altri
bisogni della gerarchia emergono e premono per essere soddisfatti. Quando questi sono
soddisfatti, si è saliti di un gradino nella scala dei motivi. L'ordine gerarchico dal più al
meno potente è, secondo Maslow, il seguente: bisogni fisiologici come fame e sete, bisogni
di sicurezza, bisogno di appartenenza e di amore, bisogno di stima, bisogno di auto
realizzazione e in un secondo tempo ha aggiunto anche i bisogni cognitivi come la sete di
conoscenza ed i bisogni estetici come il desiderio di bellezza.
La fame e la sete hanno sempre la precedenza su un desiderio di approvazione o di
riconoscimento, ma questo ultimo è più forte rispetto al bisogno di bellezza. Marlow non
parla di bisogni antisociali perché, secondo lui, l'uomo può diventare antisociale solo
quando la società gli nega il soddisfacimento dei suoi bisogni innati.
Questa di Maslow non è né la migliore, né la più recente classificazione dei bisogni, ma è
solamente un esempio delle tante classificazioni che sono state fatte e ci serve solo per avere
un'idea di come i bisogni possano essere classificati.
Disturbi dell’alimentazione
Come abbiamo già detto nell’uomo tutto ciò viene complicato da fattori psicologici e
sociali.
Nella nostra cultura si riscontra una grande attenzione nei confronti del cibo, i ristoranti di
alta gastronomia abbondano e diverse riviste e spettacoli televisivi sono dedicati alla
preparazione dei cibi. Allo stesso tempo, molte persone soffrono di obesità, le diete
dimagranti sono all’ordine del giorno e rappresentano un giro di affari di milioni di euro
l’anno. Considerato questo intenso interesse per il cibo e per l’alimentazione, non è
sorprendente che tale aspetto del comportamento umano sia soggetto a svariati disturbi.
Sebbene le descrizioni cliniche dei disturbi dell’alimentazione si possono far risalire a molti
anni fa, questi disturbi sono comparsi per la prima volta nella classificazione del DSM (che
come abbiamo visto è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali a cui tutti gli
addetti ai lavori, per convenzione, fanno riferimento e che viene aggiornato regolarmente)
nel 1980 soltanto come una sottocategoria dei disturbi della fanciullezza o della prima
adolescenza e soltanto nel DSM-IV i disturbi dell’alimentazione, quali l’anoressia nervosa e
la bulimia nervosa, sono diventati una categoria a sé stante, a dimostrazione della crescente
attenzione che negli ultimi due decenni i clinici e i ricercatori hanno prestato a queste
patologie.
Anoressia nervosa
Il temine anoressia si riferisce alla perdita di appetito, mentre nervosa indica le motivazioni
emozionali del disturbo. Il termine anoressia è per lo più inappropriato in quanto la maggior
parte dei soggetti anoressici non perdono appetito o interesse per il cibo, anzi, mentre
digiunano molti anoressici manifestano una sorta di ossessione per il cibo arrivando persino
a leggere continuamente libri di cucina e a preparare manicaretti per la loro famiglia.
L’individuo si rifiuta di mantenere un peso corporeo normale; ciò significa di norma che il
peso corporeo è inferiore dell’85% al peso normale per età e statura. Di solito il
dimagrimento è ottenuto mediante la dieta, anche se possono essere presenti condotte di
eliminazione (quali vomito auto indotto, uso inappropriato di lassativi o di diuretici) ed una
attività fisica eccessiva. L’individuo prova un’intensa paura di ingrassare, che non si attenua
con il decremento ponderale perché i soggetti affetti da anoressia nervosa hanno una
percezione distorta della forma del loro corpo ed anche quando sono emaciati, si
percepiscono sovrappeso e considerano alcune parti del loro corpo, quali l’addome, i glutei
e le cosce, come troppo grasse. Per valutare le dimensioni e il peso corporeo possono
pesarsi continuamente, misurare le diverse parti del proprio corpo o controllarsi allo
specchio con occhio ipercritico. Essi sono concentrati totalmente sull’effetto del cibo sul
loro corpo, e calcolano accuratamente la quantità di calorie di tutto ciò che consumano fino
a raggiungere il livello di ossessione (“io non lecco mai un francobollo con le calorie non si
sa mai”). . Pur essendo drasticamente sottopeso, i soggetti con anoressia si rifiutano
solitamente di ammettere che ci sia qualcosa che non va in loro e i livelli di autostima sono
strettamente correlati con la perdita di peso e con la magrezza. Nei soggetti di sesso
femminile lo stato di emaciazione estrema causa spesso amenorrea, cioè assenza o
irregolarità del ciclo mestruale.
La distorsione dell’immagine corporea che accompagna l’anoressia è stato valutato in
svariati modi. In una tipologia di valutazione, ai soggetti vengono presentati disegni di corpi
femminili con diversi pesi corporei e si chiede loro di indicare quale si avvicini
maggiormente al proprio e quale rappresenti il loro ideale (LUCIDO 6). Da questa figura si
può notare che, come era prevedibile, i soggetti con anoressia sopravvalutano le dimensioni
del loro corpo e scelgono come ideale una figura esile.
Il DSM-IV distingue due tipologie di anoressia nervosa. Nel sottotipo con restrizioni il
decremento ponderale è dovuto a restrizioni alimentari; nel sottotipo con abbuffate/condotte
di eliminazione, il soggetto si sottopone regolarmente ad abbuffate e a condotte di
eliminazione. Numerose differenze tra questi due sottotipi convalidano tale distinzione. Il
sottotipo con abbuffate/condotte di eliminazione sembra essere di natura maggiormente
psicopatologica, infatti i soggetti presentano turbe della personalità, comportamenti
impulsivi, cleptomania, abuso di sostanze quali alcolici e stupefacenti, fobia sociale e manie
suicide in misura maggiore rispetto a coloro che appartengono al sottotipo con restrizioni.
Solitamente l’anoressia insorge nella prima fase adolescenziale o in quella intermedia,
spesso dopo una dieta o un evento esistenziale stressante, come la separazione o il divorzio
dei genitori. È circa dieci volte più frequente nei soggetti di sesso femminile rispetto a quelli
di sesso maschile. Quando l’anoressia si manifesta nei soggetti di sesso
maschile la
sintomatologia e le altre caratteristiche, quali la presenza di conflitti familiari, sono
generalmente analoghe a quelle che si riscontrano nei soggetti di sesso femminile con
anoressia. La differenza tra i sessi nella prevalenza dell’anoressia molto probabilmente
riflette la maggiore importanza attribuita dalle donne al loro aspetto fisico e ai parametri
culturali della bellezza, che negli ultimi decenni hanno promosso come ideale una forma
estremamente esile. I soggetti con anoressia presentano spesso depressione, disturbi
ossessivo-compulsivo, fobie, disturbo da panico, alcolismo e vari disturbi di personalità.
Sono frequenti anche problematiche sessuali, come è stato dimostrato da uno studio in cui è
emerso che il 20% di un campione di donne anoressiche con un’età media di 24 anni non
avevano alcun rapporto sessuale, e che più del 50% era anorgasmico o presentava un ridotto
desiderio sessuale.
La forte connessione tra anoressia e depressione ha spinto molti ricercatori a prendere in
considerazione la possibilità che l’anoressia produca depressione, per esempio a causa degli
scompensi biochimici causati dall’estrema denutrizione o per i sensi di colpa e di vergogna
che in genere l’accompagnano. Ma poiché non sempre l’anoressia precede la depressione è
stata pure avanzata l’ipotesi che la depressione ingeneri anoressia nervosa oppure, in quanto
sono presenti analogie sintomatiche tra i due disturbi, che l’anoressia sia una variante della
depressione. Lo stesso decremento ponderale, ad esempio, è un sintomo di depressione.
Esistono anche altre analogie biologiche, ad esempio, i soggetti che soffrono di depressione
e quelli con anoressia presentano entrambi livelli ridotti di serotonina. Queste tre ipotesi
costituiscono spiegazioni plausibili dell’elevata comorbilità tra anoressia e depressione.
Il digiuno autoimposto e il ricorso a lassativi producono numerose conseguenze biologiche
indesiderate. Spesso si ha ipotensione, bradicardia, osteoporosi, aridità della cute, fragilità
delle unghie, alterazioni dei livelli ormonali e una leggera anemia. Alcuni soggetti
lamentano perdita di capelli e possono sviluppare “lanugo”, una fine e soffice peluria
diffusa in tutto il corpo. I livelli di elettroliti quali potassio e sodio possono essere alterati e
gli elettroliti (i sali ionizzanti presenti in diversi livelli corporei) sono essenziali per il
processo di trasmissione neurale.
La prognosi nei casi di anoressia è infausta infatti solo il 50% dei soggetti guarisce.
Modificare la percezione distorta di se stessi nei soggetti con anoressia è particolarmente
difficile soprattutto nella nostra società nella quale si attribuisce grande valore alla
magrezza. L’anoressia è una malattia che mette a repentaglio la vita del soggetto sia per
l’alto rischio di suicidio che per le numerose complicanze della malattia come per esempio
insufficienza cardiaca congestizia.
Possibili cause dell’anoressia nervosa. Sono stati suggeriti numerosi differenti tipi di cause
per l’anoressia, inclusi fattori di personalità, modelli culturali e fisiologia cerebrale.
Che siano interessati fattori di personalità è suggerito dal fatto che le anoressiche tendono
ad essere un certo tipo di donna: giovane, di ceto medio e di famiglia che dà importanza ai
risultati conseguiti. Questo tipo di ambiente può portare a richieste ed aspettative familiari
stressanti ed in questo contesto il rifiuto di mangiare da parte della ragazza può essere
(inconsciamente) un modo di prendere in mano il controllo della situazione. Un’altra
possibilità che è stata menzionata è che l’anoressia rappresenti una negazione della
sessualità poiché oltre alla mancanza del mestruo, le ragazze che sono sottopeso perderanno
anche altre caratteristiche sessuali, come una forma veramente femminile.
Molti hanno suggerito che fattori sociali giocano un ruolo determinante nell’anoressia, in
particolare a causa dell’importanza data dalla nostra società alla magrezza femminile.
Questa importanza è aumentata sensibilmente negli ultimi 40 anni, il che concorda con il
dato che anche l’incidenza dell’anoressia è aumentata in questo periodo (Marilyn Monroe,
Julia Roberts).
Altri ricercatori hanno fissato l’attenzione su possibili cause biologiche ed una delle ipotesi
è che l’anoressia sia causata dal cattivo funzionamento dell’ipotalamo.
Bulimia nervosa.
Un altro importante disturbo dell’alimentazione è la bulimia nervosa. Bulimia è un termine
di origine greca che significa “fame da bue”. Tale disturbo comporta episodi durante i quali
un rapido consumo di enormi quantità di cibo è seguito da comportamenti compensatori
estremi, quali il vomito, il digiuno e l’attività fisica eccessiva. Il DSM-IV definisce
abbuffata una quantità eccessiva di cibo ingerita in un periodo inferiore alle due ore. Le
abbuffate o crisi bulimiche avvengono generalmente in solitudine, possono essere indotte da
stress e dalle emozioni negative che esso suscita, dalla solitudine, da situazioni sociali legate
al cibo o da preoccupazioni relative all’aumento ponderale, e di solito continuano finché il
soggetto non si sente pieno da scoppiare. Durante una crisi bulimica il soggetto non si rende
neanche conto della quantità di cibo ingerita. Fanno solitamente parte della abbuffata quegli
alimenti, come dolci, gelati o torte che hanno un alto contenuto calorico e che possono
essere ingeriti rapidamente. Dalle ricerche emerge che durante una abbuffata una soggetto
ingerisce di norma da 2000 a 4000 calorie, molto di più di quanto un individuo normale
assume in un’intera giornata.
Tipicamente i soggetti si vergognano delle loro abitudini alimentari patologiche e cercano di
nasconderle. Durante la crisi bulimica perdono il controllo, fino al punto di sperimentare
qualcosa di simile a uno stato dissociativo e quando si conclude l’abbuffata, una sensazione
di disgusto, di disagio e la paura di aumentare di peso portano alla seconda fase della
bulimia nervosa, la condotta di eliminazione. I soggetti molto spesso inseriscono le dita in
gola per scatenare il riflesso del vomito attraverso al stimolazione della faringe, ma ben
presto riescono a vomitare a comando. L’abuso di lassativi e diuretici (che d’altra parte non
sono in grado di diminuire l’apporto calorico), nonché il digiuno e l’eccessiva attività
fisica, sono strategie per tenere sotto controllo il peso corporeo. Sebbene molti individui si
abbuffino occasionalmente - uno studio riscontrò che il 50% degli studenti americani aveva
esperienza occasionali di abbuffate - e alcuni soggetti abbiano sperimentato condotte di
eliminazione, per fare una diagnosi di bulimia nervosa bisogna che gli episodi di abbuffata e
di condotta di eliminazione si presentino almeno due volte alla settimana per un periodo di
tre mesi.
Come per i soggetti con anoressia nervosa, quelli affetti da bulimia nervosa hanno paura di
aumentare di peso e la loro autostima dipende fortemente dal mantenimento del peso
corporeo normale.
La bulimia nervosa può essere di due tipi: con condotte di eliminazione e senza condotte di
eliminazione ed in quest’ultimo caso i comportamenti compensatori sono il digiuno o
l’attività fisica eccessiva. Come prevedibile, i soggetti con bulimia senza condotte di
eliminazione tendono ad avere un peso corporeo maggiore di quelli appartenenti al primo
sottotipo ed inoltre, hanno crisi bulimiche meno frequenti e una psicopatologia di minore
entità rispetto ai soggetti con bulimia con condotte di eliminazione.
La bulimia nervosa inizia tipicamente nella tarda adolescenza o nella prima età adulta e
circa il 90% dei casi riguarda soggetti di sesso femminile. Si ritiene che la prevalenza tra la
popolazione femminile sia di circa l’1-2%. Molti soggetti con bulimia nervosa erano
sovrappeso prima dell’insorgenza del disturbo e gli episodi di alimentazione incontrollata si
sono spesso manifestati durante una restrizione dietetica. Il follow-up a lungo termine di
soggetti con bulimia nervosa rivela che circa la metà di essi guarisce nell’arco di cinque
anni.
La bulimia nervosa è associata a numerose altre diagnosi, in particolare alla depressione, ai
disturbi di personalità (soprattutto al disturbo borderline di personalità e ai disturbi di ansia).
Curiosamente, la bulimia è associata alla cleptomania. I soggetti bulimici che si dedicano al
furto tendono inoltre ad abusare di sostanze stupefacenti e ad essere sessualmente
promiscui. Tale combinazione di comportamenti può riflettere impulsività o mancanza di
autocontrollo, caratteristiche che potrebbero risultare rilevanti negli episodi di alimentazione
incontrollata. Le frequenti condotte di eliminazione possono produrre ipopotassiemia,
mentre il ricorso inappropriato a lassativi induce diarrea, che a sua volta può portare ad
alterazioni nell’equilibrio elettrolitico. Il vomito ricorrente può portare a una perdita di
smalto dentale, dovuta agli acidi gastrici che intaccano i denti i quali assumono un aspetto
“tarlato”. In alcuni casi le ghiandole salivari possono ingrossarsi.
La bulimia nervosa, come l’anoressia, è un disturbo grave con numerose conseguenze
fisiche negative, ma i bulimici abitualmente non si rendono conto di questo e, a causa del
fatto che il loro peso rimane sostanzialmente normale, riescono a tenere nascosti a lungo i
loro disordini alimentari e a volte sono convinti di fare una cosa normale, anzi di avere
trovato la soluzione per mangiare senza ingrassare “non riuscivo a capire perché non lo
facessero tutti”.
Disturbo da alimentazione incontrollata.
Il disturbo da alimentazione incontrollata comprende abbuffate ricorrenti, perdita di
controllo durante l’episodio di abbuffata e sensazione di disagio nei confronti del
comportamento patologico, nonché altre caratteristiche quali un’ingestione rapida e in
solitudine. Si distingue dall’anoressia nervosa per l’assenza del decremento ponderale e
dalla bulimia nervosa per l’assenza di condotte di eliminazione. Il disturbo da alimentazione
incontrollata appare più diffuso sia dell’anoressia che della bulimia.
Anch’esso si verifica con maggiore frequenza nelle donne che negli uomini ed è associato
all’obesità e a un’anamnesi di fluttuazioni ponderali. È collegato inoltre a compromissione
del funzionamento lavorativo e sociale, a depressione, ad abuso di sostanze e a
preoccupazione eccessiva per la forma del corpo.
Eziologia dei disturbi dell’alimentazione.
Per quanto riguarda le cause dei disturbi dell’alimentazione in generale, la ricerca biologica
relativa ai disturbi dell’alimentazione ha preso in esame sia la genetica che i meccanismi
cerebrali. I dati disponibili depongono a favore di una possibile origine genetica, ma non
sono stati ancora effettuati studi approfonditi.
Sono stati presi in esame nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione gli oppiacei endogeni e
la serotonina che svolgono un ruolo nella mediazione delle sensazioni di fame e sazietà e in
soggetti con disturbi dell’alimentazione sono stati riscontrati bassi livelli di queste sostanze
chimiche cerebrali
Sul piano psicologico diversi fattori svolgono ruoli significativi. Con il mutare dei canoni
estetici sociali verso una forma corporea più esile per le donne, la frequenza dei disturbi
dell’alimentazione è aumentata. La prevalenza dei disturbi dell’alimentazione è molto
elevata negli individui che svolgono un lavoro che dà molta importanza all’aspetto fisico,
quali modelle, ballerini, attori e atleti. La prevalenza dei disturbi dell’alimentazione è inoltre
più elevata nei paesi industrializzati, dove è maggiore la pressione culturale verso un ideale
di magrezza.
Le teorie psicodinamiche relative ai disturbi dell’alimentazione sottolineano come cruciali
le relazioni genitori-figli e le caratteristiche di personalità.
La teoria di Bruch, ad esempio, avanza l’ipotesi che i genitori di bambini che in seguito
sviluppano disturbi dell’alimentazione impongano la loro volontà ai figli senza considerarne
le esigenze. I soggetti cresciuti in un contesto di questo genere non apprendono ad
identificarsi con i loro stati interiori e diventano fortemente dipendenti dagli standard
imposti da altri. La ricerca sulle caratteristiche delle famiglie con figli affetti da disturbi
dell’alimentazione ha prodotto dati differenti legati alle modalità di reperimento dei dati
stessi. I resoconti dei soggetti sintomatici evidenziavano elevati livelli di conflittualità, ma
dalle effettive osservazioni delle famiglie non sono emersi particolari devianze. Gli studi
della personalità hanno riscontrato che i soggetti con disturbi dell’alimentazione
presentavano livelli elevati di nevroticismo e di perfezionismo, nonché una bassa autostima.
Le teorie cognitivo-comportamentali sui disturbi dell’alimentazione ipotizzano che la paura
di ingrassare e la distorsione dell’immagine corporea rendano il decremento ponderale un
potente fattore di rinforzo. Tra i soggetti con bulimia nervosa, stati emotivi negativi e lo
stress scatenano abbuffate e creano ansia, attenuate da condotte di eliminazione.
Il principale trattamento biologico per i disturbi dell’alimentazione consiste nella
somministrazione di antidepressivi sebbene tali trattamenti siano parzialmente efficaci, i
tassi di abbandono per i programmi di terapia farmacologica sono elevati e le recidive sono
frequenti quando i soggetti sospendono l’assunzione dei farmaci. La terapia per l’anoressia
richiede spesso il ricovero ospedaliero per ridurre le complicanze mediche del disturbo.
Strategie di rinforzo verso l’incremento ponderale, quali le visite di amici, si sono rivelate
particolarmente efficaci, ma nessuna terapia sinora si è dimostrata in grado di produrre un
mantenimento a lungo termine dell’incremento ponderale.
Il trattamento cognitivo-comportamentale per la bulimia s’incentra sulla messa in
discussione dei canoni sociali relativi all’avvenenza fisica e delle convinzioni che
incoraggiano severe restrizioni alimentari, nonché sullo sviluppo di comportamenti
alimentari normali. Gli esiti sono promettenti, almeno a breve termine.
IL TERMINE MOTIVAZIONE INDICA TUTTI I FATTORI, SIA
INTERNI SIA ESTERNI ALL’ORGANISMO, CHE CAUSANO IL
COMPORTAMENTO DELL’INDIVIDUO IN QUEL DETERMINATO
MOMENTO.
FATTORI INTERNI (PULSIONI): INDICANO UNA CONDIZIONE INTERIORE, CHE CAMBIA NEL TEMPO IN MODO
REVERSIBILE, E CHE SPINGE L’INDIVIDUO A RAGGIUN- GERE
DETERMINATI SCOPI.
FATTORI ESTERNI (INCENTIVI): GLI OGGETTI O GLI SCOPI
CHE SI TROVANO NELL’AMBIENTE ESTERNO.
LUCIDO 1
PULSIONE FORTE
INCENTIVO DEBOLE
(TANTA FAME)
(PESSIMO SAPORE)
PULSIONE DEBOLE
INCENTIVO FORTE
(POCA FAME)
(OTTIMO SAPORE)
UNA PULSIONE FORTE PUO’ AUMENTARE L’ATTRATTIVA DI UN PARTICOLARE OGGETTO; INVERSAMENTE, UN INCENTIVO FORTE PUO’ INTENSIFICARE UNA PULSIONE.
LUCIDO 2
SEGNALI CHE INFLUENZANO LA FUNZIONE DELLA FAME
SEGNALI DI SAZIETA’ INVIATI DALLO STOMACO CHE
TENGONO
CONTO
SIA
DELLA
QUALITA’
CHE
DELLA
QUANTITA’ DEL CIBO.
SEGNALI CHE INDICANO LA CONCENTRAZIONE DELLE
SOSTANZE NUTRITIVE NEL SANGUE.
SEGNALI
CHE
INDICANO
LA
QUANTITA’
DI
GRASSO
CORPOREO.
LUCIDO 3
RAPPRESENTAZIONE SCHEMATICA DELLA SCALA DI MASLOW
RELATIVA ALLA EVOLUZIONE E ALLA GERARCHIA DEI
BISOGNI
Bisogni estetici
Bisogni cognitivi
Bisogno autorealizzazione
Bisogno di stima
Bisogno di amore e di appartenenza
Bisogno di sicurezza e protezione
Bisogni fisiologici (di sopravvivenza)
LUCIDO 5
L'Apprendimento
L’apprendimento è una forma di adattamento all’ambiente che avviene durante tutta la vita
dell’individuo e si può definire come (LUCIDO A) “il processo attraverso il quale una
particolare esperienza, fatta in un certo momento della vita, può influenzare il
comportamento dell’individuo in un momento successivo”. In questa definizione per
“esperienza” si intende qualsiasi effetto prodotto dall’ambiente e mediato dai sistemi
sensoriali dell’individuo (vista, udito ecc.), perché per apprendere è necessario essere in uno
stato di coscienza vigile per cogliere gli stimoli esterni. Per “comportamento in un momento
successivo” si intende qualsiasi comportamento messo in atto successivamente e che non è
una risposta immediata agli stimoli già presente nell’individuo prima dell’esperienza che
provoca l’apprendimento.
Bisogna dunque state attenti a distinguere l’apprendimento dalla maturazione. Infatti per
maturazione si intendono quei cambiamenti che avvengono nell'individuo col passare del
tempo e sono uguali per tutti indipendentemente dalle esperienze vissute; mentre
l'apprendimento avviene sotto l'influsso delle esperienze e dell'ambiente esterno per cui
varia da individuo ad individuo e rende ognuno diverso dall'altro.
Dunque il processo di apprendimento comporta l'acquisizione di un modo di rispondere
nuovo e stabilmente diverso da quello di prima (nuotare, leggere, guidare ecc.). Questo non
significa però che i comportamenti acquisiti rimangano sempre uguali, ma possono essere
sia migliorati ( uno impara sempre meglio a guidare) sia peggiorati (se non si guida per
molto tempo si avranno difficoltà a ricominciare).
Secondo questa definizione di apprendimento, non è necessario capire il collegamento che
c’è tra i fattori e le variabili in gioco: un comportamento può modificarsi semplicemente
perché abbiamo imparato dall'esperienza che una certa risposta ad uno stimolo ci provoca
un danno o un vantaggio, per esempio, se sentiamo il suono della sirena dietro di noi, ci
scostiamo immediatamente e istintivamente senza pensare troppo, infatti l’esperienza ci
insegna che il suono della sirena preannuncia l’arrivo dell’ambulanza. Questo tipo di
apprendimento è una capacità adattativa primaria presente sia nell'uomo che negli animali
ed è chiamato “associativo per contingenza temporale”.
I prototipi di tale apprendimento sono il "condizionamento classico o rispondente" studiato
da Pavlov ed il "condizionamento operante" studiato da Skinner.
Condizionamento classico o rispondente
Ivan Pavlov (1849-1936) è noto a tutti per aver scoperto il fenomeno del condizionamento.
Dobbiamo però ricordare che Pavlov prima di condurre le ricerche sui riflessi condizionati è
stato insignito del premio Nobel (1904) per i suoi lavori sulla fisiologia del sistema
digestivo.
Come fisiologo studiava le secrezioni salivari che avvenivano quando venivano poste nella
bocca dell'animale varie sostanze chimiche o cibo. Però Pavlov notò un fenomeno per lui
molto disturbante. In certi casi il cane salivava anche quando non gli veniva posto alcun
cibo in bocca, cioè quando non vi era alcuna ragione "fisiologica" per questo. Pavlov notò
che questa salivazione che lui chiamò "psichica" avveniva quando il cane sentiva l’odore del
cibo, o quando sentiva rumore in cucina, o quando vedeva chi gli dava da mangiare.
Per capire perché questo avvenisse introdusse chirurgicamente un rivelatore che misurava la
produzione salivare (LUCIDO B) in un cane che era bloccato mediante cinghie in una
camera insonorizzata dove, attraverso un meccanismo, si poteva introdurre della polvere di
carne nella bocca dell'animale. Lo sperimentatore poteva inoltre presentare una serie di
stimoli quali il suono del metronomo o una luce.
Il punto di partenza per la dimostrazione di Pavlov è l'esistenza del "riflesso incondizionato"
della salivazione (LUCIDO C). Il riflesso incondizionato è una risposta innata
dell'organismo: ogni cane al quale venga messa della polvere di carne in bocca inizierà a
salivare perché i circuiti nervosi che controllano questo riflesso sono già esistenti. Il suono
di un metronomo, al contrario, non produrrà salivazione in un cane normale. Pavlov riuscì a
far sì che il cane salivasse al suono del metronomo.
PRIMA DEL CONDIZIONAMENTO
SN
--------->
Stimolo neutro
(suono)
SI
Stimolo incondizionato
(cibo)
--------->
DURANTE IL CONDIZIONAMENTO
SN
Stimolo neutro
(suono)
seguito da
nessuna risposta
RI
Risposta incondizionata
(salivazione)
SI
Stimolo incondizionato
(cibo)
----------->
DOPO IL CONDIZIONAMENTO
SC
------------>
Stimolo condizionato
(suono)
RI
Risposta incondizionata
(salivazione)
RC
Risposta condizionata
(salivazione)
Questo è un esempio di quello che ora chiamiamo "condizionamento classico", che ci
permette di formulare una importante legge dell’apprendimento (LUCIDO D): “quando uno
stimolo che precedentemente era neutro (SN) è presentato in stretta contiguità temporale
con uno stimolo incondizionato (SI) la risposta che prima era fornita dallo stimolo
incondizionato (SI) inizierà a comparire in seguito alla presentazione dello stimolo
condizionato (SC)”. Il fatto di avere sperimentato la sequenza metronomo - carne ha
modificato in senso adattivo il comportamento del cane.
Dunque nel condizionamento classico abbiamo (LUCIDO D):
„ il periodo di acquisizione cioè il numero di prove necessarie a provocare la risposta.
„ la procedura di rinforzo: nel periodo di acquisizione bisogna presentare lo stimolo
condizionato (SI) (cibo) dopo ogni stimolo neutro (SN) (suono) e più precisamente, per
avere un tempo di apprendimento ideale, lo stimolo neutro (SN) deve precedere lo stimolo
incondizionato (SI) di un tempo compreso tra 1/2 e 2 secondi, l’apprendimento diventa solo
più difficile tra i 2 e i15 secondi, ma non si verifica per niente se si superano i 15 secondi.
Così come non ci sarà apprendimento se si inverte l’ordine e si presenta lo stimolo
incondizionato (SI) prima dello stimolo neutro (SN).
„ l’estinzione: se, dopo che l'animale ha acquisito la risposta condizionata (RC), smettiamo di
rinforzare lo stimolo condizionato (SC) vediamo che gradualmente la risposta condizionata
(RC) sparirà.
„ il recupero spontaneo: anche se la risposta si estingue non viene completamente
dimenticata, infatti dopo un certo periodo di riposo, la RC si ripresenterà spontaneamente.
„ Inoltre stimoli simili allo SC (suono) tenderanno a provocare ugualmente la risposta. Questo
fenomeno è detto generalizzazione. La forza della risposta sarà tanto maggiore quanto più il
nuovo stimolo sarà simile allo SC originale. Il fatto che la risposta condizionata (RC) si
generalizzi a stimoli simili allo SC ha un importante valore adattivo; infatti nella vita reale è
difficile che ci siano, in circostanze diverse, stimoli perfettamente identici. Quando una tigre
vi ha spaventato una volta è probabile che vi spaventerete ogni volta che vedrete una tigre
anche se sarà più piccola o più grande, o non avrà lo stesso atteggiamento minaccioso
dell'altra, o sarà di un altro colore, altrimenti, come apprendimento, il condizionamento
sarebbe inutile.
„ Il logico complemento della generalizzazione è la discriminazione. Sebbene il
condizionamento si generalizzi a stimoli simili è possibile imparare a non rispondere a tutti
gli stimoli simili ma rispondere solo ad alcuni. Il ruolo adattivo della discriminazione è
ovvio, se esso non esistesse ci troveremmo ad avere reazioni spropositate di fronte ad una
tigre in gabbia o anche di fronte ad un gatto.
Però il fatto che il condizionamento richieda, come condizione, un riflesso incondizionato
sembra porre dei limiti alle capacità di apprendimento umano, anche se Pavlov non accettò
mai questa idea. Egli infatti pensava che tutte le forme di apprendimento non fossero altro
che delle lunghe catene di risposte condizionate. Questo processo fu chiamato
"condizionamento di ordine superiore". Ma si è visto che già nel secondo ordine (passaggio)
il condizionamento era alquanto labile e neanche Pavlov arrivò mai al condizionamento di
quarto ordine.
Il primo ad usare esplicitamente i metodi pavloviani per studiare l'apprendimento nell'uomo
fu John Watson (LUCIDO E). In una classica dimostrazione Watson condizionò Albert, un
bambino di 11 mesi, ad avere paura dei conigli bianchi. All'inizio Albert reagiva alla
presentazione di un coniglio giocando felice e tranquillo. Per provocare la paura
condizionata, gli sperimentatori produssero un forte rumore, che specie a quell’età è uno
stimolo incondizionato di paura. Il colpo infatti provocò una risposta di paura da parte di
Albert, e già dopo la seconda prova il bambino mostrò paura ogni volta che vedeva il
coniglio, anche se non era più accompagnato dal rumore. Quindi, per usare la terminologia
del condizionamento classico, dopo essere stato associato con un rumore molto forte
(stimolo incondizionato di una risposta di paura), il coniglio era diventato uno stimolo
condizionato per la paura.
Nella vita di tutti i giorni quando nella pubblicità vengono associate per esempio automobili
o birre a persone molto belle e che hanno l'aria molto felice, ciò che si cerca di ottenere è di
farci venire l'acquolina in bocca, proprio come ai cani di Pavlov, ogni volta che vediamo
quel prodotto.
(esempio: prima ospedale = chemioterapia = vomito poi ospedale = vomito)
Condizionamento operante
Senz'altro il condizionamento classico estende, e anche molto, il numero degli stimoli ai
quali l'organismo può rispondere, però non influenza il numero di risposte, cioè un animale
che apprende solo attraverso questo meccanismo imparerà per esempio a salivare in risposta
a numerosi stimoli neutri, ma non sarà in grado di apprendere risposte nuove. Il
condizionamento operante spiega come avviene invece l’apprendimento di nuove risposte.
I primi studi sul condizionamento operante sono stati condotti negli Stati Uniti dallo
psicologo Edward E. Thorndike (1898), il quale, influenzato dalle idee evoluzionistiche di
Darwin, pensava che l'intelligenza animale servisse ad adattare l'animale all'ambiente in cui
vive. Per verificare ciò Thorndike mise un gatto affamato in una speciale gabbia, (LUCIDO
F) che si apriva dall'interno per mezzo di un pedale che tirava una cordicella, e appena fuori
della gabbia un piattino con del pesce, facilmente visibile ed annusabile dall'animale. Il
problema per l'animale era immediato, come uscire e mangiare?
Per misurare l'apprendimento in questa situazione Thorndike misurava il tempo impiegato
dall'animale per uscire dalla gabbia in prove successive. Infatti se l'animale apprendeva il
compito, il tempo da lui impegnato per uscire sarebbe diminuito. Si è visto che il gatto
all’inizio impiegava molto tempo ad uscire dalla gabbia, ma che questo tempo diminuiva
nelle prove successive (LUCIDO F), ed alla fine il gatto usciva molto rapidamente. La curva
graduale che veniva osservata indusse Thorndike a parlare di apprendimento per prove ed
errori. Il motivo per cui nelle prime prove il gatto ci metteva molto tempo è che all’inizio
egli dà risposte a caso ma è proprio muovendosi a caso che, ad un certo punto, il gatto
abbassa il pedale e apre la gabbia trovando così la soluzione. Thorndike ripeté questa prova
varie volte con ogni gatto, e trovò che all’inizio gli animali compivano molti movimenti
inutili, prima di trovare, casualmente quello giusto per liberarsi; ma con l’aumentare del
numero di prove già sostenute, gradualmente i movimenti inutili venivano eliminati e i gatti
erano in grado di uscire dalla gabbia sempre più in fretta. Dopo circa 20-30 prove, quasi
tutti erano in grado di liberarsi e di lanciarsi sul cibo praticamente subito dopo essere stati
rinchiusi nella gabbia.
Ciò che succede, secondo Thorndike, è che la risposta rinforzata (dall’apertura ella gabbia e
quindi dal cibo) di abbassare il pedale, aumenta via via la sua forza mentre gli altri
comportamenti, non essendo rinforzati, tendono a diminuire ed il gatto darà subito la
risposta corretta. Da qui deriva la legge dell’effetto (LUCIDO G) che afferma che “le
risposte seguite nel tempo da un effetto positivo tendono ad essere ripetute dall’animale
quando questi si trova nella medesima situazione, mentre le risposte che producono effetti
spiacevoli hanno meno probabilità, nella stessa situazione, di essere prodotte di nuovo”.
L’animale non sembra risolvere il problema mediante una improvvisa comprensione, ma
apprende gradualmente. Il comportamento dell'animale è tale che la "conseguenza" della
risposta influenzerà in qualche modo la probabilità di emissione della risposta stessa in una
situazione analoga. Tutto questo ha ovviamente una funzione adattiva. E' importante
osservare che la legge dell'effetto non si riferisce alla conseguenza logica della risposta, ma
alle conseguenze pratiche, cioè a ciò che succede immediatamente dopo aver dato la
risposta stessa (al gatto non importa “come” avviene l’apertura della porta, importa solo che
si apra).
Lo scienziato che si occupò maggiormente del condizionamento operante e del rinforzo fu
B.F. Skinner (1938) che inventò una gabbia particolare, simile a quella di Thorndike, oggi
nota con il nome di gabbia di Skinner.
Nella terminologia di Skinner rinforzo indica qualsiasi processo che aumenta la probabilità
che venga prodotta una certa risposta. Il rinforzo può essere positivo o negativo. Si parla di
rinforzo positivo - il tipo di rinforzo di cui abbiamo trattato finora - quando l’arrivo di un
certo stimolo, in seguito a una risposta, fa aumentare le probabilità che la stessa risposta si
ripeta in futuro. Sono rinforzi positivi il cibo, l’acqua, il denaro, le parole di lode e qualsiasi
altra cosa che un organismo si sforzi attivamente di ottenere. Si parla invece di rinforzo
negativo quando l’abolizione dello stimolo che consegue a una risposta rende questa stessa
risposta più probabile nel futuro. Sono rinforzi negativi le scariche elettriche, i rumori forti,
le compagnie sgradevoli, i rimproveri e qualsiasi altra cosa che un organismo si sforza
attivamente di evitare. Si noti che il termine “positivo” e “negativo” qui non stanno a
indicare un cambiamento di direzione nella frequenza della risposta (che infatti aumenta in
entrambi i casi), ma indicano piuttosto che la risposta è tale da far arrivare (positivo) o da
sopprimere (negativo) un particolare stimolo.
Una risposta operante rinforzata dall’abolizione di un rinforzo negativo è definita risposta di
fuga. L’apprendimento di questa risposta viene spesso studiato nei ratti e in altri animali per
mezzo di un apparecchio a due scomparti, detto cassetta a navetta. Il ratto che riceve una
scarica elettrica all’interno di uno dei comparti ha la possibilità di fuggire, correndo
nell’altro. La maggioranza dei ratti apprende questa risposta molto rapidamente. Se in
seguito le condizioni sperimentali vengono modificate, in modo che compaia qualche
segnale, ad esempio una luce, prima che venga somministrata la scarica, l’animale apprende
a correre nell’altro scomparto non appena vede il segnale luminoso, quindi prima di ricevere
la scarica. In questo caso si parla di risposta di evitamento, perché consente all’animale di
evitare del tutto lo shock. L’apprendimento dell’evitamento è importante nella vita
quotidiana perché non solo ci insegna a fuggire dalle situazioni spiacevoli o che mettono in
pericolo la nostra vita, ma ci insegna anche ad evitarle in futuro.
Secondo la definizione di Skinner, la punizione è l’opposto del rinforzo, ovvero è il
processo tramite il quale le conseguenze di una risposta rendono meno probabile che la
risposta si ripeta in futuro. Come avviene per il rinforzo, anche la punizione può essere
positiva o negativa. Nella punizione positiva, l’arrivo di uno stimolo, come una scarica
elettrica per un ratto o un rimprovero per una persona, fa diminuire le probabilità che in
futuro ricompaia la stessa risposta. Nella punizione negativa, l’abolizione di uno stimolo,
per esempio sottrarre cibo a un ratto affamato o denaro a una persona, fa diminuire la
probabilità che quella risposta si verifichi di nuovo in futuro. Entrambi i tipi di punizioni si
distinguono dall’estinzione, che, come abbiamo già visto, consiste nella graduale
attenuazione di una risposta, in precedenza rinforzata, quando questa cessa di produrre un
qualsiasi effetto.
Il LUCIDO H ci aiuta a capire meglio la distinzione tra punizione positiva e negativa e a
cogliere la relazione con il rinforzo positivo o negativo.
Un fenomeno che emerge da questo tipo di condizionamento è il modellamento. Per capire
il modellamento immaginiamo di voler insegnare ad un cane a rotolarsi su se stesso. La
legge del condizionamento operante ci dice che se noi rinforziamo il cane ogni volta che
questo si rotola, questo imparerà a rotolarsi. Il problema è che, anche se siamo pronti a
dargli il rinforzo, il cane difficilmente si rotolerà per primo senza motivo e se il
comportamento desiderato non si presenta non potrà nemmeno essere rinforzato. Il trucco
consiste nell'effettuare delle approssimazioni successive al comportamento desiderato
(sedersi, distendersi, mettersi su un fianco e infine rotolarsi). L'arte del modellamento
consiste nell'estendere gradualmente la risposta richiesta partendo da semplici
comportamenti iniziali per poi arrivare alla risposta complessa finale. Questa è una chiara
dimostrazione delle possibilità del condizionamento operante nella modificazione del
comportamento. La tecnica del modellamento viene utilizzata nei circhi per far compiere
agli animali quegli esercizi che tanto ci affascinano.
Non è necessario che il condizionamento operante avvenga con rinforzi costanti (cioè venga
rinforzata la risposta ogni volta che veniva emessa), ma il rinforzo può anche essere
intermittente, cioè si possono rinforzare non tutte le risposte, ma solo alcune, e questo può
avvenire sia ad intervalli regolari che irregolari. Il rinforzo ad intervalli irregolari porta ad
un apprendimento più lento, ma anche ad un’estinzione più lenta; cioè si fa più fatica ad
imparare quella data risposta, ma ci si mette anche più tempo a dimenticarla. Questo effetto
del rinforzo parziale è stato osservato anche nel condizionamento classico.
Il fatto che il rinforzo parziale sia potente e molto diffuso è noto, ma spesso nelle situazioni
pratiche viene ignorato. Molte volte succede, per esempio, che proprio il tentativo di
eliminare un comportamento indesiderato è all'origine di un rinforzo parziale. Immaginiamo
una bambina che abbia l'abitudine di piangere in continuazione di notte. Supponiamo che i
genitori si rendano conto di averla involontariamente rinforzata prendendola in braccio ogni
volta che piangeva. Per eliminare questa cattiva abitudine i genitori possono decidere di non
rinforzarla più, cioè di non prenderla più in braccio quando piange. Però durante le notti
successive ogni tanto uno dei due genitori si alza per andare a vedere come sta la bambina e
la prende in braccio, questa inizia così ad avere esperienza di un rinforzo parziale e
l'abitudine sarà ancora più difficile da eliminare.
Molti dei fenomeni che si osservano nel condizionamento operante sono molto simili a
quelli del condizionamento classico. Ad esempio l'acquisizione, l'estinzione e il recupero
spontaneo avvengono nello stesso modo, come anche la generalizzazione e la
discriminazione possono essere facilmente evidenziati nel condizionamento operante.
L'acquisizione della risposta condizionata dipende dall'intensità del rinforzo così come nel
condizionamento classico dipende dall'intensità dello stimolo incondizionato e come nel
condizionamento classico vi è una procedura di rinforzo. C'è inoltre un determinato
intervallo critico che influenza in modo notevole il condizionamento operante. Per
massimizzare l'apprendimento è necessario fornire il rinforzo immediatamente dopo la
risposta. Con il termine intervallo di rinforzo si fa riferimento al tempo che passa fra
l'emissione della risposta e il rinforzo. Sebbene questa variabile influenzi la prestazione
anche dell'uomo, ciò avviene in modo minore rispetto alle specie meno evolute perché il
linguaggio e il pensiero permettono di compensare i lunghi intervalli di rinforzo.
Come nel condizionamento classico poteva avvenire un condizionamento di ordine
superiore, così nel condizionamento operante vi è il fenomeno del rinforzo secondario.
Noi possiamo, in certe condizioni, trasformare uno stimolo neutro in un rinforzatore di
risposte operanti. Il suono del campanello non è generalmente un rinforzo per un ratto.
Quando cioè la sola conseguenza dell'abbassare la leva è il suono si osserva ben poco
apprendimento. Ma i risultati sono ben diversi se, prima di essere inserito nella gabbia,
l'animale ha sperimentato una serie di accoppiamenti, tipo condizionamento classico, di
suono - cibo (in questo caso l'animale non doveva emettere alcuna risposta per ricevere il
cibo). Se poi l'animale viene messo nella gabbia e alla pressione della leva viene presentato
un suono, l'animale continuerà a schiacciare la leva pur non ricevendo di fatto alcun
rinforzo. Il suono è, in questo caso, diventato un rinforzo secondario in seguito al suo
accoppiamento con il cibo. Un rinforzo secondario può essere usato, nel condizionamento
operante, nel medesimo modo di un rinforzo primario, ma la sua efficacia dipende
dall'apprendimento precedente.
Ci sono alcuni teorici dell'apprendimento che sono convinti che ogni comportamento sia il
risultato di una lunga catena di rinforzi secondari. Possiamo, ad esempio, considerare il
denaro come un esempio di stimolo neutro che, nel passato, è stato ripetutamente accoppiato
a rinforzi primari. L'efficacia del denaro come rinforzo è chiara infatti la gente continua a
lavorare per il denaro in se stesso e non per la soddisfazione di bisogni immediati.
Oltre al suo valore sul piano concettuale per spiegare il comportamento quotidiano, il
condizionamento operante trova anche applicazioni cliniche importanti. Nella terapia del
comportamento gli psicologi si servono di questo processo per aiutare i loro pazienti a
modificare i propri comportamenti nel modo desiderato.
Apprendimento concettuale
In parte in polemica con l'eccessiva attenzione rivolta dagli studiosi a quei tipi di
apprendimento che si risolvono in un progresso graduale per tentativi ed errori, Wolfgang
Kohler (1929) condusse alcuni esperimenti sugli scimpanzé. Vide uno scimpanzé, che
mentre stava lavorando alla soluzione di un problema, sembrò improvvisamente afferrarne i
rapporti intimi, in una forma di "insight". Per "insight" si intende la soluzione di un
problema mediante la percezione delle relazioni essenziali. Non sembrava che tale
scimpanzé avesse acquisito la risposta giusta ed avesse eliminato quelle errate mediante un
processo graduale; in altre parole, il suo metodo non sembrava consistere di semplici
tentativi ed errori.
Allora egli fece il seguente esperimento: Sultan, il più intelligente tra i suoi scimpanzé, è
accoccolato vicino alle sbarre, ma non riesce a raggiungere il frutto posto al di fuori della
gabbia mediante l'unico bastoncino di cui dispone, che è troppo corto. Un bastone più lungo
viene posto oltre le sbarre, circa due metri al lato dell'obiettivo, parallelamente alle sbarre:
non si può afferrare con le mani, ma può essere spinto più vicino per mezzo del bastoncino
più piccolo. Sultan cerca di raggiungere il frutto col bastone più piccolo, ma non ci riesce. A
questo punto l'animale si guarda attorno (nel corso di queste prove vi sono sempre delle
lunghe pause durante le quali l'animale scruta tutta l'area visibile). Improvvisamente egli
afferra ancora una volta il bastone piccolo, si avvicina alle sbarre proprio di fronte al
bastone più lungo, se lo trascina verso la gabbia usando il bastoncino più corto, lo prende e
con quello in mano si sposta di fronte all'obiettivo (il frutto) e così se lo procura. Dal
momento in cui i suoi occhi si sono posati sul bastone lungo, le sue azioni costituiscono un
insieme consecutivo, senza soluzioni di continuità e, per quanto l'aggancio del bastone più
lungo per mezzo di quello più corto sia un'azione che potrebbe essere completa e distinta in
se stessa, l'osservazione dimostra che essa si svolge improvvisamente, dopo un intervallo di
esitazione e di dubbio - guardarsi intorno - che ha senz'altro un rapporto con l'obiettivo
finale, e viene immediatamente assorbita dall'azione costituita dal raggiungimento della
meta.
Un certo grado di insight è tanto comune nell'apprendimento umano che noi lo diamo di
solito per scontato. Noi sappiamo inserire la pila in una torcia elettrica, caricare la penna
stilografica, con vari gradi di comprensione per quello che stiamo facendo. A volte l'insight
si presenta drammaticamente (Eureka!): la soluzione di un problema appare
improvvisamente chiara, come se una luce si fosse accesa nel buio.
Apprendimento per osservazione.
Quando si analizzano i diversi apprendimenti nella vita quotidiana degli esseri umani, non si
può fare a meno di notare che gran parte di quanto le persone apprendono deriva
dall’osservazione degli altri. Immaginate che cosa sarebbe la nostra vita se l’apprendimento
di certe capacità, come guidare un’auto o eseguire un intervento chirurgico, avvenisse
mediante un processo per tentativi ed errori. Per fortuna le persone acquisiscono, almeno in
parte, queste capacità tramite l’attenta osservazione e l’imitazione del comportamento degli
altri che già le padroneggiano. Come fenomeno su vasta scala, l’apprendimento basato
sull’osservazione di ciò che fanno gli altri sembra essere un prerequisito essenziale allo
sviluppo della cultura umana. Tutte le capacità pratiche e i rituali che una generazione
acquisisce sono trasmessi a quella successiva non tanto attraverso l’espresso atteggiamento
che i grandi indirizzano ai più piccoli (benché anche questo sia un aspetto di questo
processo), ma piuttosto tramite l’osservazione attenta da parte dei più giovani, che in questo
modo apprendono a comportarsi come i più grandi. L’apprendimento che ha luogo tramite
l’osservazione degli altri prende il nome di apprendimento per osservazione.
Nell’uomo il fenomeno dell’apprendimento per osservazione è particolarmente evidente, ma
è possibile ritrovarlo, in misura maggiore o minore, anche in altri animali. È noto che le
grandi scimmie antropomorfe “si scimmiottano” a vicenda. Come molti esperimenti hanno
dimostrato, i gattini che hanno visto la madre premere la leva per ottenere il cibo imparano a
compiere questo gesto più in fretta di quelli che non hanno avuto questa possibilità, e che
persino i polpi possono apprendere una risposta operante osservando un altro polpo, già
addestrato, mentre la effettua. Alcuni ricercatori avanzano l’ipotesi che il meccanismo
dell’apprendimento per osservazione in queste specie non sia esattamente uguale a quello
umano, ma nessuno mette in discussione il fatto che gli animali imparano osservando altri
membri della loro specie.
Albert Bandura (1977) - lo psicologo che, negli anni, ha eseguito il maggior numero di
ricerche sull’apprendimento per osservazione nella specie umana - ha sottolineato che le
persone osservano gli altri non soltanto per acquisire specifiche capacità motorie (come
guidare l’auto o eseguire interventi chirurgici), ma anche per apprendere modalità, o stili, di
comportamento più generali. Quando ci inseriamo in un ambiente nuovo, probabilmente ci
guardiamo intorno per vedere che cosa fanno gli altri, prima di produrci in atti
comportamentali. E, probabilmente quando iniziamo ad agire riproduciamo quasi
esattamente alcune delle azioni che abbiamo osservato, per esempio i gesti meccanici
necessari per versarci con disinvoltura una tazza di caffè dallo strano contenitore che si
trova nella stanza. Ma (a meno che non siamo dei clown) non molte delle nostre azioni si
limiteranno alla pura imitazione degli altri; ciò che faremo sarà piuttosto, adottare uno stile
generale di comportamento, adeguato a ciò che pare essere accettabile in quel contesto.
Bandura è riuscito a dimostrare entrambe le funzioni svolte dall’apprendimento per
osservazione - cioè l’acquisizione di specifiche capacità motorie e l’apprendimento di uno
stile generale di comportamento - mediante esperimenti con bambini che frequentavano
l’asilo. In uno di questi esperimenti un gruppo di bambini ebbe modo di osservare un adulto
che si comportava in maniera molto aggressiva con un pupazzo di gomma. Queste
espressioni di aggressività consistevano sia in insulti verbali sia in atti fisici, come picchiare
il pupazzo con un bastone di legno, gettarlo a terra, prenderlo a calci e bombardarlo di palle.
A un altro gruppo di bambini fu invece fatto vedere un adulto che si comportava col
pupazzo in maniera gentile e a un terzo gruppo non fu presentato alcun modello. In seguito,
quando ad ogni bambino fu data la possibilità di fare ciò che voleva in una stanza piena di
giocattoli, tra cui anche il grande pupazzo di gomma, si osservò che rispetto ai bambini del
terzo gruppo, che rappresentavano il gruppo di controllo, i bambini del primo gruppo
esibivano un comportamento più aggressivo e quelli del secondo un comportamento più
gentile. I soggetti del primo gruppo non solo imitavano molte delle azioni aggressive che
avevano osservato compiere dal modello, ma di propria iniziativa ne inventarono parecchie
altre, rivolte sia contro il pupazzo sia contro gli altri giocattoli. Questi bambini avevano
quindi appreso per osservazione non soltanto modalità specifiche di comportamento
aggressivo, ma anche il messaggio più generale che in quella particolare stanza dei giochi
era permesso comportarsi in maniera aggressiva.
La terapia del comportamento
Per terapia del comportamento s’intende l’approccio terapeutico emerso dalle ricerche
condotte dai primi teorici del comportamentismo, Ivan Pavlov, John B. Watson e B.F.
Skinner, i quali, come abbiamo visto, formularono i principi del condizionamento classico e
di quello operante in termini di relazione stimolo-risposta. In teoria, e seguendo
l’impostazione dei loro fondatori, i terapeuti comportamentisti sarebbero portati ad ignorare
i fenomeni psichici, come i pensieri e le emozioni, per concentrarsi esclusivamente sulle
relazioni dirette fra aspetti osservabili dell’ambiente (stimoli) e comportamenti osservabili
(risposte), ma in pratica non lo fanno. Dopo tutto, i pazienti che ricorrono a una terapia del
comportamento o ad una qualsiasi altra forma di psicoterapia lamentano problemi che
coinvolgono fenomeni psichici, come paure, pensieri ossessivi, ansia e depressione che non
possono venire ignorati. Per inquadrare questi problemi nei modelli teorici del
comportamentisti, i terapeuti aderenti a questo indirizzo erano soliti definire gli eventi
psichici risposte coperte (risposte nascoste), assumendo che seguissero le stesse leggi del
condizionamento valide per le risposte manifeste,
La terapia comportamentista pone l’accento sul “problema” più che sul “paziente” (che
chiamano “cliente”), e si propone essenzialmente lo scopo di aiutare il paziente a superare
alcuni problemi specifici, anziché di trattare la persona quale “entità globale”. I problemi
dei clienti sono abitudini apprese, e parte dal presupposto che ciò che è stato imparato
attraverso un apprendimento può anche essere disimparato. Inoltre prevede un costante
monitoraggio del comportamento dei pazienti in modo da poter cambiare la tecnica di
trattamento se in tempi molto brevi non si registra nessuna modificazione del
comportamento.
Vediamo adesso alcune delle tecniche più comuni usate in questo tipo di terapia.
L’esposizione come tecnica per trattare le paure indesiderate
La terapia del comportamento si è rilevata particolarmente efficace per trattare le fobie
semplici, ovvero quelle caratterizzate dalla paura di situazioni o oggetti ben definiti, come la
paura delle altezze o di un particolare animale. Nella visione comportamentista, la paura è
una risposta di tipo riflesso che può essere innescata da stimoli sia pericolosi che non
pericolosi, in conseguenza di un processo di condizionamento classico. Si definisce stimolo
incondizionato di una risposta di paura uno stimolo che evoca tale risposta anche se mai
sperimentato prima dal soggetto, e stimolo condizionato quello che provoca la paura perché,
in un’esperienza passata, si è presentato abbinato ad un evento che la scatenava. La
classificazione di certe paure, ad esempio quella dei serpenti, come condizionante o
incondizionante può essere controversa, ma ciò non ha alcuna importanza ai fini pratici,
dato che in un caso o nell’altro il trattamento terapeutico è lo stesso.
Una caratteristica della paura riflessa, condizionata o incondizionata che sia, è che la sua
manifestazione declina e gradualmente scompare se lo stimolo che la evoca viene presentato
più volte, o per un periodo di tempo prolungato, in un contesto in cui la persona non può
ricevere alcun danno. Nel caso di una risposta riflessa incondizionata - come il sobbalzare
dallo spavento a un rumore improvviso - il declino della risposta viene definito
assuefazione. Nel caso di una paura riflessa condizionata il declino, che si verifica quando
lo stimolo condizionato è presentato ripetutamente non accompagnato da uno stimolo
incondizionato, è detto estinzione. Ad esempio, se una persona ha paura dei cani perché una
volta è stata morsa da un cane, allora la sua esposizione prolungata ai cani (stimoli
condizionati), senza ricevere un morso (lo stimolo incondizionato), porterà alla scomparsa
della paura.
Si definisce tecnica di esposizione qualsiasi metodo di cura che prevede di trattare una
paura indesiderata, o fobia, tramite l’esposizione in un contesto sicuro allo stimolo che la
provoca. La tecnica di esposizione più semplice e diretta è detta flooding (inondazione), e
consiste nello “inondare” il soggetto con lo stimolo che scatena la sua paura, fino a quando
la risposta fobica non declina e scompare. Per esempio, il trattamento di una persona che ha
paura dei cani dovrebbe consistere nel farla restare dentro una stanza assieme ad alcuni cani
finché la paura non scompare. A volte il flooding può avvenire solo a livello di
immaginazione, e non tramite l’esposizione reale allo stimolo che evoca la paura.
Ma non sempre può essere possibile o desiderabile applicare la tecnica del flooding perché
alcuni pazienti rifiutano di esporsi, anche solo con l’immaginazione, a una situazione che
scatena in loro la paura, mentre altri vengono assaliti dal panico e devono abbandonare il
setting terapeutico, o smettere di immaginare la scena. Provare una sensazione di panico
può essere controproducente e persino intensificare la paura originale. In questi casi si può
ricorrere ad una procedura alternativa, descritta molti anni fa da John B. Watson (1924),
detta controcondizionamento. Questa tecnica consiste nell’addestrare la persona, tramite
un processo di condizionamento classico, a reagire allo stimolo fobico con una risposta che può essere di piacere, rilassamento o rabbia - incompatibile con la paura. Per illustrare
questa procedura terapeutica, Watson descrisse la dimostrazione condotta da una sua
collaboratrice, M. Cover Jones, su Peter, un bambino di 3 anni.
Peter era condizionato ad aver paura dei conigli, e la Jones si propose di
controcondizionarlo a reagire alla vista di un coniglio con piacere, anziché con paura. Dato
che per Peter era un gran piacere mangiare quotidianamente una merenda a base di latte e
biscotti, la Jones decise di associare al cibo preferito la presentazione di un coniglio vivo, in
modo che l'animale diventasse lo stimolo condizionato di una risposta di piacere. La
procedura più diretta sarebbe stata di mettere il coniglio proprio di fronte a Peter nel
momento stesso in cui gli veniva servita la merenda, ma molto probabilmente l'animale
sarebbe stato uno stimolo più forte del cibo e Peter, anziché perdere la paura dei conigli
avrebbe potuto sviluppare una spiacevole fobia per il latte e i biscotti. Sulla base di queste
considerazioni, la Jones decise di adottare un approccio più cauto. Il primo giorno la
ricercatrice mise il coniglio, chiuso in una gabbia, all'altro lato della lunga stanza in cui
Peter consumava la merenda. Il bambino vide il coniglio, ma ciò non turbò per nulla il suo
piacere nel gustare latte e biscotti. La Jones iniziò allora a spostare la gabbia, portandola
ogni giorno più vicino al bambino, finché arrivò addirittura a posargliela in grembo senza
che Peter desse alcun segno di paura.
Schematizzando quanto detto finora, prima della procedura, il bambino ha paura del
coniglio; durante la fase di condizionamento, il coniglio funge da stimolo condizionato e la
merenda da stimolo incondizionato per evocare una risposta di piacere, incompatibile con la
paura; dopo il condizionamento il bambino reagisce alla vista del coniglio con una risposta
di piacere, anziché di paura.
Delle varie tecniche derivate dal controcondizionamento, quella oggi più usata è la
desensibilizzazione sistematica, un metodo ideato da Joseph Wolpe (1958). Dapprima si
addestra il paziente al rilassamento muscolare, finché è in grado di rilassarsi con facilità in
risposta ad un segnale del terapeuta. Una volta raggiunto questo stadio, il terapeuta chiede al
cliente d'immaginare una scena che generalmente gli provoca una leggera ansia e quindi gli
dà il segnale per il rilassamento. Quando la persona padroneggia bene la tecnica, il terapeuta
l'induce a immaginare situazioni sempre più paurose, abbinando ogni volta il rilassamento
alla scena immaginata. Per esempio una donna con la paura fobica delle altezze potrebbe
essere indotta a rilassarsi mentre immagina di affacciarsi alla finestra di un secondo piano,
poi di un terzo piano e così via, finché è in grado di mantenere lo stato di rilassamento
anche quando immagina di guardare dall'ultimo piano di un grattacielo.
Una recente innovazione tecnologica applicata nel trattamento delle paure ingiustificate è lo
strumento della realtà virtuale (RV).
La RV integra grafica computerizzata in tempo reale, dispositivi di rilevamento corporeo, monitor di
visualizzazione e altri dispositivi di input sensoriale allo scopo di immergere il soggetto in un ambiente
virtuale (AV) generato dal computer. Di solito i partecipanti indossano un apposito casco con inserito un
display provvisto di un sensore elettromagnetico. All’utente viene presentata una visione generata dal
computer di un mondo virtuale che cambia in modo naturale con i movimenti della testa e del corpo. Per
alcuni ambienti virtuali gli utenti possono anche tenere in mano un secondo sensore di posizione che
permette loro di manipolare una mano artificiale con la quale interagire con l’ambiente, ad esempio
premendo il pulsante di un ascensore per salire.
Queste complesse apparecchiature computerizzate permettono al terapeuta di esporre il
paziente fobico, senza uscire dallo studio di consultazione, a una vivida rappresentazione di
ciò che egli teme nella vita reale. Questo procedimento fa risparmiare tempo ed è più
controllabile rispetto, ad esempio, al condurre un soggetto acrofobico in cima a un edificio
incoraggiandolo a restare lì e a tentare contemporaneamente di rilassarsi per controllare o
controcondizionare la paura. Ugualmente gli apparecchi di realtà virtuale possono produrre
immagini che sono più realistiche di quelle che il paziente potrebbe immaginare, e il loro
utilizzo sarebbe molto interessante per i soggetti fobici incapaci di generare immagini
realistiche. Vi sono abbondanti dimostrazioni a riprova che la RV può generare esperienze
molto realistiche.
Il primo resoconto pubblicato di un caso (Rothbaum et al., 1995) e il primo studio
controllato del successo ottenuto utilizzando la RV nel trattamento di un disturbo d’ansia
(acrofobia) riguardavano un intervento che gli autori hanno definito “esposizione graduale
alla realtà virtuale”. La terapia consisteva in 5 sedute di durata inferiore all’ora per un
periodo di tre settimane. Le esposizioni richiedevano che il soggetto fosse incoraggiato a
guardare fuori e verso il basso di ciascuno dei diversi piani virtuali di un ascensore di vetro
in salita. Il monitor di RV mostrava scene di un ascensore di un hotel di quarantanove piani
che era già stato utilizzato in vivo per valutare la fobia pre-trattamento e che
successivamente venne impiegato anche nel post-trattamento. Il disagio e l’evitamento dei
luoghi elevati, così come risultavano dai resoconti soggettivi, diminuivano notevolmente in
seguito al trattamento con RV. Un successo analogo è stato riferito dallo stesso gruppo di
ricerca per il caso di una donna cui la fobia del volo impediva di viaggiare in aereo. Si può
prevedere un aumento del ricorso alla RV in psicoterapia, sebbene la sua superiorità rispetto
alla desensibilizzazione standard basata su situazioni immaginate debba essere ancora
valutata. Tra l’altro la tecnologia attuale della RV non permette un’esposizione a situazioni
più complesse come l’interagire con altre persone.
Si noti la somiglianza tra la desensibilizzazione sistematica e il controcondizionamento
seguito dalla Jones. La scena capace di evocare la paura, se abbinata al segnale di rilassarsi,
probabilmente diventa uno stimolo condizionato per il rilassamento, uno stato incompatibile
con la paura. Come la Jones all'inizio collocò la gabbia del coniglio molto lontano da Peter
per poi avvicinarla sempre di più, la procedura della desensibilizzazione sistematica prende
avvio dall'immaginare una scena capace di evocare solo una paura leggera, per poi passare a
scene via via più spaventose. Una delle premesse su cui si fonda questa procedura è che
l'abilità del paziente a rilassarsi, mentre immagina la situazione che prima evocava la paura,
si generalizzi, e che il soggetto acquisti così la capacità di rilassarsi anche in presenza della
situazione reale. Da studi di follow-up è emerso che la desensibilizzazione sistematica (o le
sue varianti) può essere molto efficace nel trattamento delle fobie semplici, e spesso
permette di ottenere in un'unica seduta il risultato voluto. L'efficacia di queste due tecniche
sembra non dipendere principalmente dal fatto di insegnare una nuova risposta (come il
piacere o il rilassamento), ma dall'indurre un paziente riluttante a sopportare, senza cadere
in preda al panico, la presenza di uno stimolo che gli fa paura, fino a che non si verificano
l'assuefazione o l'estinzione.
E' interessante considerare, in questo contesto, il trattamento psicoanalitico di alcune
condizioni che implicano un sentimento di paura. Spesso i sintomi provocati da tali
sentimenti scompaiono quando l'episodio che li ha provocati riaffiora durante la seduta di
psicoterapia. La ragione per cui i sintomi scompaiono è la stessa da cui dipende l'efficacia
della desensibilizzazione sistematica. Il paziente rivede con vivide immagini fantastiche e
rivive a livello emotivo, ma nell'ambiente sicuro del setting analitico, gli stimoli associati
all'evento traumatico originale; ciò potrebbe consentire l'estinzione della risposta
condizionata di paura a quegli stimoli e portare, di conseguenza, alla scomparsa dei sintomi.
La tecnica del condizionamento avversivo (negativo) per eliminare cattive abitudini
Secondo la teoria comportamentista, gran parte di ciò che noi facciamo può essere
classificato come un'abitudine. Un'abitudine è un'azione appresa, ormai radicata al punto
che la persona la compie senza esserne consapevole, o è addirittura costretta a compierla in
modo compulsivo. Le abitudini hanno molto spesso valore adattivo, in quanto ci consentono
di eseguire automaticamente azioni che ci sono utili nella vita di tutti i giorni. Per esempio,
schiacciare con rapidità il pedale del freno in risposta a un semaforo che diventa rosso è
un'abitudine che probabilmente ci salva ogni giorno la vita. Ma alcune abitudini - come il
vizio di bere, la spinta compulsiva a giocare d'azzardo o a lavarsi di continuo le mani - sono
invece nocive. Indipendentemente da quale ne sia l'origine, questi comportamenti persistono
perché procurano una sensazione immediata di piacere o di sollievo da un disagio. Chi è
dipendente dall'alcol, quando beve prova piacere oppure prova sollievo se è in preda ai
sintomi dell'astinenza; chi sente una spinta compulsiva a giocare d'azzardo prova un
piacevole brivido ogni volta che fa una puntata; chi ha un bisogno ossessivo-compulsivo di
lavarsi le mani, ogni volta che lo fa allevia la paura dei germi. Ne consegue che questi
comportamenti si possono interpretare, almeno in parte, in termini di condizionamento
operante, ovvero come forme di quel fenomeno per cui le risposte comportamentali che
sono seguite da un rinforzo, positivo (un piacere) o negativo (l'eliminazione di una
sensazione spiacevole), hanno maggiori probabilità di essere prodotte nuovamente in futuro.
Come appare dall'analisi del comportamento, l'ostacolo fondamentale a lasciar cadere le
cattive abitudini risiede nel fatto che le risposte operanti sono controllate più dai loro effetti
immediati che da quelli a lungo termine. Anche se una persona sa che bere molto alcol
causa col tempo danni irreparabili al fegato e al cervello, che giocare d'azzardo è in
definitiva una scelta perdente e che lavarsi ripetutamente le mani è una perdita di tempo e
può rovinare la pelle, questi comportamenti disadattivi persistono ugualmente, perché la
consapevolezza dei danni che arrecano a lungo termine ha meno potenza, in relazione al
loro controllo, del piacere o del sollievo immediati che essi procurano.
Con la tecnica del condizionamento avversivo ci si propone proprio di modificare in
qualche modo le condizioni di rinforzo per eliminare queste abitudini dannose la persona
IL condizionamento avversivo consiste nel somministrare uno stimolo avversivo (doloroso
o spiacevole) subito dopo che la persona ha prodotto la risposta abituale indesiderata o
subito dopo che ha percepito indizi che, di norma, la porterebbero a produrre tale risposta.
Così, il trattamento avversivo di una persona spinta da una compulsione a giocare d'azzardo
potrebbe consistere nel somministrare scosse elettriche alle dita ogni volta che allunga la
mano per posare la puntata su un finto tavolo da gioco; quello di una persona dipendente
dall'alcol, invece potrebbe prevedere la somministrazione di un farmaco che provoca la
nausea ogni volta che beve alcolici. Questo trattamento può essere interpretato sia come un
processo di condizionamento operante che di condizionamento classico. In termini di
condizionamento operante, lo stimolo avversivo è una punizione per aver prodotto un
comportamento indesiderato o per aver anche solo iniziato a produrlo; in termini di
condizionamento classico, lo stimolo avversivo è uno stimolo incondizionato per una
risposta di evitamento, che diventa condizionato in presenza di indizi - quali la vista di un
tavolo da gioco o l'odore dell'alcol - in precedenza attraenti.
Il condizionamento avversivo ha sempre trovato una forte opposizione, sia per i problemi
etici connessi col procurare deliberatamente dolore a una persona (anche se consenziente)
sia per i suoi risultati contrastanti. Spesso le avversioni apprese non si generalizzano a
condizioni diverse da quelle in cui avviene l'apprendimento; questa limitazione potrebbe
derivare dal fatto che il condizionamento dipende, molto più di quanto pensassero i primi
comportamentisti, dai processi cognitivi cioè dalla consapevolezza del soggetto circa le
condizioni reali, in atto. Quindi, un paziente può manifestare un'avversione appresa solo
finché sa di essere collegato ad un generatore di scariche elettriche o di aver assunto un
farmaco che provoca malessere.
Uno studio, suffragato da un'accurata documentazione che ha messo bene in evidenza
questo punto, è una ricerca condotta sugli effetti della antabuse, un farmaco usato nel
trattamento della dipendenza dall'alcol. L'antabuse reagisce chimicamente con l'alcol
all'interno dell'organismo, provocando vampate improvvise, senso di vertigine, nausea e mal
di testa immediatamente dopo l'ingestione di una bevanda alcolica. Quando il trattamento
con lo antabuse era ancora una pratica introdotta di recente, era convinzione dei terapeuti
comportamentisti che le persone che bevevano alcolici dopo aver assunto il farmaco
avrebbero sviluppato un'avversione condizionata nei confronti dell'alcol, e che tale
avversione sarebbe durata anche al termine del trattamento farmacologico. Ma,
sfortunatamente, i fatti hanno dimostrato che i soggetti affetti da una più lunga dipendenza
dall'alcol evitano di bere solo finché l'antabuse è in circolo nel loro organismo, e tornano
rapidamente alla vecchia abitudine non appena il trattamento farmacologico viene interrotto.
Oggi l'antabuse viene riconosciuto efficace nella prima fase del trattamento dell'alcolismo,
perché aiuta il paziente a non bere mentre inizia altri tipi di terapia. Inoltre l'uso del farmaco
per trattamenti prolungati nel tempo è sconsigliato anche perché a lungo termine, induce nel
soggetto malesseri anche quando è sobrio.
La psicoanalisi e le altre terapie psicodinamiche
Il termine psicoanalisi si riferisce in modo specifico all'approccio terapeutico sviluppato da
Sigmund Freud, mentre con terapia psicodinamica s'intende qualsiasi altro metodo di cura
fondato sul presupposto teorico che i problemi psicologici siano la manifestazione di
conflitti interni alla psiche, e che la chiave del loro superamento stia nel portare il paziente a
prendere coscienza di tali conflitti.
La psicoanalisi freudiana
Freud in base ai suoi studi precedenti arrivò a stabilire che: (a) i ricordi consci possono
diventare inconsci; (b) i ricordi inconsci carichi di forti significati emotivi possono divenire
la base di sintomi nevrotici; (c) questi sintomi possono scomparire se il paziente giunge ad
essere consapevole dei ricordi che sono all'origine di essi e riprova consciamente le
emozioni ad essi associate. Queste idee costituiscono i principi guida a cui Freud si attenne
per iniziare a lavorare sui pazienti nevrotici, e le basi teoriche su cui costruì la teoria e la
pratica terapeutica della psicoanalisi.
Le principali caratteristiche della psicoanalisi in quanto metodo di cura sono:
- L'importanza delle esperienze sessuali infantili. Secondo la teoria freudiana, tutte le
nevrosi, cioè i disturbi della sfera emotiva, derivano dall'interazione tra due diverse
categorie di esperienze. La prima, e più fondamentale, di queste categorie è rappresentata
dalle esperienze predisponenti, che si verificano nei primi 5 o 6 anni di vita e sono connesse
ai desideri e ai conflitti sessuali infantili. La seconda categoria è rappresentata dalle
esperienze scatenanti, che si verificano più tardivamente e portano a un crollo emotivo
immediato.
- Le associazioni libere e i sogni come indizi dei contenuti dell'inconscio. Il nome analisi fu
scelto da Freud in seguito all'osservazione che di rado i pazienti riescono a recuperare i
ricordi inconsci semplicemente parlando; lo psicoanalista è quindi costretto a inferirne i
materiali inconsci da indizi presenti nelle loro parole e nel comportamento. Il metodo
principale di cui Freud si avvaleva per ottenere tali indizi era l'associazione libera, una
tecnica in cui il paziente, stando disteso su un divano in uno stato di completo rilassamento,
riferiva senza inibizioni tutto ciò che gli veniva in mente riguardo ai suoi sintomi o alle sue
idee. Freud inoltre chiedeva ai pazienti di descrivergli ciò che sognavano . Egli interpretava
le associazioni e le idee apparentemente illogiche che raccoglieva con questi metodi come
espressioni simboliche dei ricordi e dei desideri inconsci che erano alla base dei problemi
psicologici del paziente.
- Il ruolo della resistenza. Freud trovò che i pazienti resistono ai tentativi del terapeuta di
portare alla coscienza i loro ricordi o desideri inconsci. La resistenza del paziente può
manifestarsi in varie forme, come rifiutarsi di parlare di certi argomenti, "dimenticare" di
recarsi alla seduta di terapia, o ancora opporre un continuo contraddittorio che devia il
processo terapeutico in altre direzioni. Secondo Freud, la resistenza dipende dai meccanismi
generali di difesa, mediante i quali le persone si proteggono contro l'acquisizione
consapevole di pensieri ansiogeni. L'insorgere di una resistenza indica che la terapia sta
andando nella direzione giusta, cioè verso la scoperta di materiali inconsci d'importanza
critica, ma può anche rallentare il processo terapeutico e persino bloccarlo. Per evitare che
un paziente opponga una resistenza eccessiva, il terapeuta deve sapere graduare la
presentazione delle interpretazioni, esponendole al paziente solo quando è pronto ad
accettarle.
- Il ruolo del transfert. Nel corso di una psicoterapia, il paziente esprime sentimenti molto
forti - a volte di amore, a volte di rabbia - nei confronti del terapeuta. Freud riteneva che il
vero oggetto di queste forti emozioni non fosse il terapeuta, ma qualche altra figura molto
significativa nella vita del paziente e della quale il terapeuta diviene un simbolo. Il transfert
è quindi il fenomeno per cui i sentimenti che il paziente nutre, a livello inconscio, verso una
figura importante nella sua esistenza vengano esperiti, a livello conscio, come se fossero
indirizzati al terapeuta. Secondo Freud, il fenomeno del transfert è di grandissima rilevanza
nel processo terapeutico, poiché offre al paziente l'opportunità di diventare consapevole di
questi forti sentimenti. Con l'aiuto dell'analista, il paziente acquista gradualmente coscienza
dell'origine di quei sentimenti e del loro vero oggetto.
- Il rapporto tra intuizione dell'analista e cura. La psicoanalisi è, sostanzialmente, un
processo in cui l'analista formula ipotesi circa i conflitti inconsci del paziente, quindi
ritrasmette al paziente quell'informazione. Come può essere di giovamento conoscere questi
materiali inconsci? Secondo Freud, il giovamento deriva dal portare alla coscienza i desideri
e i ricordi conflittuali che provocano i sintomi nevrotici. Una volta divenuti consci, questi
materiali possono essere espressi e vissuti nella realtà, oppure, quando sono irrealistici, l'Io
cosciente può modificarli, indirizzandoli verso scopi più positivi e produttivi della persona.
Al tempo stesso il paziente si libera delle difese fino a quel momento impegnate nel
mantenere rimossi i materiali ansiogeni, e ciò gli dà maggior energia psichica da riversare in
altre attività. Ma perché tutto ciò avvenga, il paziente deve veramente accettare, sia a livello
razionale che viscerale, le intuizioni dell'analista. L'analista non può limitarsi a descrivere al
paziente i suoi conflitti interiori, ma deve portarlo in modo graduale a provare realmente le
emozioni rimosse.
Le terapie psicodinamiche post - freudiane
Dopo Freud sono state sviluppate molte versioni della terapia psicodinamica Tutte
condividono alcuni aspetti dell'approccio freudiano, quali il far affiorare alla coscienza i
sentimenti ansiogeni, l'attribuire i problemi del presente a conflitti psichici derivanti da
esperienze del passato e il considerare la relazione analista - paziente come un modello per
comprendere le relazioni interpersonali del soggetto al di fuori del setting analitico. Oggi la
modifica più comune all'impostazione freudiana originale - dettata soprattutto da ragioni
economiche - consiste nel ridurre il numero delle sedute di analisi, grazie a metodi che
consentono di giungere più rapidamente ai materiali inconsci. Le cosiddette terapie
psicodinamiche brevi cercano di giungere, in un numero di sedute variabili da dieci a
quaranta, agli stessi risultati a cui in una psicoanalisi classica si perviene, di solito, con
centinaia di sedute. Il divano è stato eliminato, e analista e paziente siedono uno di fronte
all'altro; inoltre, il terapeuta interviene più spesso a richiamare l'attenzione del paziente sui
materiali e sulle idee rilevanti, e a volte ricorre a tecniche speciali, quali il gioco dei ruoli,
per facilitare l'instaurarsi del transfert e far progredire più in fretta il processo terapeutico.
Altre varianti differiscono dalla psicoanalisi Freudiana non soltanto rispetto alle tecniche,
ma anche per alcuni presupposti teorici. Le terapie psicodinamiche dette analisi dell'Io
pongono un'enfasi minore, rispetto all'analisi freudiana, sui desideri infantili racchiusi
nell'Es del paziente, e danno invece più rilievo agli eventi reali della sua vita e ai
meccanismi di difesa dell'Io. Queste terapie si propongono di scoprire e di portare alla
coscienza i modi in cui le difese distorcono le esperienze e le relazioni del paziente nella
vita di ogni giorno. Abbattendo queste difese, anche senza scoprirne l'origine, il terapeuta
iuta il cliente a sviluppare una gamma più ampia di risposte adattive.
APPRENDIMENTO
L’APPRENDIMENTO E’ QUEL PROCESSO
ATTRAVERSO IL QUALE UNA DETERMINATA ESPERIENZA, FATTA IN UN CERTO MOMENTO DELLA VITA, PUO’ INFLUENZARE
IL
COMPORTAMENTO
DEL- L’INDIVIDUO IN UN MOMENTO
SUCCES- SIVO.
LUCIDO A
PRIMA DEL CONDIZIONAMENTO
SN
--------->
nessuna risposta
(suono)
SI
--------->
RI
(cibo)
(salivazione)
DURANTE IL CONDIZIONAMENTO
SN
(suono)
seguito da
SI
(cibo)
----------->
RI
(salivazione)
DOPO IL CONDIZIONAMENTO
SC
(suono)
------------>
RC
(salivazione)
LUCIDO C
CONDIZIONAMENTO CLASSICO
QUANDO UNO STIMOLO, CHE PRECEDENTEMENTE
ERA
NEUTRO,
CONTIGUITA’
E’
PRESENTATO
TEMPORALE
CON
IN
STRETTA
UNO
STIMOLO
INCONDIZIONATO, LA RISPOSTA, CHE PRIMA ERA
FORNITA
DALLO
INIZIERA’
A
STIMOLO
COMPARIRE
IN
INCONDIZIONATO,
SEGUITO
ALLA
PRESENTAZIONE DELLO STIMOLO CONDIZIONATO.
CARATTERISTICHE
PERIODO DI ACQUISIZIONE
PROCEDURA DI RINFORZO
ESTINZIONE
RECUPERO SPONTANEO
GENERALIZZAZIONE
DISCRIMINAZIONE
LUCIDO D
LEGGE DELL’EFFETTO
LE RISPOSTE SEGUITE NEL TEMPO DA
UN
EFFETTO
POSITIVO)
RIPETUTE
POSITIVO
TENDONO
(RINFORZO
AD
DALL’ANIMALE
ESSERE
QUANDO
QUESTI SI TROVA NELLA MEDESIMA
SITUAZIONE, MENTRE LE RISPOSTE
CHE
PRODUCONO
EFFETTI
SGRADEVOLI
HANNO
MENO
PROBABILITA’,
NELLA
STESSA
SITUAZIONE, DI ESSERE PRODOTTE DI
NUOVO
LUCIDO G
la risposta fa sì
frequenza di risposta
che lo stimolo sia
Aumenta
presentato
eliminato
Diminuisce
Rinforzo positivo
Punizione positiva
(premere la leva Æ cibo)
(premere la leva Æ shock)
Rinforzo negativo
(premere la leva Æ eliminazione
dello shock)
Punizione negativa
(premere la leva Æ rimozione
del cibo)
LUCIDO H
L’INTELLIGENZA
A noi uomini piace pensare di essere gli animali più intelligenti, e apparentemente questa
idea è esatta, per lo meno in base alle definizioni che noi stessi diamo dell’intelligenza.
Infatti siamo gli unici animali dotati di conoscenza e di ragione, i soli che classificano tutti
gli altri esseri e attribuiscono loro un nome, che cercano di capire tutto, compreso se stessi.
Come vedremo quando parleremo del linguaggio, siamo anche gli unici animali che si
comunicano a vicenda quella che sanno, trasmettendo le proprie conoscenze, così che ogni
generazione comincia il cammino da un punto di partenza superiore, se non per saggezza,
almeno per conoscenza, rispetto a quello della generazione precedente.
Vi sono sempre state aspre polemiche su che cosa si deve intendere per intelligenza, infatti
il termine intelligenza è stato spesso usato da persone diverse per intendere concetti diversi.
Nel tentativo di arrivare ad una definizione il più possibile corrispondente al significato che
gli psicologi attribuiscono al termine di “intelligenza”, Mark Snyderman e Stanley Rothman
(1987) hanno chiesto a più di 1000 specialisti di scegliere, da un elenco di varie abilità
umane, quelle che ritenevano i principali indici dell’intelligenza. Quasi tutti gli intervistati
hanno scelto (LUCIDO A): il ragionamento astratto, la soluzione dei problemi e la capacità
di imparare; più della metà ha scelto anche la memoria, l’adattamento al proprio ambiente,
la rapidità di elaborazione mentale, la competenza linguistica, la competenza matematica, la
conoscenza generale e la creatività; un quarto circa ha indicato anche l’acuità sensoriale,
l’agire in vista di un fine e la motivazione ad autorealizzarsi.
Ciò che è emerso, in conclusione, è che alcuni esperti, concepiscono l’intelligenza come
specificamente limitata alle attività intellettive di ordine superiore, ovvero il ragionamento e
la conoscenza, mentre per altri l’intelligenza comprende anche quelle abilità che aiutano gli
esseri umani ad affrontare le sfide dell’ambiente in cui vivono.
In psicologia vi sono quattro diversi approcci metodologici per studiare l’intelligenza: (1)
l’approccio psicometrico, che cerca di caratterizzare l’intelligenza attraverso l’analisi dei
punteggi ottenuti in appositi test; (2) lo studio dell’intelligenza come elaborazione delle
informazioni, che cerca di descrivere i vari passaggi coinvolti nell’esecuzione dei compiti;
(3) l’approccio neuropsicologico, che cerca di mettere in relazione specifiche abilità mentali
con precise aree cerebrali; (4) l’approccio ecologico, che studia l’intelligenza in relazione al
contesto ambientale in cui essa si esprime.
Qui ci limiteremo a cercare di spiegare come procedono le persone nel risolvere problemi
che richiedono lo sviluppo di un ragionamento logico.
La maggior parte degli psicologi concorda nel distinguere due grandi categorie di
ragionamento logico: deduttivo e induttivo. Il ragionamento induttivo si sviluppa dal
particolare per arrivare al generale (P Æ G), il ragionamento deduttivo, invece, procede dal
generale al particolare (G Æ P).
Il ragionamento induttivo
Quando si vuole imporre un compito induttivo, si presentano al soggetto items o fatti
specifici, quindi, gli si chiede di utilizzarli in modo da dedurre una conclusione di carattere
generale. Il ragionamento induttivo viene anche definito costruzione di ipotesi, poiché la
conclusione dedotta è al massimo una congettura sensata, non è mai una certezza assoluta.
Ogni volta che gli scienziati cercano di ricavare leggi universali partendo dagli eventi
particolari che hanno osservato, essi si servono del ragionamento induttivo.
Per capire in che cosa consiste un compito che implica un ragionamento induttivo,
considerate il problema seguente, che richiede di completare una serie di numeri:
1 2 4 _ _
Quali numeri mettereste nei due spazi vuoti? Se avete fatto l’ipotesi che la serie sia
composta di numeri in cui ciascuno è il doppio di quello che lo precede, completerete la
sequenza con 8 e 16. Ma poniamo che, a questo punto, io vi dia un’informazione che nel
primo spazio vuoto si trova un 7, arrivereste a concludere che la vostra ipotesi iniziale era
sbagliata e potreste fare una nuova ipotesi, magari che ogni numero è la somma dei due che
lo precedono più 1. In base a questa ipotesi potreste assegnare un 12 all’ultimo spazio.
Notate che quanto più si aumentano le informazioni che avete, tanto più potete essere certi
che la vostra ipotesi sia giusta. Tuttavia non potete mai arrivare ad averne la certezza
assoluta. Per quanto sia lunga la serie che avete visto, il numero che esce dopo potrebbe
dimostrare scorretta la vostra ipotesi.
Un compito un po’ diverso, però fondato sempre sul ragionamento induttivo, è il seguente
(LUCIDO B):
Roberto è un ragazzo mite, di aspetto ordinato, attento ai dettagli fino alla pignoleria,
disponibile verso gli altri, ma in realtà scarsamente interessato alle persone o ai problemi
pratici. Secondo voi, è più probabile che Roberto sia un bibliotecario o un commesso?
Come potete notare, questa domanda vi chiede di utilizzare alcune informazioni contenute
nella domanda con idee e informazioni che già avete grazie alla vostra esperienza personale,
in modo che possiate arrivare a fare un’ipotesi ragionevole. Gli psicologi che studiano il
ragionamento induttivo sono sempre stati molto interessati ad individuare quali
informazioni vengono tendenzialmente utilizzate e quali invece ignorate nel rispondere alle
domande di questo tipo. Queste ricerche hanno portato a concludere che le strategie adottate
nel ragionamento induttivo vanno spesso soggette a distorsioni sistematiche, che a volte
portano a formulare conclusioni tutt’altro che corrette. Vediamo ora più in dettaglio alcune
modalità di distorsione dell’induzione.
Il ricorso eccessivo alla categoria della rappresentatività e il sottoutilizzo dei tassi base.
Dunque come si può rispondere alla domanda su Roberto e di quali informazioni ci si può
servire per operare la scelta? Un metodo possibile è confrontare le informazioni che ci
vengono date sulla personalità di Roberto, cioè mite ecc., con le proprie convinzioni circa la
personalità di un tipico bibliotecario o di un tipico commesso. Se si fa così, si fa ricorso a
quella categoria che è stata definita rappresentatività, termine che indica il grado con cui la
cosa da classificare presenta caratteristiche tipiche, ovvero rappresentative, delle classi a cui
è possibile attribuirla, cioè se le caratteristiche di Roberto sono più tipiche (rappresentative)
del bibliotecario o del commesso.
Un altro tipo di informazione di cui ci si può servire è il così detto tasso base, che in questo
caso (cioè nell’esempio di Roberto), corrisponde alla probabilità che un uomo qualsiasi,
scelto a caso nella popolazione, faccia il bibliotecario oppure il commesso. Se già sappiamo
che i commessi sono molti di più dei bibliotecari e usiamo questa informazione, dovremmo
giungere alla ragionevole conclusione che è più probabile che Roberto sia un commesso,
anche se la sua personalità sembrasse rispecchiare i tratti tipici di un bibliotecario.
Alcuni ricercatori (Tversky e Kahneman, 1980) hanno trovato che spesso, nel rispondere a
domande di questo genere, le persone tendono ad ignorare il tasso base, anche quando il
testo del problema ne parla chiaramente. In un esperimento venne chiesto ai soggetti di
valutare le probabilità che un certo individuo fosse un ingegnere o un avvocato. A un
gruppo di soggetti venne detto che l’individuo era stato scelto a caso entro un campione
iniziale composto da 70 ingegneri e 30 avvocati; ad un secondo gruppo fu detto invece, che
l’individuo proveniva da un campione di 30 ingegneri e 70 avvocati.
I° GRUPPO
II GRUPPO
70 ingegneri
30 ingegneri
30 avvocati
70 avvocati
Quando si chiese ai soggetti di formulare il giudizio unicamente in base a questa
informazione, le loro risposte rispecchiarono fedelmente il rapporto 70:30, cioè la
maggioranza dei soggetti del primo gruppo dissero che vi era il 70% di probabilità che
l’individuo in questione fosse un ingegnere, mentre per la maggioranza dei soggetti del
secondo gruppo tale probabilità era del 30%. Ma quando a questa informazione fu aggiunta
una descrizione della personalità dell’individuo da classificare, la maggioranza dei soggetti
non prese più in considerazione i dati relativi alle percentuali di partenza, appunto i
cosiddetti tassi base, persino quando le descrizioni non contenevano alcuna informazione
veramente utile per compiere la scelta. Per esempio, a una persona descritta come “un uomo
di 30 anni, sposato e senza figli, dotato di grandi capacità e di forte motivazione”, entrambi i
gruppi assegnarono il 50% alla probabilità che si trattasse di un ingegnere, senza tenere
conto del fatto che, secondo l’informazione ricevuta in partenza gli ingegneri
rappresentavano il 70% oppure il 30% del campione.
La distorsione da propensione alla conferma.
In linea teorica si sa che si dovrebbe impostare la ricerca in modo da confutare le ipotesi
attualmente ritenute valide. Infatti in linea di principio, è impossibile arrivare a dimostrare
con certezza assoluta la correttezza di una certa ipotesi, mentre è possibile provarne con
assoluta certezza l’erroneità. Le ipotesi migliori sono quelle che resistono a tutti i tentativi
di confutarle. Ma malgrado ciò è stata riscontrata nelle persone una naturale tendenza a
cercare di confermare, anziché di confutare, le ipotesi che ritengono valide.
In uno dei primi esperimenti finalizzati a verificare l’esistenza della distorsione da
propensione alla conferma, Peter Wason (1960) impegnò i soggetti in una sorta di gara, che
consisteva nello scoprire la regola usata dallo sperimentatore per costruire delle serie di
numeri. Nella prima prova lo sperimentatore forniva al soggetto una sequenza di tre numeri,
come 6-8-10, e gli chiedeva di indovinare la regola su cui era costruita. Fatto questo, al
soggetto veniva chiesto di produrre sequenze di tre numeri basate sulla regola che aveva
ipotizzato; dal canto suo, lo sperimentatore rispondeva “si” oppure “no”, a seconda che la
sequenza rispondesse o meno al suo criterio, cioè a quello deciso dallo sperimentatore.
Wason trovò che i soggetti manifestavano una netta tendenza a fare la sequenza in modo
tale da poter confermare, anziché confutare, l’ipotesi che avevano formulato e in breve
tempo si convincevano che la regola da loro erroneamente individuata fosse corretta. Nel
nostro esempio (6-8-10), dopo aver formulato l’ipotesi che la regola seguita dallo
sperimentatore fosse stata costruire una serie di numeri pari crescenti per due, il soggetto
riproponeva ad ogni prova sequenze fondate su questo criterio, come 2-4-6 o 14-16-18 e
avendo ottenuto ad ogni tentativo la riposta “si” annunciavano infine con grande sicurezza
che la sua ipotesi iniziale era corretta, cioè che la regola era “costruire una serie di numeri
pari, crescenti per due”. Questi soggetti non ebbero mai modo di scoprire che invece la vera
regola adottata dallo sperimentatore era stata, invece, “costruire qualsiasi sequenza
crescente di numeri”.
I pochi soggetti che riuscirono ad individuare la vera regola furono quelli che produssero
sequenze tali da contraddire la prima ipotesi formulata. Per chiarire il modo di procedere di
questi soggetti, poniamo il caso che uno di loro avesse inizialmente ipotizzato, come gli
altri, che la regola fosse “costruire una serie di numeri pari crescenti per due”. Nel tentativo
di confutare questa ipotesi, questo soggetto avrebbe proposto, in una prova successiva, una
serie del tipo 5-7-9. A questo punto la risposta “si” dello sperimentatore gli avrebbe
dimostrato che la sua ipotesi era sbagliata. Il soggetto, allora, avrebbe potuto supporre che la
regola fosse “costruire qualsiasi serie di numeri crescenti per due”, e per verificare la sua
congettura propose la sequenza 4-7-32, e avendo avuto come risposta “si” avrebbe infine
formulato l’ipotesi che la risposta giusta fosse “costruire qualsiasi sequenza crescente di
numeri”. Dopo aver cercato di contraddirla mediante una sequenza del tipo 5-6-4 ed aver
ottenuto in questo caso una risposta negativa, poteva infine enunciare con sicurezza la
propria ipotesi sulla regola. Come avete visto questo soggetto è arrivato all’ipotesi giusta
confutando la sua ipotesi iniziale e non cercando di confermarla.
Dopo Wason, molte altre ricerche hanno convalidato i risultati confermando l’esistenza di
una distorsione dovuta a una naturale propensione alla conferma. Tuttavia questi lavori
hanno anche dimostrato che le strategie di conferma, pur essendo ben lontane dall’ideale,
non sempre falliscono in test come quello ideato da Wason. Nell’esperimento di Wason la
strategia falliva perché lo sperimentatore aveva scelto di proposito un criterio molto più
generale di qualsiasi regola che avesse una qualche probabilità di essere ipotizzata dai
soggetti unicamente in base alla prima sequenza. Se Wason avesse adottato una regola più
restrittiva (per esempio, “numeri pari di una cifra crescenti per due”), in qualche tentativo
teso a confermare un’ipotesi più vasta (“numeri pari crescenti per due”) il soggetto avrebbe
ricevuto la risposta no, quindi sarebbe stato indotto a modificare progressivamente le sue
ipotesi fino a scoprire la regola corretta. Il punto è che, per riuscire vincente in una gara
come questa, una strategia deve prevedere di ricevere dallo sperimentatore anche risposte
negative.
In un altro esperimento simile che dimostra questo tipo di distorsione dell’induzione, i
soggetti dovevano intervistare un’altra persona, rivolgendole domande che consentissero di
scoprire alcuni aspetti della personalità. A un gruppo di soggetti fu dato il compito di
verificare l’ipotesi che la persona intervistata fosse estroversa (aperta ai rapporti sociali) e
ad un altro gruppo quello di verificare l’ipotesi che fosse introversa (chiusa in sé, poco
disponibile ai rapporti sociali). Il risultato più importante di questo esperimento fu che tutti i
soggetti rivelarono una forte tendenza a formulare le domande in modo tale che una risposta
affermativa avrebbe confermato l’ipotesi da verificare. Per esempio, il gruppo che doveva
verificare l’eventuale estroversione dell’intervistato rilevò una forte tendenza a rivolgere
domande del tipo “Le fa piacere incontrare persone che non conosce?”, mentre il gruppo
che doveva verificare l’introversione formulò in prevalenza domande di questo tipo “Si
sente timido nell’incontrare persone nuove?” Questa distorsione, accoppiata alla tendenza
naturale degli intervistati a dare risposte affermative a questo genere di domande, portò la
maggioranza
dei
soggetti
a
convincersi
dell’esattezza
dell’ipotesi
iniziale,
indipendentemente da quale essa fosse e da chi fosse l’intervistato.
Una spiegazione possibile per questa forma di distorsione è che, nella vita di ogni giorno,
non ci interessa tanto raccogliere informazioni utili a lunga scadenza, ma piuttosto ci
interessa maggiormente comportarci in modo corretto o di ricevere la gratificazione di una
qualche ricompensa. Fino a che le ipotesi da noi concepite sembrano funzionare bene nella
vita di ogni giorno noi siamo portati a mantenerle. Dopo tutto, nella vita di tutti i giorni, il
nostro scopo non è la ricerca della verità, ma la nostra sopravvivenza. Per capire meglio
questo punto, proviamo a ragionare per assurdo. Poniamo il caso di una persona che pensi
che se indossa una tuta arancione quando si allena in bicicletta non sarà investita da una
macchina. Ovviamente il ciclista non ha la certezza assoluta che la tuta arancione lo
protegga veramente, ma se fino a quel momento non è mai stato investito, probabilmente
continuerà ad indossarla. Invece se il suo scopo principale fosse la conoscenza anziché la
sopravvivenza, quel ciclista potrebbe decidere di verificare sperimentalmente il proprio
comportamento e cioè potrebbe indossare qualche volta la tuta arancione e altre no, e vedere
quante volte viene investito nell’una e nell’altra condizione. E capite che questo è assurdo!!!
Un’altra spiegazione di questo tipo di distorsione, cioè di propensione alla conferma, è che
ottenere come risposta un “si” da parte dello sperimentatore o della persona intervistata è
più gratificante che ricevere un “no”. Nella vita quotidiana le persone trovano vantaggioso
andare d’accordo con gli altri, e ottenere un “si” rientra in questa strategia comportamentale.
Inoltre, alle persone piace sentirsi in gamba, per cui è possibile che si sentano maggiormente
gratificate quando le loro ipotesi vengono confermate, anziché confutate.
Il ragionamento deduttivo.
Il ragionamento deduttivo, o deduzione, procede, come abbiamo detto, dal generale al
particolare (G Æ P). In genere, un ragionamento deduttivo richiede che si accettino come
vere una o più premesse, o assiomi, per poi procedere, sulla base di questi assunti, ad
affermare se una certa conclusione è vera, falsa o indeterminata. Una forma tipica di
ragionamento deduttivo è il sillogismo, ovvero la combinazione tra loro di due premesse
date, in modo da verificare una determinata conclusione. Vediamone un esempio (LUCIDO
C):
Tutti i cuochi sono violinisti (premessa maggiore)
Pino è un cuoco (premessa minore)
Pino è un violinista?
Notate che questo problema impone di accettare per vere le due premesse, coerenti o meno
che siano con la vostra esperienza reale del mondo, perché il vero punto in questione è la
coerenza interna dell’argomento. I problemi in forma di sillogismo sono molto comuni nei
test di intelligenza e spesso sono lo strumento sperimentale utilizzato nelle ricerche sul
ragionamento deduttivo.
Gli studi condotti su soggetti di ogni parte del mondo dimostrano che, per la maggioranza
delle persone, è difficile risolvere un sillogismo, a meno che le asserzioni contenute nella
premessa non corrispondano alla loro esperienza reale. Quando le premesse del sillogismo
contraddicono l’esperienza personale, è più difficile arrivare ad una soluzione corretta
persino per quei soggetti che, avendo un alto grado di istruzione, hanno maggiore familiarità
con questi problemi.
Questi risultati perciò contraddicono nettamente l’opinione diffusa secondo la quale per
risolvere un sillogismo si ricorre solo alle regole della logica formale. Se così fosse, non
avrebbe alcuna importanza che la premessa maggiore concordasse con la comune
esperienza, per esempio: tutti i cuochi sono esseri umani o la contrastasse come nel nostro
caso dicendo che: tutti i cuochi sono violinisti o fosse completamente priva di senso: tutti i
farnegoghi sono stribulanti. L‘unica cosa importante sarebbe, a questo punto, la forma
astratta del problema e la relazione espressa dalle parole: “Tutti ..... sono ......”.
Sulla base di queste considerazioni, alcuni ricercatori (Philiph Johnson-Laird e i suoi
collaboratori (1992)) hanno concluso che la procedura generalmente seguita per risolvere un
sillogismo non consiste nella semplice applicazione delle regole della logica formale, ma
comporta la costruzione di modelli mentali che rappresentano il contenuto espresso
verbalmente nelle premesse e che vengono poi utilizzati per generare la risposta. Fra i
modelli di più facile comprensione vi sono quelli che prendono la forma di immagini
mentali.
Consideriamo i seguenti quattro sillogismi, fondati tutti sulla stessa premessa maggiore, ma
con premesse minori differenti (LUCIDO D):
Tutti i cuochi sono violinisti (premessa maggiore.)
1. Pino è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista?
2. Pino è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco?
3. Pino non è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista?
4. Pino non è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco?
Un modo per trovare la soluzione a questi problemi è visualizzare un gruppo di individui,
alcuni dei quali (i violinisti) tengono in mano un violino, altri (i cuochi) hanno in testa un
cappello da cuoco. La premessa maggiore dice che tutti i cuochi sono violinisti, quindi
nell’immagine mentale tutti i cuochi terranno in mano un violino. Ma la premessa maggiore
non afferma che tutti i violinisti sono cuochi, quindi occorre tenere conto di questa
possibilità aggiungendo al gruppo immaginario alcuni individui che hanno il violino, ma
non il cappello da cuoco. Il gruppo, inoltre, deve ovviamente comprendere individui che
non sono né cuochi né violinisti. L’immagine mentale conclusiva potrebbe apparire come
quella del LUCIDO D.
Ora, per rispondere alle quattro domande non occorre fare altro che esaminare questa
immagine. La risposta alla domanda 1) deve essere “si” poiché tutti gli individui con il
cappello da cuoco hanno un violino. La risposta alla domanda 2) è necessariamente
“indeterminata” dal momento che alcuni tra gli individui con il violino portano il cappello
da cuoco, ma altri no. La risposta alla domanda 3) deve essere anche essa “indeterminata”
poiché tra gli individui senza cappello da cuoco, alcuni hanno il violino ed altri no. Infine, la
risposta alla domanda 4) deve essere “no” poiché nessuno degli individui senza violino ha in
testa un cappello da cuoco.
Se veramente si utilizzano immagini mentali per verificare i sillogismi, allora il punto
cruciale del processo sta nel creare all’inizio un’immagine corretta e nel tenerla ben presente
mentre si risponde alle varie domande. A sostegno di questa ipotesi, cioè che la soluzione di
ogni problema sillogistico passa attraverso la creazione di un’immagine mentale, vi è il dato
che la soluzione di un sillogismo tende ad essere più rapida e precisa quando è possibile
visualizzare facilmente la premessa maggiore.
In una ricerca (C. Clement e R. Falmagne (1986)) sono stati presentati a studenti universitari
due problemi sillogistici, di questo tipo (LUCIDO E):
•
Ogni volta che sente il desiderio di una ciambella, l’uomo si reca a piedi dal fornaio
attraversando l’incrocio (premessa maggiore). L’uomo si è recato a piedi dal fornaio
attraversando l’incrocio (premessa minore). Desiderava una ciambella?
•
Se riorganizza la struttura dell’azienda, quella donna chiuderà l’anno in attivo (premessa
maggiore). La donna ha chiuso l’anno in attivo (premessa minore).Ha riorganizzato la
struttura aziendale?
Si noti che questi problemi sono identici nella forma e simili per complessità linguistica e
plausibilità delle premesse. Però in accordo con l’ipotesi precedente che diceva che i
sillogismi “facili da visualizzare” venivano risolti più facilmente, la maggior parte degli
studenti riuscirono a risolvere il primo sillogismo, ma non il secondo. Infatti per la
maggioranza delle persone è più facile formarsi l’immagine mentale di un individuo che
attraversa un incrocio che quella di una persona impegnata a riorganizzare un’azienda. (Per
inciso la risposta corretta per entrambi i sillogismi è “indeterminata”).
In generale i soggetti che riescono a risolvere con facilità qualsiasi sillogismo,
indipendentemente dal contenuto, hanno elaborato qualche tipo di espediente che consente
loro di trasformare qualsiasi premessa in un’immagine mentale.
Ovviamente il punto rilevante, qui, va ben oltre la capacità di risolvere i sillogismi proposti
in un test. Molti psicologi sostengono che molte grandi idee innovative, sia in campo
scientifico che filosofico, sono scaturite proprio dalla scoperta da parte del loro autore di
nuove forme per visualizzare un problema.
Alcune strategie per la risoluzione dei problemi: gli elementi dell’insight.
Ogni volta che vogliamo raggiungere un certo scopo, ma non siamo certi di come poterlo
fare, ci troviamo a dover risolvere un problema. Qualsiasi problema - che si tratti di un
puzzle, di un’equazione matematica o di qualcosa riguardante la vita quotidiana, ad esempio
come migliorare i rapporti familiari - è caratterizzato da uno stato iniziale (i pezzi sparsi alla
rinfusa del puzzle, l’equazione non risolta o l’attuale stato dei rapporti con la famiglia), da
uno stato finale, o scopo, da raggiungere e da un insieme di possibili mosse, operazioni, che
permettono di giungere allo scopo. Di solito per poter risolvere un problema bisogna: (a)
capire i termini del problema; (b) identificare le operazioni che potrebbero portare alla
soluzione; ( c) eseguire tali operazioni; (d) verificare il risultato; (e) ritornare a uno dei punti
precedenti della sequenza se il risultato non è stato quello voluto. Nella maggioranza dei
casi i primi due passaggi (la comprensione del problema e l’individuazione di una possibile
via verso la soluzione) sono i più critici e spesso richiedono l’intervento di quei processi
mentali chiamati nel loro complesso, insight (intuizione) o ingegno creativo.
Sono state fatte numerose ricerche per capire come le persone riescono a trovare una
soluzione a problemi apparentemente irrisolvibili? Da questi studi sono emersi
principalmente quattro concetti generali.
Rompere il set mentale
La difficoltà di alcuni problemi deriva dal fatto che per risolverli occorre rompere
un’abitudine, ormai inveterata, nel modo di percepire o di pensare, abitudine a cui si dà il
nome di set mentale. I problemi più spesso utilizzati per dimostrare l’esistenza di un set
mentale sono (LUCIDO F) il problema dei nove punti e il problema della candela. Nel
primo problema (LUCIDO Fa) viene richiesto di unire tutti e nove i punti della figura con
quattro linee rette, non una di più né una di meno, senza mai staccare dalla pagina la punta
della penna né ripassare da una linea già tracciata. Nel secondo problema (LUCIDO Fb)
bisogna attaccare la candela al pannello sul muro in modo che possa essere accesa e ardere
regolarmente, servendovi soltanto degli oggetti raffigurati nel lucido, - una candela, dei
fiammiferi e una scatola di puntine da disegno .
Esaminate questi due problemi e cercate di risolverli.
La maggioranza delle persone non trova la soluzione del problema dei nove punti perché
non riesce a staccarsi da un set mentale che le porta a pensare che ogni linea retta debba
partire e finire in uno dei punti. È possibile che allo stabilirsi di questo set mentale
contribuiscano quel tipico gioco dell’infanzia, in cui bisogna collegare tanti punti per
ottenere un disegno.
Per quel che riguarda il problema della candela, la maggioranza delle persone non riesce a
risolverlo perché considera la scatola soltanto un contenitore per le puntine, e non realizza
che essa invece potrebbe servire anche da supporto per reggere la candela. Karl Duncker
(1945), che ha inventato questo problema ed è stato il primo ad utilizzarlo come strumento
sperimentale, definì questo tipo di set mentale fissità funzionale, ovvero l’incapacità di
vedere per un oggetto una funzione diversa da quella che essa ha abitualmente. Di solito la
soluzione dei problemi diventa più facile, per la maggior parte delle persone, se la scatola e
le puntine vengono presentate separatamente anziché le une dentro l’altra, cioè sembra che
sia più facile intravedere una funzione alternativa per un certo oggetto se in quel momento
esso non è usato nel modo più comune. (La soluzioni dei due quesiti è nel LUCIDO Ga e
Gb).
Che cosa consente alle persone di rompere un set mentale solo in certi momenti e non in
altri? Secondo l’ipotesi avanzata all’inizio di questo secolo dagli psicologi della Gestalt 1, i
problemi come quelli appena descritti sono, per certi versi analoghi, alle figure reversibili
(LUCIDO H) e la possibilità di trovare la soluzione dipende da una riorganizzazione
percettiva cioè bisogna esaminare il problema da ottiche diverse,
abbandonarlo per qualche tempo, prenderlo in esame di nuovo, manipolare gli oggetti
tentando di dar loro una configurazione differente, e all’improvviso vedere il problema in
modo totalmente diverso da prima, tanto che la soluzione appare del tutto ovvia. A questo
scopo può essere utile qualsiasi procedura che consenta al nostro pensiero e ai processi
1
Nota 1: Gli psicologi della Gestalt sottolineavano la tendenza automatica a distinguere in qualsiasi scena la figura dallo sfondo,
cioè l'oggetto che attrae l'attenzione dal campo su cui risalta la figura. Secondo la Gestalt, questa distinzione tra figura e sfondo,
dipende da certe particolarità dello stimolo visivo, ma ciò non avviene sempre. Infatti quando gli indizi presenti sulla scena sono
scarsi oppure ambigui, possiamo trovare grandi difficoltà nel decidere a quale forma attribuire il significato di figura e a quale il
significato di sfondo, vediamo per esempio questa figura reversibile (FIGURA H). Ma se, nel guardare la FIGURA H per la prima
volta, foste stati mentalmente preparati a vedere un vaso in quella figura avreste percepito un vaso. Se, al contrario, foste stati
preparati a vedere due profili umani, avreste visto due profili umani. Quando gli stimoli possono avere più di una interpretazione, ciò
che noi vediamo è influenzato da ciò che ci aspettiamo di vedere, cioè dal nostro set percettivo.
percettivi di seguire il suo corso più libero. In accordo con questa interpretazione si è
trovato che la soluzione dei problemi che richiedono un’intuizione tende ad essere inibita da
condizioni sperimentali che aumentano lo stato di ansia dei soggetti, come può essere la
presenza di un giudice della prova, mentre è facilitata da condizioni che promuovono il
libero sviluppo di questi processi. Alice Isen e collaboratori (1987) hanno sottoposto il
problema della candela a vari gruppi di studenti universitari e hanno trovato che il gruppo di
soggetti che avevano appena visto una commedia divertente riusciva a risolvere il problema
più facilmente degli altri che avevano assistito ad un film drammatico o a nessun film.
Trovare un’analogia utile.
Ma l’insight non scaturisce semplicemente dal rompere un set mentale preesistente. Se ciò
fosse vero, le persone un po’ sempliciotte sarebbero le più abili nel risolvere problemi. La
risoluzione di un problema di questo tipo non richiede soltanto di abbandonare un approccio
che si è rilevato inutile, ma anche di trovarne un altro che sia invece utile. Il nuovo
approccio, al pari di quello che viene abbandonato, deve fondarsi sulle passate esperienze
della persona. Come rilevò William James (1890) molto tempo fa, spesso per poter risolvere
un problema occorre trovare un’utile analogia tra la nuova situazione e un’altra in cui la
persona può avere maggiore familiarità. Secondo James il cosiddetto genio creativo è colui
che riesce a vedere utili analogie là dove gli altri non pensano nemmeno a cercarle. Charles
Darwin, ad esempio, poté dare soluzione al problema del meccanismo che regola
l’evoluzione (tramite il concetto di selezione naturale) perché riuscì a scorgere un’analogia
tra le tecniche di selezione artificiale praticate dagli allevatori e le condizioni che in natura
limitano la riproduzione.
Nel risolvere il problema della candela è utile vedere un’analogia tra la scatola di puntine e
una mensola: entrambi gli oggetti possono essere attaccati al muro e fornire una superficie
orizzontale su cui si può montare la candela. Il ragionamento potrebbe svilupparsi più o
meno così: “So che potrei sistemare la candela lungo il muro, se avessi una mensola. C’è
nulla nella figura che ricordi una mensola? Ma si, la scatola. Ha una superficie piatta e può
essere attaccata al pannello sul muro per mezzo delle puntine, in modo che la sua superficie
più larga ne sporga orizzontalmente!” in questo modo è possibile arrivare alla soluzione del
problema attraverso la ricerca deliberata di un’analogia utile.
Trovare una rappresentazione efficace dell’informazione e possibili scorciatoie.
La difficoltà di molti problemi deriva dalla quantità di informazioni che occorre prendere in
considerazione. In questi casi, la chiave per arrivare alla soluzione sta spesso nel trovare una
rappresentazione efficace delle informazioni. Una delle ragioni per cui la prestazione di un
esperto supera di gran lunga quella del principiante, qualunque sia il campo considerato, sta
nel fatto che l’esperto ha appreso, nel proprio campo, a distinguere le informazioni rilevanti
da quelle meno rilevanti e a visualizzare le prime in raggruppamenti, ovvero in unità di
ordine superiore logicamente composte da sottogruppi di unità più piccole. È ormai
assodato che gli esperti in campi assai diversi, come gli scacchi, l’elettronica e l’architettura,
hanno una capacità maggiore rispetto ai principianti di rappresentarsi gli elementi del
problema (siano essi i pezzi di una scacchiera, porzioni di circuiti o le diversi parti di un
edificio) organizzandoli in raggruppamenti significativi, che possono essere manipolati
mentalmente in modo da assumere configurazioni differenti, senza con ciò sovraccaricare la
memoria a breve termine.
Per intravedere in maniera più efficace di organizzare le informazioni a volte è sufficiente
riformulare il problema in termini diversi. Provate per esempio a risolvere il problema dei
fiammiferi (LUCIDO Fc): “Trovare tutti i modi possibili per ottenere tre quadrati togliendo
soltanto cinque fiammiferi, senza che restino fiammiferi liberi.”
Questa formulazione del problema induce molte persone a focalizzare l’attenzione sui
fiammiferi e a procedere per tentativi ed errori, rimuovendone gruppi di cinque nella
speranza di arrivare infine alla soluzione. Ma questo approccio del problema può risultare
molto difficile perché con diciassette fiammiferi iniziali ci sono più di 6000 possibili
combinazioni di gruppi diversi di cinque, per cui la maggior parte delle persone rinuncia o
dimentica le combinazioni che ha già tentato, senza arrivare alla soluzione.
Le probabilità di risolvere con successo il problema aumentano se, anziché ragionare in
termini di fiammiferi, si ragiona in termini di quadrati. Il problema, dunque, potrebbe essere
riformulato così: “Ottenere tre soli quadrati, anziché sei, togliendo esattamente cinque
fiammiferi”. Per ottenere tre quadrati a partire dai sei iniziali, le combinazioni possono
essere soltanto venti, per cui il compito di tentarle tutte potrebbe non essere troppo gravoso.
Concentrare l’attenzione sui quadrati non solo riduce significativamente il numero dei
tentativi necessari se si cerca la soluzione per tentativi e errori, ma può anche portare a
risolvere il problema in un modo più elegante, basato sul ragionamento deduttivo. Poiché il
quadrato ha quattro lati, l’unico modo perché dodici fiammiferi (quanti sono quelli che
restano, togliendone cinque) possano formare tre quadrati esatti, senza che rimangano
fiammiferi liberi, è che i quadrati non abbiano alcun lato in comune. Esaminando la figura,
si vede immediatamente che soltanto due gruppi di quadrati soddisfano a questa condizione,
cioè (1) il gruppo formato dal quadrato in alto a sinistra, da quello in centro a destra e da
quello in basso a sinistra; e (2) il gruppo dei quadrati in alto a destra, al centro a sinistra e in
basso a destra.
Il problema dei fiammiferi ci aiuta a capire la distinzione fra due classi generali di regole
che si applicano alla soluzione dei problemi: l’algoritmo e la strategia euristica. Si definisce
col termine algoritmo qualsiasi regola che, se seguita correttamente, porta infine alla
soluzione del problema. Spesso applicare un algoritmo può significare semplicemente
produrre tutte le possibili mosse (così come vengono definite dal problema), una per volta,
finché non si ottiene la soluzione corretta. In questi casi, l’approccio algoritmico, potrebbe
essere considerato alla stregua del ricorso alla forza bruta, poiché il successo non dipende
tanto dalla bravura quanto dall’infaticabile perseveranza di chi cerca la soluzione. L’utilizzo
degli algoritmi si confà perfettamente ai computer, macchine che sono in grado di eseguire
manipolazioni semplici con grande rapidità, hanno una memoria perfetta e non perdono mai
la pazienza. Applicare l’approccio algoritmico alla soluzione del problema dei fiammiferi
vorrebbe dire procedere rimuovendo tutte le possibili combinazioni di cinque fiammiferi sui
diciassette dati inizialmente - vale a dire eseguire 6000 tentativi circa - e notare quali di
queste prove hanno prodotto esattamente tre quadrati. Operando in base a un algoritmo
simile, un computer troverebbe quasi istantaneamente una soluzione, mentre un essere
umano potrebbe passare ore a compiere tentativi su tentativi, prima di buttare via tutti i
fiammiferi, in preda alla frustrazione.
Il termine regola euristica si riferisce a qualsiasi regola che consenta di ridurre il numero
delle operazioni da eseguire per arrivare alla soluzioni di un problema. Volendo tradurre il
concetto in termini più semplici, potremmo dire che una regola euristica è una sorta di
scorciatoia. Nel problema dei fiammiferi, concentrare l’attenzione sui quadrati, e cercare di
individuare i tre che hanno i lati formati da dodici fiammiferi differenti, rappresenta una
strategia euristica. In generale, un essere umano ha tanto più successo nel trovare la
soluzione di un problema quanto più ricorre a utili strategie euristiche. Per quel che riguarda
i computer, anche queste macchine possono usare strategie del genere, una volta che siano
programmate in tal senso, ma, fino ad oggi, nessuno è stato in grado di farlo.
Stabilire sotto-obiettivi e trasformare i problemi mal definiti in problemi ben definiti.
In alcuni giochi che implicano una sequenza di mosse, come gli scacchi, e nella maggior
parte dei problemi a lunga scadenza connessi con la vita reale, è impossibile individuare fin
da principio, prima di cominciare a compiere le mosse, tutti i passaggi che portano alla
soluzione di un dato problema. In una partita a scacchi ogni mossa provoca una
contromossa, di cui occorre tenere conto prima di scegliere come muovere. Analogamente,
ogni vostro passo nella direzione della carriera professionale che avete scelto produce
qualche effetto, non del tutto prevedibile, di cui dovete tenere conto prima di decidere il
passo successivo da compiere. Negli scacchi come nella vita, molto spesso un piano deve
puntare a sotto-obiettivi a breve termine che portano sempre più vicino allo scopo finale, sia
che si tratti di dare scacco o di raggiungere la posizione sociale desiderata. Come emerge
da molti risultati sperimentali, coloro che risolvono con successo problemi in cui è coinvolta
una serie di scelte di solito si pongono esplicitamente sotto-obiettivi precisi, attraverso i
quali arrivano sempre più vicini alla meta finale che si sono prefissi.
Un aspetto che distingue nettamente i problemi di un esperimento in laboratorio da quelli
della vita reale sta nel loro grado di definizione. Si dice che un problema è ben definito
quando lo stato iniziale, lo scopo finale e le possibili operazioni con cui risolverlo sono
definiti con chiarezza; è invece mal definito un problema in cui uno (o più) di questi
elementi non è espresso in termini chiari. Poniamo di desiderare di essere più felici. È un
problema di cui vale la pena occuparsi, dal momento che ognuno di noi, presumibilmente,
vuole essere più felice. Eppure è un problema mal definito; da dove si deve partire per
trovare la soluzione? Assistenti sociali e psicoterapeuti, la cui professione consiste proprio
nell’aiutare le persone a risolvere problemi di questo tipo, sottolineano l’importanza di
riformulare il problema in termini più espliciti, più definiti. Innanzi tutto, che cosa ci
farebbe più felici? Avere più amici? Avere più denaro? Un lavoro più gratificante? Più
tempo per rilassarci? Una volta stabilito questo, il problema risulta meglio definito, ed è
possibile individuare dei sotto-obiettivi e i passi da compiere per raggiungerli.
La difficoltà insita nel darsi sotto-obiettivi o, più in generale, nel trasformare un obiettivo di
massima in uno esplicitamente più delimitato, sta nel fatto che a volte si può perdere di vista
lo scopo originale. La fissazione su un particolare sotto obiettivo può diventare un set
mentale, capace di impedire alla persona di vedere eventuali altre strade che le
permetterebbero di arrivare allo scopo principale.
Un giocatore di scacchi, tutto concentrato nel cercare di portare l’alfiere su una posizione
migliore, può non accorgersi della possibilità dare scacco che l’ultima mosso dell’avversario
gli ha appena aperto. Una persona che concentra tutti i suoi sforzi nel guadagnare più denaro
quale mezzo per arrivare alla felicità, può perdere di vista lo scopo originario e dedicarsi
anima e corpo ad accumulare denaro fine a se stesso, trascurando tutte le altre opportunità
per essere felice che incontra sul proprio cammino. Un bravo solutore dei problemi si dà dei
sotto obiettivi, ma li tiene sempre in subordine rispetto al suo scopo primario.
PRINCIPALI INDICI DI INTELLIGENZA
(Per tutti gli intervistati)
RAGIONAMENTO ASTRATTO
SOLUZIONE DEI PROBLEMI
CAPACITA’ DI IMPARARE
(Per il 50% degli intervistati)
MEMORIA
ADATTAMENTO AL PROPRIO AMBIENTE
RAPIDITA’ DI ELABORAZIONE MENTALE
COMPETENZA LINGUISTICA E MATEMATICA
CONOSCENZA GENERALE
CREATIVITA’
LUCIDO A
Roberto è un ragazzo mite, dall’aspetto ordinato, attento ai dettagli fino alla
pignoleria, disponibile verso gli altri, ma in realtà scarsamente interessato
alle persone o ai problemi pratici. Secondo voi, cosa è più probabile: che
Roberto sia un bibliotecario o un commesso?
LUCIDO B
TUTTI I CUOCHI SONO VIOLINISTI (PREMESSA MAGGIORE)
PINO E’ UN CUOCO (PREMESSA MINORE)
PINO è UN VIOLINISTA?
LUCIDO C
Tutti i cuochi sono violinisti (premessa maggiore).
.Pino è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista?
2.Pino è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco?
.Pino non è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista?
4.Pino non è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco?
LUCIDO D
Ogni volta che sente il desiderio di una ciambella, l’uomo
si reca a piedi dal fornaio attraversando l’incrocio
(premessa maggiore). L’uomo si è recato a piedi dal
fornaio
attraversando
l’incrocio
(premessa
minore).
Desiderava una ciambella?
Se riorganizza la struttura dell’azienda, quella donna
chiuderà l’anno in attivo (premessa maggiore). La donna
ha chiuso l’anno in attivo (premessa minore). Ha
riorganizzato la struttura aziendale?
LUCIDO E
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La Motivazione
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Canestrari, R. Psicologia Generale e dello Sviluppo CLUEB (Per la motivazione, Capitolo
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L’Apprendimento
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Canestrari, R.
Psicologia Generale e dello Sviluppo
CLUEB (Per l’apprendimento,
capitolo 7, solo gli argomenti trattati a lezione)
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Gray, P. Psicologia Zanichelli (Capitoli 5 e 18, solo gli argomenti trattati a lezione)
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Davison, G.C. & Neale, J.M. Psicologia Clinica (Capitolo 2, da pag. 38 a pag. 45 circa)
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Kendall, P.C. & Norton-Ford, J.D. Psicologia Clinica (Per la terapia comportamentale,
capitolo 12, solo argomenti trattati)
L’Intelligenza
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Canestrari, R.
Psicologia Generale e dello Sviluppo
CLUEB ( Capitolo 9, solo gli
argomenti trattati a lezione)
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Kendall, P.C. & Norton-Ford,J.D. Psicologia clinica Il Mulino (Capitolo 6, solo gli
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