Università Degli Studi “La Sapienza” -Roma- Appunti delle Lezioni di Psicologia Generale e Clinica Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia I° Anno II° Semestre Prof.ssa Daniela Arnaldi Anno Accademico 2005 – 2006 La Motivazione Etimologicamente il termine motivare significa "mettere in moto"; in psicologia, il termine motivazione è usato (LUCIDO 1) per indicare tutti i fattori, sia interni sia esterni all'organismo, che causano il comportamento dell'individuo in un determinato momento. I fattori interni all’organismo possono essere identificati con le pulsioni, termine usato per indicare una condizione interiore, che cambia nel tempo in modo reversibile e che spinge l'individuo a raggiungere determinati scopi. Pulsioni diverse hanno scopi diversi. Per esempio la pulsione della fame spinge l'individuo verso il cibo, la pulsione sessuale lo spinge alla ricerca della gratificazione sessuale, la curiosità alla ricerca di sempre nuovi stimoli e così via. Le pulsioni sono considerate concetti ipotetici. Infatti non si può osservare direttamente in un animale lo stato di fame o di sete o di curiosità, ma piuttosto si può ipotizzare la pulsione in base al comportamento dell’animale stesso. Se egli mostra un comportamento che lo porta ad avvicinarsi al cibo, si dice che è spinto dalla pulsione della fame; se manifesta un comportamento che lo porta a contatto con un partner, si dice che è spinto da una pulsione sessuale; se invece si aggira esplorando nuovi ambienti, lo si definisce curioso. La pulsione, come abbiamo visto, cambia nel tempo perché qualcosa di interiore si modifica nell'animale causando comportamenti differenti in momenti diversi, cioè in alcuni momenti più che in altri, l'animale è disposto ad affrontare maggiori fatiche o disagi per raggiungere un determinato scopo. Ma l'interno interagisce costantemente con l'esterno, per cui anche l’ambiente ha la sua importanza. Infatti, il comportamento motivato è diretto verso incentivi, cioè verso gli oggetti o gli scopi che si trovano nell'ambiente esterno. (Gli incentivi vengono chiamati anche rinforzi, ricompense o mete.) Vediamo un esempio: la pulsione che vi fa fare la fila davanti ad una pizzeria probabilmente è la fame, ma l'incentivo a farlo è la pizza che avete intenzione di comprare. Pulsioni e incentivi si completano a vicenda nel controllo del comportamento; se uno è debole, l'altro deve essere forte per motivare un'azione finalizzata ad un certo scopo. Perciò se già sapeste che le pizze di quella pizzeria hanno un pessimo sapore (incentivo debole), probabilmente continuereste ad aspettare in fila soltanto se la fame fosse tanta (pulsione forte); ma se facessero delle pizze buonissime (incentivo forte), probabilmente aspettereste anche se spinti da una pulsione debole, cioè se aveste poca fame. Pulsioni e incentivi non solo si complementano, ma si rafforzano a vicenda (LUCIDO 2). Una pulsione forte può aumentare l'attrattiva di un particolare oggetto; inversamente, un incentivo forte può intensificare una pulsione. Per tornare al nostro esempio, nel primo caso (tanta fame) persino una pizza dal pessimo gusto potrebbe sembrarvi attraente se siete molto affamati. Invece nel secondo caso (poca fame), l'aroma gustoso che, spandendosi da una pizza nel forno, arriva fino a voi mentre aspettate in fila, potrebbe intensificare la vostra fame, al punto da indurvi poi a mangiare anche un'altra cosa, che prima non vi avrebbe minimamente interessato, se arrivati al banco scopriste che la pizza che volevate è finita. Nell'uomo, persino le pulsioni primarie come la fame e la sessualità sono fortemente influenzato da controlli, valori e convinzioni sociali, che possono diventare molto più determinanti delle influenze biologiche fondamentali. Gli esseri umani non mangiano soltanto ma pranzano, un termine che sottintende influenze sociali e cognitive di ogni tipo, e la pulsione della fame è nell’uomo fortemente influenzata da componenti psicologiche. Ugualmente degli esseri umani non si può dire semplicemente che copulano, poiché si scelgono, si innamorano, si corteggiano, si promettono fedeltà, ecc. Gli esseri umani, inoltre, possono avere un enorme potere di controllo conscio sulle proprie pulsioni, anche le più profondamente istintuali, come dimostrano, per esempio, coloro che fanno, di propria volontà, uno sciopero della fame per protesta. L’approccio fisiologico allo studio delle pulsioni Quando si è cominciato a studiare le pulsioni, in un primo tempo esse furono considerate come semplici bisogni metabolici dei tessuti. In un libro che ebbe notevole risonanza, intitolato La saggezza del corpo (The wisdom of the Body) (1932),il fisiologo Walter B. Cannon descriveva i bisogni metabolici dei tessuti che compongono il corpo umano. Egli diceva che affinché processi vitali siano mantenuti, certe sostanze ed alcune proprietà del corpo devono restare costantemente entro i limiti di un ristretto intervallo di variazione, cioè non possono salire troppo al di sopra né scendere troppo al di sotto di tali limiti. Rientrano nei fattori di questo tipo la temperatura corporea, l'ossigeno, l'acqua e le molecole di sostanze nutritive che sono fonti di energia. L'attività di alcuni processi fisiologici, come la digestione e la respirazione, deve continuamente tendere al raggiungimento di questo stato definito da Cannon omeostasi, ovvero la costanza delle condizioni interne che il corpo deve mantenere attivamente per sopravvivere. Inoltre Cannon sottolineò che il mantenimento dell'omeostasi non coinvolge solo i processi interni dell'organismo, ma anche il suo comportamento verso l'esterno. Per tenersi in vita gli individui devono trovare e consumare cibo, sali e acqua; devono anche mantenere la temperatura corporea a un certo livello sfruttando vari accorgimenti, come ad esempio coprirsi con i vestiti o trovandosi un riparo. Cannon ipotizzava che il meccanismo fisiologico alla base di molte pulsioni fosse proprio il perturbamento dell'equilibrio omeostatico, capace di indurre comportamenti finalizzati a correggere tale squilibrio. Molti psicologi e fisiologi, seguaci delle teorie di Cannon, ottennero dimostrazioni sperimentali del fatto che gli animali si comportano coerentemente con i bisogni metabolici dei loro tessuti. Se, ad esempio, il contenuto calorico del cibo aumenta oppure diminuisce, l'animale compensa il cambiamento mangiando una razione minore, oppure maggiore, di cibo, e così facendo tiene relativamente costante l'apporto giornaliero di calorie. Per citare un altro esempio, sappiamo che la rimozione chirurgica delle ghiandole surrenali provoca una perdita eccessiva di sali attraverso le urine, se noi asportiamo ad un animale le ghiandole surrenali, vediamo che in lui questa perdita aumenta notevolmente la pulsione dell'animale a cercare e a mangiare cibi salati, perché, fintanto riesce a trovarne, può mantenersi in vita. Ma questo non avviene solo negli animali, una dimostrazione evidente ed inoppugnabile dell'influenza dell'omeostasi sul comportamento umano viene dal caso clinico di un bambino il quale dall’età di un anno sviluppò un appetito insaziabile per il sale. I suoi cibi preferiti erano i cracker salati, le patatine fritte, le olive e i sottaceti e il bambino aveva addirittura l'abitudine di mangiare il sale prendendolo direttamente dalla saliera. Quando il sale gli veniva negato, il bambino cominciava a piangere finché i genitori non cedevano, e quando incominciò a parlare, "sale" fu tra le prime parole che imparò, e una delle preferite. Egli sopravvisse fino a tre anni e mezzo, età in cui venne ricoverato in ospedale per altri sintomi e sottoposto alla dieta ospedaliera standard. Il personale non cedette alle sue richieste e il piccolo morì in pochi giorni. L'autopsia rilevò un deficit delle ghiandole surrenali; solo allora i medici che avevano avuto in cura il bambino si resero conto che la sua insaziabile fame di sale era la conseguenza di un bisogno fisiologico. La sua voracità per il sale e la capacità di indurre i genitori a fornirglielo, nonostante non sapessero che ciò soddisfaceva un suo effettivo bisogno, lo avevano tenuto in vita. Una dimostrazione piuttosto drammatica di quanto sia reale la "saggezza del corpo". Il concetto di omeostasi è utile per capire la fame, la sete e il bisogno di sali, di ossigeno o di mantenere costante la temperatura, ma non serve a spiegare altri tipi di pulsione. Prendiamo ad esempio la pulsione sessuale. Le persone sono fortemente motivate a impegnarsi in attività sessuali, ma a spingerle non è certamente un bisogno metabolico a livello dei loro tessuti. Il comportamento sessuale non influisce su nessuna sostanza essenziale per il corpo; nessuno muore per mancanza di attività sessuale. Per cercare di elaborare una teoria generale, valida per tutte le pulsioni, alcuni psicologi proposero l'esistenza di ipotetici bisogni anche rispetto alla sessualità e a tutte quelle pulsioni per le quali non è evidente alcun bisogno fisiologico, ma questo contraddiceva il principio base. Oggi gli psicologi distinguono tra pulsioni regolative e non regolative. Si dice pulsione regolativa una pulsione che, come la fame, contribuisce al mantenimento dell'omeostasi; si dice invece pulsione non regolativa una pulsione che, come quella sessuale, è funzionale a qualche altro scopo. La fame Nessuna altra pulsione è stata studiata nei suoi aspetti fisiologici così a fondo come la fame. In effetti, una delle prove che più contribuirono alla formazione, circa 50 anni fa, della teoria degli stati pulsionali centrali fu il dato sperimentale che la lesione, o la stimolazione elettrica, di aree specifiche dell'ipotalamo altera completamente la naturale tendenza dell'animale a cercare cibo e a sfamarsi. Agli inizi degli anni '50, Stellar poté formulare una teoria molto semplice relativa al controllo del cervello sulla fame. La teoria di Stellar affermava che il comportamento alimentare di un animale è controllato da due centri ipotalamici fra loro interagenti: il centro della fame e il centro della sazietà. L'attivazione dei neuroni che compongono il centro della fame, localizzato nell'area laterale dell'ipotalamo, induce l'animale a cercare il cibo e a mangiarlo. Infatti si è visto che gli animali con lesioni bilaterali in quest'area ipotalamica ignorano completamente il cibo e morirebbero di fame se non venissero nutriti per via endovenosa e che, invece, se si stimola elettricamente quest'area l’animale immediatamente mangia. Al contrario l'attivazione dei neuroni che formano il centro della sazietà, localizzato nell'area centromediale dell'ipotalamo, riduce invece l'impulso a cercare il cibo e a mangiare. Infatti vediamo che gli animali con lesione bilaterale dell'area ipotalamica centromediale sono estremamente voraci e diventano obesi e che se vengono stimolati elettricamente in quest'area cessano di mangiare anche se prima erano affamati. Stellar ipotizzò che l'area centromediale (sazietà) eserciti i suoi effetti tramite connessioni inibitorie con l'area laterale (fame), per cui l'attività neurale nel centro di sazietà ridurrebbe direttamente l'attività neurale nel centro della fame. Ma, le prove emerse dalle centinaia di esperimenti condotti dopo il 1954 hanno complicato immensamente il quadro delineato da Stellar, benché non abbiano annullato la validità della sua teoria. Quando le ricerche sui meccanismi fisiologici della fame erano ancora nella fase iniziale, molti studiosi speravano di riuscire ad individuare un unico segnale che, raccolto dal cervello, attiva o disattiva tale pulsione. Alcuni studiosi ritenevano potesse trattassi del glucosio, che è lo zucchero che rappresenta la principale fonte di energia per i tessuti cerebrali, o di qualche altra sostanza nutritiva veicolata dal sangue; altri, invece, ritenevano che ne fossero responsabili i segnali inviati dallo stomaco. Oggi si crede che il sistema nervoso centrale risponde a una vasta gamma di influenze, nessuna delle quali ha il controllo esclusivo della pulsione della fame. Alcune di queste influenze sono (LUCIDO 3). 1. I segnali di sazietà inviati dallo stomaco. Alcuni stimoli che segnalano quando smettere di mangiare provengono dallo stomaco. Sembra infatti che lo stomaco invii al cervello due diversi tipi di segnali, che hanno l'effetto di indurre la sazietà. Un tipo di segnale è relativo alla quantità di cibo presente nello stomaco. Il secondo tipo di segnale riguarda, invece, la natura chimica delle sostanze presenti nello stomaco. Le ricerche hanno dimostrato che, a parità di quantità, se i cibi presenti nello stomaco sono ricchi di sostanze nutritive, l'animale smette di mangiare prima di quanto faccia se il cibo è povero, o totalmente privo, di nutrimenti. 2. Segnali che indicano la concentrazione delle sostanze nutritive nel sangue. 3. Segnali che indicano la quantità di grasso corporeo. La fame regola non solo l'assunzione a breve termine di molecole caloriche, ma anche il peso corporeo. Sia nei ratti, sia nell'uomo il peso tende a rimanere relativamente stabile per tutta la durata della vita adulta (se si eccettua, in entrambe le specie, una lieve e graduale tendenza ad acquisire peso dalla giovinezza fino alla mezza età). Per ogni individuo esiste un peso particolare, definito "set point del peso" che risulta più facile da mantenere. Alcune teorie motivazionali In generale esistono alcune teorie motivazionali che hanno cercato di interpretare e spiegare in che modo le pulsioni possono indirizzare il comportamento animale ed umano. Le principali sono la teoria pulsionale freudiana, nata dall'esigenza di applicare il modello omeostatico alle osservazioni fatte in psicoterapia, e la teoria pulsionale etologica, derivata dalle osservazioni sistematiche degli animali nell'ambiente naturale. Teoria Freudiana delle pulsioni L'idea alla base della costruzione teorica di Freud è che le cause prime del comportamento umano si trovino profondamente sepolte nella mente inconscia, ovvero in quella parte della mente che, nonostante influenzi i nostri pensieri e le nostre azioni consce, non è accessibile all'indagine cosciente della persona. Le ragioni che gli individui adducono per spiegare a se stessi e agli altri il proprio comportamento non sono sempre le vere cause motivanti. Le vere ragioni del nostro comportamento spesso stanno nella mente inconscia, e le ragioni consce che portiamo non sono che coperture, razionalizzazioni plausibili, ma false, che servono a giustificare a noi stessi e agli altri ciò che facciamo. Il fatto che tali ragioni siano false non vuole dire, comunque, che si tratti di bugie volontarie e consapevoli, poiché a livello conscio noi le crediamo effettivamente vere. Infatti secondo Freud nell'individuo operano fondamentalmente due tipi di pulsioni: la pulsione di vita comprendente la libido e la pulsione di morte comprendente l’aggressività che si manifesta in tendenze distruttive verso sé stessi e verso gli altri. Sia la libido che l’aggressività devono essere controllate e indirizzate in altre direzioni perché le persone possano convivere pacificamente nella società.. Secondo Freud, gran parte del comportamento umano consiste in manifestazioni delle pulsioni sessuali e delle pulsioni aggressive, mascherate sotto altre forme. Freud non si preoccupò dei bisogni sociali perché nella sua concezione le persone sono fondamentalmente asociali, costrette alle relazioni con gli altri più dal bisogno che da un vero desiderio, e interagiscono con gli altri unicamente spinti dalle pulsioni sessuali ed aggressive od a forme mascherate di questi istinti. Quasi tutti gli analisti post-freudiani hanno invece considerato le persone come intrinsecamente portaste alla vita sociale, per cui i loro bisogni rispetto agli altri non si riducono alla gratificazione degli impulsi sessuali ed aggressivi. Teoria pulsionale etologica I primi etologi, tra i quali spiccano Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen, studiarono varie specie di insetti, pesci, rettili e uccelli e trovarono che molti aspetti del loro comportamento sono altamente prevedibili. Tutti i membri di una stessa specie producono infatti, la stessa risposta di fronte a specifici stimoli ambientali (risposta specie-specifica). Gli etologi chiamarono questi comportamenti schemi di azione fissi, o azioni stereotipate, sottolineando con questa definizione il fatto che i meccanismi di controllo di tali comportamenti sono “fissati” dall’eredità nel sistema nervoso dell’animale e che l’apprendimento li può solo relativamente modificare. Lo stimolo capace di provocare un’azione stereotipata fu chiamato stimolo liberatorio. In questi comportamenti la relazione stimolo risposta è essenzialmente di tipo riflesso, ma si distingue dai riflessi veri e propri per il fatto che la risposta provocata da uno stimolo liberatorio di solito è di tipo più complesso, e si verifica solo se l’animale si trova nelle condizioni fisiologiche appropriate. Vediamo meglio con un esempio. Tinbergen (1951) studiò gli schemi di azione fissi e gli stimoli liberatori di un piccolo pesce delle acque dolci in Europa, lo spinarello. Nella stagione degli amori il maschio dello spinarello cambia colore nella regione del ventre, che passa dal grigio cupo al rosso brillante, costruisce il nido e attacca qualsiasi altro spinarello maschio che invada il suo territorio. Per determinare quale fosse lo stimolo liberatorio che innescava l’attacco contro gli altri maschi, Tinbergen costruì dei modellini di spinarello, sagomati con maggiore o minore precisione e, tirandoli con un filo sottile, li trascinò dentro al territorio del maschi. In questo modo Tinbergen scoprì che qualsiasi modellino, anche se poco somigliante a un vero spinarello, era in grado, di scatenare un attacco da parte del maschio che difendeva il proprio territorio, purché il ventre fosse di colore rosso. Se il modellino non aveva il ventre rosso, per quanto somigliante fosse ad uno spinarello, non provocava la risposta di attacco. Tinbergen dimostrò così che lo stimolo liberatorio in grado di provocare l’attacco del maschio era il ventre rosso. Anche se il comportamento istintivo è specifico ed innato, lo stimolo scatenante la risposta comportamentale specie-specifica può, anche se solo in condizioni particolare, essere reso inattivo ed il comportamento motivato specie-specifico può essere scatenato da uno stimolo diverso che in questo caso non è più naturale ma è appreso. Questa sostituzione può avvenire solo in un determinato periodo critico, molto limitato. Infatti è nel corso di questo periodo che si forma la prima associazione tra lo stimolo e l’innesco del comportamento istintivo, associazione che poi rimarrà stabile e immodificabile per tutta la vita. Questo speciale tipo di apprendimento permanente viene detto imprinting. Konrad Lorenz (1935) osservò che, quando degli anatroccoli appena usciti dall’uovo vedevano lui anziché la propria madre, passare davanti al proprio nido, cominciavano a seguirlo come se fosse la propria madre. Non solo: gli anatroccoli continuavano a seguirlo per intere settimane e, una volta che questo attaccamento di era stabilito, non potevano più essere indotti a seguire la vera madre. Nell’uomo il fenomeno dell’imprinting avviene per quanto riguarda il linguaggio ed il periodo critico è intorno ai tre anni. Nel 1970 una ragazzina americana di circa 13 anni, indicata col nome di Genie nella letteratura scientifica su questo caso, fu salvata dalle condizioni inumane in cui il padre, gravemente squilibrato, e la madre, una donna totalmente succube del marito e quasi cieca, l’avevano tenuta fino ad allora. Da poco dopo la sua nascita fino al momento in cui venne salvata, Genie era stata tenuta rinchiusa in una piccola stanza e aveva avuto pochissime occasioni di udire discorsi di altre persone. La ragazza riusciva a capire soltanto poche parole e non era in grado di combinare tra di loro più parole, cioè non aveva mai imparato a parlare. Quando il fatto venne alla luce, Genie fu affidata a una famiglia, e in questo ambiente si trovò esposta alla lingua inglese come qualsiasi bambino che vive in condizioni normali e fu anche seguita da speciali insegnanti di sostegno. Dopo questi cambiamenti delle sue condizioni di vita, Genie arrivò ad acquisire un ampio vocabolario e imparò a produrre frasi dotate di significato, intelligenti. Tuttavia, all’età di 20 anni, cioè dopo sette anni di esposizione e di addestramento al linguaggio, la sua competenza a usare e a comprendere la grammatica restava notevolmente al di sotto di altri indici della sua intelligenza. Un esempio tipico delle frasi che la ragazza riusciva a produrre è: “Sento musica furgone dei gelati”; inoltre dopo aver udito una frase come “Il ragazzo colpì la ragazza”, non era sicura su chi avesse colpito chi. Il caso di Genie viene assunto come una delle prove che confermano l’ipotesi del periodo critico per l’apprendimento del linguaggio. Motivazioni secondarie Fino a qui abbiamo parlato di motivazioni legate alla sopravvivenza dell’individuo (fame, sete, ecc.) o della specie (sesso) ma vi è un altro gruppo di motivazioni dette secondarie, che sebbene non siano legate alla sopravvivenza, rivestono una particolare importanza per l’uomo. A titolo di esempio parleremo della motivazione al successo o bisogno di realizzazione e della motivazione affiliativa. La motivazione al successo o bisogno di realizzazione include il desiderio di eccellere, di portare a termine compiti complessi, di raggiungere prestazioni di alto livello e di superare gli altri. Le persone che hanno un bisogno di realizzazione molto alto sono diverse per vari aspetti da coloro che hanno poche motivazioni al successo. Per esempio, tendono ad essere migliori in compiti di soluzione dei problemi, dimostrano prestazioni migliori e più veloce miglioramento in problemi verbali. Essi tendono inoltre a porre a se stessi fini realistici, ma impegnativi. McClelland ha dimostrato ciò con bambini di 5 anni divisi in due gruppi classificati rispettivamente come "poco ambiziosi" o "molto ambiziosi". I bambini dovevano lanciare degli anelli tentando di infilarli in un piolo piantato nel pavimento ed erano lasciati liberi di scegliere la distanza dalla quale eseguire il lancio. McClelland trovò che i bambini che avevano forte bisogno di realizzazione sceglievano di stare ad una distanza intermedia dal piolo, cioè non tanto vicini da rendere il gioco troppo facile, ma neppure così lontani da renderlo praticamente impossibile. Invece i bambini che avevano un bisogno di realizzazione basso fecero esattamente l'opposto, cioè o si misero così vicini da essere sicuri del successo, o si misero così lontani da rendere il successo praticamente impossibile. Sembra che l'atteggiamento dei genitori e il tipo di cure parentali abbiano un ruolo importante nello sviluppo della motivazione al successo, ma questo non è stato ancora dimostrato. Un altro motivo importante è la motivazione affiliativa o di attaccamento che corrisponde al senso di piacere legato al contatto con un altro individuo e al dispiacere di esserne separato o di restare da soli. Questo bisogno è stato messo in evidenza da Harry Harlow (1959) che studiò gli effetti che la separazione dalla madre produce sui piccoli di scimmia rhesus. L’idea di questo lavoro era stata suggerita ad Harlow da uno studio condotto negli anni ’40 da Renè Spitz, sui bambini ospitati nei vari ospedali nel Canada e negli Stati Uniti. Spitz aveva notato che, nonostante ricevessero cure alimentari ed igieniche adeguate, circa un terzo di questi bambini moriva prima di compiere un anno e numerosi altri mostravano segni di grave ritardo, sia fisico che psicologico. Da questi dati Spitz giunse alla conclusione che i bambini deperivano per la mancanza di un caldo contatto fisico e di stimoli affettivi. Per scoprire quali condizioni provocavano questo effetto sui bambini, Harlow allevò alcuni macachi rhesus tenendoli in completo isolamento sia dalle madri che dalle altre scimmie, e trovò che queste scimmiette si comportavano come se fossero in preda ad una depressione ed ad uno spavento estremi, e che una volta riunite alle altre scimmie, erano incapaci di farsi accettare dal gruppo. Ma ancora più importanti al fine di scoprire il bisogno di attaccamento, furono gli esperimenti che Harlow condusse allevando piccoli macachi in presenza di madri artificiali. In uno di questi esperimenti Harlow (LUCIDO 4) allevò i piccoli macachi tenendoli isolati in gabbie che contenevano due madri artificiali, l’una formata da nudi fili metallici e l’altra da un’intelaiatura di ferro ricoperta di morbido tessuto spugnoso. I piccoli furono divisi in due gruppi: metà poteva nutrirsi poppando il latte dal biberon appeso dalla madre di filo metallico, mentre per l’altra metà il biberon era sulla madre artificiale di tessuto morbido. Il risultato più rilevante di questi esperimenti fu che, indipendentemente da quale delle due madri artificiali portasse il biberon, tutti i piccoli macachi mostrarono di trattare come madre quella coperta di tessuto morbido. Le scimmiette trascorrevano gran parte della giornata abbracciate a questa madre artificiale e si rifugiavano correndo su di essa ogni qual volta si sentivano minacciate. Nell’esplorare una stanza sconosciuta i piccoli macachi si mostravano più coraggiosi in presenza della madre artificiale morbida che in sua assenza. Da questi risultati Harlow concluse che, in determinate condizioni, nelle scimmie il fattore bisogno del contatto è più importante del nutrimento. Sono stati fatti moltissimi tentativi per classificare i motivi. Un esempio è quello di Maslow (LUCIDO 5) che suppone che i bisogni siano ordinati secondo una gerarchia di priorità e di forza. Quando i bisogni che hanno maggiore potenza e priorità sono stati soddisfatti, gli altri bisogni della gerarchia emergono e premono per essere soddisfatti. Quando questi sono soddisfatti, si è saliti di un gradino nella scala dei motivi. L'ordine gerarchico dal più al meno potente è, secondo Maslow, il seguente: bisogni fisiologici come fame e sete, bisogni di sicurezza, bisogno di appartenenza e di amore, bisogno di stima, bisogno di auto realizzazione e in un secondo tempo ha aggiunto anche i bisogni cognitivi come la sete di conoscenza ed i bisogni estetici come il desiderio di bellezza. La fame e la sete hanno sempre la precedenza su un desiderio di approvazione o di riconoscimento, ma questo ultimo è più forte rispetto al bisogno di bellezza. Marlow non parla di bisogni antisociali perché, secondo lui, l'uomo può diventare antisociale solo quando la società gli nega il soddisfacimento dei suoi bisogni innati. Questa di Maslow non è né la migliore, né la più recente classificazione dei bisogni, ma è solamente un esempio delle tante classificazioni che sono state fatte e ci serve solo per avere un'idea di come i bisogni possano essere classificati. Disturbi dell’alimentazione Come abbiamo già detto nell’uomo tutto ciò viene complicato da fattori psicologici e sociali. Nella nostra cultura si riscontra una grande attenzione nei confronti del cibo, i ristoranti di alta gastronomia abbondano e diverse riviste e spettacoli televisivi sono dedicati alla preparazione dei cibi. Allo stesso tempo, molte persone soffrono di obesità, le diete dimagranti sono all’ordine del giorno e rappresentano un giro di affari di milioni di euro l’anno. Considerato questo intenso interesse per il cibo e per l’alimentazione, non è sorprendente che tale aspetto del comportamento umano sia soggetto a svariati disturbi. Sebbene le descrizioni cliniche dei disturbi dell’alimentazione si possono far risalire a molti anni fa, questi disturbi sono comparsi per la prima volta nella classificazione del DSM (che come abbiamo visto è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali a cui tutti gli addetti ai lavori, per convenzione, fanno riferimento e che viene aggiornato regolarmente) nel 1980 soltanto come una sottocategoria dei disturbi della fanciullezza o della prima adolescenza e soltanto nel DSM-IV i disturbi dell’alimentazione, quali l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa, sono diventati una categoria a sé stante, a dimostrazione della crescente attenzione che negli ultimi due decenni i clinici e i ricercatori hanno prestato a queste patologie. Anoressia nervosa Il temine anoressia si riferisce alla perdita di appetito, mentre nervosa indica le motivazioni emozionali del disturbo. Il termine anoressia è per lo più inappropriato in quanto la maggior parte dei soggetti anoressici non perdono appetito o interesse per il cibo, anzi, mentre digiunano molti anoressici manifestano una sorta di ossessione per il cibo arrivando persino a leggere continuamente libri di cucina e a preparare manicaretti per la loro famiglia. L’individuo si rifiuta di mantenere un peso corporeo normale; ciò significa di norma che il peso corporeo è inferiore dell’85% al peso normale per età e statura. Di solito il dimagrimento è ottenuto mediante la dieta, anche se possono essere presenti condotte di eliminazione (quali vomito auto indotto, uso inappropriato di lassativi o di diuretici) ed una attività fisica eccessiva. L’individuo prova un’intensa paura di ingrassare, che non si attenua con il decremento ponderale perché i soggetti affetti da anoressia nervosa hanno una percezione distorta della forma del loro corpo ed anche quando sono emaciati, si percepiscono sovrappeso e considerano alcune parti del loro corpo, quali l’addome, i glutei e le cosce, come troppo grasse. Per valutare le dimensioni e il peso corporeo possono pesarsi continuamente, misurare le diverse parti del proprio corpo o controllarsi allo specchio con occhio ipercritico. Essi sono concentrati totalmente sull’effetto del cibo sul loro corpo, e calcolano accuratamente la quantità di calorie di tutto ciò che consumano fino a raggiungere il livello di ossessione (“io non lecco mai un francobollo con le calorie non si sa mai”). . Pur essendo drasticamente sottopeso, i soggetti con anoressia si rifiutano solitamente di ammettere che ci sia qualcosa che non va in loro e i livelli di autostima sono strettamente correlati con la perdita di peso e con la magrezza. Nei soggetti di sesso femminile lo stato di emaciazione estrema causa spesso amenorrea, cioè assenza o irregolarità del ciclo mestruale. La distorsione dell’immagine corporea che accompagna l’anoressia è stato valutato in svariati modi. In una tipologia di valutazione, ai soggetti vengono presentati disegni di corpi femminili con diversi pesi corporei e si chiede loro di indicare quale si avvicini maggiormente al proprio e quale rappresenti il loro ideale (LUCIDO 6). Da questa figura si può notare che, come era prevedibile, i soggetti con anoressia sopravvalutano le dimensioni del loro corpo e scelgono come ideale una figura esile. Il DSM-IV distingue due tipologie di anoressia nervosa. Nel sottotipo con restrizioni il decremento ponderale è dovuto a restrizioni alimentari; nel sottotipo con abbuffate/condotte di eliminazione, il soggetto si sottopone regolarmente ad abbuffate e a condotte di eliminazione. Numerose differenze tra questi due sottotipi convalidano tale distinzione. Il sottotipo con abbuffate/condotte di eliminazione sembra essere di natura maggiormente psicopatologica, infatti i soggetti presentano turbe della personalità, comportamenti impulsivi, cleptomania, abuso di sostanze quali alcolici e stupefacenti, fobia sociale e manie suicide in misura maggiore rispetto a coloro che appartengono al sottotipo con restrizioni. Solitamente l’anoressia insorge nella prima fase adolescenziale o in quella intermedia, spesso dopo una dieta o un evento esistenziale stressante, come la separazione o il divorzio dei genitori. È circa dieci volte più frequente nei soggetti di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile. Quando l’anoressia si manifesta nei soggetti di sesso maschile la sintomatologia e le altre caratteristiche, quali la presenza di conflitti familiari, sono generalmente analoghe a quelle che si riscontrano nei soggetti di sesso femminile con anoressia. La differenza tra i sessi nella prevalenza dell’anoressia molto probabilmente riflette la maggiore importanza attribuita dalle donne al loro aspetto fisico e ai parametri culturali della bellezza, che negli ultimi decenni hanno promosso come ideale una forma estremamente esile. I soggetti con anoressia presentano spesso depressione, disturbi ossessivo-compulsivo, fobie, disturbo da panico, alcolismo e vari disturbi di personalità. Sono frequenti anche problematiche sessuali, come è stato dimostrato da uno studio in cui è emerso che il 20% di un campione di donne anoressiche con un’età media di 24 anni non avevano alcun rapporto sessuale, e che più del 50% era anorgasmico o presentava un ridotto desiderio sessuale. La forte connessione tra anoressia e depressione ha spinto molti ricercatori a prendere in considerazione la possibilità che l’anoressia produca depressione, per esempio a causa degli scompensi biochimici causati dall’estrema denutrizione o per i sensi di colpa e di vergogna che in genere l’accompagnano. Ma poiché non sempre l’anoressia precede la depressione è stata pure avanzata l’ipotesi che la depressione ingeneri anoressia nervosa oppure, in quanto sono presenti analogie sintomatiche tra i due disturbi, che l’anoressia sia una variante della depressione. Lo stesso decremento ponderale, ad esempio, è un sintomo di depressione. Esistono anche altre analogie biologiche, ad esempio, i soggetti che soffrono di depressione e quelli con anoressia presentano entrambi livelli ridotti di serotonina. Queste tre ipotesi costituiscono spiegazioni plausibili dell’elevata comorbilità tra anoressia e depressione. Il digiuno autoimposto e il ricorso a lassativi producono numerose conseguenze biologiche indesiderate. Spesso si ha ipotensione, bradicardia, osteoporosi, aridità della cute, fragilità delle unghie, alterazioni dei livelli ormonali e una leggera anemia. Alcuni soggetti lamentano perdita di capelli e possono sviluppare “lanugo”, una fine e soffice peluria diffusa in tutto il corpo. I livelli di elettroliti quali potassio e sodio possono essere alterati e gli elettroliti (i sali ionizzanti presenti in diversi livelli corporei) sono essenziali per il processo di trasmissione neurale. La prognosi nei casi di anoressia è infausta infatti solo il 50% dei soggetti guarisce. Modificare la percezione distorta di se stessi nei soggetti con anoressia è particolarmente difficile soprattutto nella nostra società nella quale si attribuisce grande valore alla magrezza. L’anoressia è una malattia che mette a repentaglio la vita del soggetto sia per l’alto rischio di suicidio che per le numerose complicanze della malattia come per esempio insufficienza cardiaca congestizia. Possibili cause dell’anoressia nervosa. Sono stati suggeriti numerosi differenti tipi di cause per l’anoressia, inclusi fattori di personalità, modelli culturali e fisiologia cerebrale. Che siano interessati fattori di personalità è suggerito dal fatto che le anoressiche tendono ad essere un certo tipo di donna: giovane, di ceto medio e di famiglia che dà importanza ai risultati conseguiti. Questo tipo di ambiente può portare a richieste ed aspettative familiari stressanti ed in questo contesto il rifiuto di mangiare da parte della ragazza può essere (inconsciamente) un modo di prendere in mano il controllo della situazione. Un’altra possibilità che è stata menzionata è che l’anoressia rappresenti una negazione della sessualità poiché oltre alla mancanza del mestruo, le ragazze che sono sottopeso perderanno anche altre caratteristiche sessuali, come una forma veramente femminile. Molti hanno suggerito che fattori sociali giocano un ruolo determinante nell’anoressia, in particolare a causa dell’importanza data dalla nostra società alla magrezza femminile. Questa importanza è aumentata sensibilmente negli ultimi 40 anni, il che concorda con il dato che anche l’incidenza dell’anoressia è aumentata in questo periodo (Marilyn Monroe, Julia Roberts). Altri ricercatori hanno fissato l’attenzione su possibili cause biologiche ed una delle ipotesi è che l’anoressia sia causata dal cattivo funzionamento dell’ipotalamo. Bulimia nervosa. Un altro importante disturbo dell’alimentazione è la bulimia nervosa. Bulimia è un termine di origine greca che significa “fame da bue”. Tale disturbo comporta episodi durante i quali un rapido consumo di enormi quantità di cibo è seguito da comportamenti compensatori estremi, quali il vomito, il digiuno e l’attività fisica eccessiva. Il DSM-IV definisce abbuffata una quantità eccessiva di cibo ingerita in un periodo inferiore alle due ore. Le abbuffate o crisi bulimiche avvengono generalmente in solitudine, possono essere indotte da stress e dalle emozioni negative che esso suscita, dalla solitudine, da situazioni sociali legate al cibo o da preoccupazioni relative all’aumento ponderale, e di solito continuano finché il soggetto non si sente pieno da scoppiare. Durante una crisi bulimica il soggetto non si rende neanche conto della quantità di cibo ingerita. Fanno solitamente parte della abbuffata quegli alimenti, come dolci, gelati o torte che hanno un alto contenuto calorico e che possono essere ingeriti rapidamente. Dalle ricerche emerge che durante una abbuffata una soggetto ingerisce di norma da 2000 a 4000 calorie, molto di più di quanto un individuo normale assume in un’intera giornata. Tipicamente i soggetti si vergognano delle loro abitudini alimentari patologiche e cercano di nasconderle. Durante la crisi bulimica perdono il controllo, fino al punto di sperimentare qualcosa di simile a uno stato dissociativo e quando si conclude l’abbuffata, una sensazione di disgusto, di disagio e la paura di aumentare di peso portano alla seconda fase della bulimia nervosa, la condotta di eliminazione. I soggetti molto spesso inseriscono le dita in gola per scatenare il riflesso del vomito attraverso al stimolazione della faringe, ma ben presto riescono a vomitare a comando. L’abuso di lassativi e diuretici (che d’altra parte non sono in grado di diminuire l’apporto calorico), nonché il digiuno e l’eccessiva attività fisica, sono strategie per tenere sotto controllo il peso corporeo. Sebbene molti individui si abbuffino occasionalmente - uno studio riscontrò che il 50% degli studenti americani aveva esperienza occasionali di abbuffate - e alcuni soggetti abbiano sperimentato condotte di eliminazione, per fare una diagnosi di bulimia nervosa bisogna che gli episodi di abbuffata e di condotta di eliminazione si presentino almeno due volte alla settimana per un periodo di tre mesi. Come per i soggetti con anoressia nervosa, quelli affetti da bulimia nervosa hanno paura di aumentare di peso e la loro autostima dipende fortemente dal mantenimento del peso corporeo normale. La bulimia nervosa può essere di due tipi: con condotte di eliminazione e senza condotte di eliminazione ed in quest’ultimo caso i comportamenti compensatori sono il digiuno o l’attività fisica eccessiva. Come prevedibile, i soggetti con bulimia senza condotte di eliminazione tendono ad avere un peso corporeo maggiore di quelli appartenenti al primo sottotipo ed inoltre, hanno crisi bulimiche meno frequenti e una psicopatologia di minore entità rispetto ai soggetti con bulimia con condotte di eliminazione. La bulimia nervosa inizia tipicamente nella tarda adolescenza o nella prima età adulta e circa il 90% dei casi riguarda soggetti di sesso femminile. Si ritiene che la prevalenza tra la popolazione femminile sia di circa l’1-2%. Molti soggetti con bulimia nervosa erano sovrappeso prima dell’insorgenza del disturbo e gli episodi di alimentazione incontrollata si sono spesso manifestati durante una restrizione dietetica. Il follow-up a lungo termine di soggetti con bulimia nervosa rivela che circa la metà di essi guarisce nell’arco di cinque anni. La bulimia nervosa è associata a numerose altre diagnosi, in particolare alla depressione, ai disturbi di personalità (soprattutto al disturbo borderline di personalità e ai disturbi di ansia). Curiosamente, la bulimia è associata alla cleptomania. I soggetti bulimici che si dedicano al furto tendono inoltre ad abusare di sostanze stupefacenti e ad essere sessualmente promiscui. Tale combinazione di comportamenti può riflettere impulsività o mancanza di autocontrollo, caratteristiche che potrebbero risultare rilevanti negli episodi di alimentazione incontrollata. Le frequenti condotte di eliminazione possono produrre ipopotassiemia, mentre il ricorso inappropriato a lassativi induce diarrea, che a sua volta può portare ad alterazioni nell’equilibrio elettrolitico. Il vomito ricorrente può portare a una perdita di smalto dentale, dovuta agli acidi gastrici che intaccano i denti i quali assumono un aspetto “tarlato”. In alcuni casi le ghiandole salivari possono ingrossarsi. La bulimia nervosa, come l’anoressia, è un disturbo grave con numerose conseguenze fisiche negative, ma i bulimici abitualmente non si rendono conto di questo e, a causa del fatto che il loro peso rimane sostanzialmente normale, riescono a tenere nascosti a lungo i loro disordini alimentari e a volte sono convinti di fare una cosa normale, anzi di avere trovato la soluzione per mangiare senza ingrassare “non riuscivo a capire perché non lo facessero tutti”. Disturbo da alimentazione incontrollata. Il disturbo da alimentazione incontrollata comprende abbuffate ricorrenti, perdita di controllo durante l’episodio di abbuffata e sensazione di disagio nei confronti del comportamento patologico, nonché altre caratteristiche quali un’ingestione rapida e in solitudine. Si distingue dall’anoressia nervosa per l’assenza del decremento ponderale e dalla bulimia nervosa per l’assenza di condotte di eliminazione. Il disturbo da alimentazione incontrollata appare più diffuso sia dell’anoressia che della bulimia. Anch’esso si verifica con maggiore frequenza nelle donne che negli uomini ed è associato all’obesità e a un’anamnesi di fluttuazioni ponderali. È collegato inoltre a compromissione del funzionamento lavorativo e sociale, a depressione, ad abuso di sostanze e a preoccupazione eccessiva per la forma del corpo. Eziologia dei disturbi dell’alimentazione. Per quanto riguarda le cause dei disturbi dell’alimentazione in generale, la ricerca biologica relativa ai disturbi dell’alimentazione ha preso in esame sia la genetica che i meccanismi cerebrali. I dati disponibili depongono a favore di una possibile origine genetica, ma non sono stati ancora effettuati studi approfonditi. Sono stati presi in esame nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione gli oppiacei endogeni e la serotonina che svolgono un ruolo nella mediazione delle sensazioni di fame e sazietà e in soggetti con disturbi dell’alimentazione sono stati riscontrati bassi livelli di queste sostanze chimiche cerebrali Sul piano psicologico diversi fattori svolgono ruoli significativi. Con il mutare dei canoni estetici sociali verso una forma corporea più esile per le donne, la frequenza dei disturbi dell’alimentazione è aumentata. La prevalenza dei disturbi dell’alimentazione è molto elevata negli individui che svolgono un lavoro che dà molta importanza all’aspetto fisico, quali modelle, ballerini, attori e atleti. La prevalenza dei disturbi dell’alimentazione è inoltre più elevata nei paesi industrializzati, dove è maggiore la pressione culturale verso un ideale di magrezza. Le teorie psicodinamiche relative ai disturbi dell’alimentazione sottolineano come cruciali le relazioni genitori-figli e le caratteristiche di personalità. La teoria di Bruch, ad esempio, avanza l’ipotesi che i genitori di bambini che in seguito sviluppano disturbi dell’alimentazione impongano la loro volontà ai figli senza considerarne le esigenze. I soggetti cresciuti in un contesto di questo genere non apprendono ad identificarsi con i loro stati interiori e diventano fortemente dipendenti dagli standard imposti da altri. La ricerca sulle caratteristiche delle famiglie con figli affetti da disturbi dell’alimentazione ha prodotto dati differenti legati alle modalità di reperimento dei dati stessi. I resoconti dei soggetti sintomatici evidenziavano elevati livelli di conflittualità, ma dalle effettive osservazioni delle famiglie non sono emersi particolari devianze. Gli studi della personalità hanno riscontrato che i soggetti con disturbi dell’alimentazione presentavano livelli elevati di nevroticismo e di perfezionismo, nonché una bassa autostima. Le teorie cognitivo-comportamentali sui disturbi dell’alimentazione ipotizzano che la paura di ingrassare e la distorsione dell’immagine corporea rendano il decremento ponderale un potente fattore di rinforzo. Tra i soggetti con bulimia nervosa, stati emotivi negativi e lo stress scatenano abbuffate e creano ansia, attenuate da condotte di eliminazione. Il principale trattamento biologico per i disturbi dell’alimentazione consiste nella somministrazione di antidepressivi sebbene tali trattamenti siano parzialmente efficaci, i tassi di abbandono per i programmi di terapia farmacologica sono elevati e le recidive sono frequenti quando i soggetti sospendono l’assunzione dei farmaci. La terapia per l’anoressia richiede spesso il ricovero ospedaliero per ridurre le complicanze mediche del disturbo. Strategie di rinforzo verso l’incremento ponderale, quali le visite di amici, si sono rivelate particolarmente efficaci, ma nessuna terapia sinora si è dimostrata in grado di produrre un mantenimento a lungo termine dell’incremento ponderale. Il trattamento cognitivo-comportamentale per la bulimia s’incentra sulla messa in discussione dei canoni sociali relativi all’avvenenza fisica e delle convinzioni che incoraggiano severe restrizioni alimentari, nonché sullo sviluppo di comportamenti alimentari normali. Gli esiti sono promettenti, almeno a breve termine. IL TERMINE MOTIVAZIONE INDICA TUTTI I FATTORI, SIA INTERNI SIA ESTERNI ALL’ORGANISMO, CHE CAUSANO IL COMPORTAMENTO DELL’INDIVIDUO IN QUEL DETERMINATO MOMENTO. FATTORI INTERNI (PULSIONI): INDICANO UNA CONDIZIONE INTERIORE, CHE CAMBIA NEL TEMPO IN MODO REVERSIBILE, E CHE SPINGE L’INDIVIDUO A RAGGIUN- GERE DETERMINATI SCOPI. FATTORI ESTERNI (INCENTIVI): GLI OGGETTI O GLI SCOPI CHE SI TROVANO NELL’AMBIENTE ESTERNO. LUCIDO 1 PULSIONE FORTE INCENTIVO DEBOLE (TANTA FAME) (PESSIMO SAPORE) PULSIONE DEBOLE INCENTIVO FORTE (POCA FAME) (OTTIMO SAPORE) UNA PULSIONE FORTE PUO’ AUMENTARE L’ATTRATTIVA DI UN PARTICOLARE OGGETTO; INVERSAMENTE, UN INCENTIVO FORTE PUO’ INTENSIFICARE UNA PULSIONE. LUCIDO 2 SEGNALI CHE INFLUENZANO LA FUNZIONE DELLA FAME SEGNALI DI SAZIETA’ INVIATI DALLO STOMACO CHE TENGONO CONTO SIA DELLA QUALITA’ CHE DELLA QUANTITA’ DEL CIBO. SEGNALI CHE INDICANO LA CONCENTRAZIONE DELLE SOSTANZE NUTRITIVE NEL SANGUE. SEGNALI CHE INDICANO LA QUANTITA’ DI GRASSO CORPOREO. LUCIDO 3 RAPPRESENTAZIONE SCHEMATICA DELLA SCALA DI MASLOW RELATIVA ALLA EVOLUZIONE E ALLA GERARCHIA DEI BISOGNI Bisogni estetici Bisogni cognitivi Bisogno autorealizzazione Bisogno di stima Bisogno di amore e di appartenenza Bisogno di sicurezza e protezione Bisogni fisiologici (di sopravvivenza) LUCIDO 5 L'Apprendimento L’apprendimento è una forma di adattamento all’ambiente che avviene durante tutta la vita dell’individuo e si può definire come (LUCIDO A) “il processo attraverso il quale una particolare esperienza, fatta in un certo momento della vita, può influenzare il comportamento dell’individuo in un momento successivo”. In questa definizione per “esperienza” si intende qualsiasi effetto prodotto dall’ambiente e mediato dai sistemi sensoriali dell’individuo (vista, udito ecc.), perché per apprendere è necessario essere in uno stato di coscienza vigile per cogliere gli stimoli esterni. Per “comportamento in un momento successivo” si intende qualsiasi comportamento messo in atto successivamente e che non è una risposta immediata agli stimoli già presente nell’individuo prima dell’esperienza che provoca l’apprendimento. Bisogna dunque state attenti a distinguere l’apprendimento dalla maturazione. Infatti per maturazione si intendono quei cambiamenti che avvengono nell'individuo col passare del tempo e sono uguali per tutti indipendentemente dalle esperienze vissute; mentre l'apprendimento avviene sotto l'influsso delle esperienze e dell'ambiente esterno per cui varia da individuo ad individuo e rende ognuno diverso dall'altro. Dunque il processo di apprendimento comporta l'acquisizione di un modo di rispondere nuovo e stabilmente diverso da quello di prima (nuotare, leggere, guidare ecc.). Questo non significa però che i comportamenti acquisiti rimangano sempre uguali, ma possono essere sia migliorati ( uno impara sempre meglio a guidare) sia peggiorati (se non si guida per molto tempo si avranno difficoltà a ricominciare). Secondo questa definizione di apprendimento, non è necessario capire il collegamento che c’è tra i fattori e le variabili in gioco: un comportamento può modificarsi semplicemente perché abbiamo imparato dall'esperienza che una certa risposta ad uno stimolo ci provoca un danno o un vantaggio, per esempio, se sentiamo il suono della sirena dietro di noi, ci scostiamo immediatamente e istintivamente senza pensare troppo, infatti l’esperienza ci insegna che il suono della sirena preannuncia l’arrivo dell’ambulanza. Questo tipo di apprendimento è una capacità adattativa primaria presente sia nell'uomo che negli animali ed è chiamato “associativo per contingenza temporale”. I prototipi di tale apprendimento sono il "condizionamento classico o rispondente" studiato da Pavlov ed il "condizionamento operante" studiato da Skinner. Condizionamento classico o rispondente Ivan Pavlov (1849-1936) è noto a tutti per aver scoperto il fenomeno del condizionamento. Dobbiamo però ricordare che Pavlov prima di condurre le ricerche sui riflessi condizionati è stato insignito del premio Nobel (1904) per i suoi lavori sulla fisiologia del sistema digestivo. Come fisiologo studiava le secrezioni salivari che avvenivano quando venivano poste nella bocca dell'animale varie sostanze chimiche o cibo. Però Pavlov notò un fenomeno per lui molto disturbante. In certi casi il cane salivava anche quando non gli veniva posto alcun cibo in bocca, cioè quando non vi era alcuna ragione "fisiologica" per questo. Pavlov notò che questa salivazione che lui chiamò "psichica" avveniva quando il cane sentiva l’odore del cibo, o quando sentiva rumore in cucina, o quando vedeva chi gli dava da mangiare. Per capire perché questo avvenisse introdusse chirurgicamente un rivelatore che misurava la produzione salivare (LUCIDO B) in un cane che era bloccato mediante cinghie in una camera insonorizzata dove, attraverso un meccanismo, si poteva introdurre della polvere di carne nella bocca dell'animale. Lo sperimentatore poteva inoltre presentare una serie di stimoli quali il suono del metronomo o una luce. Il punto di partenza per la dimostrazione di Pavlov è l'esistenza del "riflesso incondizionato" della salivazione (LUCIDO C). Il riflesso incondizionato è una risposta innata dell'organismo: ogni cane al quale venga messa della polvere di carne in bocca inizierà a salivare perché i circuiti nervosi che controllano questo riflesso sono già esistenti. Il suono di un metronomo, al contrario, non produrrà salivazione in un cane normale. Pavlov riuscì a far sì che il cane salivasse al suono del metronomo. PRIMA DEL CONDIZIONAMENTO SN ---------> Stimolo neutro (suono) SI Stimolo incondizionato (cibo) ---------> DURANTE IL CONDIZIONAMENTO SN Stimolo neutro (suono) seguito da nessuna risposta RI Risposta incondizionata (salivazione) SI Stimolo incondizionato (cibo) -----------> DOPO IL CONDIZIONAMENTO SC ------------> Stimolo condizionato (suono) RI Risposta incondizionata (salivazione) RC Risposta condizionata (salivazione) Questo è un esempio di quello che ora chiamiamo "condizionamento classico", che ci permette di formulare una importante legge dell’apprendimento (LUCIDO D): “quando uno stimolo che precedentemente era neutro (SN) è presentato in stretta contiguità temporale con uno stimolo incondizionato (SI) la risposta che prima era fornita dallo stimolo incondizionato (SI) inizierà a comparire in seguito alla presentazione dello stimolo condizionato (SC)”. Il fatto di avere sperimentato la sequenza metronomo - carne ha modificato in senso adattivo il comportamento del cane. Dunque nel condizionamento classico abbiamo (LUCIDO D): il periodo di acquisizione cioè il numero di prove necessarie a provocare la risposta. la procedura di rinforzo: nel periodo di acquisizione bisogna presentare lo stimolo condizionato (SI) (cibo) dopo ogni stimolo neutro (SN) (suono) e più precisamente, per avere un tempo di apprendimento ideale, lo stimolo neutro (SN) deve precedere lo stimolo incondizionato (SI) di un tempo compreso tra 1/2 e 2 secondi, l’apprendimento diventa solo più difficile tra i 2 e i15 secondi, ma non si verifica per niente se si superano i 15 secondi. Così come non ci sarà apprendimento se si inverte l’ordine e si presenta lo stimolo incondizionato (SI) prima dello stimolo neutro (SN). l’estinzione: se, dopo che l'animale ha acquisito la risposta condizionata (RC), smettiamo di rinforzare lo stimolo condizionato (SC) vediamo che gradualmente la risposta condizionata (RC) sparirà. il recupero spontaneo: anche se la risposta si estingue non viene completamente dimenticata, infatti dopo un certo periodo di riposo, la RC si ripresenterà spontaneamente. Inoltre stimoli simili allo SC (suono) tenderanno a provocare ugualmente la risposta. Questo fenomeno è detto generalizzazione. La forza della risposta sarà tanto maggiore quanto più il nuovo stimolo sarà simile allo SC originale. Il fatto che la risposta condizionata (RC) si generalizzi a stimoli simili allo SC ha un importante valore adattivo; infatti nella vita reale è difficile che ci siano, in circostanze diverse, stimoli perfettamente identici. Quando una tigre vi ha spaventato una volta è probabile che vi spaventerete ogni volta che vedrete una tigre anche se sarà più piccola o più grande, o non avrà lo stesso atteggiamento minaccioso dell'altra, o sarà di un altro colore, altrimenti, come apprendimento, il condizionamento sarebbe inutile. Il logico complemento della generalizzazione è la discriminazione. Sebbene il condizionamento si generalizzi a stimoli simili è possibile imparare a non rispondere a tutti gli stimoli simili ma rispondere solo ad alcuni. Il ruolo adattivo della discriminazione è ovvio, se esso non esistesse ci troveremmo ad avere reazioni spropositate di fronte ad una tigre in gabbia o anche di fronte ad un gatto. Però il fatto che il condizionamento richieda, come condizione, un riflesso incondizionato sembra porre dei limiti alle capacità di apprendimento umano, anche se Pavlov non accettò mai questa idea. Egli infatti pensava che tutte le forme di apprendimento non fossero altro che delle lunghe catene di risposte condizionate. Questo processo fu chiamato "condizionamento di ordine superiore". Ma si è visto che già nel secondo ordine (passaggio) il condizionamento era alquanto labile e neanche Pavlov arrivò mai al condizionamento di quarto ordine. Il primo ad usare esplicitamente i metodi pavloviani per studiare l'apprendimento nell'uomo fu John Watson (LUCIDO E). In una classica dimostrazione Watson condizionò Albert, un bambino di 11 mesi, ad avere paura dei conigli bianchi. All'inizio Albert reagiva alla presentazione di un coniglio giocando felice e tranquillo. Per provocare la paura condizionata, gli sperimentatori produssero un forte rumore, che specie a quell’età è uno stimolo incondizionato di paura. Il colpo infatti provocò una risposta di paura da parte di Albert, e già dopo la seconda prova il bambino mostrò paura ogni volta che vedeva il coniglio, anche se non era più accompagnato dal rumore. Quindi, per usare la terminologia del condizionamento classico, dopo essere stato associato con un rumore molto forte (stimolo incondizionato di una risposta di paura), il coniglio era diventato uno stimolo condizionato per la paura. Nella vita di tutti i giorni quando nella pubblicità vengono associate per esempio automobili o birre a persone molto belle e che hanno l'aria molto felice, ciò che si cerca di ottenere è di farci venire l'acquolina in bocca, proprio come ai cani di Pavlov, ogni volta che vediamo quel prodotto. (esempio: prima ospedale = chemioterapia = vomito poi ospedale = vomito) Condizionamento operante Senz'altro il condizionamento classico estende, e anche molto, il numero degli stimoli ai quali l'organismo può rispondere, però non influenza il numero di risposte, cioè un animale che apprende solo attraverso questo meccanismo imparerà per esempio a salivare in risposta a numerosi stimoli neutri, ma non sarà in grado di apprendere risposte nuove. Il condizionamento operante spiega come avviene invece l’apprendimento di nuove risposte. I primi studi sul condizionamento operante sono stati condotti negli Stati Uniti dallo psicologo Edward E. Thorndike (1898), il quale, influenzato dalle idee evoluzionistiche di Darwin, pensava che l'intelligenza animale servisse ad adattare l'animale all'ambiente in cui vive. Per verificare ciò Thorndike mise un gatto affamato in una speciale gabbia, (LUCIDO F) che si apriva dall'interno per mezzo di un pedale che tirava una cordicella, e appena fuori della gabbia un piattino con del pesce, facilmente visibile ed annusabile dall'animale. Il problema per l'animale era immediato, come uscire e mangiare? Per misurare l'apprendimento in questa situazione Thorndike misurava il tempo impiegato dall'animale per uscire dalla gabbia in prove successive. Infatti se l'animale apprendeva il compito, il tempo da lui impegnato per uscire sarebbe diminuito. Si è visto che il gatto all’inizio impiegava molto tempo ad uscire dalla gabbia, ma che questo tempo diminuiva nelle prove successive (LUCIDO F), ed alla fine il gatto usciva molto rapidamente. La curva graduale che veniva osservata indusse Thorndike a parlare di apprendimento per prove ed errori. Il motivo per cui nelle prime prove il gatto ci metteva molto tempo è che all’inizio egli dà risposte a caso ma è proprio muovendosi a caso che, ad un certo punto, il gatto abbassa il pedale e apre la gabbia trovando così la soluzione. Thorndike ripeté questa prova varie volte con ogni gatto, e trovò che all’inizio gli animali compivano molti movimenti inutili, prima di trovare, casualmente quello giusto per liberarsi; ma con l’aumentare del numero di prove già sostenute, gradualmente i movimenti inutili venivano eliminati e i gatti erano in grado di uscire dalla gabbia sempre più in fretta. Dopo circa 20-30 prove, quasi tutti erano in grado di liberarsi e di lanciarsi sul cibo praticamente subito dopo essere stati rinchiusi nella gabbia. Ciò che succede, secondo Thorndike, è che la risposta rinforzata (dall’apertura ella gabbia e quindi dal cibo) di abbassare il pedale, aumenta via via la sua forza mentre gli altri comportamenti, non essendo rinforzati, tendono a diminuire ed il gatto darà subito la risposta corretta. Da qui deriva la legge dell’effetto (LUCIDO G) che afferma che “le risposte seguite nel tempo da un effetto positivo tendono ad essere ripetute dall’animale quando questi si trova nella medesima situazione, mentre le risposte che producono effetti spiacevoli hanno meno probabilità, nella stessa situazione, di essere prodotte di nuovo”. L’animale non sembra risolvere il problema mediante una improvvisa comprensione, ma apprende gradualmente. Il comportamento dell'animale è tale che la "conseguenza" della risposta influenzerà in qualche modo la probabilità di emissione della risposta stessa in una situazione analoga. Tutto questo ha ovviamente una funzione adattiva. E' importante osservare che la legge dell'effetto non si riferisce alla conseguenza logica della risposta, ma alle conseguenze pratiche, cioè a ciò che succede immediatamente dopo aver dato la risposta stessa (al gatto non importa “come” avviene l’apertura della porta, importa solo che si apra). Lo scienziato che si occupò maggiormente del condizionamento operante e del rinforzo fu B.F. Skinner (1938) che inventò una gabbia particolare, simile a quella di Thorndike, oggi nota con il nome di gabbia di Skinner. Nella terminologia di Skinner rinforzo indica qualsiasi processo che aumenta la probabilità che venga prodotta una certa risposta. Il rinforzo può essere positivo o negativo. Si parla di rinforzo positivo - il tipo di rinforzo di cui abbiamo trattato finora - quando l’arrivo di un certo stimolo, in seguito a una risposta, fa aumentare le probabilità che la stessa risposta si ripeta in futuro. Sono rinforzi positivi il cibo, l’acqua, il denaro, le parole di lode e qualsiasi altra cosa che un organismo si sforzi attivamente di ottenere. Si parla invece di rinforzo negativo quando l’abolizione dello stimolo che consegue a una risposta rende questa stessa risposta più probabile nel futuro. Sono rinforzi negativi le scariche elettriche, i rumori forti, le compagnie sgradevoli, i rimproveri e qualsiasi altra cosa che un organismo si sforza attivamente di evitare. Si noti che il termine “positivo” e “negativo” qui non stanno a indicare un cambiamento di direzione nella frequenza della risposta (che infatti aumenta in entrambi i casi), ma indicano piuttosto che la risposta è tale da far arrivare (positivo) o da sopprimere (negativo) un particolare stimolo. Una risposta operante rinforzata dall’abolizione di un rinforzo negativo è definita risposta di fuga. L’apprendimento di questa risposta viene spesso studiato nei ratti e in altri animali per mezzo di un apparecchio a due scomparti, detto cassetta a navetta. Il ratto che riceve una scarica elettrica all’interno di uno dei comparti ha la possibilità di fuggire, correndo nell’altro. La maggioranza dei ratti apprende questa risposta molto rapidamente. Se in seguito le condizioni sperimentali vengono modificate, in modo che compaia qualche segnale, ad esempio una luce, prima che venga somministrata la scarica, l’animale apprende a correre nell’altro scomparto non appena vede il segnale luminoso, quindi prima di ricevere la scarica. In questo caso si parla di risposta di evitamento, perché consente all’animale di evitare del tutto lo shock. L’apprendimento dell’evitamento è importante nella vita quotidiana perché non solo ci insegna a fuggire dalle situazioni spiacevoli o che mettono in pericolo la nostra vita, ma ci insegna anche ad evitarle in futuro. Secondo la definizione di Skinner, la punizione è l’opposto del rinforzo, ovvero è il processo tramite il quale le conseguenze di una risposta rendono meno probabile che la risposta si ripeta in futuro. Come avviene per il rinforzo, anche la punizione può essere positiva o negativa. Nella punizione positiva, l’arrivo di uno stimolo, come una scarica elettrica per un ratto o un rimprovero per una persona, fa diminuire le probabilità che in futuro ricompaia la stessa risposta. Nella punizione negativa, l’abolizione di uno stimolo, per esempio sottrarre cibo a un ratto affamato o denaro a una persona, fa diminuire la probabilità che quella risposta si verifichi di nuovo in futuro. Entrambi i tipi di punizioni si distinguono dall’estinzione, che, come abbiamo già visto, consiste nella graduale attenuazione di una risposta, in precedenza rinforzata, quando questa cessa di produrre un qualsiasi effetto. Il LUCIDO H ci aiuta a capire meglio la distinzione tra punizione positiva e negativa e a cogliere la relazione con il rinforzo positivo o negativo. Un fenomeno che emerge da questo tipo di condizionamento è il modellamento. Per capire il modellamento immaginiamo di voler insegnare ad un cane a rotolarsi su se stesso. La legge del condizionamento operante ci dice che se noi rinforziamo il cane ogni volta che questo si rotola, questo imparerà a rotolarsi. Il problema è che, anche se siamo pronti a dargli il rinforzo, il cane difficilmente si rotolerà per primo senza motivo e se il comportamento desiderato non si presenta non potrà nemmeno essere rinforzato. Il trucco consiste nell'effettuare delle approssimazioni successive al comportamento desiderato (sedersi, distendersi, mettersi su un fianco e infine rotolarsi). L'arte del modellamento consiste nell'estendere gradualmente la risposta richiesta partendo da semplici comportamenti iniziali per poi arrivare alla risposta complessa finale. Questa è una chiara dimostrazione delle possibilità del condizionamento operante nella modificazione del comportamento. La tecnica del modellamento viene utilizzata nei circhi per far compiere agli animali quegli esercizi che tanto ci affascinano. Non è necessario che il condizionamento operante avvenga con rinforzi costanti (cioè venga rinforzata la risposta ogni volta che veniva emessa), ma il rinforzo può anche essere intermittente, cioè si possono rinforzare non tutte le risposte, ma solo alcune, e questo può avvenire sia ad intervalli regolari che irregolari. Il rinforzo ad intervalli irregolari porta ad un apprendimento più lento, ma anche ad un’estinzione più lenta; cioè si fa più fatica ad imparare quella data risposta, ma ci si mette anche più tempo a dimenticarla. Questo effetto del rinforzo parziale è stato osservato anche nel condizionamento classico. Il fatto che il rinforzo parziale sia potente e molto diffuso è noto, ma spesso nelle situazioni pratiche viene ignorato. Molte volte succede, per esempio, che proprio il tentativo di eliminare un comportamento indesiderato è all'origine di un rinforzo parziale. Immaginiamo una bambina che abbia l'abitudine di piangere in continuazione di notte. Supponiamo che i genitori si rendano conto di averla involontariamente rinforzata prendendola in braccio ogni volta che piangeva. Per eliminare questa cattiva abitudine i genitori possono decidere di non rinforzarla più, cioè di non prenderla più in braccio quando piange. Però durante le notti successive ogni tanto uno dei due genitori si alza per andare a vedere come sta la bambina e la prende in braccio, questa inizia così ad avere esperienza di un rinforzo parziale e l'abitudine sarà ancora più difficile da eliminare. Molti dei fenomeni che si osservano nel condizionamento operante sono molto simili a quelli del condizionamento classico. Ad esempio l'acquisizione, l'estinzione e il recupero spontaneo avvengono nello stesso modo, come anche la generalizzazione e la discriminazione possono essere facilmente evidenziati nel condizionamento operante. L'acquisizione della risposta condizionata dipende dall'intensità del rinforzo così come nel condizionamento classico dipende dall'intensità dello stimolo incondizionato e come nel condizionamento classico vi è una procedura di rinforzo. C'è inoltre un determinato intervallo critico che influenza in modo notevole il condizionamento operante. Per massimizzare l'apprendimento è necessario fornire il rinforzo immediatamente dopo la risposta. Con il termine intervallo di rinforzo si fa riferimento al tempo che passa fra l'emissione della risposta e il rinforzo. Sebbene questa variabile influenzi la prestazione anche dell'uomo, ciò avviene in modo minore rispetto alle specie meno evolute perché il linguaggio e il pensiero permettono di compensare i lunghi intervalli di rinforzo. Come nel condizionamento classico poteva avvenire un condizionamento di ordine superiore, così nel condizionamento operante vi è il fenomeno del rinforzo secondario. Noi possiamo, in certe condizioni, trasformare uno stimolo neutro in un rinforzatore di risposte operanti. Il suono del campanello non è generalmente un rinforzo per un ratto. Quando cioè la sola conseguenza dell'abbassare la leva è il suono si osserva ben poco apprendimento. Ma i risultati sono ben diversi se, prima di essere inserito nella gabbia, l'animale ha sperimentato una serie di accoppiamenti, tipo condizionamento classico, di suono - cibo (in questo caso l'animale non doveva emettere alcuna risposta per ricevere il cibo). Se poi l'animale viene messo nella gabbia e alla pressione della leva viene presentato un suono, l'animale continuerà a schiacciare la leva pur non ricevendo di fatto alcun rinforzo. Il suono è, in questo caso, diventato un rinforzo secondario in seguito al suo accoppiamento con il cibo. Un rinforzo secondario può essere usato, nel condizionamento operante, nel medesimo modo di un rinforzo primario, ma la sua efficacia dipende dall'apprendimento precedente. Ci sono alcuni teorici dell'apprendimento che sono convinti che ogni comportamento sia il risultato di una lunga catena di rinforzi secondari. Possiamo, ad esempio, considerare il denaro come un esempio di stimolo neutro che, nel passato, è stato ripetutamente accoppiato a rinforzi primari. L'efficacia del denaro come rinforzo è chiara infatti la gente continua a lavorare per il denaro in se stesso e non per la soddisfazione di bisogni immediati. Oltre al suo valore sul piano concettuale per spiegare il comportamento quotidiano, il condizionamento operante trova anche applicazioni cliniche importanti. Nella terapia del comportamento gli psicologi si servono di questo processo per aiutare i loro pazienti a modificare i propri comportamenti nel modo desiderato. Apprendimento concettuale In parte in polemica con l'eccessiva attenzione rivolta dagli studiosi a quei tipi di apprendimento che si risolvono in un progresso graduale per tentativi ed errori, Wolfgang Kohler (1929) condusse alcuni esperimenti sugli scimpanzé. Vide uno scimpanzé, che mentre stava lavorando alla soluzione di un problema, sembrò improvvisamente afferrarne i rapporti intimi, in una forma di "insight". Per "insight" si intende la soluzione di un problema mediante la percezione delle relazioni essenziali. Non sembrava che tale scimpanzé avesse acquisito la risposta giusta ed avesse eliminato quelle errate mediante un processo graduale; in altre parole, il suo metodo non sembrava consistere di semplici tentativi ed errori. Allora egli fece il seguente esperimento: Sultan, il più intelligente tra i suoi scimpanzé, è accoccolato vicino alle sbarre, ma non riesce a raggiungere il frutto posto al di fuori della gabbia mediante l'unico bastoncino di cui dispone, che è troppo corto. Un bastone più lungo viene posto oltre le sbarre, circa due metri al lato dell'obiettivo, parallelamente alle sbarre: non si può afferrare con le mani, ma può essere spinto più vicino per mezzo del bastoncino più piccolo. Sultan cerca di raggiungere il frutto col bastone più piccolo, ma non ci riesce. A questo punto l'animale si guarda attorno (nel corso di queste prove vi sono sempre delle lunghe pause durante le quali l'animale scruta tutta l'area visibile). Improvvisamente egli afferra ancora una volta il bastone piccolo, si avvicina alle sbarre proprio di fronte al bastone più lungo, se lo trascina verso la gabbia usando il bastoncino più corto, lo prende e con quello in mano si sposta di fronte all'obiettivo (il frutto) e così se lo procura. Dal momento in cui i suoi occhi si sono posati sul bastone lungo, le sue azioni costituiscono un insieme consecutivo, senza soluzioni di continuità e, per quanto l'aggancio del bastone più lungo per mezzo di quello più corto sia un'azione che potrebbe essere completa e distinta in se stessa, l'osservazione dimostra che essa si svolge improvvisamente, dopo un intervallo di esitazione e di dubbio - guardarsi intorno - che ha senz'altro un rapporto con l'obiettivo finale, e viene immediatamente assorbita dall'azione costituita dal raggiungimento della meta. Un certo grado di insight è tanto comune nell'apprendimento umano che noi lo diamo di solito per scontato. Noi sappiamo inserire la pila in una torcia elettrica, caricare la penna stilografica, con vari gradi di comprensione per quello che stiamo facendo. A volte l'insight si presenta drammaticamente (Eureka!): la soluzione di un problema appare improvvisamente chiara, come se una luce si fosse accesa nel buio. Apprendimento per osservazione. Quando si analizzano i diversi apprendimenti nella vita quotidiana degli esseri umani, non si può fare a meno di notare che gran parte di quanto le persone apprendono deriva dall’osservazione degli altri. Immaginate che cosa sarebbe la nostra vita se l’apprendimento di certe capacità, come guidare un’auto o eseguire un intervento chirurgico, avvenisse mediante un processo per tentativi ed errori. Per fortuna le persone acquisiscono, almeno in parte, queste capacità tramite l’attenta osservazione e l’imitazione del comportamento degli altri che già le padroneggiano. Come fenomeno su vasta scala, l’apprendimento basato sull’osservazione di ciò che fanno gli altri sembra essere un prerequisito essenziale allo sviluppo della cultura umana. Tutte le capacità pratiche e i rituali che una generazione acquisisce sono trasmessi a quella successiva non tanto attraverso l’espresso atteggiamento che i grandi indirizzano ai più piccoli (benché anche questo sia un aspetto di questo processo), ma piuttosto tramite l’osservazione attenta da parte dei più giovani, che in questo modo apprendono a comportarsi come i più grandi. L’apprendimento che ha luogo tramite l’osservazione degli altri prende il nome di apprendimento per osservazione. Nell’uomo il fenomeno dell’apprendimento per osservazione è particolarmente evidente, ma è possibile ritrovarlo, in misura maggiore o minore, anche in altri animali. È noto che le grandi scimmie antropomorfe “si scimmiottano” a vicenda. Come molti esperimenti hanno dimostrato, i gattini che hanno visto la madre premere la leva per ottenere il cibo imparano a compiere questo gesto più in fretta di quelli che non hanno avuto questa possibilità, e che persino i polpi possono apprendere una risposta operante osservando un altro polpo, già addestrato, mentre la effettua. Alcuni ricercatori avanzano l’ipotesi che il meccanismo dell’apprendimento per osservazione in queste specie non sia esattamente uguale a quello umano, ma nessuno mette in discussione il fatto che gli animali imparano osservando altri membri della loro specie. Albert Bandura (1977) - lo psicologo che, negli anni, ha eseguito il maggior numero di ricerche sull’apprendimento per osservazione nella specie umana - ha sottolineato che le persone osservano gli altri non soltanto per acquisire specifiche capacità motorie (come guidare l’auto o eseguire interventi chirurgici), ma anche per apprendere modalità, o stili, di comportamento più generali. Quando ci inseriamo in un ambiente nuovo, probabilmente ci guardiamo intorno per vedere che cosa fanno gli altri, prima di produrci in atti comportamentali. E, probabilmente quando iniziamo ad agire riproduciamo quasi esattamente alcune delle azioni che abbiamo osservato, per esempio i gesti meccanici necessari per versarci con disinvoltura una tazza di caffè dallo strano contenitore che si trova nella stanza. Ma (a meno che non siamo dei clown) non molte delle nostre azioni si limiteranno alla pura imitazione degli altri; ciò che faremo sarà piuttosto, adottare uno stile generale di comportamento, adeguato a ciò che pare essere accettabile in quel contesto. Bandura è riuscito a dimostrare entrambe le funzioni svolte dall’apprendimento per osservazione - cioè l’acquisizione di specifiche capacità motorie e l’apprendimento di uno stile generale di comportamento - mediante esperimenti con bambini che frequentavano l’asilo. In uno di questi esperimenti un gruppo di bambini ebbe modo di osservare un adulto che si comportava in maniera molto aggressiva con un pupazzo di gomma. Queste espressioni di aggressività consistevano sia in insulti verbali sia in atti fisici, come picchiare il pupazzo con un bastone di legno, gettarlo a terra, prenderlo a calci e bombardarlo di palle. A un altro gruppo di bambini fu invece fatto vedere un adulto che si comportava col pupazzo in maniera gentile e a un terzo gruppo non fu presentato alcun modello. In seguito, quando ad ogni bambino fu data la possibilità di fare ciò che voleva in una stanza piena di giocattoli, tra cui anche il grande pupazzo di gomma, si osservò che rispetto ai bambini del terzo gruppo, che rappresentavano il gruppo di controllo, i bambini del primo gruppo esibivano un comportamento più aggressivo e quelli del secondo un comportamento più gentile. I soggetti del primo gruppo non solo imitavano molte delle azioni aggressive che avevano osservato compiere dal modello, ma di propria iniziativa ne inventarono parecchie altre, rivolte sia contro il pupazzo sia contro gli altri giocattoli. Questi bambini avevano quindi appreso per osservazione non soltanto modalità specifiche di comportamento aggressivo, ma anche il messaggio più generale che in quella particolare stanza dei giochi era permesso comportarsi in maniera aggressiva. La terapia del comportamento Per terapia del comportamento s’intende l’approccio terapeutico emerso dalle ricerche condotte dai primi teorici del comportamentismo, Ivan Pavlov, John B. Watson e B.F. Skinner, i quali, come abbiamo visto, formularono i principi del condizionamento classico e di quello operante in termini di relazione stimolo-risposta. In teoria, e seguendo l’impostazione dei loro fondatori, i terapeuti comportamentisti sarebbero portati ad ignorare i fenomeni psichici, come i pensieri e le emozioni, per concentrarsi esclusivamente sulle relazioni dirette fra aspetti osservabili dell’ambiente (stimoli) e comportamenti osservabili (risposte), ma in pratica non lo fanno. Dopo tutto, i pazienti che ricorrono a una terapia del comportamento o ad una qualsiasi altra forma di psicoterapia lamentano problemi che coinvolgono fenomeni psichici, come paure, pensieri ossessivi, ansia e depressione che non possono venire ignorati. Per inquadrare questi problemi nei modelli teorici del comportamentisti, i terapeuti aderenti a questo indirizzo erano soliti definire gli eventi psichici risposte coperte (risposte nascoste), assumendo che seguissero le stesse leggi del condizionamento valide per le risposte manifeste, La terapia comportamentista pone l’accento sul “problema” più che sul “paziente” (che chiamano “cliente”), e si propone essenzialmente lo scopo di aiutare il paziente a superare alcuni problemi specifici, anziché di trattare la persona quale “entità globale”. I problemi dei clienti sono abitudini apprese, e parte dal presupposto che ciò che è stato imparato attraverso un apprendimento può anche essere disimparato. Inoltre prevede un costante monitoraggio del comportamento dei pazienti in modo da poter cambiare la tecnica di trattamento se in tempi molto brevi non si registra nessuna modificazione del comportamento. Vediamo adesso alcune delle tecniche più comuni usate in questo tipo di terapia. L’esposizione come tecnica per trattare le paure indesiderate La terapia del comportamento si è rilevata particolarmente efficace per trattare le fobie semplici, ovvero quelle caratterizzate dalla paura di situazioni o oggetti ben definiti, come la paura delle altezze o di un particolare animale. Nella visione comportamentista, la paura è una risposta di tipo riflesso che può essere innescata da stimoli sia pericolosi che non pericolosi, in conseguenza di un processo di condizionamento classico. Si definisce stimolo incondizionato di una risposta di paura uno stimolo che evoca tale risposta anche se mai sperimentato prima dal soggetto, e stimolo condizionato quello che provoca la paura perché, in un’esperienza passata, si è presentato abbinato ad un evento che la scatenava. La classificazione di certe paure, ad esempio quella dei serpenti, come condizionante o incondizionante può essere controversa, ma ciò non ha alcuna importanza ai fini pratici, dato che in un caso o nell’altro il trattamento terapeutico è lo stesso. Una caratteristica della paura riflessa, condizionata o incondizionata che sia, è che la sua manifestazione declina e gradualmente scompare se lo stimolo che la evoca viene presentato più volte, o per un periodo di tempo prolungato, in un contesto in cui la persona non può ricevere alcun danno. Nel caso di una risposta riflessa incondizionata - come il sobbalzare dallo spavento a un rumore improvviso - il declino della risposta viene definito assuefazione. Nel caso di una paura riflessa condizionata il declino, che si verifica quando lo stimolo condizionato è presentato ripetutamente non accompagnato da uno stimolo incondizionato, è detto estinzione. Ad esempio, se una persona ha paura dei cani perché una volta è stata morsa da un cane, allora la sua esposizione prolungata ai cani (stimoli condizionati), senza ricevere un morso (lo stimolo incondizionato), porterà alla scomparsa della paura. Si definisce tecnica di esposizione qualsiasi metodo di cura che prevede di trattare una paura indesiderata, o fobia, tramite l’esposizione in un contesto sicuro allo stimolo che la provoca. La tecnica di esposizione più semplice e diretta è detta flooding (inondazione), e consiste nello “inondare” il soggetto con lo stimolo che scatena la sua paura, fino a quando la risposta fobica non declina e scompare. Per esempio, il trattamento di una persona che ha paura dei cani dovrebbe consistere nel farla restare dentro una stanza assieme ad alcuni cani finché la paura non scompare. A volte il flooding può avvenire solo a livello di immaginazione, e non tramite l’esposizione reale allo stimolo che evoca la paura. Ma non sempre può essere possibile o desiderabile applicare la tecnica del flooding perché alcuni pazienti rifiutano di esporsi, anche solo con l’immaginazione, a una situazione che scatena in loro la paura, mentre altri vengono assaliti dal panico e devono abbandonare il setting terapeutico, o smettere di immaginare la scena. Provare una sensazione di panico può essere controproducente e persino intensificare la paura originale. In questi casi si può ricorrere ad una procedura alternativa, descritta molti anni fa da John B. Watson (1924), detta controcondizionamento. Questa tecnica consiste nell’addestrare la persona, tramite un processo di condizionamento classico, a reagire allo stimolo fobico con una risposta che può essere di piacere, rilassamento o rabbia - incompatibile con la paura. Per illustrare questa procedura terapeutica, Watson descrisse la dimostrazione condotta da una sua collaboratrice, M. Cover Jones, su Peter, un bambino di 3 anni. Peter era condizionato ad aver paura dei conigli, e la Jones si propose di controcondizionarlo a reagire alla vista di un coniglio con piacere, anziché con paura. Dato che per Peter era un gran piacere mangiare quotidianamente una merenda a base di latte e biscotti, la Jones decise di associare al cibo preferito la presentazione di un coniglio vivo, in modo che l'animale diventasse lo stimolo condizionato di una risposta di piacere. La procedura più diretta sarebbe stata di mettere il coniglio proprio di fronte a Peter nel momento stesso in cui gli veniva servita la merenda, ma molto probabilmente l'animale sarebbe stato uno stimolo più forte del cibo e Peter, anziché perdere la paura dei conigli avrebbe potuto sviluppare una spiacevole fobia per il latte e i biscotti. Sulla base di queste considerazioni, la Jones decise di adottare un approccio più cauto. Il primo giorno la ricercatrice mise il coniglio, chiuso in una gabbia, all'altro lato della lunga stanza in cui Peter consumava la merenda. Il bambino vide il coniglio, ma ciò non turbò per nulla il suo piacere nel gustare latte e biscotti. La Jones iniziò allora a spostare la gabbia, portandola ogni giorno più vicino al bambino, finché arrivò addirittura a posargliela in grembo senza che Peter desse alcun segno di paura. Schematizzando quanto detto finora, prima della procedura, il bambino ha paura del coniglio; durante la fase di condizionamento, il coniglio funge da stimolo condizionato e la merenda da stimolo incondizionato per evocare una risposta di piacere, incompatibile con la paura; dopo il condizionamento il bambino reagisce alla vista del coniglio con una risposta di piacere, anziché di paura. Delle varie tecniche derivate dal controcondizionamento, quella oggi più usata è la desensibilizzazione sistematica, un metodo ideato da Joseph Wolpe (1958). Dapprima si addestra il paziente al rilassamento muscolare, finché è in grado di rilassarsi con facilità in risposta ad un segnale del terapeuta. Una volta raggiunto questo stadio, il terapeuta chiede al cliente d'immaginare una scena che generalmente gli provoca una leggera ansia e quindi gli dà il segnale per il rilassamento. Quando la persona padroneggia bene la tecnica, il terapeuta l'induce a immaginare situazioni sempre più paurose, abbinando ogni volta il rilassamento alla scena immaginata. Per esempio una donna con la paura fobica delle altezze potrebbe essere indotta a rilassarsi mentre immagina di affacciarsi alla finestra di un secondo piano, poi di un terzo piano e così via, finché è in grado di mantenere lo stato di rilassamento anche quando immagina di guardare dall'ultimo piano di un grattacielo. Una recente innovazione tecnologica applicata nel trattamento delle paure ingiustificate è lo strumento della realtà virtuale (RV). La RV integra grafica computerizzata in tempo reale, dispositivi di rilevamento corporeo, monitor di visualizzazione e altri dispositivi di input sensoriale allo scopo di immergere il soggetto in un ambiente virtuale (AV) generato dal computer. Di solito i partecipanti indossano un apposito casco con inserito un display provvisto di un sensore elettromagnetico. All’utente viene presentata una visione generata dal computer di un mondo virtuale che cambia in modo naturale con i movimenti della testa e del corpo. Per alcuni ambienti virtuali gli utenti possono anche tenere in mano un secondo sensore di posizione che permette loro di manipolare una mano artificiale con la quale interagire con l’ambiente, ad esempio premendo il pulsante di un ascensore per salire. Queste complesse apparecchiature computerizzate permettono al terapeuta di esporre il paziente fobico, senza uscire dallo studio di consultazione, a una vivida rappresentazione di ciò che egli teme nella vita reale. Questo procedimento fa risparmiare tempo ed è più controllabile rispetto, ad esempio, al condurre un soggetto acrofobico in cima a un edificio incoraggiandolo a restare lì e a tentare contemporaneamente di rilassarsi per controllare o controcondizionare la paura. Ugualmente gli apparecchi di realtà virtuale possono produrre immagini che sono più realistiche di quelle che il paziente potrebbe immaginare, e il loro utilizzo sarebbe molto interessante per i soggetti fobici incapaci di generare immagini realistiche. Vi sono abbondanti dimostrazioni a riprova che la RV può generare esperienze molto realistiche. Il primo resoconto pubblicato di un caso (Rothbaum et al., 1995) e il primo studio controllato del successo ottenuto utilizzando la RV nel trattamento di un disturbo d’ansia (acrofobia) riguardavano un intervento che gli autori hanno definito “esposizione graduale alla realtà virtuale”. La terapia consisteva in 5 sedute di durata inferiore all’ora per un periodo di tre settimane. Le esposizioni richiedevano che il soggetto fosse incoraggiato a guardare fuori e verso il basso di ciascuno dei diversi piani virtuali di un ascensore di vetro in salita. Il monitor di RV mostrava scene di un ascensore di un hotel di quarantanove piani che era già stato utilizzato in vivo per valutare la fobia pre-trattamento e che successivamente venne impiegato anche nel post-trattamento. Il disagio e l’evitamento dei luoghi elevati, così come risultavano dai resoconti soggettivi, diminuivano notevolmente in seguito al trattamento con RV. Un successo analogo è stato riferito dallo stesso gruppo di ricerca per il caso di una donna cui la fobia del volo impediva di viaggiare in aereo. Si può prevedere un aumento del ricorso alla RV in psicoterapia, sebbene la sua superiorità rispetto alla desensibilizzazione standard basata su situazioni immaginate debba essere ancora valutata. Tra l’altro la tecnologia attuale della RV non permette un’esposizione a situazioni più complesse come l’interagire con altre persone. Si noti la somiglianza tra la desensibilizzazione sistematica e il controcondizionamento seguito dalla Jones. La scena capace di evocare la paura, se abbinata al segnale di rilassarsi, probabilmente diventa uno stimolo condizionato per il rilassamento, uno stato incompatibile con la paura. Come la Jones all'inizio collocò la gabbia del coniglio molto lontano da Peter per poi avvicinarla sempre di più, la procedura della desensibilizzazione sistematica prende avvio dall'immaginare una scena capace di evocare solo una paura leggera, per poi passare a scene via via più spaventose. Una delle premesse su cui si fonda questa procedura è che l'abilità del paziente a rilassarsi, mentre immagina la situazione che prima evocava la paura, si generalizzi, e che il soggetto acquisti così la capacità di rilassarsi anche in presenza della situazione reale. Da studi di follow-up è emerso che la desensibilizzazione sistematica (o le sue varianti) può essere molto efficace nel trattamento delle fobie semplici, e spesso permette di ottenere in un'unica seduta il risultato voluto. L'efficacia di queste due tecniche sembra non dipendere principalmente dal fatto di insegnare una nuova risposta (come il piacere o il rilassamento), ma dall'indurre un paziente riluttante a sopportare, senza cadere in preda al panico, la presenza di uno stimolo che gli fa paura, fino a che non si verificano l'assuefazione o l'estinzione. E' interessante considerare, in questo contesto, il trattamento psicoanalitico di alcune condizioni che implicano un sentimento di paura. Spesso i sintomi provocati da tali sentimenti scompaiono quando l'episodio che li ha provocati riaffiora durante la seduta di psicoterapia. La ragione per cui i sintomi scompaiono è la stessa da cui dipende l'efficacia della desensibilizzazione sistematica. Il paziente rivede con vivide immagini fantastiche e rivive a livello emotivo, ma nell'ambiente sicuro del setting analitico, gli stimoli associati all'evento traumatico originale; ciò potrebbe consentire l'estinzione della risposta condizionata di paura a quegli stimoli e portare, di conseguenza, alla scomparsa dei sintomi. La tecnica del condizionamento avversivo (negativo) per eliminare cattive abitudini Secondo la teoria comportamentista, gran parte di ciò che noi facciamo può essere classificato come un'abitudine. Un'abitudine è un'azione appresa, ormai radicata al punto che la persona la compie senza esserne consapevole, o è addirittura costretta a compierla in modo compulsivo. Le abitudini hanno molto spesso valore adattivo, in quanto ci consentono di eseguire automaticamente azioni che ci sono utili nella vita di tutti i giorni. Per esempio, schiacciare con rapidità il pedale del freno in risposta a un semaforo che diventa rosso è un'abitudine che probabilmente ci salva ogni giorno la vita. Ma alcune abitudini - come il vizio di bere, la spinta compulsiva a giocare d'azzardo o a lavarsi di continuo le mani - sono invece nocive. Indipendentemente da quale ne sia l'origine, questi comportamenti persistono perché procurano una sensazione immediata di piacere o di sollievo da un disagio. Chi è dipendente dall'alcol, quando beve prova piacere oppure prova sollievo se è in preda ai sintomi dell'astinenza; chi sente una spinta compulsiva a giocare d'azzardo prova un piacevole brivido ogni volta che fa una puntata; chi ha un bisogno ossessivo-compulsivo di lavarsi le mani, ogni volta che lo fa allevia la paura dei germi. Ne consegue che questi comportamenti si possono interpretare, almeno in parte, in termini di condizionamento operante, ovvero come forme di quel fenomeno per cui le risposte comportamentali che sono seguite da un rinforzo, positivo (un piacere) o negativo (l'eliminazione di una sensazione spiacevole), hanno maggiori probabilità di essere prodotte nuovamente in futuro. Come appare dall'analisi del comportamento, l'ostacolo fondamentale a lasciar cadere le cattive abitudini risiede nel fatto che le risposte operanti sono controllate più dai loro effetti immediati che da quelli a lungo termine. Anche se una persona sa che bere molto alcol causa col tempo danni irreparabili al fegato e al cervello, che giocare d'azzardo è in definitiva una scelta perdente e che lavarsi ripetutamente le mani è una perdita di tempo e può rovinare la pelle, questi comportamenti disadattivi persistono ugualmente, perché la consapevolezza dei danni che arrecano a lungo termine ha meno potenza, in relazione al loro controllo, del piacere o del sollievo immediati che essi procurano. Con la tecnica del condizionamento avversivo ci si propone proprio di modificare in qualche modo le condizioni di rinforzo per eliminare queste abitudini dannose la persona IL condizionamento avversivo consiste nel somministrare uno stimolo avversivo (doloroso o spiacevole) subito dopo che la persona ha prodotto la risposta abituale indesiderata o subito dopo che ha percepito indizi che, di norma, la porterebbero a produrre tale risposta. Così, il trattamento avversivo di una persona spinta da una compulsione a giocare d'azzardo potrebbe consistere nel somministrare scosse elettriche alle dita ogni volta che allunga la mano per posare la puntata su un finto tavolo da gioco; quello di una persona dipendente dall'alcol, invece potrebbe prevedere la somministrazione di un farmaco che provoca la nausea ogni volta che beve alcolici. Questo trattamento può essere interpretato sia come un processo di condizionamento operante che di condizionamento classico. In termini di condizionamento operante, lo stimolo avversivo è una punizione per aver prodotto un comportamento indesiderato o per aver anche solo iniziato a produrlo; in termini di condizionamento classico, lo stimolo avversivo è uno stimolo incondizionato per una risposta di evitamento, che diventa condizionato in presenza di indizi - quali la vista di un tavolo da gioco o l'odore dell'alcol - in precedenza attraenti. Il condizionamento avversivo ha sempre trovato una forte opposizione, sia per i problemi etici connessi col procurare deliberatamente dolore a una persona (anche se consenziente) sia per i suoi risultati contrastanti. Spesso le avversioni apprese non si generalizzano a condizioni diverse da quelle in cui avviene l'apprendimento; questa limitazione potrebbe derivare dal fatto che il condizionamento dipende, molto più di quanto pensassero i primi comportamentisti, dai processi cognitivi cioè dalla consapevolezza del soggetto circa le condizioni reali, in atto. Quindi, un paziente può manifestare un'avversione appresa solo finché sa di essere collegato ad un generatore di scariche elettriche o di aver assunto un farmaco che provoca malessere. Uno studio, suffragato da un'accurata documentazione che ha messo bene in evidenza questo punto, è una ricerca condotta sugli effetti della antabuse, un farmaco usato nel trattamento della dipendenza dall'alcol. L'antabuse reagisce chimicamente con l'alcol all'interno dell'organismo, provocando vampate improvvise, senso di vertigine, nausea e mal di testa immediatamente dopo l'ingestione di una bevanda alcolica. Quando il trattamento con lo antabuse era ancora una pratica introdotta di recente, era convinzione dei terapeuti comportamentisti che le persone che bevevano alcolici dopo aver assunto il farmaco avrebbero sviluppato un'avversione condizionata nei confronti dell'alcol, e che tale avversione sarebbe durata anche al termine del trattamento farmacologico. Ma, sfortunatamente, i fatti hanno dimostrato che i soggetti affetti da una più lunga dipendenza dall'alcol evitano di bere solo finché l'antabuse è in circolo nel loro organismo, e tornano rapidamente alla vecchia abitudine non appena il trattamento farmacologico viene interrotto. Oggi l'antabuse viene riconosciuto efficace nella prima fase del trattamento dell'alcolismo, perché aiuta il paziente a non bere mentre inizia altri tipi di terapia. Inoltre l'uso del farmaco per trattamenti prolungati nel tempo è sconsigliato anche perché a lungo termine, induce nel soggetto malesseri anche quando è sobrio. La psicoanalisi e le altre terapie psicodinamiche Il termine psicoanalisi si riferisce in modo specifico all'approccio terapeutico sviluppato da Sigmund Freud, mentre con terapia psicodinamica s'intende qualsiasi altro metodo di cura fondato sul presupposto teorico che i problemi psicologici siano la manifestazione di conflitti interni alla psiche, e che la chiave del loro superamento stia nel portare il paziente a prendere coscienza di tali conflitti. La psicoanalisi freudiana Freud in base ai suoi studi precedenti arrivò a stabilire che: (a) i ricordi consci possono diventare inconsci; (b) i ricordi inconsci carichi di forti significati emotivi possono divenire la base di sintomi nevrotici; (c) questi sintomi possono scomparire se il paziente giunge ad essere consapevole dei ricordi che sono all'origine di essi e riprova consciamente le emozioni ad essi associate. Queste idee costituiscono i principi guida a cui Freud si attenne per iniziare a lavorare sui pazienti nevrotici, e le basi teoriche su cui costruì la teoria e la pratica terapeutica della psicoanalisi. Le principali caratteristiche della psicoanalisi in quanto metodo di cura sono: - L'importanza delle esperienze sessuali infantili. Secondo la teoria freudiana, tutte le nevrosi, cioè i disturbi della sfera emotiva, derivano dall'interazione tra due diverse categorie di esperienze. La prima, e più fondamentale, di queste categorie è rappresentata dalle esperienze predisponenti, che si verificano nei primi 5 o 6 anni di vita e sono connesse ai desideri e ai conflitti sessuali infantili. La seconda categoria è rappresentata dalle esperienze scatenanti, che si verificano più tardivamente e portano a un crollo emotivo immediato. - Le associazioni libere e i sogni come indizi dei contenuti dell'inconscio. Il nome analisi fu scelto da Freud in seguito all'osservazione che di rado i pazienti riescono a recuperare i ricordi inconsci semplicemente parlando; lo psicoanalista è quindi costretto a inferirne i materiali inconsci da indizi presenti nelle loro parole e nel comportamento. Il metodo principale di cui Freud si avvaleva per ottenere tali indizi era l'associazione libera, una tecnica in cui il paziente, stando disteso su un divano in uno stato di completo rilassamento, riferiva senza inibizioni tutto ciò che gli veniva in mente riguardo ai suoi sintomi o alle sue idee. Freud inoltre chiedeva ai pazienti di descrivergli ciò che sognavano . Egli interpretava le associazioni e le idee apparentemente illogiche che raccoglieva con questi metodi come espressioni simboliche dei ricordi e dei desideri inconsci che erano alla base dei problemi psicologici del paziente. - Il ruolo della resistenza. Freud trovò che i pazienti resistono ai tentativi del terapeuta di portare alla coscienza i loro ricordi o desideri inconsci. La resistenza del paziente può manifestarsi in varie forme, come rifiutarsi di parlare di certi argomenti, "dimenticare" di recarsi alla seduta di terapia, o ancora opporre un continuo contraddittorio che devia il processo terapeutico in altre direzioni. Secondo Freud, la resistenza dipende dai meccanismi generali di difesa, mediante i quali le persone si proteggono contro l'acquisizione consapevole di pensieri ansiogeni. L'insorgere di una resistenza indica che la terapia sta andando nella direzione giusta, cioè verso la scoperta di materiali inconsci d'importanza critica, ma può anche rallentare il processo terapeutico e persino bloccarlo. Per evitare che un paziente opponga una resistenza eccessiva, il terapeuta deve sapere graduare la presentazione delle interpretazioni, esponendole al paziente solo quando è pronto ad accettarle. - Il ruolo del transfert. Nel corso di una psicoterapia, il paziente esprime sentimenti molto forti - a volte di amore, a volte di rabbia - nei confronti del terapeuta. Freud riteneva che il vero oggetto di queste forti emozioni non fosse il terapeuta, ma qualche altra figura molto significativa nella vita del paziente e della quale il terapeuta diviene un simbolo. Il transfert è quindi il fenomeno per cui i sentimenti che il paziente nutre, a livello inconscio, verso una figura importante nella sua esistenza vengano esperiti, a livello conscio, come se fossero indirizzati al terapeuta. Secondo Freud, il fenomeno del transfert è di grandissima rilevanza nel processo terapeutico, poiché offre al paziente l'opportunità di diventare consapevole di questi forti sentimenti. Con l'aiuto dell'analista, il paziente acquista gradualmente coscienza dell'origine di quei sentimenti e del loro vero oggetto. - Il rapporto tra intuizione dell'analista e cura. La psicoanalisi è, sostanzialmente, un processo in cui l'analista formula ipotesi circa i conflitti inconsci del paziente, quindi ritrasmette al paziente quell'informazione. Come può essere di giovamento conoscere questi materiali inconsci? Secondo Freud, il giovamento deriva dal portare alla coscienza i desideri e i ricordi conflittuali che provocano i sintomi nevrotici. Una volta divenuti consci, questi materiali possono essere espressi e vissuti nella realtà, oppure, quando sono irrealistici, l'Io cosciente può modificarli, indirizzandoli verso scopi più positivi e produttivi della persona. Al tempo stesso il paziente si libera delle difese fino a quel momento impegnate nel mantenere rimossi i materiali ansiogeni, e ciò gli dà maggior energia psichica da riversare in altre attività. Ma perché tutto ciò avvenga, il paziente deve veramente accettare, sia a livello razionale che viscerale, le intuizioni dell'analista. L'analista non può limitarsi a descrivere al paziente i suoi conflitti interiori, ma deve portarlo in modo graduale a provare realmente le emozioni rimosse. Le terapie psicodinamiche post - freudiane Dopo Freud sono state sviluppate molte versioni della terapia psicodinamica Tutte condividono alcuni aspetti dell'approccio freudiano, quali il far affiorare alla coscienza i sentimenti ansiogeni, l'attribuire i problemi del presente a conflitti psichici derivanti da esperienze del passato e il considerare la relazione analista - paziente come un modello per comprendere le relazioni interpersonali del soggetto al di fuori del setting analitico. Oggi la modifica più comune all'impostazione freudiana originale - dettata soprattutto da ragioni economiche - consiste nel ridurre il numero delle sedute di analisi, grazie a metodi che consentono di giungere più rapidamente ai materiali inconsci. Le cosiddette terapie psicodinamiche brevi cercano di giungere, in un numero di sedute variabili da dieci a quaranta, agli stessi risultati a cui in una psicoanalisi classica si perviene, di solito, con centinaia di sedute. Il divano è stato eliminato, e analista e paziente siedono uno di fronte all'altro; inoltre, il terapeuta interviene più spesso a richiamare l'attenzione del paziente sui materiali e sulle idee rilevanti, e a volte ricorre a tecniche speciali, quali il gioco dei ruoli, per facilitare l'instaurarsi del transfert e far progredire più in fretta il processo terapeutico. Altre varianti differiscono dalla psicoanalisi Freudiana non soltanto rispetto alle tecniche, ma anche per alcuni presupposti teorici. Le terapie psicodinamiche dette analisi dell'Io pongono un'enfasi minore, rispetto all'analisi freudiana, sui desideri infantili racchiusi nell'Es del paziente, e danno invece più rilievo agli eventi reali della sua vita e ai meccanismi di difesa dell'Io. Queste terapie si propongono di scoprire e di portare alla coscienza i modi in cui le difese distorcono le esperienze e le relazioni del paziente nella vita di ogni giorno. Abbattendo queste difese, anche senza scoprirne l'origine, il terapeuta iuta il cliente a sviluppare una gamma più ampia di risposte adattive. APPRENDIMENTO L’APPRENDIMENTO E’ QUEL PROCESSO ATTRAVERSO IL QUALE UNA DETERMINATA ESPERIENZA, FATTA IN UN CERTO MOMENTO DELLA VITA, PUO’ INFLUENZARE IL COMPORTAMENTO DEL- L’INDIVIDUO IN UN MOMENTO SUCCES- SIVO. LUCIDO A PRIMA DEL CONDIZIONAMENTO SN ---------> nessuna risposta (suono) SI ---------> RI (cibo) (salivazione) DURANTE IL CONDIZIONAMENTO SN (suono) seguito da SI (cibo) -----------> RI (salivazione) DOPO IL CONDIZIONAMENTO SC (suono) ------------> RC (salivazione) LUCIDO C CONDIZIONAMENTO CLASSICO QUANDO UNO STIMOLO, CHE PRECEDENTEMENTE ERA NEUTRO, CONTIGUITA’ E’ PRESENTATO TEMPORALE CON IN STRETTA UNO STIMOLO INCONDIZIONATO, LA RISPOSTA, CHE PRIMA ERA FORNITA DALLO INIZIERA’ A STIMOLO COMPARIRE IN INCONDIZIONATO, SEGUITO ALLA PRESENTAZIONE DELLO STIMOLO CONDIZIONATO. CARATTERISTICHE PERIODO DI ACQUISIZIONE PROCEDURA DI RINFORZO ESTINZIONE RECUPERO SPONTANEO GENERALIZZAZIONE DISCRIMINAZIONE LUCIDO D LEGGE DELL’EFFETTO LE RISPOSTE SEGUITE NEL TEMPO DA UN EFFETTO POSITIVO) RIPETUTE POSITIVO TENDONO (RINFORZO AD DALL’ANIMALE ESSERE QUANDO QUESTI SI TROVA NELLA MEDESIMA SITUAZIONE, MENTRE LE RISPOSTE CHE PRODUCONO EFFETTI SGRADEVOLI HANNO MENO PROBABILITA’, NELLA STESSA SITUAZIONE, DI ESSERE PRODOTTE DI NUOVO LUCIDO G la risposta fa sì frequenza di risposta che lo stimolo sia Aumenta presentato eliminato Diminuisce Rinforzo positivo Punizione positiva (premere la leva Æ cibo) (premere la leva Æ shock) Rinforzo negativo (premere la leva Æ eliminazione dello shock) Punizione negativa (premere la leva Æ rimozione del cibo) LUCIDO H L’INTELLIGENZA A noi uomini piace pensare di essere gli animali più intelligenti, e apparentemente questa idea è esatta, per lo meno in base alle definizioni che noi stessi diamo dell’intelligenza. Infatti siamo gli unici animali dotati di conoscenza e di ragione, i soli che classificano tutti gli altri esseri e attribuiscono loro un nome, che cercano di capire tutto, compreso se stessi. Come vedremo quando parleremo del linguaggio, siamo anche gli unici animali che si comunicano a vicenda quella che sanno, trasmettendo le proprie conoscenze, così che ogni generazione comincia il cammino da un punto di partenza superiore, se non per saggezza, almeno per conoscenza, rispetto a quello della generazione precedente. Vi sono sempre state aspre polemiche su che cosa si deve intendere per intelligenza, infatti il termine intelligenza è stato spesso usato da persone diverse per intendere concetti diversi. Nel tentativo di arrivare ad una definizione il più possibile corrispondente al significato che gli psicologi attribuiscono al termine di “intelligenza”, Mark Snyderman e Stanley Rothman (1987) hanno chiesto a più di 1000 specialisti di scegliere, da un elenco di varie abilità umane, quelle che ritenevano i principali indici dell’intelligenza. Quasi tutti gli intervistati hanno scelto (LUCIDO A): il ragionamento astratto, la soluzione dei problemi e la capacità di imparare; più della metà ha scelto anche la memoria, l’adattamento al proprio ambiente, la rapidità di elaborazione mentale, la competenza linguistica, la competenza matematica, la conoscenza generale e la creatività; un quarto circa ha indicato anche l’acuità sensoriale, l’agire in vista di un fine e la motivazione ad autorealizzarsi. Ciò che è emerso, in conclusione, è che alcuni esperti, concepiscono l’intelligenza come specificamente limitata alle attività intellettive di ordine superiore, ovvero il ragionamento e la conoscenza, mentre per altri l’intelligenza comprende anche quelle abilità che aiutano gli esseri umani ad affrontare le sfide dell’ambiente in cui vivono. In psicologia vi sono quattro diversi approcci metodologici per studiare l’intelligenza: (1) l’approccio psicometrico, che cerca di caratterizzare l’intelligenza attraverso l’analisi dei punteggi ottenuti in appositi test; (2) lo studio dell’intelligenza come elaborazione delle informazioni, che cerca di descrivere i vari passaggi coinvolti nell’esecuzione dei compiti; (3) l’approccio neuropsicologico, che cerca di mettere in relazione specifiche abilità mentali con precise aree cerebrali; (4) l’approccio ecologico, che studia l’intelligenza in relazione al contesto ambientale in cui essa si esprime. Qui ci limiteremo a cercare di spiegare come procedono le persone nel risolvere problemi che richiedono lo sviluppo di un ragionamento logico. La maggior parte degli psicologi concorda nel distinguere due grandi categorie di ragionamento logico: deduttivo e induttivo. Il ragionamento induttivo si sviluppa dal particolare per arrivare al generale (P Æ G), il ragionamento deduttivo, invece, procede dal generale al particolare (G Æ P). Il ragionamento induttivo Quando si vuole imporre un compito induttivo, si presentano al soggetto items o fatti specifici, quindi, gli si chiede di utilizzarli in modo da dedurre una conclusione di carattere generale. Il ragionamento induttivo viene anche definito costruzione di ipotesi, poiché la conclusione dedotta è al massimo una congettura sensata, non è mai una certezza assoluta. Ogni volta che gli scienziati cercano di ricavare leggi universali partendo dagli eventi particolari che hanno osservato, essi si servono del ragionamento induttivo. Per capire in che cosa consiste un compito che implica un ragionamento induttivo, considerate il problema seguente, che richiede di completare una serie di numeri: 1 2 4 _ _ Quali numeri mettereste nei due spazi vuoti? Se avete fatto l’ipotesi che la serie sia composta di numeri in cui ciascuno è il doppio di quello che lo precede, completerete la sequenza con 8 e 16. Ma poniamo che, a questo punto, io vi dia un’informazione che nel primo spazio vuoto si trova un 7, arrivereste a concludere che la vostra ipotesi iniziale era sbagliata e potreste fare una nuova ipotesi, magari che ogni numero è la somma dei due che lo precedono più 1. In base a questa ipotesi potreste assegnare un 12 all’ultimo spazio. Notate che quanto più si aumentano le informazioni che avete, tanto più potete essere certi che la vostra ipotesi sia giusta. Tuttavia non potete mai arrivare ad averne la certezza assoluta. Per quanto sia lunga la serie che avete visto, il numero che esce dopo potrebbe dimostrare scorretta la vostra ipotesi. Un compito un po’ diverso, però fondato sempre sul ragionamento induttivo, è il seguente (LUCIDO B): Roberto è un ragazzo mite, di aspetto ordinato, attento ai dettagli fino alla pignoleria, disponibile verso gli altri, ma in realtà scarsamente interessato alle persone o ai problemi pratici. Secondo voi, è più probabile che Roberto sia un bibliotecario o un commesso? Come potete notare, questa domanda vi chiede di utilizzare alcune informazioni contenute nella domanda con idee e informazioni che già avete grazie alla vostra esperienza personale, in modo che possiate arrivare a fare un’ipotesi ragionevole. Gli psicologi che studiano il ragionamento induttivo sono sempre stati molto interessati ad individuare quali informazioni vengono tendenzialmente utilizzate e quali invece ignorate nel rispondere alle domande di questo tipo. Queste ricerche hanno portato a concludere che le strategie adottate nel ragionamento induttivo vanno spesso soggette a distorsioni sistematiche, che a volte portano a formulare conclusioni tutt’altro che corrette. Vediamo ora più in dettaglio alcune modalità di distorsione dell’induzione. Il ricorso eccessivo alla categoria della rappresentatività e il sottoutilizzo dei tassi base. Dunque come si può rispondere alla domanda su Roberto e di quali informazioni ci si può servire per operare la scelta? Un metodo possibile è confrontare le informazioni che ci vengono date sulla personalità di Roberto, cioè mite ecc., con le proprie convinzioni circa la personalità di un tipico bibliotecario o di un tipico commesso. Se si fa così, si fa ricorso a quella categoria che è stata definita rappresentatività, termine che indica il grado con cui la cosa da classificare presenta caratteristiche tipiche, ovvero rappresentative, delle classi a cui è possibile attribuirla, cioè se le caratteristiche di Roberto sono più tipiche (rappresentative) del bibliotecario o del commesso. Un altro tipo di informazione di cui ci si può servire è il così detto tasso base, che in questo caso (cioè nell’esempio di Roberto), corrisponde alla probabilità che un uomo qualsiasi, scelto a caso nella popolazione, faccia il bibliotecario oppure il commesso. Se già sappiamo che i commessi sono molti di più dei bibliotecari e usiamo questa informazione, dovremmo giungere alla ragionevole conclusione che è più probabile che Roberto sia un commesso, anche se la sua personalità sembrasse rispecchiare i tratti tipici di un bibliotecario. Alcuni ricercatori (Tversky e Kahneman, 1980) hanno trovato che spesso, nel rispondere a domande di questo genere, le persone tendono ad ignorare il tasso base, anche quando il testo del problema ne parla chiaramente. In un esperimento venne chiesto ai soggetti di valutare le probabilità che un certo individuo fosse un ingegnere o un avvocato. A un gruppo di soggetti venne detto che l’individuo era stato scelto a caso entro un campione iniziale composto da 70 ingegneri e 30 avvocati; ad un secondo gruppo fu detto invece, che l’individuo proveniva da un campione di 30 ingegneri e 70 avvocati. I° GRUPPO II GRUPPO 70 ingegneri 30 ingegneri 30 avvocati 70 avvocati Quando si chiese ai soggetti di formulare il giudizio unicamente in base a questa informazione, le loro risposte rispecchiarono fedelmente il rapporto 70:30, cioè la maggioranza dei soggetti del primo gruppo dissero che vi era il 70% di probabilità che l’individuo in questione fosse un ingegnere, mentre per la maggioranza dei soggetti del secondo gruppo tale probabilità era del 30%. Ma quando a questa informazione fu aggiunta una descrizione della personalità dell’individuo da classificare, la maggioranza dei soggetti non prese più in considerazione i dati relativi alle percentuali di partenza, appunto i cosiddetti tassi base, persino quando le descrizioni non contenevano alcuna informazione veramente utile per compiere la scelta. Per esempio, a una persona descritta come “un uomo di 30 anni, sposato e senza figli, dotato di grandi capacità e di forte motivazione”, entrambi i gruppi assegnarono il 50% alla probabilità che si trattasse di un ingegnere, senza tenere conto del fatto che, secondo l’informazione ricevuta in partenza gli ingegneri rappresentavano il 70% oppure il 30% del campione. La distorsione da propensione alla conferma. In linea teorica si sa che si dovrebbe impostare la ricerca in modo da confutare le ipotesi attualmente ritenute valide. Infatti in linea di principio, è impossibile arrivare a dimostrare con certezza assoluta la correttezza di una certa ipotesi, mentre è possibile provarne con assoluta certezza l’erroneità. Le ipotesi migliori sono quelle che resistono a tutti i tentativi di confutarle. Ma malgrado ciò è stata riscontrata nelle persone una naturale tendenza a cercare di confermare, anziché di confutare, le ipotesi che ritengono valide. In uno dei primi esperimenti finalizzati a verificare l’esistenza della distorsione da propensione alla conferma, Peter Wason (1960) impegnò i soggetti in una sorta di gara, che consisteva nello scoprire la regola usata dallo sperimentatore per costruire delle serie di numeri. Nella prima prova lo sperimentatore forniva al soggetto una sequenza di tre numeri, come 6-8-10, e gli chiedeva di indovinare la regola su cui era costruita. Fatto questo, al soggetto veniva chiesto di produrre sequenze di tre numeri basate sulla regola che aveva ipotizzato; dal canto suo, lo sperimentatore rispondeva “si” oppure “no”, a seconda che la sequenza rispondesse o meno al suo criterio, cioè a quello deciso dallo sperimentatore. Wason trovò che i soggetti manifestavano una netta tendenza a fare la sequenza in modo tale da poter confermare, anziché confutare, l’ipotesi che avevano formulato e in breve tempo si convincevano che la regola da loro erroneamente individuata fosse corretta. Nel nostro esempio (6-8-10), dopo aver formulato l’ipotesi che la regola seguita dallo sperimentatore fosse stata costruire una serie di numeri pari crescenti per due, il soggetto riproponeva ad ogni prova sequenze fondate su questo criterio, come 2-4-6 o 14-16-18 e avendo ottenuto ad ogni tentativo la riposta “si” annunciavano infine con grande sicurezza che la sua ipotesi iniziale era corretta, cioè che la regola era “costruire una serie di numeri pari, crescenti per due”. Questi soggetti non ebbero mai modo di scoprire che invece la vera regola adottata dallo sperimentatore era stata, invece, “costruire qualsiasi sequenza crescente di numeri”. I pochi soggetti che riuscirono ad individuare la vera regola furono quelli che produssero sequenze tali da contraddire la prima ipotesi formulata. Per chiarire il modo di procedere di questi soggetti, poniamo il caso che uno di loro avesse inizialmente ipotizzato, come gli altri, che la regola fosse “costruire una serie di numeri pari crescenti per due”. Nel tentativo di confutare questa ipotesi, questo soggetto avrebbe proposto, in una prova successiva, una serie del tipo 5-7-9. A questo punto la risposta “si” dello sperimentatore gli avrebbe dimostrato che la sua ipotesi era sbagliata. Il soggetto, allora, avrebbe potuto supporre che la regola fosse “costruire qualsiasi serie di numeri crescenti per due”, e per verificare la sua congettura propose la sequenza 4-7-32, e avendo avuto come risposta “si” avrebbe infine formulato l’ipotesi che la risposta giusta fosse “costruire qualsiasi sequenza crescente di numeri”. Dopo aver cercato di contraddirla mediante una sequenza del tipo 5-6-4 ed aver ottenuto in questo caso una risposta negativa, poteva infine enunciare con sicurezza la propria ipotesi sulla regola. Come avete visto questo soggetto è arrivato all’ipotesi giusta confutando la sua ipotesi iniziale e non cercando di confermarla. Dopo Wason, molte altre ricerche hanno convalidato i risultati confermando l’esistenza di una distorsione dovuta a una naturale propensione alla conferma. Tuttavia questi lavori hanno anche dimostrato che le strategie di conferma, pur essendo ben lontane dall’ideale, non sempre falliscono in test come quello ideato da Wason. Nell’esperimento di Wason la strategia falliva perché lo sperimentatore aveva scelto di proposito un criterio molto più generale di qualsiasi regola che avesse una qualche probabilità di essere ipotizzata dai soggetti unicamente in base alla prima sequenza. Se Wason avesse adottato una regola più restrittiva (per esempio, “numeri pari di una cifra crescenti per due”), in qualche tentativo teso a confermare un’ipotesi più vasta (“numeri pari crescenti per due”) il soggetto avrebbe ricevuto la risposta no, quindi sarebbe stato indotto a modificare progressivamente le sue ipotesi fino a scoprire la regola corretta. Il punto è che, per riuscire vincente in una gara come questa, una strategia deve prevedere di ricevere dallo sperimentatore anche risposte negative. In un altro esperimento simile che dimostra questo tipo di distorsione dell’induzione, i soggetti dovevano intervistare un’altra persona, rivolgendole domande che consentissero di scoprire alcuni aspetti della personalità. A un gruppo di soggetti fu dato il compito di verificare l’ipotesi che la persona intervistata fosse estroversa (aperta ai rapporti sociali) e ad un altro gruppo quello di verificare l’ipotesi che fosse introversa (chiusa in sé, poco disponibile ai rapporti sociali). Il risultato più importante di questo esperimento fu che tutti i soggetti rivelarono una forte tendenza a formulare le domande in modo tale che una risposta affermativa avrebbe confermato l’ipotesi da verificare. Per esempio, il gruppo che doveva verificare l’eventuale estroversione dell’intervistato rilevò una forte tendenza a rivolgere domande del tipo “Le fa piacere incontrare persone che non conosce?”, mentre il gruppo che doveva verificare l’introversione formulò in prevalenza domande di questo tipo “Si sente timido nell’incontrare persone nuove?” Questa distorsione, accoppiata alla tendenza naturale degli intervistati a dare risposte affermative a questo genere di domande, portò la maggioranza dei soggetti a convincersi dell’esattezza dell’ipotesi iniziale, indipendentemente da quale essa fosse e da chi fosse l’intervistato. Una spiegazione possibile per questa forma di distorsione è che, nella vita di ogni giorno, non ci interessa tanto raccogliere informazioni utili a lunga scadenza, ma piuttosto ci interessa maggiormente comportarci in modo corretto o di ricevere la gratificazione di una qualche ricompensa. Fino a che le ipotesi da noi concepite sembrano funzionare bene nella vita di ogni giorno noi siamo portati a mantenerle. Dopo tutto, nella vita di tutti i giorni, il nostro scopo non è la ricerca della verità, ma la nostra sopravvivenza. Per capire meglio questo punto, proviamo a ragionare per assurdo. Poniamo il caso di una persona che pensi che se indossa una tuta arancione quando si allena in bicicletta non sarà investita da una macchina. Ovviamente il ciclista non ha la certezza assoluta che la tuta arancione lo protegga veramente, ma se fino a quel momento non è mai stato investito, probabilmente continuerà ad indossarla. Invece se il suo scopo principale fosse la conoscenza anziché la sopravvivenza, quel ciclista potrebbe decidere di verificare sperimentalmente il proprio comportamento e cioè potrebbe indossare qualche volta la tuta arancione e altre no, e vedere quante volte viene investito nell’una e nell’altra condizione. E capite che questo è assurdo!!! Un’altra spiegazione di questo tipo di distorsione, cioè di propensione alla conferma, è che ottenere come risposta un “si” da parte dello sperimentatore o della persona intervistata è più gratificante che ricevere un “no”. Nella vita quotidiana le persone trovano vantaggioso andare d’accordo con gli altri, e ottenere un “si” rientra in questa strategia comportamentale. Inoltre, alle persone piace sentirsi in gamba, per cui è possibile che si sentano maggiormente gratificate quando le loro ipotesi vengono confermate, anziché confutate. Il ragionamento deduttivo. Il ragionamento deduttivo, o deduzione, procede, come abbiamo detto, dal generale al particolare (G Æ P). In genere, un ragionamento deduttivo richiede che si accettino come vere una o più premesse, o assiomi, per poi procedere, sulla base di questi assunti, ad affermare se una certa conclusione è vera, falsa o indeterminata. Una forma tipica di ragionamento deduttivo è il sillogismo, ovvero la combinazione tra loro di due premesse date, in modo da verificare una determinata conclusione. Vediamone un esempio (LUCIDO C): Tutti i cuochi sono violinisti (premessa maggiore) Pino è un cuoco (premessa minore) Pino è un violinista? Notate che questo problema impone di accettare per vere le due premesse, coerenti o meno che siano con la vostra esperienza reale del mondo, perché il vero punto in questione è la coerenza interna dell’argomento. I problemi in forma di sillogismo sono molto comuni nei test di intelligenza e spesso sono lo strumento sperimentale utilizzato nelle ricerche sul ragionamento deduttivo. Gli studi condotti su soggetti di ogni parte del mondo dimostrano che, per la maggioranza delle persone, è difficile risolvere un sillogismo, a meno che le asserzioni contenute nella premessa non corrispondano alla loro esperienza reale. Quando le premesse del sillogismo contraddicono l’esperienza personale, è più difficile arrivare ad una soluzione corretta persino per quei soggetti che, avendo un alto grado di istruzione, hanno maggiore familiarità con questi problemi. Questi risultati perciò contraddicono nettamente l’opinione diffusa secondo la quale per risolvere un sillogismo si ricorre solo alle regole della logica formale. Se così fosse, non avrebbe alcuna importanza che la premessa maggiore concordasse con la comune esperienza, per esempio: tutti i cuochi sono esseri umani o la contrastasse come nel nostro caso dicendo che: tutti i cuochi sono violinisti o fosse completamente priva di senso: tutti i farnegoghi sono stribulanti. L‘unica cosa importante sarebbe, a questo punto, la forma astratta del problema e la relazione espressa dalle parole: “Tutti ..... sono ......”. Sulla base di queste considerazioni, alcuni ricercatori (Philiph Johnson-Laird e i suoi collaboratori (1992)) hanno concluso che la procedura generalmente seguita per risolvere un sillogismo non consiste nella semplice applicazione delle regole della logica formale, ma comporta la costruzione di modelli mentali che rappresentano il contenuto espresso verbalmente nelle premesse e che vengono poi utilizzati per generare la risposta. Fra i modelli di più facile comprensione vi sono quelli che prendono la forma di immagini mentali. Consideriamo i seguenti quattro sillogismi, fondati tutti sulla stessa premessa maggiore, ma con premesse minori differenti (LUCIDO D): Tutti i cuochi sono violinisti (premessa maggiore.) 1. Pino è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista? 2. Pino è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco? 3. Pino non è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista? 4. Pino non è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco? Un modo per trovare la soluzione a questi problemi è visualizzare un gruppo di individui, alcuni dei quali (i violinisti) tengono in mano un violino, altri (i cuochi) hanno in testa un cappello da cuoco. La premessa maggiore dice che tutti i cuochi sono violinisti, quindi nell’immagine mentale tutti i cuochi terranno in mano un violino. Ma la premessa maggiore non afferma che tutti i violinisti sono cuochi, quindi occorre tenere conto di questa possibilità aggiungendo al gruppo immaginario alcuni individui che hanno il violino, ma non il cappello da cuoco. Il gruppo, inoltre, deve ovviamente comprendere individui che non sono né cuochi né violinisti. L’immagine mentale conclusiva potrebbe apparire come quella del LUCIDO D. Ora, per rispondere alle quattro domande non occorre fare altro che esaminare questa immagine. La risposta alla domanda 1) deve essere “si” poiché tutti gli individui con il cappello da cuoco hanno un violino. La risposta alla domanda 2) è necessariamente “indeterminata” dal momento che alcuni tra gli individui con il violino portano il cappello da cuoco, ma altri no. La risposta alla domanda 3) deve essere anche essa “indeterminata” poiché tra gli individui senza cappello da cuoco, alcuni hanno il violino ed altri no. Infine, la risposta alla domanda 4) deve essere “no” poiché nessuno degli individui senza violino ha in testa un cappello da cuoco. Se veramente si utilizzano immagini mentali per verificare i sillogismi, allora il punto cruciale del processo sta nel creare all’inizio un’immagine corretta e nel tenerla ben presente mentre si risponde alle varie domande. A sostegno di questa ipotesi, cioè che la soluzione di ogni problema sillogistico passa attraverso la creazione di un’immagine mentale, vi è il dato che la soluzione di un sillogismo tende ad essere più rapida e precisa quando è possibile visualizzare facilmente la premessa maggiore. In una ricerca (C. Clement e R. Falmagne (1986)) sono stati presentati a studenti universitari due problemi sillogistici, di questo tipo (LUCIDO E): • Ogni volta che sente il desiderio di una ciambella, l’uomo si reca a piedi dal fornaio attraversando l’incrocio (premessa maggiore). L’uomo si è recato a piedi dal fornaio attraversando l’incrocio (premessa minore). Desiderava una ciambella? • Se riorganizza la struttura dell’azienda, quella donna chiuderà l’anno in attivo (premessa maggiore). La donna ha chiuso l’anno in attivo (premessa minore).Ha riorganizzato la struttura aziendale? Si noti che questi problemi sono identici nella forma e simili per complessità linguistica e plausibilità delle premesse. Però in accordo con l’ipotesi precedente che diceva che i sillogismi “facili da visualizzare” venivano risolti più facilmente, la maggior parte degli studenti riuscirono a risolvere il primo sillogismo, ma non il secondo. Infatti per la maggioranza delle persone è più facile formarsi l’immagine mentale di un individuo che attraversa un incrocio che quella di una persona impegnata a riorganizzare un’azienda. (Per inciso la risposta corretta per entrambi i sillogismi è “indeterminata”). In generale i soggetti che riescono a risolvere con facilità qualsiasi sillogismo, indipendentemente dal contenuto, hanno elaborato qualche tipo di espediente che consente loro di trasformare qualsiasi premessa in un’immagine mentale. Ovviamente il punto rilevante, qui, va ben oltre la capacità di risolvere i sillogismi proposti in un test. Molti psicologi sostengono che molte grandi idee innovative, sia in campo scientifico che filosofico, sono scaturite proprio dalla scoperta da parte del loro autore di nuove forme per visualizzare un problema. Alcune strategie per la risoluzione dei problemi: gli elementi dell’insight. Ogni volta che vogliamo raggiungere un certo scopo, ma non siamo certi di come poterlo fare, ci troviamo a dover risolvere un problema. Qualsiasi problema - che si tratti di un puzzle, di un’equazione matematica o di qualcosa riguardante la vita quotidiana, ad esempio come migliorare i rapporti familiari - è caratterizzato da uno stato iniziale (i pezzi sparsi alla rinfusa del puzzle, l’equazione non risolta o l’attuale stato dei rapporti con la famiglia), da uno stato finale, o scopo, da raggiungere e da un insieme di possibili mosse, operazioni, che permettono di giungere allo scopo. Di solito per poter risolvere un problema bisogna: (a) capire i termini del problema; (b) identificare le operazioni che potrebbero portare alla soluzione; ( c) eseguire tali operazioni; (d) verificare il risultato; (e) ritornare a uno dei punti precedenti della sequenza se il risultato non è stato quello voluto. Nella maggioranza dei casi i primi due passaggi (la comprensione del problema e l’individuazione di una possibile via verso la soluzione) sono i più critici e spesso richiedono l’intervento di quei processi mentali chiamati nel loro complesso, insight (intuizione) o ingegno creativo. Sono state fatte numerose ricerche per capire come le persone riescono a trovare una soluzione a problemi apparentemente irrisolvibili? Da questi studi sono emersi principalmente quattro concetti generali. Rompere il set mentale La difficoltà di alcuni problemi deriva dal fatto che per risolverli occorre rompere un’abitudine, ormai inveterata, nel modo di percepire o di pensare, abitudine a cui si dà il nome di set mentale. I problemi più spesso utilizzati per dimostrare l’esistenza di un set mentale sono (LUCIDO F) il problema dei nove punti e il problema della candela. Nel primo problema (LUCIDO Fa) viene richiesto di unire tutti e nove i punti della figura con quattro linee rette, non una di più né una di meno, senza mai staccare dalla pagina la punta della penna né ripassare da una linea già tracciata. Nel secondo problema (LUCIDO Fb) bisogna attaccare la candela al pannello sul muro in modo che possa essere accesa e ardere regolarmente, servendovi soltanto degli oggetti raffigurati nel lucido, - una candela, dei fiammiferi e una scatola di puntine da disegno . Esaminate questi due problemi e cercate di risolverli. La maggioranza delle persone non trova la soluzione del problema dei nove punti perché non riesce a staccarsi da un set mentale che le porta a pensare che ogni linea retta debba partire e finire in uno dei punti. È possibile che allo stabilirsi di questo set mentale contribuiscano quel tipico gioco dell’infanzia, in cui bisogna collegare tanti punti per ottenere un disegno. Per quel che riguarda il problema della candela, la maggioranza delle persone non riesce a risolverlo perché considera la scatola soltanto un contenitore per le puntine, e non realizza che essa invece potrebbe servire anche da supporto per reggere la candela. Karl Duncker (1945), che ha inventato questo problema ed è stato il primo ad utilizzarlo come strumento sperimentale, definì questo tipo di set mentale fissità funzionale, ovvero l’incapacità di vedere per un oggetto una funzione diversa da quella che essa ha abitualmente. Di solito la soluzione dei problemi diventa più facile, per la maggior parte delle persone, se la scatola e le puntine vengono presentate separatamente anziché le une dentro l’altra, cioè sembra che sia più facile intravedere una funzione alternativa per un certo oggetto se in quel momento esso non è usato nel modo più comune. (La soluzioni dei due quesiti è nel LUCIDO Ga e Gb). Che cosa consente alle persone di rompere un set mentale solo in certi momenti e non in altri? Secondo l’ipotesi avanzata all’inizio di questo secolo dagli psicologi della Gestalt 1, i problemi come quelli appena descritti sono, per certi versi analoghi, alle figure reversibili (LUCIDO H) e la possibilità di trovare la soluzione dipende da una riorganizzazione percettiva cioè bisogna esaminare il problema da ottiche diverse, abbandonarlo per qualche tempo, prenderlo in esame di nuovo, manipolare gli oggetti tentando di dar loro una configurazione differente, e all’improvviso vedere il problema in modo totalmente diverso da prima, tanto che la soluzione appare del tutto ovvia. A questo scopo può essere utile qualsiasi procedura che consenta al nostro pensiero e ai processi 1 Nota 1: Gli psicologi della Gestalt sottolineavano la tendenza automatica a distinguere in qualsiasi scena la figura dallo sfondo, cioè l'oggetto che attrae l'attenzione dal campo su cui risalta la figura. Secondo la Gestalt, questa distinzione tra figura e sfondo, dipende da certe particolarità dello stimolo visivo, ma ciò non avviene sempre. Infatti quando gli indizi presenti sulla scena sono scarsi oppure ambigui, possiamo trovare grandi difficoltà nel decidere a quale forma attribuire il significato di figura e a quale il significato di sfondo, vediamo per esempio questa figura reversibile (FIGURA H). Ma se, nel guardare la FIGURA H per la prima volta, foste stati mentalmente preparati a vedere un vaso in quella figura avreste percepito un vaso. Se, al contrario, foste stati preparati a vedere due profili umani, avreste visto due profili umani. Quando gli stimoli possono avere più di una interpretazione, ciò che noi vediamo è influenzato da ciò che ci aspettiamo di vedere, cioè dal nostro set percettivo. percettivi di seguire il suo corso più libero. In accordo con questa interpretazione si è trovato che la soluzione dei problemi che richiedono un’intuizione tende ad essere inibita da condizioni sperimentali che aumentano lo stato di ansia dei soggetti, come può essere la presenza di un giudice della prova, mentre è facilitata da condizioni che promuovono il libero sviluppo di questi processi. Alice Isen e collaboratori (1987) hanno sottoposto il problema della candela a vari gruppi di studenti universitari e hanno trovato che il gruppo di soggetti che avevano appena visto una commedia divertente riusciva a risolvere il problema più facilmente degli altri che avevano assistito ad un film drammatico o a nessun film. Trovare un’analogia utile. Ma l’insight non scaturisce semplicemente dal rompere un set mentale preesistente. Se ciò fosse vero, le persone un po’ sempliciotte sarebbero le più abili nel risolvere problemi. La risoluzione di un problema di questo tipo non richiede soltanto di abbandonare un approccio che si è rilevato inutile, ma anche di trovarne un altro che sia invece utile. Il nuovo approccio, al pari di quello che viene abbandonato, deve fondarsi sulle passate esperienze della persona. Come rilevò William James (1890) molto tempo fa, spesso per poter risolvere un problema occorre trovare un’utile analogia tra la nuova situazione e un’altra in cui la persona può avere maggiore familiarità. Secondo James il cosiddetto genio creativo è colui che riesce a vedere utili analogie là dove gli altri non pensano nemmeno a cercarle. Charles Darwin, ad esempio, poté dare soluzione al problema del meccanismo che regola l’evoluzione (tramite il concetto di selezione naturale) perché riuscì a scorgere un’analogia tra le tecniche di selezione artificiale praticate dagli allevatori e le condizioni che in natura limitano la riproduzione. Nel risolvere il problema della candela è utile vedere un’analogia tra la scatola di puntine e una mensola: entrambi gli oggetti possono essere attaccati al muro e fornire una superficie orizzontale su cui si può montare la candela. Il ragionamento potrebbe svilupparsi più o meno così: “So che potrei sistemare la candela lungo il muro, se avessi una mensola. C’è nulla nella figura che ricordi una mensola? Ma si, la scatola. Ha una superficie piatta e può essere attaccata al pannello sul muro per mezzo delle puntine, in modo che la sua superficie più larga ne sporga orizzontalmente!” in questo modo è possibile arrivare alla soluzione del problema attraverso la ricerca deliberata di un’analogia utile. Trovare una rappresentazione efficace dell’informazione e possibili scorciatoie. La difficoltà di molti problemi deriva dalla quantità di informazioni che occorre prendere in considerazione. In questi casi, la chiave per arrivare alla soluzione sta spesso nel trovare una rappresentazione efficace delle informazioni. Una delle ragioni per cui la prestazione di un esperto supera di gran lunga quella del principiante, qualunque sia il campo considerato, sta nel fatto che l’esperto ha appreso, nel proprio campo, a distinguere le informazioni rilevanti da quelle meno rilevanti e a visualizzare le prime in raggruppamenti, ovvero in unità di ordine superiore logicamente composte da sottogruppi di unità più piccole. È ormai assodato che gli esperti in campi assai diversi, come gli scacchi, l’elettronica e l’architettura, hanno una capacità maggiore rispetto ai principianti di rappresentarsi gli elementi del problema (siano essi i pezzi di una scacchiera, porzioni di circuiti o le diversi parti di un edificio) organizzandoli in raggruppamenti significativi, che possono essere manipolati mentalmente in modo da assumere configurazioni differenti, senza con ciò sovraccaricare la memoria a breve termine. Per intravedere in maniera più efficace di organizzare le informazioni a volte è sufficiente riformulare il problema in termini diversi. Provate per esempio a risolvere il problema dei fiammiferi (LUCIDO Fc): “Trovare tutti i modi possibili per ottenere tre quadrati togliendo soltanto cinque fiammiferi, senza che restino fiammiferi liberi.” Questa formulazione del problema induce molte persone a focalizzare l’attenzione sui fiammiferi e a procedere per tentativi ed errori, rimuovendone gruppi di cinque nella speranza di arrivare infine alla soluzione. Ma questo approccio del problema può risultare molto difficile perché con diciassette fiammiferi iniziali ci sono più di 6000 possibili combinazioni di gruppi diversi di cinque, per cui la maggior parte delle persone rinuncia o dimentica le combinazioni che ha già tentato, senza arrivare alla soluzione. Le probabilità di risolvere con successo il problema aumentano se, anziché ragionare in termini di fiammiferi, si ragiona in termini di quadrati. Il problema, dunque, potrebbe essere riformulato così: “Ottenere tre soli quadrati, anziché sei, togliendo esattamente cinque fiammiferi”. Per ottenere tre quadrati a partire dai sei iniziali, le combinazioni possono essere soltanto venti, per cui il compito di tentarle tutte potrebbe non essere troppo gravoso. Concentrare l’attenzione sui quadrati non solo riduce significativamente il numero dei tentativi necessari se si cerca la soluzione per tentativi e errori, ma può anche portare a risolvere il problema in un modo più elegante, basato sul ragionamento deduttivo. Poiché il quadrato ha quattro lati, l’unico modo perché dodici fiammiferi (quanti sono quelli che restano, togliendone cinque) possano formare tre quadrati esatti, senza che rimangano fiammiferi liberi, è che i quadrati non abbiano alcun lato in comune. Esaminando la figura, si vede immediatamente che soltanto due gruppi di quadrati soddisfano a questa condizione, cioè (1) il gruppo formato dal quadrato in alto a sinistra, da quello in centro a destra e da quello in basso a sinistra; e (2) il gruppo dei quadrati in alto a destra, al centro a sinistra e in basso a destra. Il problema dei fiammiferi ci aiuta a capire la distinzione fra due classi generali di regole che si applicano alla soluzione dei problemi: l’algoritmo e la strategia euristica. Si definisce col termine algoritmo qualsiasi regola che, se seguita correttamente, porta infine alla soluzione del problema. Spesso applicare un algoritmo può significare semplicemente produrre tutte le possibili mosse (così come vengono definite dal problema), una per volta, finché non si ottiene la soluzione corretta. In questi casi, l’approccio algoritmico, potrebbe essere considerato alla stregua del ricorso alla forza bruta, poiché il successo non dipende tanto dalla bravura quanto dall’infaticabile perseveranza di chi cerca la soluzione. L’utilizzo degli algoritmi si confà perfettamente ai computer, macchine che sono in grado di eseguire manipolazioni semplici con grande rapidità, hanno una memoria perfetta e non perdono mai la pazienza. Applicare l’approccio algoritmico alla soluzione del problema dei fiammiferi vorrebbe dire procedere rimuovendo tutte le possibili combinazioni di cinque fiammiferi sui diciassette dati inizialmente - vale a dire eseguire 6000 tentativi circa - e notare quali di queste prove hanno prodotto esattamente tre quadrati. Operando in base a un algoritmo simile, un computer troverebbe quasi istantaneamente una soluzione, mentre un essere umano potrebbe passare ore a compiere tentativi su tentativi, prima di buttare via tutti i fiammiferi, in preda alla frustrazione. Il termine regola euristica si riferisce a qualsiasi regola che consenta di ridurre il numero delle operazioni da eseguire per arrivare alla soluzioni di un problema. Volendo tradurre il concetto in termini più semplici, potremmo dire che una regola euristica è una sorta di scorciatoia. Nel problema dei fiammiferi, concentrare l’attenzione sui quadrati, e cercare di individuare i tre che hanno i lati formati da dodici fiammiferi differenti, rappresenta una strategia euristica. In generale, un essere umano ha tanto più successo nel trovare la soluzione di un problema quanto più ricorre a utili strategie euristiche. Per quel che riguarda i computer, anche queste macchine possono usare strategie del genere, una volta che siano programmate in tal senso, ma, fino ad oggi, nessuno è stato in grado di farlo. Stabilire sotto-obiettivi e trasformare i problemi mal definiti in problemi ben definiti. In alcuni giochi che implicano una sequenza di mosse, come gli scacchi, e nella maggior parte dei problemi a lunga scadenza connessi con la vita reale, è impossibile individuare fin da principio, prima di cominciare a compiere le mosse, tutti i passaggi che portano alla soluzione di un dato problema. In una partita a scacchi ogni mossa provoca una contromossa, di cui occorre tenere conto prima di scegliere come muovere. Analogamente, ogni vostro passo nella direzione della carriera professionale che avete scelto produce qualche effetto, non del tutto prevedibile, di cui dovete tenere conto prima di decidere il passo successivo da compiere. Negli scacchi come nella vita, molto spesso un piano deve puntare a sotto-obiettivi a breve termine che portano sempre più vicino allo scopo finale, sia che si tratti di dare scacco o di raggiungere la posizione sociale desiderata. Come emerge da molti risultati sperimentali, coloro che risolvono con successo problemi in cui è coinvolta una serie di scelte di solito si pongono esplicitamente sotto-obiettivi precisi, attraverso i quali arrivano sempre più vicini alla meta finale che si sono prefissi. Un aspetto che distingue nettamente i problemi di un esperimento in laboratorio da quelli della vita reale sta nel loro grado di definizione. Si dice che un problema è ben definito quando lo stato iniziale, lo scopo finale e le possibili operazioni con cui risolverlo sono definiti con chiarezza; è invece mal definito un problema in cui uno (o più) di questi elementi non è espresso in termini chiari. Poniamo di desiderare di essere più felici. È un problema di cui vale la pena occuparsi, dal momento che ognuno di noi, presumibilmente, vuole essere più felice. Eppure è un problema mal definito; da dove si deve partire per trovare la soluzione? Assistenti sociali e psicoterapeuti, la cui professione consiste proprio nell’aiutare le persone a risolvere problemi di questo tipo, sottolineano l’importanza di riformulare il problema in termini più espliciti, più definiti. Innanzi tutto, che cosa ci farebbe più felici? Avere più amici? Avere più denaro? Un lavoro più gratificante? Più tempo per rilassarci? Una volta stabilito questo, il problema risulta meglio definito, ed è possibile individuare dei sotto-obiettivi e i passi da compiere per raggiungerli. La difficoltà insita nel darsi sotto-obiettivi o, più in generale, nel trasformare un obiettivo di massima in uno esplicitamente più delimitato, sta nel fatto che a volte si può perdere di vista lo scopo originale. La fissazione su un particolare sotto obiettivo può diventare un set mentale, capace di impedire alla persona di vedere eventuali altre strade che le permetterebbero di arrivare allo scopo principale. Un giocatore di scacchi, tutto concentrato nel cercare di portare l’alfiere su una posizione migliore, può non accorgersi della possibilità dare scacco che l’ultima mosso dell’avversario gli ha appena aperto. Una persona che concentra tutti i suoi sforzi nel guadagnare più denaro quale mezzo per arrivare alla felicità, può perdere di vista lo scopo originario e dedicarsi anima e corpo ad accumulare denaro fine a se stesso, trascurando tutte le altre opportunità per essere felice che incontra sul proprio cammino. Un bravo solutore dei problemi si dà dei sotto obiettivi, ma li tiene sempre in subordine rispetto al suo scopo primario. PRINCIPALI INDICI DI INTELLIGENZA (Per tutti gli intervistati) RAGIONAMENTO ASTRATTO SOLUZIONE DEI PROBLEMI CAPACITA’ DI IMPARARE (Per il 50% degli intervistati) MEMORIA ADATTAMENTO AL PROPRIO AMBIENTE RAPIDITA’ DI ELABORAZIONE MENTALE COMPETENZA LINGUISTICA E MATEMATICA CONOSCENZA GENERALE CREATIVITA’ LUCIDO A Roberto è un ragazzo mite, dall’aspetto ordinato, attento ai dettagli fino alla pignoleria, disponibile verso gli altri, ma in realtà scarsamente interessato alle persone o ai problemi pratici. Secondo voi, cosa è più probabile: che Roberto sia un bibliotecario o un commesso? LUCIDO B TUTTI I CUOCHI SONO VIOLINISTI (PREMESSA MAGGIORE) PINO E’ UN CUOCO (PREMESSA MINORE) PINO è UN VIOLINISTA? LUCIDO C Tutti i cuochi sono violinisti (premessa maggiore). .Pino è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista? 2.Pino è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco? .Pino non è un cuoco (premessa minore). E’ un violinista? 4.Pino non è un violinista (premessa minore). E’ un cuoco? LUCIDO D Ogni volta che sente il desiderio di una ciambella, l’uomo si reca a piedi dal fornaio attraversando l’incrocio (premessa maggiore). L’uomo si è recato a piedi dal fornaio attraversando l’incrocio (premessa minore). Desiderava una ciambella? Se riorganizza la struttura dell’azienda, quella donna chiuderà l’anno in attivo (premessa maggiore). La donna ha chiuso l’anno in attivo (premessa minore). Ha riorganizzato la struttura aziendale? LUCIDO E Testi consigliati La Motivazione • Canestrari, R. Psicologia Generale e dello Sviluppo CLUEB (Per la motivazione, Capitolo 11, solo gli argomenti trattati a lezione) • Gray, P. Psicologia Zanichelli (Per motivazione, Capitoli 7, solo argomenti trattati a lezione) • Davison, G.C. & Neale, J.M. Psicologia Clinica (Per disturbi dell’alimentazione, Capitolo 9 , solo gli argomenti trattati a lezione) L’Apprendimento • Canestrari, R. Psicologia Generale e dello Sviluppo CLUEB (Per l’apprendimento, capitolo 7, solo gli argomenti trattati a lezione) • Gray, P. Psicologia Zanichelli (Capitoli 5 e 18, solo gli argomenti trattati a lezione) • Davison, G.C. & Neale, J.M. Psicologia Clinica (Capitolo 2, da pag. 38 a pag. 45 circa) • Kendall, P.C. & Norton-Ford, J.D. Psicologia Clinica (Per la terapia comportamentale, capitolo 12, solo argomenti trattati) L’Intelligenza • Canestrari, R. Psicologia Generale e dello Sviluppo CLUEB ( Capitolo 9, solo gli argomenti trattati a lezione) • Gray, P. Psicologia Zanichelli (Capitolo 11, solo argomenti trattati a lezione) • Kendall, P.C. & Norton-Ford,J.D. Psicologia clinica Il Mulino (Capitolo 6, solo gli argomenti trattati a lezione)