 — in scena
Dalla Cina
al Mediterraneo
Quattro anni di Biennale
firmati Scaparro
M
in scena / la Biennale del Mediterraneo
AURIZIO SCAPARRO, presentando il suo quarto Festival inter-
nazionale del Teatro, ci racconta questi anni veneziani e traccia
un breve bilancio della sua esperienza in Biennale, dove è ritornato nel 2006 dopo le fortunate edizioni dei primi anni ottanta.
«Parto dall’inizio, quando mi chiesero di tornare a Venezia e
di occuparmi ancora del Carnevale. In quell’occasione scelsi di
concentrami sulla Cina e nacque il progetto «Il Drago e il Leone», nella cui immagine di presentazione c’era una scritta appunto in cinese che chiamava in causa – quasi profeticamente
– una parola molto in voga oggi, cioè “crisi”, alla quale però se
ne legava strettamente un’altra di segno opposto, “opportunità”. E in questa duplicità ho cercato sempre di muovermi in questi anni di Biennale. In un periodo certamente non roseo per il
teatro, prepotentemente inserito, al pari degli altri settori della
cultura, nella “poetica dei tagli”, abbiamo tentato di cogliere il
più possibile le opportunità che una situazione del genere offriva, partendo dal fatto che il teatro e lo spettacolo sono una delle
forze del nostro Paese. Questa infinita risorsa che si basa su una
tradizione per certi aspetti unica, che parte dagli antichi tempi
della commedia dell’arte, ci permette di esprimere grandi po-
Festival
Internazionale
del Teatro
diretto da Maurizio Scaparro
Venezia
20 Febbraio–8 Marzo 2009
Maurizio Scaparro in laboratorio
tenzialità, che vanno considerate e valorizzate. Allora, come
terzo tassello della mia impostazione, ho scelto senza indugi la
parola “giovani”: sono loro la risorsa inesauribile che va attratta
e coinvolta. Così, dopo il momento riservato a due glorie cittadine come Goldoni e Gozzi, nel 2007 – quando ancora Goldoni è stato protagonista nelle interpretazioni e riscritture di molti artisti contemporanei – abbiamo fatto partire il Campus riservato agli studenti, che ha avuto per fortuna un grande successo
e un’enorme partecipazione. E altri giovani hanno popolato il
la Biennale del Mediterraneo
cantiere di laboratori dello scorso autunno, arrivando in massa
da tutt’Europa: più di 800 iscritti, che hanno pagato tutto di tasca loro, in una città dove vivere per un mese non è proprio facilissimo. Ma in realtà il discorso laboratoriale, e più in generale
il considerare la Biennale come bacino di utenza di giovani studiosi e appassionati, si inserisce all’interno di quella che io credo
sia la vera chance di sopravvivenza per Venezia: nel suo incontro pubblico Adonis ha messo il dito sulla piaga, parlando dei
rischi che corre questa città di diventare “morta” per davvero: a
differenza delle altre grandi capitali, che sono tutte verticali – diceva – Venezia è una città orizzontale e si stringe sempre più. E
per tentare di invertire questa tendenza, io, che mi sento un po’
cittadino onorario, ho cercato, nel mio campo, di contribuire al
sogno di molti: vedere Venezia trasformarsi nella culla di un’alta scuola, all’interno della quale giovani artisti possano venire
per almeno un mese all’anno a incontrare maestri di discipline
e professioni diverse, oltre che ad approfondire la conoscenza
di quella tradizione cui accennavo poc’anzi, e dei suoi molteplici linguaggi. Questa sarebbe una fonte di vita e di sangue nuovo
per Venezia. E in questo senso sarebbe fondamentale dare maggiori risorse alla Biennale, perché non esiste al mondo un’istituzione interdisciplinare come questa. Anzi sarebbe opportuno
integrare e intrecciare sempre più i settori Danza Musica Teatro,
e farli dialogare strettamente anche con le arti visive.
Poi c’e il Festival in arrivo. Un programma molto variegato,
nel quale – lo dico con orgoglio – più della metà degli spettacoli sono nati qui in laguna attraverso le esperienze laboratoriali.
L’idea di intitolare il biennio a un tema unico e allo stesso tempo affascinante e denso di implicazioni come il Mediterraneo
ha dato i frutti sperati. Quindi, pur in tempi di
crisi – per ritornare a quanto si diceva in principio – il bilancio che traccio di questi anni è
positivo, sperando soprattutto di aver lasciato
qualche germe di una visione diversa di intendere Venezia. Anche l’operazione incentrata
sul mare nostrum infatti contribuisce a restituire – come nel caso del ponte con la Cina e del
binomio Goldoni-Gozzi – centralità culturale alla città, che del Mediterraneo fu vera e propria regina.
Devo però dire che ora, rispetto a quando
sono arrivato, sento più forte l’esigenza di tornare a fare il mio mestiere, cioè il regista. Ed è
per me quindi necessario dedicare il mio tempo alla costruzione del nuovo spettacolo, Polvere di Baghdad, che ha vissuto un’esaltante fase
di studio durante il laboratorio “C’era una volta” (i posti disponibili erano al massimo venticinque e abbiamo avuto più di 160 domande…) e che probabilmente debutterà in marzo all’interno del Festival. Per spiegare lo spettacolo – che avrà la drammaturgia di Adonis e
Massimo Ranieri protagonista – torno ancora
una volta alle parole che ho usato per presentarlo mesi fa: se oggi chiediamo a un ragazzo
cosa gli evoca la parola Baghdad sicuramente ci risponderà guerra, distruzione, violenza. Qualche anno
fa forse quello stesso ragazzo avrebbe risposto Sherazade, Sinbad, Le mille e una notte. In pochi anni le guerre del Golfo hanno
cancellato secoli di cultura e di storia che hanno fatto parte del
nostro bagaglio culturale, soprattutto di noi italiani affacciati
su quel mare che da sempre è stato punto di incontro tra Europa e mondo arabo; una perdita che ha creato un solco profondo
fra queste due culture che, oggi, sembra non riescano più a dialogare. Da queste premesse comincia il nostro lavoro...» (l.m.) ◼
in scena — 
la Biennale del Mediterraneo
La IL Biennale
del Teatro
D
a cura di Leonardo Mello e Ilaria Pellanda
di programmazione per più di venti rappresentazioni, molte delle quali sono gli esiti spettacolari dei laboratori disseminati per
tutta la città tra novembre e dicembre. Così
si presenta il IL Festival Internazionale del
Teatro, diretto da Maurizio Scaparro e dedicato – come la lunga fase laboratoriale che
l’ha preceduto – al Mare Mediterraneo. La
rassegna, dopo la consegna del Leone d’oro
alla carriera a Irene Papas, si dislocherà come di consueto tra molti luoghi del centro
storico e della terraferma.
Nelle pagine che seguono abbiamo cercato di offrire qualche spunto di approfondimento guidando il lettore nel percorso cronologico del Festival attraverso le parole
dei suoi protagonisti, che abbiamo la maggior parte delle volte voluto interpellare
personalmente.
Ma al di là della selezione che presentiamo,
che ovviamente non può abbracciare l’intera programmazione, la Biennale offre molte
altre proposte degne di interesse. Tra queste
certamente c’è Ploutos (o della ricchezza),
il progetto guidato da Massimo Popolizio e
diviso tra Tor Bella Monaca e Marghera, territori periferici rispettivamente di Roma e Venezia dove il grande interprete veste i panni del regista e porta il ghigno artistofanesco nella riscrittura di Stefano Ricci e Gianni Forte, lavorando con attori professionisti insieme a gente del posto.
Tra le presenze internazionali, dal Marocco giunge il
Maurizio Scaparro, Gianni Forte, Stefano Ricci, Massimo Popolizio
Festival
Internazionale
del Teatro
diretto da Maurizio Scaparro
Venezia
20 Febbraio–8 Marzo 2009
Marghera – Teatro Aurora
24 febbraio, ore 18.00
25 febbraio ore 20.30
Ploutos (o della ricchezza) da Aristofane
riscrittura Ricci/Forte
regia Massimo Popolizio
produzione Teatro di Roma
Venezia – Teatro Giovanni Poli Santa Marta
26 febbraio, ore 20.30
27 febbraio, ore 18.00
Bladi mon pays
testo e regia Driss Rokh
interpreti Abdelkebir Rgagna, Said Bay
e con la partecipazione di Abdelaziz Nassib, Said Ghzala, Fatyne Mohammed
produzione Théâtre National Mohammed V Rabat, Adam’s productions
Venezia – Teatro Giovanni Poli Santa Marta
3 marzo, ore 18.00
4 marzo, ore 20.30
Midrash/Hicayàt – Racconto sul Mediterraneo
da Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic
regia Salvino Raco
interpreti Alessandro Baldinotti, Gabriele Ciavarra, Ettore Colombo, Marcella
Favilla
con la partecipazione di Predrag Matvejevic
musiche Nicola Tripaldi
produzione Eos, La Biennale di Venezia
Venezia – Teatro Giovanni Poli Santa Marta
domenica 22 febbraio ore 16.00
lunedì 23 febbraio ore 20.30
L’impresario delle Canarie
intermezzi, azioni, feste teatrali, cantate e rime da Pietro Metastasio
regia Lorenzo Salveti
con gli allievi del II anno del corso di recitazione Diletta Acquaviva, Viviana
Altieri, Vincenzo D’amato, Vera Dragone, Fabrizio Falco, Desy Gialuz,
Lucrezia Guidone, Dario Iubatti, Elisabetta Mandalari, Luca Mascolo,
Alessandro Meringolo, Giorgio Musumeci, Massimo Odierna, Marta
Paganelli, Marco Palvetti, Mauro Pasqualini, Maria Piccolo, Sara Putignano,
Emanuele Venezia
produzione Accademia Nazionale d’Arte Drammatica «Silvio d’Amico»
Teatro Nazionale Mohamed V con Bladi mon pays, un
testo di Driss Rokh, affermato artista di Rabat, dove centrale è la lucida e drammatica esplorazione di un tema scottante come l’immigrazione clandestina.
Ancora dall’estero arriva poi Midrash/Hicayàt. Racconto sul Mediterraneo di Predrag Matvejevic, allestito da Salvino Raco per l’interpretazione di Alessandro
Baldinotti.
Presenza costante nel panorama teatrale veneziano, Giuseppe Emiliani questa volta si prova con Capitano Ulisse
di Alberto Savinio, che lui stesso riassume così: «Per Savinio Ulisse non è un eroe ma uno dei grandi infelici gelosi del loro stato, che si crogiolano nella loro infelicità che
li distingue dagli altri uomini, come gli appartenenti a un
club esclusivissimo.
Eppure anche tra questi Ulisse non è riconosciuto. Da
qui la sua solitudine senza rimedio. Savinio provocatoriamente rivendica di aver per primo “scoperto il punto debole di Ulisse, la sua segreta vergogna”. A questo punto
comincia ad attualizzarne la figura: Ulisse ci diventa contemporaneo e il personaggio prende vita, interloquendo
con il suo autore».
Si aggiungono infine gli allievi dell’Accademia nazionale d’Arte drammatica «Silvio d’Amico», che, sotto la guida
di Lorenzo Salveti, mettono in scena un mix metastasiano
intitolato L’impresario delle Canarie. ◼
Le immagini delle pagine successive, dove non sia indicata la didascalia, si riferiscono ai laboratori autunnali della Biennale.
in scena / la Biennale del Mediterraneo
ICIASSETTE GIORNI
 — in scena
la Biennale del Mediterraneo
Uno spettacolo dal libretto
di Bernard de Zogheb
«
L’
IDEA DELLO SPETTACOLO nasce in
in scena / la Biennale del Mediterraneo
L
seno al Teatro Baretti, a Stefano
Valanzuolo, condivisa da Maurizio
Scaparro e da Andrea Chenna, e in
seno alla Scuola
del Teatro Stabile
di Torino per l’Arte
Scenica dei Cantanti
d’Opera. Bernard de
es
ore
Zogheb scrisse questo
l le B
rontë
libretto dando precise indicazioni per i riferimenti musicali, in un periodo storico in cui
in Italia il Quartetto Cetra in Rai faceva tutta una serie di operazioni
molto interessanti con un impianto simile: prendeva una storia importante e famosa del tempo e portava avanti questa drammaturgia
utilizzando canzoni coeve altrettanto famose a cui sostituivano le
parole. La stessa operazione compie anche de Zogheb, che prende
Festival
Internazionale
del Teatro
diretto da Maurizio Scaparro
Venezia
20 Febbraio–8 Marzo 2009
Venezia – Teatro Goldoni
20 febbraio, ore 20.30
21 febbraio, ore 18.00
Le sorelle Brontë
libretto Bernard de Zogheb
drammaturgia Stefano Valanzuolo
regia Davide Livermore
ricerche musicali, scrittura e orchestrazione Andrea Chenna
interpreti Alfonso Antoniozzi, Pino De Vittorio, Davide Livermore e gli allievi
della «Scuola di Arti Sceniche TST»
produzione La Biennale di Venezia, Associazione Baretti,
Moz-Art Box Portici,
Fondazione del Teatro Stabile di Torino
L’interpretazione
di Andrés Lima e Alberto San Juan
«
L
A VITA PUÒ ESSERE un viaggio, un transito. Una chiatta pie-
na di esseri umani, nel mare, alla mercé delle onde. Può essere che tutti siamo uguali e che alla fine, per tutti, arrivi la
morte. Può essere che l’importante sia godersi il percorso, viaggiando con un bagaglio leggero. E può essere che in questa chiatta tutti ricerchiamo la felicità. Solo i rapporti di dominio che alcuni esseri
umani impongono ad altri rendono il viaggio amaro. E la fame. La
commedia Argelino servidor de dos amos trae origine da questa tragedia.
Nasce dalla lotta di classe, dalla lotta tra sessi diversi, dalla lotta per
trovare lavoro, per incontrare un compagno o una compagna, per
mangiare, per sopravvivere. È attuale? Può essere che lo sia. Potete
dare un’occhiata al giornale di oggi».
Andrés Lima
«La prima domanda potrebbe essere: che diritto si ha di cambiare
le parole che un altro autore lasciò scritte? E la prima risposta: Nessuno. Così, senza alcun diritto – ma convinti della necessità di dialogare con l’opera di chi ci ha preceduto – ci siamo messi a trasformare il testo di Goldoni in piena libertà. Arlecchino servitore di due padroni parlava della lotta di classe, della difficoltà di
convivere quando gli esseri umani si dividono tra
servi e padroni. Argelino, la nostra irrispettosa – ma
neanche troppo – versione di questo classico, parla delle stesse cose, focalizzandosi nella servitù del
nostro tempo: gli immigrati. Pratichiamo in totale
impunità un tipo di terrorismo che implica il lasciar
morire persone che
fuggono dalla miseria. Alcuni di loro – milioni –
li mettiamo al nostro servizio e li sfruttiamo per guadagnare tempo prima di
essere sfruttati a nostra
volta. Ai nostri giorni,
frequentiamo il teatro
per raccontare e ascoltare storie – delle quali la maggior parte delle
rg
volte non sappiamo nulla
o
el i
no
am
o quasi – con l’intenzione di
ser v idor de dos
ridere, commuoverci e perfino riflettere. Riflettere di fronte alla rappresentazione di come un essere
umano distrugge un altro essere umano. All’uscita dal teatro, e sotto innumerevoli forme, ci aspetta questa stessa distruzione».
Alberto San Juan
(testi tratti da: www.animalario.net)
A
una storia estremamente triste e drammatica come la vicenda personale delle tre sorelle Brontë e per contrasto vi inserisce una lingua
che è quella dei porti del Mediterraneo. De Zogheb riscrive la storia
delle sorelle Brontë usando questa lingua abbinata a canzoni molto
popolari negli anni sessanta. Il nostro è un lavoro quasi completamente conservativo rispetto alle indicazioni dell’autore. Ci sono però alcuni riferimenti musicali che lui ha maggiormente sottolineato, che noi attualizziamo o datiamo a un tempo ancora più lontano,
e che Andrea Chenna sostituisce a vantaggio di riferimenti un po’
più riconoscibili, linee melodiche più vicine a noi nel repertorio delle canzonette, o riferimenti molto più colti: possiamo contare infatti
su un materiale umano, dal punto di vista degli interpreti, che si fonda sostanzialmente sul mondo dell’opera. Ecco il perché dell’utilizzazione di una serie di riferimenti musicali operistici. Il gioco teatrale è dunque molto semplice: un testo viene abbinato a musiche celebri per dar vita a una scena davvero molto divertente».
L’«Arlecchino»
goldoniano
è un immigrato
s
«Le sorelle Brontë»
di Davide Livermore
Mestre – Teatro Toniolo
20, 21 febbraio ore 20.30
Argelino servidor de dos amos
da Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni
drammaturgia Alberto San Juan
adattamento Andrés Lima, Alberto San Juan
regia Andrés Lima
intepreti Elisabet Gelabert, Javier Gutiérrez, Alberto Jiménez, Virginia
Nölting, Daniel Moreno, Nerea Moreno, Pepa Zaragoza
scene e costumi Beatriz San Juan
produzione Teatro de La Abadía, Animalario
la Biennale del Mediterraneo
Stefano Pagin rilegge
il romanzo di Virginia Woolf
in chiave sentimentale
N
ELLA PRODUZIONE letteraria di Virginia Woolf Orlan-
«
n
Venezia – Teatro Fondamenta Nuove
22, 23 febbraio, ore 20.30
Orlando
da Orlando di Virginia Woolf
adattamento e regia Stefano Pagin
interpreti Stefania Felicioli, Michela Martini, Massimo di Michele
musiche originali Gabriella Zen
produzione Teatro Fondamenta Nuove, Teatro Stabile del Veneto,
La Biennale di Venezia
Michele Modesto Casarin
cura la regia
di una «Tragicommedia dell’arte»
L’
Otello nasce un anno
e mezzo fa, durante una tournée a Cipro.
Con la mia compagnia
mi trovavo a Famagosta, e restammo molto
colpiti dalle fortezze affacciate sul mare, quelle fortezze nella quali
si narra ci fosse il castello di Otello. Fu da questa
ich
ele
fascinazione che ci venne
Mod
esto Casar in
in mente l’ipotesi di realizzare
un Otello in maschera, creando anche una scenografia che ricostruisse
quei luoghi. Il pensiero, che abbiamo poi sviluppato insieme a Roberto Cuppone, che si è occupato della drammaturgia, si può intuire dal titolo: si tratta della fusione tra tragedia e commedia. L’intento
è quello di mantenere la drammaticità della tragedia, che viene rappresentata attraverso le maschere. Le tinte fosche, tuttavia, saranno
«
IDEA DI QUESTO
M
a
Stef
do (1928) è un episodio singolare, quasi uno scherzo.
Nel primo capitolo siamo alla fine del Cinquecento, e
il giovane Orlando vive la bellissima e dolorosa storia d’amore con
Sasha; nel secondo siamo all’inizio del Seicento, con Orlando sempre giovane che fa le prime esperienze
dell’ipocrisia del mondo letterario,
conosce la lussuria e si fa inviare come ambasciatore a Costantinopoli. Fra i turchi dopo indicibili
dissipazioni si risveglia donna,
e ha deliziose avventure fra gli
zingari. Al ritorno in Inghilterra siamo agli inizi del SettecenoP
to, con Orlando intento alla coma g in
posizione del poema The Oak Tree,
ma dedito anche a scappatelle notturne con donnine allegre. Il quinto capitolo
pone Orlando e l’Inghilterra sotto una nube di pesantezza: è l’epoca del moralismo vittoriano e la povera Orlando deve sposarsi anche lei. Nel sesto capitolo si ritrova nel Novecento post-edoardiano che ha scalzato l’aborrito Ottocento vittoriano.
Leggendo e rileggendo il romanzo, ho sempre avuto l’impressione che il mistero di questo testo potesse essere interpretato anche in chiave di educazione
sentimentale, proprio come una favola di iniziazione. Mi è sempre sembrato che Orlando cercasse nel
tempo e nello spazio la metà di se stesso – per ritornare se stesso – e che la storia e lo spazio invece cercassero di fargli perdere la strada. Spontaneo è stato dunque rileggere l’opera attraverso il mito narrato da Aristofane nel Simposio di
Platone, che descrive gli esseri umani alla perenne ricerca della propria metà perduta. Partendo da questo spunto, nello spettacolo si
cerca di evidenziare la ricerca della propria metà di se stessi attraverso uno sdoppiamento di ruoli: amante e amato risulteranno la stessa persona nello scorrere dei secoli e dei cambi di sesso. La figura di
Orlando sarà interpretata da due attori, rispettando la convenzione
del genere sessuale proposta dal romanzo. Orlando ragazzo alla fine del Cinquecento si innamora di Sasha, che sarà Orlando donna
nell’Ottocento, che sposa Shelmerdine, che a sua volta interpretava Orlando nel Cinquecento e così via. Un gioco di specchi, insomma, nei quali Orlando scorge la propria immagine: quando sta per
raggiungerla questa si allontana, percorre i secoli e muta genere sessuale. Vorrei infine accennare al lavoro musicale di Gabriella Zen:
la nostra idea era che le musiche seguissero il percorso di Orlando,
si comportassero come lui. Per questo abbiamo scelto una canzone
degli Smiths, e l’abbiamo trasformata andando a ritroso nel tempo.
In questo modo il tema di quella canzone nel Cinquecento diverrà
una ballata rinascimentale, nel Seicento una melodia mediterranea
che ricorda la danza del ventre, nell’Ottocento si confonderà con La
morte e la fanciulla di Schubert...».
Le maschere
di «Otello»
Festival
Internazionale
del Teatro
diretto da Maurizio Scaparro
Venezia
20 Febbraio–8 Marzo 2009
diluite in alcuni momenti comici, a sottolineare il fatto che il dramma può sempre tracollare verso il comico. Il finale sarà comunque
drammatico: una tragedia nella tragedia. La vicenda si svolge a Famagosta, dove una compagnia di comici veneziani è rimasta chiusa
nell’assedio. L’azione ripercorre nel suo dipanarsi la sera precedente alla resa dei veneziani ai turchi. Per vincere la paura gli attori fanno quello che meglio sanno fare: rappresentano il proprio rapporto
con l’Oriente attraverso il racconto dell’Otello. Abbiamo scelto questo testo perché si tratta di una storia moderna che ci ha permesso di
raccontare quello che succede al giorno d’oggi, un’epoca che deve
fare i conti con grandi problemi politici, razziali, di convivenza... Ed
è proprio questo che si vive nell’Otello, qualcosa che assomiglia molto ai canovacci della commedia dell’arte: una storia immortale. Proprio quei canovacci funzionano ancora perché portano avanti storie di uomini che sono attuali, non cambiano mai, come una storia
d’amore che finisce in tragedia, oppure una guerra ... Questo è quello che vogliamo raccontare. E lo facciamo attraverso le maschere,
che proiettano in un’altra dimensione, in un altro mondo, permettendo di esprimere concetti anche violenti ma sempre filtrati da loro. Le maschere sono come dei morti, dei ritornanti, anime che vivono a metà fra l’essere vivente e il morto, spiriti a cui è concesso dire tutto. Usiamo le maschere per dire il nostro pensiero a proposito
dell’attuale rapporto fra Islam e cristianità».
Mestre – Teatro Toniolo
24 febbraio, ore 20.30
Otello. Tragicommedia dell’arte
drammaturgia Roberto Cuppone
regia Michele Modesto Casarin
produzione Pantakin da Venezia, La Biennale di Venezia
in scena / la Biennale del Mediterraneo
Gli amori attraverso
i secoli di «Orlando»
in scena — 
 — in scena
la Biennale del Mediterraneo
«Winter Gardens»
di Nikita Milivojevic
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in scena / la Biennale del Mediterraneo
La
BALCANI, già protagonisti agli inizi di dicembre con La polveriera
di Dejan Dukovski allestita da Dimiter Gotscheff, sono al centro anche di Winter Gardens, lo spettacolo ideato e messo in scena da Nikita Milivojevic, affermato regista serbo e direttore del Bitef, il più importante festival teatrale della ex Jugoslavia. Il lavoro
nasce dal confronto che lo stesso Milivojevic, classe 1961,
instaura con la coautrice del testo Maja Pelevic, nata nel 1981 ed
esponente di spicco della successiva generazione di drammaturghi balcanici. Proprio alla generazione
degli anni novanta, che vede
nella propria terra
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luogo di morte e
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desolazione, da cui si è
ejan Dukovski, di sc
Festival
Internazionale
del Teatro
diretto da Maurizio Scaparro
Venezia
20 Febbraio–8 Marzo 2009
necessariamente costretti a fuggire – si parla di più di 700.000 persone – è dedicato Winter Gardens, che nasce dall’assemblaggio di lettere ed e-mail ricevute dai molti amici in esilio.
«Dai racconti di queste lettere scaturivano i miei pensieri: mi immaginavo la loro vita, vissuta in nuove città, con nuovi amici, nuovi
vicini, gli amori, le speranze e i timori. Le loro confessioni su ciò che
li riguardava – dalla vita di tutti i giorni a riflessioni politiche a semplici descrizioni paesaggistiche – e le loro considerazioni su di noi
che eravamo restati a Belgrado, mi sembravano contenere più verità sulle nostre esistenze di quanta ne trovassi in tutti i testi che leggevo in quel periodo. Non cercavano una nuova patria, ma un posto
che potesse offrir loro una vita decente. In una di queste missive mi
domandavano: “Com’è possibile che un Paese sprechi tutto quello
che ha costruito in soli quindici anni?” Ecco, Winter Gardens è dedicata a questa generazione perduta».
Nikita Milivojevic
Venezia – Teatro Piccolo Arsenale
25, 26 febbraio ore 18.00
Winter Gardens
regia Nikita Milivojevic
ideazione e testo Nikita Milovojevic & Friends
musiche Dimitris Kamarotos
interpreti Danijela Ugrenović, Anđela Stamenković, Miljan Prljeta, Mariana
Arandjelović, Vladimir Aleksić, Predrag Damjanović
produzione BITEF – Belgrade International Theatre Festival,
spielzeit’europa | Berliner Festspiele, La Biennale di Venezia
«Morso di luna nuova»
secondo Giancarlo Sepe
Il regista napoletano affronta
il testo di Erri De Luca
L’
dalla compagnia
degli Ipocriti, che mi hanno cercato proponendomi questo lavoro di
Erri De Luca.
Dopo averlo
letto, ho deciso di realizzare una messinscena pensando
anche alla mia famiglia, che è napona
i lu
letana e ha vissuto un
d
o
Mors
po’ tutte le tribolazioni
che la commedia di De Luca racconta. Lo spettacolo è diviso in tre stanze ideali, non fisiche, come fossero tre narrazioni nel
medesimo ambiente. Si tratta di una storia che mette insieme persone in fuga dalla guerra, persone spaventate dai bombardamenti che squassano Napoli. Rifugiate in un ricovero, si incontrano le
più diverse realtà umane, dalla più umile al generale in pensione. È un testo che pone sotto il fuoco dell’attenzione la solidarietà, intesa come vera e propria
anima partenopea. Se è vero che i napoletani sono
molto capricciosi e combattivi, è vero anche che nel
momento della difficoltà e del bisogno, della solidarietà umana, subito scattano e aprono una “concettualità” del vivere assieme che sfocia nella lotta contro il nemico comune. Questo è un po’ il cuore dello spettacolo: una
Napoli prima distratta, in cui ognuno pensa ai fatti suoi, e che quando però identifica un male che può aggredirla ecco scattare una solidarietà incredibile, quel legame speciale che rende forte il suo popolo. È questo il concetto di teatralità che ho voluto mettere insieme: da una Napoli di fantasmi, di persone provate anche nel fisico
in quanto assediate dai bombardamenti, da questa Napoli così disperata ecco dunque nascere il guizzo che porta gli uomini a mettersi insieme per dar vita a quella riscossa che ha poi consentito l’entrata degli alleati e la liberazione della città. Il tutto è ambientato in una
cantina, un sotterraneo dove si sviluppa in nuce quella che sarà poi la
rivolta che scaccerà il nemico».
«
IDEA NASCE
nu
ov
a
La parola agli esuli
di Jugoslavia
«Morso di luna nuova è il morso di una città che addenta e insegue fino a sbattere fuori l’occupante intruso. Qui si svolge la vita di nove
persone in quella estate. Età, mestieri e storie differenti, compresse
in un assedio, rompono le distanze tra loro e vanno insieme, prima
al passo, poi fino al galoppo. La macchina della storia maggiore si
chiude a sacco sulle vite individuali, ma ci sono sussulti in cui le singole esistenze spezzano la camicia di forza e inventano la libertà».
Erri De Luca
Venezia – Teatro Fondamenta Nuove
27 febbraio, ore 20.30
28 febbraio, ore 18.00
Morso di luna nuova
racconto per voci in tre stanze di Erri De Luca
regia Giancarlo Sepe
scene e costumi Bruno Buonincontri
produzione Gli Ipocriti, La Biennale di Venezia
in scena — 
la Biennale del Mediterraneo
«
A
RIA CHE PORTA al
Ra
d io
mare, che chiuso
in gabbia diventa
acqua, che è donna, che è
vita, che è terra»: questa è
la frase scelta dal Gruppo Ponte Radio per far
giocare attraverso i disegni quindici bambini del Cultur Centre di
Jenin. Il frutto di questo
lavoro
creativo sta alla bae
ont
P
se
di
Nero
Inferno. Trilogia quaInferno
o
p
Gr u p
si dantesca, sicuramente non salvifica, lo spettacolo ideato da Alessandro Taddei – che ne è anche il regista – insieme a Enrico Caravita e
Valentina Venturi e che vede protagonisti proprio questi giovanissimi artisti della Cisgiordania, che vanno da un minimo di dieci a un
massimo di tredici anni. Il gruppo romagnolo non è nuovo a questi esperimenti tesi a costruire – come dice il nome stesso che si sono
scelti – dei ponti tra comunità distanti e diverse tra loro. Un recente
antecedente era stato il fortunato Sul confine (Kroz ogledalo) – presentato al Festival di Sarajevo e al Nobodaddy di Ravenna
– dove bambini bosniaci e italiani di dividevano allegramente la scena. I successivi capitoli di questa particolarissima trilogia saranno ambientati nella comunità turca di Berlino (Rosso, previsto per il 2009) e
in Libano (Bianco, programmato per il 2010).
«L’inferno è materia, è realtà, è vita nascosta nel
sottosuolo. Da qui incomincia il viaggio: dalla
TERRA e dalla vita nascosta e non visibile. Un viaggio che non
parte dall’immateriale (rappresentato dall’aria che è metafora dell’immaginazione) ma che cerca nei corpi nascosti nel sottosuolo la
vita che pulsa ed è in apparenza in-visibile (NERO). Nel purgatorio
trovano spazio materia e aria: il corpo e la sua proiezione in ombra.
Un limbo in cui è la realtà a muovere verso l’immaginazione senza
però completarsi mai con questa (ROSSO). Nel paradiso l’aria, sotto forma di luce accecante, si completa con la materia, rendendosi reale e visibile agli occhi, in superficie (BIANCO). Non c’è nessuna intenzione di salvezza nel viaggio di Ponte Radio dalle porte
della Palestina agli alberi del Libano, solo un andare incontro alle
cose, rapirle e giocarle con gli abitanti di questi luoghi. Un viaggio
che parte dal sottosuolo per arrivare alla superficie visibile. Buffo
mettere Dante nelle strade impolverate del Medioriente, tra chiese
e moschee, come un bambino che si è perso e se ne va in giro, senza cercare la strada di casa. Ecco perché questa nostra nuova avventura si diverte a pensare di essere quasi dantesca ma sicuramente non salvifica».
Alessandro Taddei ed Enrico Caravita
Venezia – Teatro Piccolo Arsenale
1 marzo ore 16.00 e 20.30
Nero Inferno .Trilogia quasi dantesca, sicuramente non salvifica
ideazione e testo Alessandro Taddei, Enrico Caravita, Valentina Venturi
regia Alessandro Taddei
interpreti Ahmed Maher Jamal, Ali Omer Frihat, Basem Omer Awad,
Mohammad Waseem Aljaiuossi, Feker Taher Ateeq, Haya Ghazi Abufarha,
Khalil Ghasan Habbalrih, Layth Abd Alkareem Shalamish, Mohammad
Ra’ed Abukhalil, Naser Ra’ed Abukhalil, Omar Ahmed Shalamish, Qossay
Roshdi Shaban, Rimah Mousa Ararawi, Rina Moustafa Alnajjar, Renad Nihad
Abdallah, Mohammed Yousef Awad
produzione Gruppo Ponte Radio, Regione Emilia-Romagna Cultura d’Europa,
Coop Adriatica
Giorgio Marini illustra
il suo adattamento scenico
«I
nizialmente avevo pensato di realizzare un’opera che fosse
tratta dalle Nozze di Cadmo e Armonia. In seguito con Roberto Calasso abbiamo sorriso di questa cosa, perché sarebbe
stato un lavoro davvero troppo complicato. Mi sono quindi deciso
a mettere in scena questo suo racconto inedito. Spesso e volentieri
mi sono occupato di adattare testi letterari, e se da qualche anno realizzo “spettacoli da camera”, con pochissime persone, in questo caso invece si tratta di un lavoro ricco di presenze, molto visivo, pieno di movimento, con un testo autorevole e importante. Sposando
lo spirito che anima questa Biennale, tutta incentrata sui laboratori,
ho condotto un seminario con l’Università degli Studi di Roma «La
Sapienza» e accanto ad Anna Paola Vellaccio, Aide Aste, Pino Censi e Massimo Serenelli in scena ci sarà una quindicina di giovani attori che ho voluto con me a seguito dell’esito del lavoro e della ricerca avviata in Università. Per quanto riguarda l’allestimento, in passato ho spesso utilizzato scenografie un po’ “esorbitanti”; da un po’
di tempo, invece, sia per motivi di tipo economico, sia per la volontà di raggiungere una maggiore essenzialtà, mi sono orientato verso scene più emblematiche, con poche cose pregnanti e significative, anche se non solo simboliche. In questo lavoro molto importan-
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Internazionale
del Teatro
diretto da Maurizio Scaparro
Venezia
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ti sono infine le luci, che hanno sempre avuto per me una funzione
centrale. E anche in questo caso il loro utilizzo sarà molto variegato
ed elaborato, tentando attraverso l’uso di numerosi riflettori ed effetti di ottenere il massimo possibile di visualità».
«Il racconto del giavellotto di Procri è retaggio e tassello di un inestricabile intreccio di miti, patrimonio della cultura mediterranea, viaggio iniziatico tra scandali e seduzioni,
travestimenti e rivelazioni, in un
multiforme scambio dei ruoli tra cacciatore e preda. Il giavellotto dalla punta d’oro è
l’emblema in cui le forze di
Eros e Thànatos giocano a
rincorrersi».
Roberto Calasso
o
R obert
Ca
l
Venezia – Teatro Fondamenta Nuove
3 marzo, ore 20.30
4 marzo, ore 18.00
Il giavellotto dalla punta d’oro
da un racconto di Roberto Calasso
regia, scene e costumi Giorgio Marini
interpreti Anna Paola Vellaccio, Aide Aste, Pino Censi, Massimo Serenelli
e con gli attori dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» Federica
Di Credico, Rossella Fava, Federica Fiorillo, Maria Grazia Gigante, Silvia
Grande, Federico Meccoli, Letizia Gioia Monda, Antonio Roma, Ligia
Salomon, Elena Nunziata Taranto, Serena Troiani
produzione Florian Teatro Stabile d’Innovazione, La Biennale di Venezia
in scena / la Biennale del Mediterraneo
La prima tappa di una trilogia «quasi
dantesca»
«Il giavellotto
dalla punta d’oro»
di Roberto Calasso
ass
o
Il «Nero Inferno» del
Gruppo Ponte Radio
 — in scena
la Biennale del Mediterraneo
Il «Ciclope» macaronico Il «Mare mio»
di Enzo Siciliano
di Antonino Varvarà
Uno spettacolo
di Francesco Siciliano
con le musiche di Silvia Colasanti
I
in scena / la Biennale del Mediterraneo
«
L CICLOPE, l’unico dramma satiresco
arrivato fino a noi, racconta la famosissima vicenda di Ulisse e del ciclope Polifemo: Odisseo, arrivato con i
compagni sulle rive sicule, cerca di barattare del cibo per sfamarsi con il vino che
gli ha donato Dioniso, ma il ciclope Polifemo invece di accettare lo scambio o di onorare l’ospitalità uccide e divora alcuni compagni
dell’eroe. Enzo Siciliano tradusse Il Ciclope in un italiano che si confondeva con tutti i dialetti dell’Italia meridionale, della Magna Grecia, appunto: il siciliano, il calabrese, il napoletano, ma anche il romano e il pugliese e nel caso del personaggio di Ulisse – l’eroe che ha
viaggiato e conosciuto di più il mondo – anche qualche accento di
inglese e di francese e persino di tedesco. Questa lingua così composita e colorita e allo stesso tempo tesa verso una marcata comicità è la protagonista del mio spettacolo. Il testo conta quattro personaggi: Polifemo, il ciclope padrone della terra dove sbarcano i malcapitati greci; Ulisse; poi Sileno, il vecchio pastore messo per punizione da un dio a guardia insieme ai suoi figli, e il coro, interpretato
da un solo attore nei panni di cantastorie. Lo spettacolo avrà bisogno di una scena che dovrà rappresentare una discarica: il baratto
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diretto da Maurizio Scaparro
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avverrà fra la “munnezza”, al centro dell’entrata della grotta di Polifemo. In questo quadro di assoluto degrado l’intelligenza avrà la
meglio sul totale abbruttimento, e il gioco e lo scherno renderanno
la disperazione del Ciclope ancora più assoluta».
Francesco Siciliano
«In scena ci sarà un solo clarinettista, Marco Colonna, che utilizzerà il clarinetto in si bemolle, quello basso ma soprattutto il clarinetto contrabbasso, che è uno strumento particolarissimo, molto
grande, e che bene si adatta alla dimensione estremamente grottesca del Ciclope, soprattutto per quanto riguarda il suo personaggio
principale. La musica farà da contrappeso al monologo di Francesco Siciliano, dialogando con la voce e sottolineando alcuni aspetti emotivi del testo. Poi ci saranno anche dei momenti di intermezzo esclusivamente musicali. Qualche anno fa avevo lavorato con
Enzo Siciliano, scrivendo un melologo su un suo testo dedicato alla Beata Angela da Foligno. In quell’occasione ho conosciuto Francesco, che mi ha poi chiamato perché ci teneva a inserire un preciso
elemento musicale. Leggendo il testo ho subito pensato alla famiglia dei fiati, e in più si è aggiunto il fatto che Francesco ha anche studiato il clarinetto, quindi chissà che in certi punti non si possa creare un gioco tra i due...».
Silvia Colasanti
Venezia – Teatro Giovanni Poli Santa Marta
6, 7 marzo ore 20.30
Il Ciclope da Euripide
invenzione macaronica di Enzo Siciliano
regia Francesco Siciliano
musica originale di Silvia Colasanti
interpreti Francesco Siciliano, Antonio Caggiano, Marco Colonna
produzione Straight to video, La Biennale di Venezia
Q
«
UANDO ABBIAMO COMINCIATO a lavorare a Mare mio, un
testo ancora non esisteva. Si tratta del modo di procedere che mi è più consono rispetto a situazioni dove esista già un lavoro testuale su cui cominciare a riflettere. Ho quindi comunicato le mie idee e suggestioni ai miei attori, fra
l’altro ragazzi che vengono iniziati al
professionismo proprio con questo spettacolo: tre attori diplomati al corso pilota
dell’Accademia Teatrale Veneta, sostenuto dalla Fondazione di Venezia,
e uno dei ragazzi
che si è diplomato quest’anno
all’Accademia
Teatrale «Nico
Pepe» di Udine.
Assieme a Francesca D’Este, attrice
storica di Questa Naio
M a re m
ve, abbiamo lavorato con
le improvvisazioni e la raccolta del materiale. È una fase di lavoro
in cui scrivo moltissimo e, mano a mano che si procede, ne scaturisce un materiale sempre più elaborato. Lentamente nasce un testo, in realtà un pre-testo,
qualcosa di ancora amorfo, che non ha alcun valore
teatrale se non una funzione semplicemente documentaristica. Questo pre-testo viene quindi sfoltito
e si comincia così a individuare una linea di condotta, una linea registica. Solo nell’ultima parte del lavoro si otterrà una drammaturgia fatta di parole.
Mare mio si apre anche sullo spazio della nostalgia intesa come perdita di quelle certezze che si avevano da bambini: i luoghi, le cose, i
genitori, gli amici, gli odori, le consuetudini. Il mare è nostalgia di
queste certezze, ma è anche sede di inquietudine che può far intuire quale sia il percorso da fare per ritrovare un po’ di queste certezze. È questo mare di memoria, di speranze, di sogni che vorrei raccontare. Un mare che mi pone di fronte alla Storia, e davanti al quale io sento riaffiorare la storia. Che mi permette di intrecciare antico
e quotidiano, eroi e gente comune, mito e vicende di uomini mortali. Che mi parla di Ulisse ma anche di moderni disorientati piccoli
Enea a caccia di una nuova patria, che mi racconta delle glorie degli
Argonauti ma non mi nasconde le storie minime di disperati naviganti, che quasi quotidianamente varcano questo mare alla ricerca
di un loro agognato Vello d’oro. Mediterraneo come scrigno di antichi misteri e crogiuolo di dubbi per l’uomo moderno, alba dell’uomo e, forse, tramonto dell’Europa. Mediterraneo come culla di una
civiltà, ma anche memoria di un semplice uomo. Mare mio».
Marghera – Teatro Aurora
6, 7 marzo, ore 20.30
8 marzo, ore 16.00
Mare mio
testo e regia Antonino Varvarà
interpreti Sara Bettella, Daniel De Rossi, Demis Marin, Antonella Tranquilli
e con Francesca D’Este
produzione Questa Nave/Teatro Aurora
in scena — 
la Biennale del Mediterraneo
L
A NOSTRA ESPLORAZIONE dell’Antigone sofoclea determina
un cambiamento nelle nostre abitudini teatrali: noi infatti
per molti anni abbiamo lavorato sul coinvolgimento dello spettatore “al singolare”, costruendo una serie di lavori che prevedevano appunto il coinvolgimento diretto di ogni singolo spettatore partecipante. Con Antigone la scommessa invece è rivolgersi
alla polis, alla comunità. Antigone è la tragedia della polis, che nasce
– come è noto – dallo scontro tra il diritto individuale di Antigone
e la legge della città di Creonte. Questa contrapposizione si apre al
corpo intero di una comunità, e in questo senso stiamo costruendo
lo spettacolo. Per cui si tratterà finalmente di un lavoro senza limitazioni del numero degli spettatori. Della tragedia mi interessa soprattutto lo scontro tra Antigone e Creonte, per tutte le implicazioni che porta con sé. Anche attraverso il laboratorio veneziano di novembre – che ha seguito a sua volta una serie di altri momenti di studio in giro per l’Italia – ci siamo chiesti chi fosse oggi Antigone. E la
risposta è stata che questa giovane donna di stirpe regale è allo stesso tempo e più di tutto l’espressione di una minoranza, di una diversità. L’elemento su cui mi sono concentrato maggiormente e su cui
sto continuando a lavorare – ripeto – è proprio il conflitto fra Antigone, emblema di questa alterità che non si piega, che rimane fedele agli affetti familiari e a uno spirito profondo di umanità, e invece
una società – sia quella antica dei greci che (e soprattutto) quella attuale dove viviamo tutti i giorni – che questa diversità non l’accetta,
non riesce a elaborarla. Aggiungo che, dopo aver frequentato per così tanto tempo Edipo, a noi del Teatro
del Lemming la figura di Antigone è particolarmente cara. E mentre Edipo l’avevamo letto come dramma della soggettività ora percepiamo che Antigone
fa appello alla tragedia del nostro tempo. Ed è perciò che questa ragazza continua a parlarci e a interrogarci. Come Edipo è
stato per noi l’inizio di un processo
di lavoro sul singolo spettatore,
Antigone è l’inizio o almeno la
figura centrale della volontà che abbiamo in questo
periodo di interrogare la
comunità».
L’«Uscita di emergenza»
di Manlio Santanelli
«
U
SCITA DI EMERGENZA nasce a ridosso di un fenomeno par-
ticolare che aveva colpito Napoli nei primi anni ottanta,
e che poi si realizzò in maniera macroscopica con il terremoto. Si trattava del bradisismo, fenomeno tellurico attraverso il
quale la terra respirava togliendo di continuo il respiro ai suoi abitanti: la terra si alzava e s’abbassava vistosamente nella zona vulcanica. Pensai che questa mobilità e precarietà del sottosuolo potesse
essere una giusta chiave per ambientare la storia di due disperati, rimasti in un quartiere abbandonato e quindi immersi nella solitudine e nella precarietà, avviluppati da una marginalità interiore che si
suturava molto bene con quella ambientale. In ossequio alla norma
che a teatro è necessario che ci sia un conflitto di posizioni, ho voluto rappresentare due opposti mondi scegliendo il teatro e la chiesa.
Mi guardai bene dal rappresentarli a livelli alti e presi invece a prestito le ultime ruote di questi due grandi carrozzoni millenari: si tratta infatti della vicenda di un ex suggeritore oramai a riposo – e chissà quando e se era realmente stato in servizio – e di un ex sagrestano,
anche lui dal passato molto dubbio, che si trovano a dover sopravvivere in questo ambiente quasi raso al suolo e degradato, una condizione ancor oggi riscontrabile in certe zone della mia città. I due personaggi si confrontano e si scontrano in un avvicendarsi dal quale
emerge un capovolgimento del luogo comune “meglio soli che male accompagnati”. Qui bisognerebbe dire invece: “meglio male accompagnati che soli”».
«Nell’impianto di Uscita di emergenza c’è già il tema che sarà poi del-
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Internazionale
del Teatro
diretto da Maurizio Scaparro
Venezia
20 Febbraio–8 Marzo 2009
aS
ed
tan
elli
Venezia – Teatro Fondamenta Nuove
7, 8 marzo ore 18.00
Antigone da Sofocle
regia e musica Massimo Munaro
interpreti Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini,
Mario Previato, Alessio Papa, Massimo Munaro
produzione Teatro del Lemming, La Biennale di Venezia
Venezia – Teatro Malibran
7 marzo, ore 18.00
8 marzo, ore 16.00
Uscita di emergenza. Beati i senzatetto perché vedranno il cielo
testo Manlio Santanelli
regia Giancarlo Sammartano
musiche Stefano Marcucci
interpreti Lello Arena, Sebastiano Tringali
scene Lello Esposito
produzione Broken Silence, La Biennale di Venezia
ofocl
e
«Nella cultura della
Grecia classica, all’origine della civiltà mediterranea,
tutti hanno le lon
i go
ro ragioni, sia i barbari sia i
t
n
A
greci, sia Antigone sia Creonte, e questo perché tutti condividono una parte divina dell’esistenza. La
superficie blu del Mediterraneo riflette ancor oggi le loro figure: rivelandoci il viso dell’altro esso ci rivela che questo viso non differisce dal nostro».
Teatro del Lemming
l’intero teatro di Santanelli: quello del rito e
della ritualità come mezzo per esorcizzare una realtà insopportabile o ritenuta tale. Basterebbe, in proposito, considerare
le professioni svolte in precedenza dai due
n
protagonisti, ed entrambe riferite, manco
Manlio Sa
a dirlo, per l’appunto a un rito, rispettivamente il Teatro e la Messa. [...] Ma il rito, lo sappiamo,
è qualcosa che consta di un dato reale (la cerimonia in sé) e del continuo slittamento di quel dato – attraverso la metafora o comunque il
simbolo – in una dimensione altra. [...] Qui contano non i ruoli interpretati dai personaggi in campo, ma soltanto la recita a cui quei personaggi danno luogo. E ne consegue che Uscita d’emergenza è un testo
assai complesso e stratificato: giacché – e torniamo così al suo carattere anfibologico e alla metafora delle due facce di una sola medaglia – vi coesistono la tradizione della migliore drammaturgia partenopea [...] e gli umori aspri e pungenti del teatro di respiro europeo, che di quella tradizione costituisce l’esatto contrario, il teatro
di Pinter innanzitutto».
Enrico Fiore
(da Il rito, l’esilio e la peste. Percorsi nel nuovo teatro napoletano: Manlio Santanelli, Annibale Ruccello, Enzo Moscato, Ubulibri, Milano 2002)
in scena / la Biennale del Mediterraneo
Massimo Munaro
rilegge l’«Antigone»
con gli occhi di oggi
«
 — in scena
Un incontro
con Juan Mayorga
Applauditissima
la lettura di «Hamelin»
curata da Manuela Cherubini
J
UAN MAYORGA, uno dei drammaturghi più apprezzati e rap-
in scena
presentati della scena spagnola (cfr. l’articolo alla pagina seguente), il 12 dicembre – durante la Settimana del Teatro
Spagnolo Contemporaneo, cfr. VeneziaMusica e dintorni
n. 25, p. 59 – è stato protagonista di un incontro a lui dedicato
nell’ambito del progetto-laboratorio di scrittura teatrale «Parole in forma scenica»,
ideato e promosso
dalla Fondazione di
Venezia. Riportiamo qui di seguito la
prima parte del suo
intervento.
no a luoghi per me imprevisti e inaspettati. Inoltre è stata capace,
semplicemente attraverso i corpi e l’eloquenza dei suoi bravi attori, di costruire tutta la città che sta alla base della mia pièce. Se per
creare una scena che abbia luogo – poniamo – nella città da dove provengo, Madrid, mi baso sugli effetti speciali e sugli accorgimenti scenografici, sarò sempre perdente rispetto al cinema e
alla televisione. Ma se invece sono in grado di convocare l’immaginazione dei miei spettatori, ognuno di loro porterà Madrid in
scena, e questa Madrid non potrà essere mai superata da alcun tipo di effetto speciale. Se io costruisco una situazione nella quale sto prendendo un caffè nella Plaza Mayor di Madrid, basterà
nominare la Plaza Mayor per risvegliare una cascata di allusioni,
immagini, connotazioni che sarà sempre più ricca di quella che
può produrre un qualsiasi schermo. E questo il teatro lo può ottenere sempre, se non dimentica che la sua strategia fondamentale è la stessa della poesia: non presentare le esperienze direttamente e così come sono, ma guadagnare una distanza e «aggira-
«A mio giudizio
lo scrittore di teatro,
come il romanziere,
può raccontare ottime storie, e come il
poeta può esplorare
il proprio linguaggio e cercare i limiti
della propria lingua.
Hamelin di Juan Mayorga secondo Manuela Cherubini. Da sinistra: Marco Vergani, Patrizia Romeo,
Ma in più ha un priLuisa Merloni, Raimondo Brandi, Mariano Nieddu, Alessandro Quattro, Roberto Rustioni (foto di Lara Peviani)
vilegio che invece il
romanziere e il poeta non posseggono:
il testo teatrale infatti conosce cose che il suo autore non conore» le cose alludendovi, senza limitarsi a riprodurre il rumore del
sce. Sa più cose del suo autore e diviene il motore di una catena di
mondo, ma costruendo un’esperienza poetica che lo spettatore
spostamenti, di «traduzioni» che nascono nella mente del regista
possa poi completare».
quando immagina il suo spettacolo, per passare poi allo scenografo, al datore luci e ovviamente arrivare agli attori. E questa caIl giorno dopo l’incontro, sabato 13 dicembre, presso il Teatena alla fine si conclude nello spettatore, che possiede un potetro Aurora di Marghera – dopo una tavola rotonda sul teatro di
re che non gli è concesso da altri mezzi di rappresentazione, coMayorga cui hanno partecipato, oltre all’autore, José Sanchis Sime per esempio il cinema, quello cioè di scegliere il proprio punnisterra, Manuela Cherubini, Davide Carnevali e Adriano Iuristo di vista, di selezionare ciò che desidera vedere. In questo senso
sevich – si è tenuta un’emozionante lettura scenica di Hamelin, cuè uno spettatore sovrano, che gode di una particolare libertà. Per
rata dalla brava Cherubini – che eccezionalmente ha anche dato
tutto ciò penso che il teatro sia un luogo davvero privilegiato per
voce al centrale personaggio del Didascalista, riscuotendo moluno scrittore, e più in generale per ogni essere umano. Noi che ci
to successo nell’inconsueto ruolo di interprete – insieme ai suoi
lavoriamo dentro abbiamo molta fortuna, perché non esiste alattori di Psicopompo Teatro. La versione spettacolare di Hamecun altro mezzo tanto diretto con il quale condividere lo stupore
lin allestita da questa giovane compagnia indipendente ha ottee la meraviglia che tutti proviamo per la vita. Il teatro non ha liminuto critiche entusiastiche nella passata stagione, ed è entrata –
ti! C’è chi lo considera un’anticaglia, mentre io al contrario credo
per la categoria Migliore novità straniera – nella terna di nominasia l’arte del futuro, proprio per la sua incredibile semplicità, che
tions dei Premi Ubu 2008, la cui consegna si svolgerà a Milano il
lo rende straordinariamente elastico. Ritengo che non esista sto26 gennaio.
ria che non si possa raccontare su un palcoscenico, e che non vi sia
Il progetto «Parole in forma scenica», destinato ai giovani da 16
esperienza umana che il teatro non possa raccogliere e fare sua, a
a 20 anni e incentrato sull’opera drammatica di Antonio Taranpatto che resti fedele alla sua maggior forza, che – ripeto – sta neltino, dopo la parentesi «spagnola» in febbraio entrerà nel vivo
lo spettatore: se lo rende suo complice,
con un incontro pubblico con il dramnon ha altri limiti che l’immaginaziomaturgo torinese (ma nato in realtà a
ne di quello stesso spettatore. Manuela
Bolzano), che vedrà la partecipazione
Venezia – Auditorium Santa Margherita
Cherubini ha appena finito di allestire
speciale di Franco Quadri e una lettura
9 febbraio, ore 18.00
un magnifico spettacolo sul mio Hadi testi curata da Maria Paiato. (l.m.) ◼
Incontro con Antonio Tarantino e Franco Quadri
melin, ed è riuscita a condurre il testo fiLettura scenica a cura di Maria Paiato
C
di Davide Carnevali
ON UN POCO DI RITARDO rispetto ad altri paesi euro-
pei, il nome di Juan Mayorga si è fatto definitivamente conoscere in questo 2008 anche sulla scena
italiana; scena, si sa, poco benevola con le novità, e ancor
meno con le novità drammaturgiche. La Spagna è
una realtà cui per lungo tempo non abbiamo forse riservato l’adeguata attenzione, e che è cresciuta, rapidamente, lontana dal nostro sguardo discreto. Gran merito va a Franco Quadri e Ubulibri, nel
pubblicare un autore che in italiano aveva visto tradotti, sino a ora, solo un paio di testi, peraltro datati. E che soprattutto non era mai stato messo in
scena – se non in forma di lettura – fino al 2007,
quando Manuela Cherubini presentava un illuminante montaggio di Hamelin, nella bella rassegna
romana di Short Theatre.
Due anni prima, proprio con questo testo, Mayorga aveva ricevuto in patria una sorta di consacrazione, che per un drammaturgo significa di fatto
guadagnarsi, oltre l’amore della critica e degli operatori, anche quello del grande pubblico. Scritta a
partire da uno spunto di cronaca, Hamelin porta davanti alla platea una tematica delicata e attuale come la pedofilia; mostrando le incongruenze di una
società che vorrebbe, ma non sa, proteggere i suoi
cittadini più deboli, i bambini. Riflettendo sulle responsabilità dei media, Hamelin è un’opera che parla del
linguaggio, di come è manipolato e di come può manipolare la descrizione della realtà; e parallelamente arriva a
occuparsi della parola teatrale, e della sua forza poetica e
poietica. Al Didascalista – personaggio a metà tra scena e
pubblico, tra testo e sottotesto – spetta il compito di scandire la successione cronologica degli eventi; e soprattutto
di fare da guida allo spettatore, invitandolo a provvedere,
con la sua immaginazione, alle coordinate spaziali e temporali che l’autore volutamente omette.
Il problema del linguaggio, dell’interpretazione della realtà, del coinvolgimento dello spettatore, sono punti cardine di tutta la produzione mayorghiana. Una produzione vastissima, che conta al momento più di venti opere,
altrettanti testi brevi, e adattamenti. La traiettoria drammaturgica di Mayorga inizia nel 1989, con la segnalazione
al Marqués de Bradomín – il premio più importante per i
giovani autori spagnoli – di Siete hombres buenos. Gran parte delle prime opere, tra cui Más ceniza (1992), El traductor
de Blumemberg (1993), El jardín quemado (1997), fino a Himmelweg (2003), si interroga sul problema della ricerca della verità, nel confronto con la storia europea del Novecento. Recuperando le tesi di Walter Benjamin, Mayorga rifiuta l’idea di un passato conoscibile «come propriamente è
stato»; e propugna la necessità di staccarsi dalla «tradizione dei vincitori» per far risuonare, nel silenzio, «la voce dei
vinti». Himmelweg parla proprio della difficoltà di ascoltare
questa voce, e di aprire gli occhi sul reale stato delle cose.
Scoprendo che, se in un contesto culturalmente avanzato
come quello tedesco dell’epoca, si rese possibile l’Olocau-
sto, allora il concetto di cultura non può più considerarsi
opposto a quello di barbarie: solo per mezzo della critica,
la cultura può contribuire a uno sviluppo in senso positivo della società.
Il rapporto tra società e cultura è al centro di due fortunati testi come Cartas de amor a Stalin (1998), che ripercorre il carteggio tra Bulgakov e il dittatore sovietico che
ne aveva ordinato la censura; e Animales nocturnos (2003),
in cui un colto traduttore sin papeles si ritrova alla mercé
del suo vicino, a causa di una nuova legge sull’immigrazione. Sono questi gli anni in cui il teatro di Mayorga entra con sempre maggior convinzione nel dibattito politico
contemporaneo. In parte grazie all’incontro con la com-
in scena
Juan Mayorga.
Teatro contro
il rumore
in scena — 
pagnia Animalario, che, oltre al già citato Hamelin, porta
in scena due pièce mayorghiane dal sapore satirico: Alejandro y Ana (2003), sul pensiero della destra spagnola, scritta a quattro mani con Juan Cavestany, e Últimas palabras de
Copito de Nieve (2004), protagonista il fu gorilla albino dello
zoo di Barcelona. Anche i testi più recenti, El chico de la última fila (2006), con l’istruzione delle giovani generazioni, e
La paz perpetua (2007), che si interroga sulla legittimità della violenza come risposta alla violenza del terrorismo, sono esempi di un teatro che rivendica con forza un vincolo
con il contesto sociale in cui nasce e opera. Un vincolo che
– emerge qui l’influenza di un fine teorico come José Sanchis Sinisterra – si instaura innanzitutto cercando la complicità del pubblico. Allo spettatore è chiesto di entrare nel
gioco, contribuire con la propria attività immaginativa, facendosi in questo modo parte attiva nel processo di creazione dell’opera; testi come Hamelin, El chico, o La tortuga
de Darwin (2007) sono costruiti considerando l’immaginazione dello spettatore come imprescindibile. Solo facendo
complice lo spettatore nel qui e ora della scena il teatro può
riscoprire, secondo Mayorga, la sua essenza, sopravvivere alla concorrenza della tecnica, e mettersi nella condizione di descrivere la realtà in tutta la sua complessità. Quella di Mayorga è una drammaturgia che vuole dare voce allo spettatore, elevare questa voce al di sopra del rumore di
fondo del conformismo, mirando a fare di ogni spettatore
un critico. Un critico che, come Volodia, protagonista del
recentissimo Si supiera cantar me salvaría (2008), possa auspicare «un teatro di uomini, un teatro per la vita dell’uomo
e il suo mistero, un teatro che ci protegga dal rumore». ◼
 — in scena
«Ritter, Dene, Voss»
di Thomas Bernhard
la commedia dell’arte e per lo spettacolo improvvisato:
quella coperta da cavalli di cui ogni tanto si parla come di
un’eredità (l’unica) di una generazione passata di artisti/giocolieri è pure la coperta in cui si avvolgeva il nonno scrittore di Bernhard ed è quindi un indizio troppo chiaro per esdi Eugenio Bernardi
sere sottovalutato.
La commedia comunque contiene fin troppi accenni ad
ERTO, QUESTA PIÈCE di Thomas Bernhard può semun preciso ambiente viennese, a partire dalla continua evobrare una farsa, un canovaccio da poter accorciacazione dello Steinhof, il famoso ospedale psichiatrico core a piacere. Un’azione vera e propria distruito ai tempi di Francesco Giuseppe ai margifatti non c’è, l’impressione che si ha è di assini della città dove nella commedia è ricoverastere a una ricorrenza. La prossima volta (si
to Ludwig e qui contrapposto al teatro delimmagina) la situazione non sarà diversa:
A dicembre è approla Josefstadt, dove (quando vogliono) rele due sorelle ospiteranno per qualche
dato al Teatro Goldoni Ritter,
citano le sue due sorelle. Ma si citano angiorno il fratello, poi si dovrà riportarDene, Voss, uno dei migliori testi di
che i concerti nella sala del Kunstvelo all’ospedale. Se lui, a quanto pare,
Thomas Bernhard, interpretato da Marein, le sinfonie e i quartetti di Beethoè malato di mente, anche le due sonuela Mandracchia, Maria Paiato e Masven, i piatti tipici della cucina austriarelle sono persone fissate, innamorasimo Popolizio e diretto da Piero Maccaca. E si fanno dei nomi, Worringer,
te del fratello e prigioniere della situarinelli. Approfittando di quest’occasioper esempio, e Frege. Nomi comuzione in cui vivono, con sogni di evane abbiamo chiesto a Eugenio Berni e nello stesso tempo allusivi, di cui
sione, sogni impossibili. L’aspetto farnardi di illustrarci più a fondo
Ludwig è l’esempio più evidente e ansesco si esprime in scene di grande effetla pièce.
che quello che indica il modo con cui Ber-
in scena
C
to: i Krapfen ingurgitati con furore, lo sforzo accanito ma
nhard costruisce un personaggio ossia mai definendolo sevano di spostare almeno di qualche centimetro i mobili del
condo un criterio psicologico-realistico, ma attraverso una
salotto, l’entusiasmo un po’ sospetto per le mutande di corete di indicazioni contraddittorie che lo rendono inaffertone svizzero di montagna marca Montblanc, le furibonrabile e inquietante, anche dove lo sfondo sia in prevalende imprecazioni contro i ritratti di famiglia appesi da semza comico. A leggere il testo della commedia, che si dispopre alle pareti. D’altro canto, un matto in scena è una garanne per brevi enunciati isolati, per lo più indipendenti sinzia di divertimento, soprattutto se è uno come questo Ludtatticamente, non procedendo quindi secondo un discorso
wig che alterna momenti di rabbia a momenti di autoironia.
continuo e consequenziale, si intende come Bernhard abLo strano titolo, composto dai cognomi dei tre attori debia inteso fin dall’inizio il suo teatro formulandolo seconstinati a recitarlo (celeberrimi soprattutto a Vienna, grandi
do quello stesso criterio con cui Ludwig in una scena esilaprotagonisti al Burgtheater), rafforza l’idea della farsa perrante condanna la smania delle sorelle di farsi fare un ritratché, dando la preminenza alla loro performance, fa supto. La scena nel suo eccesso è comica, ma è proprio nell’ecporre che, una volta fissata l’impostazione, possano esser
cesso che Bernhard formula la sua visione del mondo, afloro, di battuta in battuta, a creafermandola e nello stesso tempo
re il testo.
togliendone la gravità attraverso
Ritter, Dene, Voss è pubblicato in:
Non si tratta di questo, ovvial’esagerazione. All’origine delThomas Bernhard, Teatro III
mente, anche se Bernhard ha più
la sua drammaturgia (ma anche
(L’apparenza inganna, Ritter, Dene, Voss, Semplicemente complicato),
Ubulibri, Milano 2000
volte espresso la sua simpatia per
della sua narrativa di cui il teatro
in scena — 
costituisce una diramazione) è che ogni rappresentazione
del mondo è di per sé falsa, in quanto sostituisce alla complessità dell’esperienza un’immagine che tende a soffocarla e isterilirla. Considerazioni che fanno capire quanto profondo sia in Bernhard il rapporto con la tradizione della
Vienna dell’inizio del Novecento. Quando in una breve nota al testo egli definisce Ritter,Dene,Voss «attori intelligenti» molto probabilmente intende dire attori capaci di vivere, nel corso della rappresentazione teatrale, proprio questa
indeterminatezza, costruendo il proprio discorso (e quindi il proprio personaggio) attraverso allusioni, ripetizioni,
contraddizioni, variazioni sul tema, e impedendo così agli
spettatori di farsene un’immagine definitiva che prenda le
distanze dai loro discorsi senza sentirsene coinvolti, forse anche turbati. Una rappresentazione ideale ma impossibile dovrebbe essere quindi una rappresentazione lentissima, che fornisse cioè a chi ascolta la possibilità di percorrere pensieri che una volta Bernhard ha definito asiatici, ossia non del tutto prevedibili, stravaganti non nel contenuto,
ma nel modo con cui via via si formulano. Certo, tutto ciò
significa portare i personaggi all’estremo, porli alle soglie
del delirio o della follia, senza comunque arrivare a supe-
Steinhof. E allora chi è il Ludwig della commedia? È un malato che crede di essere Ludwig Wittgenstein, assecondato
da due sorelle vaneggianti?
Inutile porsi domande che la pièce di Bernhard vuole solo provocare, ma a cui non intende rispondere. Nella nota
al testo, oltre che elogiare i tre attori per la loro intelligenza,
Bernhard dice che, durante la stesura della commedia, i suoi
pensieri si erano «concentrati» soprattutto sul suo amico
Paul e sullo zio di lui Ludwig Wittgenstein. E a questo Paul
Wittgenstein, lui sì più volte ospite di Steinhof, Bernhard
aveva dedicato due anni prima, nel 1982, uno dei suoi più
fortunati racconti intitolato appunto Il nipote di Wittgenstein .
Come avviene nella sua opera narrativa, anche in questa
commedia che potrebbe sembrare una farsa e che punta così decisamente all’effetto, Bernhard riprende un vecchio tema della letteratura romantica e postromantica europea,
ossia la polarità genio-follia, senza passare tuttavia attraverso il filtro delle «décadence», ma rifacendosi (come era
capitato fin dai suoi primi racconti) a quanto sull’argomento si era riflettuto e operato a Vienna in quell’epoca d’oro
che la guerra e il dopoguerra avevano bruscamente troncato. Di qui, dalla consapevolezza che si tratta pur sempre di
in scena
Scene da Ritter, Dene, Voss
rare quel limite. Proprio di questo si tratta infatti, come dice con una battuta illuminante una delle due sorelle: «Sempre ai confini della pazzia / mai superare questi confini /
ma sempre ai confini della pazzia / se lasciamo questa zona
di confine / siamo morti», dove per morte si deve evidentemente intendere la fine di una comunicazione ancora possibile (o possibile solo in questi termini).
Sono considerazioni che trovano la conferma più lampante in Ludwig. Personaggio-non personaggio non solo perché la sua situazione psichica lo rende imprevedibile (ma
non è certo il primo personaggio di questo tipo ad essere
messo in scena), ma perché quello che racconta di sé s’intreccia più volte con la biografia di Ludwig Wittgenstein
che, come questo Ludwig-Voss, ha scritto un Tractatus, ha
fatto i suoi primi esperimenti di aerodinamica a Glossop
con l’aquilone, aveva un Blockhaus in Norvegia e quando faceva il bagno voleva l’acqua caldissima, ma non aveva certo due sorelle attrici e soprattutto non è mai finito a
un vecchio tema rimasto nonostante tutto irrisolto, si dipana un’azione scenica che è solo ripetizione, interpretazione «intelligente» di una vecchia storia per di più ambientata nella stessa stanza dove nella messinscena di Claus Peymann a Vienna variava solo l’angolo prospettico da cui lo
spettatore vedeva gli stessi mobili, gli stessi quadri, la stessa
tavola da pranzo. Tuttavia ogni tanto in quello che i tre dicono durante questa specie di rituale, si aprano degli squarci in
cui la commedia cambia improvvisamente tono dimostrando come la diversa strada intrapresa dai fratelli (le sorelle il
teatro, il fratello la filosofia) e la radicalità con cui la percorrono, sia sempre e solo un tentativo di rispondere alla domanda sul significato della esistenza. È a questa domanda
che in modi diversi tentano ogni volta di rispondere i personaggi di Bernhard, con i loro progetti filosofici o con le loro stravaganze, con le loro fisime e le loro manie, ed è questo lo spettacolo che, pur consapevole di agire in un mondo senza vie d’uscita, Bernhard ha continuato a proporre. ◼
 — dintorni
Licia Maglietta
re responsabile in prima persona delle cose che fa come attrice ovviamente, come regista ma anche come scenografa (ricordandosi di essersi laureata in architettura), di uno spettadi Maria Grazia Gregori
colo. Da questo punto di vista l’incontro con la poesia di Alda Merini, quel suo erotismo folle e disperaÌ, LA RICORDO Licia Maglietta in un lonto, quella fame d’amore che non riesce a satano Carnevale veneziano ricco di teaziarsi, con la sua capacità di illudersi malgraAl Toniolo di scena
tro inventato da Maurizio Scaparro.
do tutto e tutti, hanno trovato in lei un’inil nuovo
La ricordo come se fosse oggi – e invece soterprete formidabile. La poesia della Merino passati ventisei anni – in Tango glaciale di- «Manca solo la domenica» ni ha permesso a Maglietta di scandagliare
retto da Mario Martone per un gruppo naun altro aspetto di quell’universo femminipoletano che si chiamava, goethianamente, Falso movimenle che negli ultimi anni è stato la sua maggior fonte d’ispirato. Era lì, alta, slanciata a scrivere in scena con il proprio corzione: donne che lottano, donne emarginate, donne alle quapo, su di uno sfondo dai colori ghiacciati simile a un videoli la società degli uomini va stretta o donne considerate quaclip, una storia in movimento (insieme a un allampanato Tosi inesistenti da un universo maschile pieno di sicumera e di
mas Arana) che sembrava un omaggio pieno di vitalità, anche
egoismo. La protagonista del bellissimo Pane e tulipani (ruolo
un po’ scanzonato pur nell’assoluto rigore, a Bob Wilson. Un
premiato con il David di Donatello nel 2000) di Silvio Soldiesempio felice di un teatro nuovo, inquieto, energetico e geneni, persa sull’autostrada alla fermata di un autogrill dal mariroso, in cui il giovanissimo regista (come lo erano tutti gli attoto che non si accorge neppure della sua mancanza e che trova
ri della compagnia) si presentava su di un palcoscenico interla forza di ritagliarsi e di vivere una vita nuova è l’esatto connazionale come la Biennale con uno spettacolo che mescolatrario – ma per certi aspetti anche l’esatto speculare – della
va generi diversi con uno sguardo al cinema,
che già allora era una chimera (ma destinata a
realizzarsi) non solo di Martone ma anche di
qualche attore di Falso movimento. Tango glaciale si trasformò ben presto in un manifesto
che aveva come riferimento lo scenario metropolitano, i comportamenti, i tic dei personaggi urbanizzati, dove l’immaginario scenico si contaminava con l’elettronica e dove il
gesto, la musica, le immagini in movimento,
i video entravano a fare parte con pari grado
di una vera e propria «macchina» ella visione.
Anche per questo gli appuntamenti con i «ragazzi napoletani» diventarono ben presto irrinunciabili (ricordo fra gli altri lavori Pianeta Alphaville che si ispirava a un celebre film di
Godard) anche quando Falso Movimento lasciò il posto a Teatri Uniti con spettacoli destinati a lasciare un segno: da Seconda generazione sul tentativo di rifondare, di rileggere il tragico dentro la nostra società al meraviglioso
Rasoi che rivelò anzi confermò il talento di un
drammaturgo come Enzo Moscato. La storia
personale di Licia Maglietta fino a un certo punto è andata di
vedova siciliana Borina «sicca sicca», la protagonista di Manpari passo con quella del suo gruppo e soprattutto con quelca solo la domenica, surreale, inquietante, ironico testo di Silvala di Mario Martone che ha seguito anche nell’avventura cina Grasso con il quale Maglietta sta girando l’Italia per poi apnematografica in Morte di un matematico napoletano, Rasoi, L’amoprodare a Parigi. Vedova virtuale, si intende, che adotta tomre molesto imponendo anche sullo schermo, come si vedrà anbe abbandonate nel circondario, fino a quando il marito spoche nei film diretti da Silvio Soldini, la sua presenza carismasato per forza, che torna malato dall’Australia non le permettica. Ma prima di questa svolta o contemporaneamente a quete di assumere sul serio quel ruolo, di usare quelle pezze di
sta svolta, ce n’è stata un’altra che le ha permesso di lasciare o
tessuto nero accumulate negli armadi e di potere sfoggiare
perlomeno di diradare il rapporto totalizzante con il gruppo:
anche nel suo paese quel lutto stretto, quegli abiti scuri, quel
due spettacoli in cui è diretta da Carlo Cecchi (La locandiera e,
ruolo per il quale si è preparata per tutta la vita. Affascinansoprattutto, Leonce e Lena) e un inaspettato Caligola di Camus,
te, ironica, spiritosa, provocatoria, perfino un po’ sciroccaregia di Elio De Capitani dove è una formidabile Cesonia.
ta Licia Maglietta artiglia il suo personaggio con una forza
Licia Maglietta, io, l’ho sempre trovata bellissima. Anche
e un carisma fortissimi in un crescendo musicale sottolineaoggi che la maturità ha reso forse più dolce la sua bellezza pur
to dall’accompagnamento della fisarmonica suonata in scena
senza velarla, il suo fascino è un aspetto del suo carisma: mi è
da Vladimir Denissenkov, consegnandoci un altro formidadifficile non pensare a lei come a una merabile, indimenticabile, ritratto di donna. Anvigliosa Filumena Marturano dei giorni nozi, se devo dirla tutta, è stato proprio queTeatro Toniolo – Mestre
stri, con la sua tenerezza, la furbizia, la sua
sto suo ultimo personaggio a riportarmi alManca solo la domenica
saggezza e la capacità d’amare. Non so se
la memoria ricordi, sensazioni che credevo
di Licia Maglietta
siano state proprio queste caratteristiche a da Pazza è la luna di Silvana Grasso perdute, come l’irripetibile tempo teatrale
25-27 febbraio, ore 21.00
spingerla a stare da sola in scena, a diventadi allora. Ma questa è tutta un’altra storia.◼
S
dintorni / arte
arte
in scena — 
«Tanti saluti»
di Giuliana Musso
ta: «una volta si poteva dire finché c’è vita c’è speranza,
adesso siamo così bravi che ci può essere la vita senza speranza», sottolinea amaramente uno degli interpellati.
Ampio spazio è concesso ai risvolti legali di questa corsa
sul filo di un’impossibile salvezza: il rischio di subire rivendi Renato Palazzi
dicazioni giudiziarie dai famigliari dei pazienti se si rinuncia all’accanimento terapeutico nei loro confronti, la spesa
TEATRO, IN QUESTO MOMENTO, è evidentemente in
spropositata che gli ospedali devono sostenere ogni anno
voga il tema della morte, del decesso, del trapasso
per stipulare onerosissime polizze assicurative: «non fate
in tutte le sue forme, affrontato se possibile con inil gesto eroico di lasciar morire la gente – ammonisce un
tento catartico, senza angoscia, quasi come un antidoto aldisincantato primario – perché prima i parenti sono tutti
la paura. Se nella scorsa stagione lo spettacolo-rivelazione
d’accordo, ma dopo sono solo affari vostri». E un altro afera stato per molti aspetti il sorprendente Tumore di Lucia
ferma sarcasticamente che si tratta di «una medicina difenCalamaro, in cui le ultime ore di una malata terminale erasiva, nel senso che difende chi la fa».
no rapprePe r ofsentate in
frire qualuna chiache spunto
ve di nedi consora comicilazione, lo
tà, addiritspettacolo
tura lividasi apre coi
mente farracconti di
sesca, ecco
coloro che,
ora la braarrivati alla
va Giuliasoglia delna Musso
l’aldilà, soche in Tanti
no tornati
saluti prova
indietro, ria indagare
portandoin tono liene immave (si fa per
gini gradedire) i vavoli. Non
Tanti saluti
ri modi di
mancacongedarsi
no le trodalla vita.
vate diverLa Mustenti, come
so completa così un’ideale trilogia col’asta degli orologi che segnano punVerona – Teatro Camploy
minciata, per una singolare coincidentualmente l’ultima ora di ciascuno de21 gennaio, ore 21.00
za, con Nati in casa, un lavoro dedicagli spettatori. Ma la parte più intento invece all’atto di venire alla luce, al
sa, e anche quantitativamente rilevanPordenone
parto, o più precisamente a quella sua
te, è appunto costituita da questi scorTeatro Comunale Giuseppe Verdi
22 e 23 gennaio, ore 20.45
specifica variante che è il parto domeci di ordinaria sofferenza, che meglio
stico (mentre a morire si va ormai in
si adattano al taglio «civile» del teatro
Dolo – Cinema Teatro Italia
luoghi deputati, istituti, case di riposo)
della Musso, e con gli interrogativi che
30 gennaio, ore 21.00
e proseguita con Sexmachine, incentrato
suscitano – laicamente esposti – fanno
su quel particolare lato oscuro dell’età
senza dubbio riflettere sui confini delSchio (Vi) – Teatro Pasubio
adulta che è il sesso fuori casa, l’eros
le risorse della scienza.
6, 7 febbraio, ore 21.00
a pagamento. Stavolta l’attrice friulana
Proprio da questo punto di vista, penon è sola, ma affiancata da due comrò, l’attrice-autrice deve lavorarci anSan Giorgio delle Pertiche (Pd)
Cinema Teatro Giardino
pagni di scena: tutti e tre indossano
cora: se infatti si proponeva di toc13 febbraio, ore 21.00
nasi rossi da clown, che tolgono solcare l’argomento con mano leggetanto quando il discorso assume un tara, quasi fosse una materia come tanVicenza – Teatro Astra
glio più informativo.
te, non si può dire che centri in pie14 febbraio, ore 21.00
Lo spettacolo, che ovviamente ha
no l’obiettivo. A lungo andare, ottiequale unico arredo scenografico una
ne anzi l’effetto opposto: poiché non
Mirano – Teatro Nuovo
bara, alterna infatti le gag stralunate
si parla delle vittime di colpi apoplet19 febbraio, ore 21.00
alle testimonianze di medici e infertici o di incidenti stradali, ma di maPiove di Sacco (Pd)
mieri che lavorano nei reparti di teralati che non riescono ad andarsene,
Teatro fi larmonico comunale
pia intensiva e in quelli di rianimaziotrattenuti artificialmente dai farma20 febbraio, ore 21.00
ne. Colpiscono, fra queste, certe osserci e dalle macchine, dopo un po’ suvazioni sulla facoltà – dovuta ai respibentra un certo senso di oppressione.
Asolo – Teatro Eleonora Duse
ratori, ai cateteri, ai tanti nuovi ritro«Qui ti salvi solo se muori improvvisa15 marzo, ore 21.15
vati – di tenere i moribondi indefinitamente», commenta uno degli interpelmente in sospeso, trasformando la lolati: il che non apre prospettive incoMestre – Teatro Toniolo
8, 9 aprile 2009 – ore 21.00
ro agonia in una trappolea senza usciraggianti sulla sorte che ci attende. ◼
in scena
A
 — in scena
«La metamorfosi»
di Kafka nel percorso
drammaturgico
di Ugo Chiti
sgradevole. In questa prima tappa, insomma, era già evocata
la figura dello scrittore, alla cui poetica (e cronaca) ci si avvicinava progressivamente, inserendo il discorso sulla malattia,
le Lettere a Milena e così via.
Dopo anni è stata la volta di una seconda lettura, sempre intitolata Visita a Kafka, realizzata però con il mio gruppo, Arca
Azzurra, e inserita dentro lo spazio-teatro, mantenendo anche qui il limite di trenta spettatori. All’inizio il pubblico restava nel primo ordine di palchetti e assisteva a ciò che avveniva sul palco. Poi però, attraverso una
RA IL 9 E L’11 GENNAIO arrivano in
serie di espedienti, gli spettatori venivaVeneto Le conversazioni di An- «Le conversazioni di Anna K.» no prelevati e costretti a percorrere tutti
na K., il testo di Ugo Chiti ispirato algli ambienti dell’edificio teatrale. Arrivain scena al Toniolo
la Metamorfosi di Kafka cui la giuria del IL
vamo fino a usare il sottopalco, tanto che
e a Castelfranco Veneto
Premio Riccione per il Teatro – presieduta da
la scena prefinale – in cui emerge violenFranco Quadri e composta da Roberto Andò,
temente il senso di insopportabilità visAnna Bonaiuto, Sergio Colomba, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Masuto dalla famiglia Samsa nei confronti di Gregor – il pubbliria Grazia Gregori, Renata Molinari, Renato Palazzi, Ottavia Piccoco la ascoltava da sotto il palco, intuendo le voci sopra la prolo, Giorgio Pressburger, Luca Ronconi e Renzo Tian – ha assegnato alpria testa. Ma aveva un’accompagnatrice d’eccezione, che lo
l’unanimità il primo premio. Chiediamo al drammaturgo, che firma anconduceva attraverso le diverse situazioni e i differenti luoghi
che la regia dello spettacolo, come è nato questo avvicinamento al grande
dell’edificio: era il personaggio di Anna, l’anziana vedova che
autore praghese.
entra a far parte della famiglia Samsa e si prende cura di Gregor. In questo secondo spettacolo Anna
era ancora abbozzata, ma occupava già un
posto piuttosto rilevante.
Nelle Conversazioni con Anna K., ovvero la terza e ultima tessera di questo nostro mosaico kafkiano, pensata anch’essa per uno spazio scenico, questa figura,
che sta ai margini della pagina scritta e a
cui nelle fasi precedenti mi ero via via affezionato, ha preso sempre più corpo, divenendo a tutti gli effetti la figura-guida
e assumendo quasi il ruolo di protagonista assoluta, anche se rimane viva la stretta relazione con gli altri personaggi. Alla
fine tutte le suggestioni di una drammaturgia a percorso, che immetteva lo spettatore all’interno di un ambiente costringendolo a captare anche fisicamente le atmosfere in cui si trovava immerso, hanno
Le conversazioni di Anna K.
lasciato il posto allo sviluppo drammaturgico dei personaggi, a cominciare proprio da Anna, ai cui particolari movimen«L’incontro con La metamorfosi risale all’adolescenza, e – coti e speciali vocalità dà vita una grande attrice come Giuliana
me è accaduto a moltissimi altri – è stato intenso e bruciante,
Lojodice. Ma anche in questo caso non ho rinunciato a “diperché è ovvio che in quella fase della vita si provi una sornamizzare” lo spazio: prima lo spettatore lo percorreva fisita di identificazione con le difficoltà che il protagonista vive
camente, mentre qui lo ripercorre con gli occhi, perché la scenel rapportarsi alla famiglia, e con la sofferenza dovuta al suo
na suggerisce continue metamorfosi dell’ambiente». (l.m.) ◼
sentimento di estraneità al proprio corpo. Più tardi ho metabolizzato questa vicinanza emotiva in tre diversi spettacoli. Il
«La rilettura di Kafka di Ugo Chiti, vent’anni dopo l’afferprimo è stato Visita a Kafka, un percorso itinerante che sfrutmazione riccionese di Nero Cardinale, che ne impose l’immagitava l’inconsueto spazio di un’ex tipografia. Si procedeva atne anche fuori dalla natia Toscana, con stile personale e una
traverso una successione di ambienti in parte anche esterni ed
struttura impeccabile, ci rende nuova La metamorfosi, ribaltanestremamente claustrofobici. Si trattava di un interno-esterdone il punto di vista e creando una straordinaria figura femno particolarmente suggestivo, dove vecchie vetrate lumacominile nella protagonista Anna K., che nel racconto originale
se offrivano la possibilità di intuire squarci di immagini. La
compare solo di straforo, e qui viene rigenerata da trasandata
drammaturgia – oltre al suo carattere appunto itinerante – era
donna delle pulizie a una sorta di badante che,
con la sua presenza esterna ma straordinariasoprattutto olfattiva, e metteva i trenta spettamente umana, sa ricondurre anche la diversitori previsti a contatto con gli odori del dramCastelfranco Veneto
tà più mostruosa alla consapevolezza che la vematico risveglio mattutino in casa Samsa deTeatro Accademico
ra diversità consiste nell’essere esclusi dai senscritto da Kakfa: il latte che brucia, il pane che
9 gennaio, ore 20.30
timenti. E il suo orrore si allarga, uscendo dalsi carbonizza, il caffè che va di fuori. L’elemenla stanza di Gregor Samsa per invadere una peto olfattivo diveniva, attraverso la percezione
Mestre – Teatro Toniolo
riferia che sa di minestrone e di corpi sudati.»
10-11 gennaio, ore 21.00
di questa successione di cibi guasti, sempre più
dalla motivazione del IL Premio Riccione per il Teatro, 2007
in scena
T