università politecnica delle marche facoltà di economia “giorgio fuà”

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UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE
FACOLTÀ DI ECONOMIA “GIORGIO FUÀ”
_______________________________________________________________
Scuola di Dottorato di ricerca – XIV Ciclo
Curriculum “Economia Aziendale”
LA GESTIONE DELLA RELAZIONE
NELLA SUPPLY CHAIN:
DAL TRADE MARKETING AL BRM
Tutor
Chiar.mo Prof. Gian Luca Gregori
Coordinatore di Dottorato di ricerca
Chiar.mo Prof. Luca Del Bene
Tesi di dottorato del
Dott. Daniele Scattolini
INDICE
INTRODUZIONE
1
Capitolo I - DAL MARKETING TRADIZIONALE AL MARKETING
RELAZIONALE: SINTETIZZAZIONE DELLE PRINCIPALI TEORIE
9
I.1. Il paradigma di marketing tradizionale
9
I.2. Principali fattori di crisi del marketing tradizionale
I.2.1. La rigidità del marketing mix
14
14
I.2.2. I limiti degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale 18
I.3. Le origini della filosofia del marketing relazionale
21
I.4. Marketing relazionale e marketing mix a confronto
29
I.5. Gli approcci al marketing relazionale
31
I.5.1. La scuola nordica
33
I.5.2. Industrial Marketing and Purchasing Group
37
I.5.3. La scuola anglo-australiana
42
I.5.4. La scuola nordamericana
45
I.6. L’affermazione della prospettiva relazionale
48
Capitolo II - ASPETTI EVOLUTIVI DELLE RELAZIONI TRA
INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE NELLA “SUPPLY CHAIN”
53
II.1. Spunti e riflessioni sull’applicazione del marketing relazionale
53
II.2. L’importanza della relazione e delle nuove tecnologie
58
II.3. Le relazioni distributive
63
II.3.1. Evoluzione delle relazioni tra industria e distribuzione
II.4. I rapporti industria-distribuzione nell’ottica del marketing management
65
69
II.4.1. La fase del marketing funzionale
71
II.4.2. La fase del marketing contrattuale
74
I
II.4.3. La fase del marketing relazionale
79
II.4.4. La fase del marketing conflittuale
84
II.4.5. La fase del marketing sistemico
89
II.5. Le implicazioni e il ruolo della funzione marketing nella gestione della
relazione
93
Capitolo III - IL TRADE MARKETING: I RISULTATI DI UN’INDAGINE
EMPIRICA
101
III.1. L’orientamento di trade marketing
101
III.2. Il concetto di trade marketing: origine e evoluzione
106
III.3. Il processo di pianificazione del trade marketing
110
III.4. I risultati di una ricerca empirica
114
III.5. La dimensione organizzativa: le strutture organizzative
116
III.6. La dimensione strategica e la dimensione operativa: dalla pianificazione
agli strumenti di trade mix
124
III.6.1. Le attività nei punti vendita
131
III.7. Risultati e prime considerazioni
137
Capitolo IV - UN APPROCCIO INNOVATIVO: LO SVILUPPO DEL
BRM NEL GRUPPO FILENI
141
IV.1. Dal trade marketing al buyer relationship management
141
IV.2. Customer relationship management: diverse prospettive
143
IV.3. Le caratteristiche strutturali del CRM
148
IV.3.1. L’architettura tecnologica
149
IV.3.2. Il ruolo dei contenuti e dei servizi
152
IV.3.3. La centralità delle relazioni
153
IV.4. I risultati di una ricerca empirica
155
IV.4.1. Il profilo del Gruppo Fileni
158
II
IV.5. Il percorso del cambiamento: l’implementazione del trade marketing
159
IV.5.1. La strategia di trade marketing
166
IV.5.2. L’analisi dei volantini promozionali
168
IV.5.3. Il presidio dei punti di vendita
173
IV.6. Il progetto di buyer relationship management
178
IV.6.1. Acquisizione di dati e informazioni
180
IV.6.2. Trasformazione dei dati e delle informazioni in conoscenza
182
IV.6.3. Segmentazione e profilazione
184
IV.6.4. Definizione di strategie e azioni
186
IV.6.5. Valutazione delle performance
188
IV.7. Le implicazioni organizzative
189
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
193
BIBLIOGRAFIA
201
III
INTRODUZIONE
La mia ricerca, posta in essere nell’ambito del dottorato di ricerca cofinanziato dal
Gruppo Fileni, riguarda il rapporto tra l’industria e la distribuzione. Nello
specifico, si sviluppa nell’osservare quali azioni l’impresa di produzione può
intraprendere per migliorare la relazione e la gestione della relazione stessa con le
imprese commerciali. Si colloca, quindi, nel contesto business to business. Il
rapporto tra industria e distribuzione rappresenta, quindi, l’elemento cardine del
mio studio, essendo la chiave di successo delle imprese industriali (Giacomazzi,
2002), dato che incarna l’elemento di contatto e di continuità tra le tematiche di
studio affrontate. Nella ricerca, a partire dal marketing relazionale, si passerà a
presentare il tema del trade marketing, per arrivare ad affrontare l’adozione di un
sistema di marketing relazionale innovativo, il buyer relationship management
(BRM), capace di apportare benefici in termini di gestione della relazione e di
performance. L’obiettivo principale è, pertanto, comprendere sotto quali
condizioni organizzative e sotto quale approccio manageriale sia possibile
implementare un percorso di sviluppo in grado di far conseguire alle imprese
industriali risultati utili.
A tal fine, si è cercato di rispondere alle seguenti domande di ricerca:
 Come si può gestire efficacemente la relazione con i clienti?
 Perché è importante conoscerli approfonditamente?
1
Lo studio della relazione delle imprese con i propri clienti è un tema dibattuto
nella letteratura di marketing (Morgan e Hunt 1994; Gummesson, 1999), in
particolare con riferimento al ruolo che tali rapporti assumono nel miglioramento
della performance competitiva nei mercati in cui le stesse imprese operano.
In primo luogo, il lavoro si focalizza, quindi, sul marketing relazionale, ovvero
l’approccio di marketing volto a stabilire, mantenere e migliorare le relazioni con
i clienti (Grönroos, 1994), il quale oltre ad essere un salto paradigmatico nella
teoria di marketing, rappresenta un nuovo modo di vedere la relazione come fonte
primaria del vantaggio competitivo. Dall’analisi della letteratura, sono stati
identificati i principi, i processi e i modelli del marketing relazionale, poi applicati
allo studio delle relazioni all’interno della supply chain.
Negli ultimi decenni, nella supply chain, la relazione tra l’industria e la
distribuzione ha subito consistenti cambiamenti, soprattutto a causa della
concentrazione del sistema distributivo e della maggiore redditività generata dallo
stesso, a scapito di quella generata dal settore industriale. In particolare, il ruolo
dei distributori si è evoluto, passando da una mera intermediazione passiva ad una
posizione imprenditoriale attiva (Fornari, 2009). Per le imprese industriali,
soprattutto per le non leader, la gestione della relazione con le imprese di
distribuzione sta diventando fondamentale per ottenere buone performance o
anche per la semplice sopravvivenza.
2
La ricerca, percorrendo tutta l’evoluzione dei rapporti nella supply chain, arriva al
trade marketing, considerato come il marketing rivolto ai distributori (Marcanti,
1989; Pellegrini, 1993; Lugli, 1998), il quale, a partire dagli anni ’90, ha
riscontrato un elevato interesse sia in letteratura che a livello manageriale. Il trade
marketing rappresenta, a mio avviso, più che una specifica funzione aziendale, un
orientamento strategico.
Le imprese industriali, infatti, competono su due mercati, quello della domanda
finale e quello della domanda intermedia; negli ultimi anni hanno affrontato un
profondo cambiamento della struttura degli investimenti di marketing, stimolando
una forte crescita della componente di trade marketing. Nonostante non ne esista
una definizione unanime (Predeval 1983; Beltramini e Gaeta, 1998), c’è la
consapevolezza nel ritenere che le imprese industriali non possano prescindere
dall’attuarlo e che, per essere efficace, debba essere impostato e strutturato con
molta attenzione.
Al fine di verificarne a livello pratico l’applicazione, si è proceduto ad interviste
dirette e telefoniche a chi si occupa di trade marketing in quattro aziende leader 1,
per riscontrarne la collocazione organizzativa, le principali funzioni e attività e gli
indicatori di performance.
Proseguendo nell’analisi della letteratura, che non pretende di essere esaustiva,
sono emersi spunti di riflessione riguardo possibili nuovi contributi per creare
1
Le aziende sono: Danone, Coca-Cola HBC Italia, Galbusera e Beiersdorf.
3
valore nella supply chain. Dalla mia analisi ha preso forma il BRM, un particolare
sistema di CRM in ambito business-to-business, in cui l’oggetto d’esame è il
buyer. Infatti, il buyer è risultato l’interfaccia principale nelle relazioni tra
l’industria e la distribuzione, tanto da meritare un ruolo egemone nel modello che
ho teorizzato.
Quello che si vuole dimostrare è che per creare conoscenza non è sufficiente
limitarsi all’analisi di dati meramente commerciali, ma sono necessarie altre
informazioni, generate da comunicazioni dirette o da rapporti interpersonali.
Elemento centrale è, quindi, la relazione da considerare come un vero e proprio
patrimonio (Costabile, 2001). Il BRM permette, quindi, da un lato la raccolta di
dati e informazioni e dall’altro la diffusione di conoscenza.
Un aspetto fondamentale del BRM è che, oltre a comportare benefici nella realtà
aziendale, creando un sistema utile per una migliore gestione delle relazioni, ha
favorito in prospettiva accademica l’avanzare di studi in materia di CRM.
Il lavoro ha coinvolto due ambiti che talvolta hanno corso paralleli e talvolta si
sono intrecciati e alimentati reciprocamente, dato che si teorizza a livello
accademico e si sperimenta a livello aziendale.
La ricerca ha permesso di portare avanti oltre ad una riflessione teorica sul
rapporto
industria-distribuzione,
due
indagini
empiriche;
la
prima
ha
rappresentato il supporto di verifica per l’analisi della tematica del trade
4
marketing, mentre la seconda un esempio di percorso evolutivo da seguire per
creare valore nella supply chain.
La struttura del lavoro si articola in quattro capitoli, suddivisi tra la revisione della
letteratura, la presentazione di indagini empiriche e la descrizione del modello
implementato.
Nel primo capitolo, dopo aver affrontato i motivi dell’affermazione, i tratti salienti
e le riflessioni sviluppate dalla ricerca in tema di marketing relazionale, si è
effettuata un’analisi delle principali scuole di pensiero.
Nel secondo capitolo, il sistema di relazioni è stato calato all’interno della supply
chain, considerando l’impresa industriale come azienda focale. Vengono
esaminati i rapporti che l’impresa industriale pone in essere con la domanda
intermedia, cioè con la distribuzione. In particolare, si affronta l’evoluzione della
relazione nell’ottica di marketing management. Infine, vengono messi in luce le
implicazioni e il ruolo svolto dalla funzione marketing.
Il terzo capitolo affronta un particolare aspetto del rapporto industriadistribuzione, appunto il trade marketing, una forma di collaborazione in cui
l’impresa industriale considera il distributore come un vero cliente. Al fine di
comprenderne in modo compiuto tutti i tratti salienti, si propone un confronto tra
quanto rintracciato nella letteratura e quanto attuato nella pratica aziendale,
attraverso un’indagine empirica di tipo descrittivo ed esplorativo, basata sul
metodo del caso di studio multiplo. L’attenzione è stata focalizzata sulle aree
5
tematiche fondamentali del trade marketing, vale a dire la collocazione
organizzativa della funzione, le principali funzioni e attività e i principali
indicatori di performance. Il capitolo termina con alcune considerazioni
propedeutiche all’analisi del successivo caso empirico.
Il quarto ed ultimo capitolo offre la descrizione del caso empirico del gruppo
Fileni, una media impresa marchigiana operante nel settore alimentare.
Inizialmente viene contestualizzato il buyer relationship manahement (BRM),
affrontando i tratti salienti del CRM, che rappresenta le fondamenta per lo
sviluppo del mio progetto innovativo. Successivamente si presenta il profilo del
gruppo, con particolare evidenza al percorso evolutivo di cambiamento che sta
effettuando, dando ampio spazio all’implementazione della funzione di trade
marketing, declinata nel dare vita ad un progetto di BRM. La ricerca quindi
ripercorre gli stadi della recente evoluzione del gruppo Fileni ed evidenzia le fasi
di sviluppo, le principali caratteristiche e i riflessi organizzativi che ne sono
derivati.
A livello metodologico, il presente lavoro è stato condotto avvalendosi del metodo
del caso di studio (Yin, 1994; Eisenhardt, 1989) agendo in una logica di action
research (Vignali, 1988), caratterizzata da una mia diretta partecipazione allo
sviluppo del progetto di BRM. L’analisi empirica si è svolta mediante interviste
rivolte a varie figure dell’area vendite del gruppo Fileni e di seguito ai buyers
6
stessi. La raccolta dati è avvenuta, inoltre, per mezzo di altri strumenti di ricerca
quali questionari e osservazioni dirette.
7
CAPITOLO I
DAL MARKETING TRADIZIONALE AL MARKETING REAZIONALE:
SINTETIZZAZIONE DELLE PRINCIPALI TEORIE
I.1. Il paradigma di marketing tradizionale
Dalla fine degli anni ’50 il marketing ha avuto lo sviluppo della sua
concettualizzazione, precisa ed ampia, partendo dai primi studi, che sono stati
affrontati già negli anni venti. Nonostante i molteplici e diversi modi di affrontare
la ricerca e nonostante i differenti strumenti di esame, tutti gli studiosi sono
d’accordo nell’individuare un paradigma, che ha influenzato le successive
ricerche e applicazioni di marketing. Questo paradigma è stato definito da
Gummesson (1987) “marketing concept” e da Grönroos (1989) “marketing mix
model”. Dalle varie definizioni di marketing attribuite a vari autori di può
identificare la sostanza di questo paradigma. Quella proposta da Kotler (1976),
nella terza edizione del libro Marketing Management, è la seguente: “il marketing
management consiste nell’analisi, nella pianificazione, nella realizzazione e nel
controllo di programmi volti all’effettuazione di scambi desiderati con mercatiobiettivo allo scopo di realizzare obiettivi aziendali. Esso mira soprattutto ad
adeguare l’offerta dell’impresa ai bisogni e ai desideri del mercato-obiettivo ed
all’uso efficace delle tecniche di determinazione del prezzo, della comunicazione
e della distribuzione per informare, motivare e servire il mercato”. La definizione
9
dell’American Marketing Association (1985), invece, recita che “marketing is the
process of planning and executing the conception, pricing, promotion and
distribution of ideas, goods and services to create exchange and satisfy individual
and organizational objectives”. Nel 1986 Stanton e Varaldo affermano che il
“marketing, nella sua concezione tradizionale di estrazione aziendalistica, è un
sistema di attività disegnato per pianificare, attribuire il prezzo, promuovere e
distribuire prodotti o servizi che siano in grado di soddisfare i bisogni e i desideri
dei clienti attuali e potenziali, nonché di far realizzare all’impresa un adeguato
profitto”.
Da analisi ed interpretazione delle definizioni decantate, si delinea nella disciplina
del marketing una prospettiva transazionale. L’attenzione si posa sulle singole
transazioni realizzate dall’impresa con il cliente finale. I caratteri distintivi della
transazione stessa, che condizionano il modo di agire delle parti coinvolte durante
l’atto di scambio, sono il prodotto/prestazione e il prezzo. Entrambi sono gestiti in
modo unilaterale dal venditore, l’unico soggetto attivo dello scambio. Il venditore
dunque affronta il problema di marketing per trovare la migliore combinazione
dei parametri dell’offerta, che susciti nella controparte una risposta positiva per la
transazione (Stanton e Varaldo, 1986). Quella descritta è una prospettiva che si
ferma al breve termine e si fonda su due concetti fondamentali, il modello delle
4P e l’orientamento al consumatore.
10
In base alla teoria del marketing transazionale/tradizionale, quindi, il mezzo
operativo e immediato volto alla gestione dei parametri dell’offerta è il marketing
mix.
Le 4P del marketing mix diventano il framework che pervade tanto la ricerca
accademica che la pratica aziendale.
Alla fine degli anni ’80, la validità di tale paradigma non era messa in dubbio
(Grönroos, 1989), tanto che la maggior parte delle imprese ha adottato in pratica
le teorizzazioni. In tal modo sono emersi alcuni limiti rilevanti.
La riconosciuta autonomia funzionale del marketing management si blocca
davanti alla possibilità di scorgere e implementare sinergie che provengano da una
strategia più integrata. Questo approccio, tradizionale, non ha grande attenzione al
contesto internazionale e si pone in modo fin troppo flessibile nei confronti
dell’ambiente e dei suoi mutamenti. A partire dagli anni settanta, i limiti di
quest’approccio di marketing sono risultati molto più evidenti a seguito dei
cambiamenti strutturali del contesto competitivo in cui le imprese operano.
Il solo focus sugli elementi del marketing mix ha ridotto le potenzialità della
ricerca di vantaggi competitivi di lungo periodo. Questo metodo non è quindi
quello ideale per spingere le imprese alla continua innovazione, dato che
sponsorizza al contrario la diffusione di prodotti imitativi, resi di successo grazie
agli elevati investimenti in differenziazione e comunicazione.
11
Un approccio critico pervade anche l’ulteriore filone di studi relativo agli ambiti
applicativi del paradigma tradizionale (Kotler e Levy, 1969). Nei primordiali
esperimenti in settori differenti, soprattutto nell’ambito dei servizi, è risultato una
problematica il fatto che l’approccio tradizionale al marketing transazionale
analizzi il comportamento degli operatori e della struttura del mercato dei beni di
consumo di massa tramite un modello di scambio caratterizzato dalla sua quasi
esclusiva unidirezionalità; l’unico ruolo attivo nel processo di transazione è quello
del venditore (Gummesson, 2006). Le parti che pongono in essere lo scambio,
hanno quindi
strutture di
dell’acquirente
è
troppo
potere asimmetriche.
limitata
per
negoziare
La
forza contrattuale
le
caratteristiche
del
prodotto/servizio e le condizioni contrattuali, dato che l’acquirente è un unico
soggetto e che il peso dei suoi acquisti è quindi scarso. Questa è la tipica struttura
atomistica del mercato, composta da numerosi acquirenti anonimi e sostituibili.
Inoltre, dato l’elevato grado di sostituibilità degli acquirenti, i costi di transazione
di questi mercati sono minimi, se non addirittura nulli. In tali contesti, i venditori,
gli attori del mercato, sono orientati verso transazioni indipendenti realizzate con
un gran numero di controparti, in cui le relazioni collaborative stabili di lungo
periodo avvengono solo per eccezione.
Gli studiosi hanno fortemente dibattuto sui limiti e sulle possibilità di
ampliamento degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale; da
tale spunto sono emersi due differenti approcci al problema. Nel primo caso si è
12
cercato di superare i limiti individuati attraverso la modifica e la rielaborazione
degli approcci già esistenti, senza però superare il marketing concept (Kotler,
1986). Il secondo approccio ha invece formulato vere e proprie teorie alternative e
differenti per i diversi settori di possibile applicazione, considerando il paradigma
tradizionale inconciliabile con la rivoluzione in atto (Arndt, 1983). Ai due diversi
orientamenti corrisponde, dunque, una distinta classificazione dei nuovi approcci
di marketing. Nel primo caso si vede un’evoluzione rispetto al paradigma
tradizionale, mentre nel secondo caso se ne riconosce una piena autonomia. Il
nuovo approccio del marketing relazionale mostra in modo esplicito la differenza.
Certi studiosi sottolineano una essenziale vicinanza agli assiomi della teoria
tradizionale, ponendo l’accento soltanto su una parte rinnovata, mentre un’altra
corrente di autori ritiene che tale concetto resti fortemente radicato su punti di
vista in contrasto con il marketing management.
Prima di affrontare il tema del marketing relazionale, si esamina nei prossimi
paragrafi più approfonditamente i due fattori principali, strettamente collegati, che
hanno sottoposto a forti critiche il paradigma di marketing tradizionale, vale a dire
la rigidità del marketing mix e i limiti degli ambiti applicativi del paradigma di
marketing tradizionale.
13
I.2. Principali fattori di crisi del marketing tradizionale
Fin dalla sua introduzione, il marketing mix ha rivestito il ruolo di modello
dominate negli studi, nelle ricerche e nelle pratiche di marketing. In ambito
aziendale, le 4P hanno sempre tracciato in modo evidente le principali mansioni
dei marketing managers. All’inizio degli anni ottanta, però, è iniziata la crisi del
paradigma del marketing concept, da un lato per motivazioni dovute alle
dinamiche interne alla disciplina stessa, come i progressivi ampliamenti sia
dell’oggetto degli studi di marketing che delle relative applicazioni, d’altro lato
per fattori esterni, quali l’emergere di nuove teorie, la sempre maggiore
complessità dell’ambiente e lo sviluppo di nuove tecnologie. Dopo questa
premessa, descriviamo ed approfondiamo nei paragrafi seguenti le cause più
importanti alla base della crisi del marketing tradizionale:
1. la rigidità del marketing mix;
2. i limiti degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale.
I.2.1. La rigidità del marketing mix
La rigidità del marketing mix è la prima grande critica. Le 4P, che sono state il
fulcro del paradigma di marketing tradizionale e che per decenni hanno
rappresentato lo strumento operativo delle organizzazioni per sviluppare strategie
di marketing, non trovano più applicazione contemporanea in ogni contesto.
14
L’espressione marketing mix è stata introdotta da Borden nel 1964 che ha
reinterpretato quella del collega Culliton (1948), “mixer of ingredients”, in uno
studio sui costi di marketing. Il marketing mix di Borden si componeva di 12
elementi (product planning, pricing, branding, channel of distribution, personal
selling, advertising, promotions, packaging, display, servicing, physical handling,
fact finding and analysis) che saranno raggruppati e sintetizzati poco tempo dopo
da McCarthy (1964) nelle classiche 4P del marketing mix, ovvero product, price,
place e promotion.
Le prime obiezioni vengono poste in essere già al momento dell’affermazione del
marketing mix concept: in primo luogo, viene posta in essere la mancanza di
interazioni tra i quattro pilastri. Il modello, infatti, non include alcun rapporto tra
le variabili, nonostante McCarthy (1978) avesse esplicitato la necessità di
collegamenti.
Un secondo elemento di discussione, invece, è emerso nel tentativo ampliarne gli
ambiti applicativi; il modello delle 4P risultava troppo rigido, di carattere quasi
“normativo”. Alcuni autori avevano cercato di aggiornarlo e di ampliarlo, ma
senza riuscire ad apportare cambiamenti nella sostanza agli standard del classico
“holy quadruple…of the marketing faith…written in table of stone” (Kent, 1986).
Dall’analisi della letteratura, emergono comunque alcuni degli adattamenti tentati.
Tra i più noti, il modello delle 5P razionalizzato da Judd (1987), che include
People come quinto elemento, il modello delle 7P di Booms e Bitner (1981) che,
15
invece, individua altre tre nuove variabili: Partecipants, Physical Evidence e
Process. Baumgartner (1991), invece, propone un sistema con 15P. Kotler (1986)
nel modello del megamarketing, accoda alle usuali 4P altre due variabili, Public
Relations e Political Power, importanti per le imprese che abbiano l’intento di
penetrare in mercati protetti da alte barriere all’entrata. Nel 1999 Goldsmith
aggiunge la Personalisation, teorizzando un modello con 8P, riformulando il
concetto delle 7P di Booms e Bitner ed evolvendolo.
Nello stesso anno Kotler et al. (1999) presentano una teoria diversa, avendo come
punto di partenza la seguente riflessione: le tradizionali 4P rappresentano il punto
di vista dell’azienda che produce e vende i suoi prodotti nel mercato; sarebbe
auspicabile, invece, seguire una reale prospettiva customer-oriented.
Sulla base di questa riflessione, le 4P si evolvono nelle 4C (Lauterborn, 1990),
dove la pura vendita del prodotto da parte dell’impresa viene sostituita dalla
ricerca del valore per il consumatore.
16
Figura I.2.1.-1. Alcuni adattamenti al modello delle 4Ps
4Ps
Product, Price, Promotion, Place
5Ps
Product, Price, Promotion, Place, People
6Ps
Product, Price, Promotion, Place, Public Relations, Politic Power
7Ps
Product, Price, Promotion, Place, Partecipants, Physical Evidence, Process
8Ps
Product, Price, Promotion, Place, Personnel, physical assets, procedures,
personalization
Product/Service, Price, Promotion, Place, People, Politics, Public Relations,
Probe, Partition, Prioritize, Position, Profit, Plan, Performance, Positive
Implementations
Custumer, Cost, Convenience, Communication
15Ps
4 Cs
Fonte: Elaborazione propria
Ci sono comunque autori, che nonostante le critiche e i limiti discussi, pensano
che si possa ancora utilizzare il tradizionale marketing mix. Grönroos (1996), ad
esempio, ritiene che è sufficiente semplicemente tener conto di altri elementi che
spesso non sono considerati attività caratteristica della funzione marketing, quali
la logistica, l’installazione, la sostituzione o la riparazione, l’assistenza, i reclami,
la formazione rivolta al cliente. Gummesson (1994), invece, sostiene che il
classico paradigma del marketing mix sia ancora valido, nonostante stia riducendo
la sua importanza a favore della gestione delle relazioni che l’azienda crea con i
suoi stakeholders.
In ogni caso, nonostante molti autori abbiano cercato di far evolvere il modello
delle 4P, il marketing management si è limitato alla semplice gestione delle
quattro variabili principali, senza evidenziare né il vero significato né le possibili
17
conseguenze che una vera applicazione del marketing concept potrebbe
comportare (Grönroos, 1994).
I.2.2. I limiti degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale
Alla critica presentata nel paragrafo precedente, si affianca quella relativa agli
ambiti di applicazione del paradigma del marketing tradizionale. Gli autori più
importanti che hanno esaminato questo argomento fanno parte della scuola
svedese di marketing industriale e della scuola nordica dei servizi.
Innanzitutto vengono messe in discussione l’oggettività e l’universalità delle
conoscenze e dei modelli interpretativi che seguono dagli studi di marketing.
Inoltre, questi critici ritengono che il tradizionale marketing mix, teorizzato in
funzione dei rapporti tra venditori ad acquirenti nei mercati dei beni di consumo e
di massa, non si adatti in pieno ai loro contesti di riferimento, cioè al settore dei
beni industriali e al settore dei servizi, in cui l’aspetto relazionale ha un ruolo
fondamentale.
Qui di seguito una sintesi degli elementi dell’approccio di marketing tradizionale
che non si riscontrano in questi contesti:
 le transazioni indipendenti ed isolate;
 la struttura atomistica del mercato;
 la struttura di potere asimmetrica tra le parti;
 l’unidirezionalità del modello di scambio.
18
Ad esempio, nel mercato dei beni industriali, la prima condizione indicata non si
verifica poiché i rapporti tra i fornitori e gli acquirenti sono spesso caratterizzati
da un’elevata stabilità. Gli acquirenti, infatti, da una relazione stabile con i
fornitori ottengono una riduzione dei costi e dei rischi legati alla ricerca e alla
valutazione dei fornitori, dei costi dovuti agli eventuali problemi organizzativi
causati dal cambiamento degli stessi e dei costi per problemi di adattamento dei
macchinari o di altre componenti che possono sorgere dalle modifiche nei prodotti
acquistati (Hakansson, 1982).
Alla stabilità corrisponde la personalizzazione del rapporto, aspetto da
considerare. Ogni acquirente riconosce individualmente il suo partner di
riferimento e non lo considera come un qualsiasi componente di un mercato. La
stessa corrispondenza si applica anche dal lato di osservazione del fornitore.
Nei mercati industriali, il potere è distribuito in modo equilibrato e non in misura
asimmetrica tra le parti. Anzi spesso si verifica una dipendenza reciproca fra gli
attori dello scambio.
In questi mercati, inoltre, non si realizza l’unidirezionalità nei processi di
scambio; anche gli acquirenti recitano di solito un ruolo attivo. Entrambi i
protagonisti dello scambio possono essere considerati come parti di uno stesso
processo: pongono in essere attività di ricerca, contribuiscono a definire le
specifiche di prodotto e condizionano il processo stesso.
19
Da ciò emerge che per ottenere una adeguata conoscenza dei mercati industriali
bisogna effettuare un esame parallelo dei comportamenti relazionali dei due attori
del processo di scambio, il fornitore e l’acquirente (Hakansson, 1982). Vanno
quindi tenuti in considerazione aspetti quali la negoziazione, i rapporti di potere,
le forme di collaborazione, che usualmente vengono tralasciati dagli studiosi degli
approcci tradizionali di marketing (Ferrero, 1992).
Nel mercato dei servizi, come nei mercati dei beni industriali, il cliente ha un
ruolo attivo, anche se si esplicita in forme e modalità in parte differenti. Infatti,
per produrre ed erogare un servizio è necessario che il cliente partecipi
direttamente. Il cliente passa dunque da una posizione passiva ad un nuovo ruolo,
addirittura di coproduttore. Ne segue l’esigenza di teorizzare un nuovo approccio
di marketing, di tipo interattivo. Gummesson (1987) ha identificato molte
relazioni interattive fra acquirenti e venditori nelle transazioni nel mercato dei
servizi, tra cui interazioni fra il personale di contatto dell’acquirente e del
venditore, quelle fra i sistemi produttivi, i macchinari e le routine organizzative
adottate dagli acquirenti e dai venditori, le interazioni fra l’acquirente e l’ambiente
fisico del fornitore, oltre agli interscambi fra i diversi clienti, nella fase di
produzione e uso del servizio, che provengono dalle condizioni create dal
venditore.
Lo studioso, analizzando le stesse, afferma: “it is essential to recognize that a
service in partly producted, marketed and consumed in an interactive relationship
20
between the consumer and the selling firm that the quality of this relationship as
well as the quality of the service in the result of efforts from both sides”.
Nel mercato dei servizi va anche considerato l’aspetto temporale delle relazioni
tra le parti. Tali relazioni, necessitando tempi lunghi di costruzione e
mantenimento, andrebbero inquadrate in un orizzonte di lungo termine, al fine di
determinare profitti più elevati.
Gli approcci adottati dagli studiosi della scuola svedese di marketing industriale e
della scuola nordica dei servizi sono sintetizzati dall’affermazione di Grönroos
(1989) riguardante il compito del marketing: “the most important issue in
marketing is to establish, strenghen and develop customer relations where they
can be commercialised at a profit and where individual and organizational
objectives are met”.
I.3. Le origini della filosofia del marketing relazionale
Il marketing relazionale ha origine quindi dalla seconda metà degli anni settanta
nel momento in cui si è iniziato a mettere in discussione il paradigma di marketing
tradizionale. L’aspetto innovativo della nuova teoria si concretizza nella
prospettiva relazionale che all’interno della disciplina di marketing sostituisce la
prospettiva transazionale come focus principale. Le prime concettualizzazioni di
marketing relazionale hanno avuto origine nell’ambito di studi realizzati nei
settori dei beni industriali e dei servizi, in cui si era dimostrata l’inefficace
21
applicazione del marketing management. Il marketing relazionale, quindi, si
sviluppa con l’obiettivo di iniziare, contrattare e mantenere le relazioni di scambio
per ottenere vantaggi competitivi sulla base di accordi di lungo termine tra clienti
e fornitori (Hakansson e Wootz, 1979). Ne segue che il grande elemento
innovativo è rappresentato dalla centralità e dall’interattività dei rapporti che si
sviluppano tra le parti; entrambi gli attori coinvolti recitano un ruolo attivo nelle
transazioni realizzate. Altra novità si evidenzia nell’individuare nel medio/lungo
termine l’orizzonte temporale di riferimento.
In base a questo nuovo approccio, il marketing andrebbe inteso come management
delle relazioni e dovrebbe essere rivolto a stabilire, sviluppare e negoziare
relazioni di lungo termine con i clienti in modo che gli obiettivi delle parti
coinvolte siano raggiunti (Grönroos, 1989).
La prima apparizione del termine marketing relazionale fu nel 1983 in un paper
scritto da Berry nell’ambito del settore dei servizi. L’autore parla di “attrating,
mainteining and – in-multi services organizations – enanching customer
relationship”. In questa prima definizione, è posto in evidenza che l’obiettivo del
marketing è creare relazioni con i clienti, considerando i seguenti tre aspetti di
pari importanza: l’attrarre, il mantenere e l’aumentare. L’obiettivo del marketing
tradizionale, invece, era solo quello di conquistare nuovi clienti. Una successiva
definizione fu proposta due anni dopo da Jackson (1985), che la utilizzò in un
progetto di ricerca sull’industiral marketing, sia nel libro Winning and Keeping
22
Industrial Customers, sia in un articolo pubblicato nell’Harvard Business Review,
“marketing oriented toward strong, lasting relationships with individual
accounts”.
Molte altre definizioni sono sfilate nel tempo, ciascuna con l’intento di
sottolineare differenti aspetti della relazione. Nel 1991 Berry, in collaborazione
con Parasuraman ha rivisto la sua precedente definizione enfatizzando lo sviluppo
della relazione: “relationship marketing concerns attracting, developing, and
retaining customer relationships”. Il pensiero di Grönroos (1990), invece,
evidenzia l’ottica di lungo periodo: “relatioship
marketing relates to the
development of long-term relationships with customers and other parties”.
Gummesson (1994), dal canto suo, focalizza l’attenzione sul concetto di rete e di
interazione: “relationship marketing is marketing seen as relationships, networks
and interaction”.
Nel 1994, Sheth, nella sua definizione di marketing relazionale, presenta un
elemento di novità, ovvero il riferimento esplicito agli attori della relazione, i
fornitori e i clienti: “relationship marketing is the understanding, explanation, and
management of the ongoing collaborative business relationships between
suppliers and customers”.
Nello stesso anno, Grönroos presenta la sua definizione più completa ed esaustiva:
“marketing to establish, maintain, and enhance relationships with customers and
23
other partners, at a profit, so that the objectives of the parties involved are met.
This is achieved by a mutual exchange and fulfiment of promises”.
Molti studiosi uniscono al marketing relazionale il tema della fiducia. Ciò perché
tra gli attori dello scambio si possono istaurare relazioni consolidate e continue e
non più isolate e occasionali solo in costanza di un clima di reciproca fiducia.
Dunque la fiducia diventa una delle componenti fondamentali del processo di
generazione del valore, tramite la realizzazione di rapporti duraturi e collaborativi.
Il concetto di fiducia, riconosciuto da alcuni autori (Dwyer, Schurr e Oh, 1987)
come variabile fondamentale nel processo di nascita e di sviluppo della relazione,
è molto importante per promuovere e favorire le transazioni, soprattutto in
condizioni di mercato permeate da asimmetria informativa. Dall’analisi della
letteratura si possono individuare diverse concettualizzazioni della fiducia. Ci
sono in tal senso definizioni del concetto di tipo multidimensionale e
monodimensionale. Gli studi che riguardano il comportamento d’acquisto
concludono per l’esistenza di un legame tra la creazione di un clima di affidabilità
e la soddisfazione che deriva dalla conferma delle aspettative di performance
dovuta a ripetute transazioni. In sostanza i rapporti di reciproca fiducia derivano
da situazioni di soddisfazione ripetute nel tempo. Oltre alla fiducia, gli studi di
marketing relazionale hanno evidenziato il commitment e la cooperazione, quali
elementi che caratterizzano le relazioni stabili e durature.
24
Il commitment può essere considerato come la propensione del cliente a
mantenere una relazione di lungo periodo con il fornitore (Anderson e
Weitz,1989; Morgan e Hunt 1994). Morgan e Hunt (1994) ritengono che il
committment sia determinato dal grado di condivisione dei valori fra l’impresa e il
cliente, dal grado di condivisione dei fini della relazione e dal valore dei benefici
derivanti dalla relazione rispetto ai costi determinati da una semplice transazione.
Le ricerche di Morgan e Hunt e di altri autori hanno evidenziato da un lato
l’importanza della cooperazione, influenzata dalla fiducia e dal commitment,
soprattutto in termini di reciprocità relativa, dall’altro lato quella del potere. Gli
studi relativi alla cooperazione si sono concentrati in particolare nei contesti
business to business. Tali analisi hanno evidenziato come l’alto livello di
soddisfazione e la fiducia vissuta nel corso delle transazioni favoriscano
atteggiamenti cooperativi. La cooperazione viene definita come disponibilità ad
operare per raggiungere obiettivi comuni o individuali. Wilson (1995) teorizza
che le cause della cooperazione e della reciprocità sono la mutualità degli obiettivi
e la convinzione che l’agire insieme e il mantenere la relazione ne consentano il
raggiungimento.
Gruen (1995), invece, ha collegato il concetto di commitment relazionale e quello
di soddisfazione derivante dall’equità percepita nel processo di scambio,
basandosi sull’ipotesi che un’alta sensazione di equità e un consolidato
commitment nella relazione riducano il rischio di comportamenti opportunistici.
25
In realtà le teorie della letteratura di marketing relazionale sono così
interdipendenti tra loro che risulta estremamente difficile stabilire in modo
univoco le cause e le conseguenze. Quindi, mentre non vi è dubbio sul fatto che la
soddisfazione sia una condicio sine qua non per la determinazione di relazioni
improntate sulla reciproca fiducia, non è univoca la spiegazione delle relazioni tra
tra commitment, cooperazione, reciprocità, equità transazionale, e condivisione di
obiettivi e valori. Nonostante ciò, è chiaro che tutte le relazioni si basino sul
requisito fondamentale della reciproca fiducia tra le parti che vi partecipano.
La maggior parte delle definizioni di marketing relazionale hanno limitato la loro
concettualizzazione all’evoluzione del rapporto tra fornitore e cliente, mentre altre
hanno incluso quella di numerosi altri attori, mercati e stakeholders.
Figura I.3.-1. Alcune relazioni proposte nell’approccio al marketing
Autori
Categorie di relazione
Sottocategorie
Christopher, Payne e Ballantyne (1991)
6 mercati
Mercati dei clienti (1)
Mercati di supporto (5)
Kotler (1992)
10 attori
Micro-ambiente (4)
Macro-ambiente (6)
Morgan e Hunt (1994)
10 partnership
Acquirenti (2)
Fornitori (2)
Laterali (3)
Interne (3)
Gummesson (1994)
30 relazioni
Relazioni di mercato:
-classiche (3)
-speciali (14)
Relazioni non di mercato:
-mega relazioni (6)
-nano relazioni (7)
Fonte: Gummesson, 2006
26
Christopher, Payne e Ballatyne (1991) presentano un modello a “sei mercati” che
si compone di un mercato dei clienti, sia esistenti che potenziali, circondato da
mercati di supporto. I mercati di supporto sono concettualizzati in mercati di
riferimento, che includono i clienti soddisfatti che raccomandano il fornitore ad
altri; in mercati dei fornitori, da considerare come partner piuttosto che come
avversari; in mercati dei dipendenti, con i relativi concetti di assunzione e
promozione dei meritevoli; in mercati di influenza che includono gli analisti
finanziari, i giornalisti, gli opinion leader e le istituzioni; e in mercati interni, cioè
quelli che riguardano la gestione delle risorse umane.
Nel suo concetto di “total marketing”, Kotler (1992), da un lato non sposa una
totale trasformazione del paradigma tradizionale ma dall’altro si affaccia alla
prospettiva del network e delle relazioni. L’autore ritiene dunque che il marketing
relazionale sia una semplice teoria di supporto al marketing management classico
e mette in evidenza che all’interno di un’impresa ci sono tanti attori fondamentali,
almeno dieci, due dei quali sono il cliente diretto e quello finale. In questo senso
Kotler focalizza i giocatori presenti nell’ambiente immediatamente circostante
l’azienda, il microambiente, distanziandoli da quelli presenti nel macroambiente
attorno all’impresa. Nel primo gruppo rientrano quattro giocatori: i fornitori, i
distributori, gli utenti finali e i dipendenti. Il secondo team, invece, si compone di
sei giocatori: le aziende finanziarie, i governi, i media, gli alleati, i concorrenti e il
grande pubblico.
27
Morgan e Hunt (1994) teorizzano invece dieci scambi di relazioni con quattro
tipologie di partnership: con gli acquirenti, sia ultimi che intermediari; con i
fornitori, sia di beni che di servizi; con i soggetti laterali, cioè i concorrenti, le
organizzazioni no profit e le amministrazioni governative; con i soggetti interni,
cioè con i dipartimenti funzionali, i dipendenti e le unità commerciali.
Nella classifica stilata da Gummesson (1994), invece, sono elencati 30 generi di
relazioni, le cui caratteristiche evidenziate sono le proprietà delle relazioni stesse
oltre ai soggetti che le pongono in essere. Dato questo assunto, l’elenco che ne
deriva è diverso, dato che i tratti peculiari delle relazioni fanno parte della loro
essenza. Ci sono relazioni in cui è essenziale il contenuto, come quelle che si
fondano sulle leggi, relazioni che derivano dalla forma, come le alleanze, relazioni
che si sostanziano con i mezzi di comunicazione, come le relazioni elettroniche.
Tutti i quattro approcci descritti teorizzano dunque relazioni commerciali o non
commerciali, che a loro volta possono raggrupparsi in sottoinsiemi di mega e nano
relazioni.
Dalla presente analisi emerge che c’è un substrato comune tra le quattro scuole,
dato che non nascono scontri palesi, anche se ovviamente ci sono differenze nei
contenuti e nella scelta dei punti messi in evidenza.
28
I.4. Marketing relazionale e marketing mix a confronto
Nel momento in cui il marketing relazionale si sostituisce al marketing mix
tradizionale, assumendo un ruolo di primaria importanza nel pensiero di
marketing, si verifica un cambiamento evolutivo anche dell’operatività del
marketing stesso. I classici elementi, quali il prodotto, il prezzo, la
comunicazione, la distribuzione e le altre P, pur mantenendo anche nel marketing
relazionale una posizione di rilievo, assumeranno aspetti differenti.
La nuova teoria abbandona l’acronimo 4P e parla soltanto di P, indicando le
attività sotto il controllo del fornitore al fine di gestire i clienti e persuaderli a
ripetere gli acquisti. Viene comunque sempre considerato indispensabile qualche
elemento di persuasione e di influenza. Il ruolo delle P viene disegnato come di
supporto e non più di guida. Ne segue dunque l’esigenza di un cambiamento di
prospettiva. Avendo infatti assunto, nel corso del tempo, un’accezione troppo
manipolativa, le P hanno danneggiato la credibilità e la funzionalità della
disciplina di marketing. Le P sono dirette al marketing di massa che resta sempre
presente, anche se ha perso il suo ruolo centrale (Gummesson, 1994).
29
Figura I.4.-1. Transizione dal marketing mix al marketing relazionale
Fonte: Gummesson (1994)
L’interattività dei rapporti che si sviluppano tra le parti è l’elemento innovativo e
centrale del marketing relazionale. Un ruolo attivo nelle transazioni realizzate è
recitato da tutti e due gli attori coinvolti nello scambio. Un ulteriore elemento
distintivo del marketing relazionale è l’evoluzione dell’orizzonte temporale di
riferimento. In questo nuovo approccio si ragiona
nel medio-lungo periodo
(Kotler, 1992), in quanto è necessario del tempo, affinché le relazioni vengano
analizzate, costruite e mantenute.
Quindi, in sintesi, nella disciplina del marketing, la prospettiva relazionale viene a
contrapporsi alla più tradizionale prospettiva transazionale; la prima si pone
l’obiettivo di qualificare la relazione con il cliente, la seconda, invece, ha
l’obiettivo di rendere efficace la transazione nei confronti del mercato. Sono
30
significativi e numerosi gli elementi in cui il marketing relazionale si distingue dal
marketing transazionale.
La tabella qui sotto riassume le caratteristiche delle due tipologie di marketing:
transazionale e relazionale.
Figura I.4.-2. Marketing transazionale e relazionale a confronto
MARKETING
MARKETING
TRANSAZIONALE
RELAZIONALE
Singola transazione e
Customer retention e
volume d’affari
FOCUS
customer loyalty
Caratteristiche del prodotto
ENFASI
Customer value
Breve periodo
ORIZZONTE TEMPORALE
Lungo periodo
Bassa importanza
CUSTOMER SERVICE
Alta importanza
Basso livello
CUSTOMER CONTACT
Alto livello
Qualità del prodotto
CONCETTO DI QUALITA’
Qualità della relazione
Fonte: elaborazione propria da Christopher, Payne, Ballantyne (2002)
Da tutto ciò risulta come la relazione con il cliente finale sia ormai da ritenere
l’ambito di evoluzione degli studi di marketing, non essendo limitata all’analisi
dei soli mercati industriali e dei servizi.
I.5. Gli approcci al marketing relazionale
Chiarito il ruolo della relazione, analizziamo in quali ambiti si possa applicare
questo nuovo approccio di gestione e come i diversi stakeholders si rapportino con
31
le aziende. Molti studiosi hanno tentato di inquadrare le molteplici relazioni
nell’ambito di modelli teorici. Il primo per importanza è il “manifesto di sfida” di
Gummesson al marketing tradizionale.
Nel 1987, l’autore enumera nove punti focali che dimostrano quanto sia
complessa la gestione dell’attuale contesto competitivo con la messa in pratica
degli strumenti del marketing tradizionale.
Tabella I.5.-1. I concetti di Gummesson che sfidano il marketing tradizionale
1.
The many-headed customer and seller
2.
The real customer does not necessarily appear in the market-place
3.
The customer as co-producer
4.
Market mechanisms are controlled outside the firm
5.
Market mechanisms are brought inside the firm
6.
Interfunctional dependency and the “part-time marketer”
7.
Process management and the internal customer
8.
Internal marketing
9.
Relational quality
Fonte: Gummesson (1987)
Il manifesto di Gummesson incarna il primo tentativo di sintetizzare le varie
critiche dirette al marketing tradizionale e rappresenta quindi il punto di partenza
per la concettualizzazione dei successivi modelli. In particolare, lo studioso pone
in evidenza che nelle strategie di marketing devono essere presi in considerazione
il concetto di rete e le varie interazioni e sottolinea che la gestione delle relazioni
interne ad un’azienda ha la stessa significatività della gestione di quelle con
l’esterno. Inoltre evidenzia che tutta l’organizzazione deve essere customer-
32
oriented, e che quindi la natura e l’ampiezza dei rapporti con i clienti devono
essere dapprima analizzate e di seguito gestite con una grande attenzione.
Molti autori in seguito hanno citato e superato il pensiero di Gummesson.
Dall’analisi della letteratura si sono rintracciate scuole di pensiero effettive, che
presentato molteplici punti di vista sul concetto di marketing relazionale. Le
principali sono la scuola nordica, l’Industrial Marketing and Purchasing (IMP)
Group, la scuola anglo-australiana e la scuola nordamericana.
I.5.1. La scuola nordica
La scuola nordica ha origine alla fine degli anni Settanta in Scandinavia
all’interno degli studi sui servizi di marketing che si propongono di colmare le
lacune individuate nell’approccio transazionale al marketing. Il concetto di fondo
della teoria è che il servizio sia una componente molto importante nel qualificare i
rapporti tra fornitori e clienti (Grönroos, 1994; Gummesson, 1997), in particolare
si tratta dello strumento attraverso il quale si può migliorarne la qualità, sia
fidelizzando i clienti e sia allungando il ciclo di vita dei rapporti (Grönroos e
Gummesson, 1985; Grönroos, 1990).
I principali esponenti di questa scuola sono Christian Grönroos ed Evert
Gummesson.
Questa teoria, che ha esercitato una grande influenza nell’ambito del marketing
relazionale, si applica sia a contesti B2B che B2C.
33
Il 30R approach di Gummesson (1994) è uno dei più importanti contributi di
questa scuola alla teoria del marketing relazionale, e procede ad identificare 30
relazioni esistenti in imprese e altre organizzazioni con le relative conseguenze.
La caratteristica più rilevante consta del tentativo di rendere pratico ed operativo il
marketing relazionale. In questo modello lo studioso classifica le 30 relazioni in:
relazioni di mercato, classiche e speciali, e di non mercato, le mega e le nano
relazioni (Gummesson, 1997). Queste ultime hanno la mansione di supportare le
relazioni di mercato. Nella prima presentazione dell’approccio (1994),
Gummesson ha elencato le 30 relazioni senza attribuire un ordine preciso,
ritenendo che potessero essere posizionate in categorie differenti, essendo
caratterizzate da molte qualità. Nella rielaborazione più recente (2002), invece,
l’autore aggiorna la sua teoria collocando le relazioni nelle quattro categorie di
base:
1. le relazioni classiche di mercato;
2. le relazioni speciali di mercato;
3. le mega relazioni;
4. le nano relazioni.
34
Figura I.5.1.-1. Il 30R Approach di Gummesson
Relazioni classiche di mercato
1. La diade classica: relazione cliente – fornitore
2. La triade classica: il triangolo cliente – fornitore – concorrente
3. Il network classico: relazioni lungo i canali di distribuzione
Relazioni speciali di mercato
4. Relazioni tramite full time marketers e part time marketers
5. La relazione interattiva tra clienti e fornitori di servizi nei momenti della verità
6. La relazione tra responsabili dell’impresa fornitrice e dell’impresa cliente (marketing
industriale)
7. La relazione con il cliente del cliente
8. La relazione vicina vs la relazione lontana
9. La relazione con il cliente insoddisfatto
10. La relazione monopolistica: il cliente o il fornitore come prigionieri
11. Il cliente come membro
12. La e-relationship
13. Le relazioni simboliche
14. La relazione non commerciale (settore pubblico, volontariato, famiglia)
15. La relazione verde (o ambientale)
16. La relazione basata sulla legge
17. La rete criminale
Mega relazioni
18. Network personali e sociali
19. Mega marketing (governi, legislatori, influenzatori, opinione pubblica)
20. La relazione cooperativa (alleanze tra imprese, franchising, JV, co-marketing)
21. La relazione di conoscenza (impresa come sistema cognitivo)
22. Le mega alleanze (UE libera mobilità per professionisti, Nafta)
23. La relazione con i mass media (RP)
Nano Relazioni
24. Meccanismi di mercato dentro l’organizzazione
25. La relazione con il cliente interno (programmi TQM)
26. La relazione tra gestione operativa e marketing
27. Le relazioni con il mercato dei dipendenti: il marketing interno
28. La relazione bidimensionale nell’organizzazione a matrice
29. La relazione con i fornitori esterni dei servizi di marketing
30. La relazione con proprietari e finanziatori
Fonte: Gummesson (2002)
La scuola nordica individua inoltre le principali caratteristiche in una relazione,
ovvero l’interazione, il dialogo e il valore (Grönroos, 2000).
35
Anche l’IMP Group, come vedremo successivamente, condivide l’importanza
dell’interazione nell’ambito della gestione della relazione. In base a questo punto
di vista, il servizio domina le interazioni dato che i clienti e i fornitori interagendo
realizzano rispettivamente servizi l’un per l’altro. I clienti producono informazioni
e i fornitori forniscono soluzioni. Gli scambi tra le imprese si realizzano
nell’ambito più vasto delle interazioni in corso. Questa ottica è distante dai
tradizionali approcci di marketing che vedono gli scambi interaziendali come
eventi discreti e non collegati, quasi fuori dal contesto.
La seconda caratteristica di una relazione individuata dalla scuola nordica è il
dialogo. Ciò implica che la comunicazione tra i partner è ritenuta indispensabile
per stabilire, mantenere e rafforzare le relazioni (Grönroos, 1994). I fornitori e i
clienti dialogano. La comunicazione è biunivoca, a differenza di quella teorizzata
dal marketing tradizionale, che la immaginava unidirezionale, dall’azienda al
cliente.
L’ultimo aspetto che la scuola nordica considera è il valore, di cui viene
evidenziata la reciprocità. Affinché i clienti generino valore, le aziende devono
mostrare un valore percepito come tale dal cliente. In base a questa ottica, la
performance di servizio ricopre il ruolo di fattore chiave per determinare il valore
percepito dal cliente.
36
I.5.2. Industrial Marketing and Purchasing Group
L’IMP Group è nato anch’esso verso la fine degli anni settanta, nell’ambito delle
ricerche compiute da alcuni ricercatori europei con il semplice scopo di descrivere
in modo molto accurato le relazioni B2B. Tra i maggiori esponenti dell’IMP si
ricordano Malcom Cunningham, David Ford, Lars-Erick Gadde, Hakan
Hakansson, Ivan Snehota, Peter Naudé e Peter Turnbull.
L’obiettivo iniziale delle analisi era solo quello di sviluppare modelli idonei a
descrivere la realtà dei mercati industriali, da un punto di vista complementare
rispetto agli approcci tradizionali. In secondo luogo, la valutazione si focalizzò sui
i rapporti commerciali che si sviluppavano, al fine di individuare se avessero
caratteri riconducibili a quelli dei beni di largo consumo.
Caratteristiche dei mercati dei beni sono la complessità e la specificità dei
beni/servizi scambiati, tipici delle situazioni business to business (Giulivi, 2001;
Fiocca, Snehota e Tunisini, 2003). Molto spesso in tali contesti di mercato le
imprese hanno relazioni con un numero ristretto sia di clienti che di fornitori.
Nei mercati dei beni industriali, i rapporti commerciali che si instaurano tra clienti
e fornitori non sono di solito singole transazioni occasionali, ma relazioni stabili
inquadrate in un’ottica di lungo periodo. Il focus si sposta quindi dalle singole
transazioni alle relazioni stabili che si stabiliscono tra gli operatori dei mercati dei
beni industriali (Webster, 1992).
37
Il contributo dell’IMP Group al marketing relazionale si concretizza in due
approcci distinti, ma complementari: l’interaction approach e l’industrial network
approach. L’approccio interattivo, inquadrato nella prima metà degli anni ottanta,
pone l’attenzione sulle relazioni diadiche che si sviluppano tra le imprese
(Hakansson et al., 1979).
I ricercatori hanno cercato di standardizzare modelli interpretativi delle relazioni
basate su collaborazioni di lungo periodo, individuando i fattori che ne
condizionano la nascita, lo sviluppo e le caratteristiche (Hallen e Sandstorm,
1991). Hakansson, nel 1982, ha sicuramente fornito il modello di maggior rilievo
che propone di fornire indicazioni operative concrete alle imprese per semplificare
il processo di gestione delle relazioni. A tal fine, considera quattro differenti
gruppi di fattori che ritiene condizionino le caratteristiche e il processo di
evoluzione delle relazioni: il processo di interazione fra le parti coinvolte, le
caratteristiche dei partecipanti al processo di interazione, l’ambiente in cui si
sviluppa il processo di interazione e l’atmosfera che ne risulta.
38
Figura I.5.2.-1. Il modello dell’interaction approach
Fonte:Hakansson (1982)
L'Autore ritiene che gli episodi e gli aspetti di lungo termine siano due elementi
differenti, ma al tempo stesso collegati del processo di interazione. Gli episodi si
riferiscono alle singole transazioni che hanno luogo fra le parti e possono avere ad
oggetto scambi di beni, servizi, attività finanziarie, informazioni oppure natura
39
sociale. Il ripetersi nel tempo degli episodi favorisce una loro standardizzazione e
crea aspettative sui ruoli e sui comportamenti delle parti coinvolte, conferendo
stabilità al rapporto. Le relazioni di lungo termine si pongono, dunque, come
conseguenza di molteplici episodi.
Il modello teorizza che le relazioni sono strettamente legate alle caratteristiche dei
partecipanti; in particolare, secondo Hakansson, gli aspetti più influenti sono il
livello di tecnologia posseduto dalle parti, la struttura organizzativa e la strategia
implementata.
L’interaction
approach
presenta
l’impatto
significativo
sulla
relazione
dell’ambiente esterno. Gli elementi che hanno influenza sulla relazione, e che
vanno quindi considerati dalle imprese, sono la struttura del mercato in cui le
imprese
stesse
agiscono,
il
livello
di
dinamismo
e
il
livello
di
internazionalizzazione di tale mercato oltre al sistema sociale.
Infine, il modello esamina l’atmosfera che proviene dal processo di interazione e
che lo condiziona. Questa atmosfera include gli atteggiamenti assunti dalle parti
sia nei confronti dei partners che delle relazioni stesse. L’atmosfera, quindi, non
dipende solo dalle esperienze passate, ma può condizionare lo sviluppo futuro
delle relazioni e mediare le influenze ambientali che potranno cambiare nel
tempo.
A partire dalla seconda metà degli ottanta, l’interaction approach si amplia e
subisce un’evoluzione, spostando l’attenzione sull’analisi delle relazioni diadiche
40
in un contesto network. Ne segue il network approach, che si concentra sulle
relazioni di tipo reticolare. Tale teoria sottolinea che le imprese operano in ambiti
molto più ampi, i cosiddetti networks. Pur essendo le relazioni essenzialmente
diadiche, è necessario inquadrarle come ingranaggi di meccanismi networks molto
più vasti e complessi da esaminare.
Secondo l’IMP Group, dunque, le transazioni B2B si realizzano nell’ambito più
ampie relazioni di lungo termine, esse stesse incluse in una rete di relazioni ancora
più estesa (Gummesson, 1987). Ogni singola relazione B2B tra fornitore e cliente
implica legami tra le dimensioni chiave delle relazioni all’interno dei networks,
ovvero sulle attività, le risorse e fra le persone (Gadde et al., 2012).
Per legami fra le persone si intendono contatti interpersonali tra le figure di
aziende partner che si basano sulla fiducia, l’impegno e l’adattamento (Hakansson
e Snehota, 1995). Tali legami derivano da una comunicazione interpersonale e
della creazione di un rapporto di fiducia.
I legami di attività sono rapporti commerciali, tecnici, finanziari, amministrativi e
di altro genere stretti tra aziende che interagiscono. Le attività possono riguardare
acquisti o vendite, collaborazioni tecniche o progetti tra le aziende di varia natura.
Attività come ad esempio scambi di sapere fra partner o la creazione di sistemi di
IT comuni, di sistemi produttivi integrati o di processi di gestione della qualità
totale sono, infatti, investimenti che dimostrano impegno.
41
Le risorse sono gli aspetti positivi e negativi sia negli ambiti umani, che
finanziari, legali, fisici, manageriali, intellettuali o di altra natura propri di
un’azienda (Barney, 1991). I legami riguardanti le risorse si creano quando queste
vengono usate per svolgere attività che legano fornitore e cliente. Le risorse
consumate in una relazione B2B possono rafforzare e approfondire tale rapporto.
Tuttavia, d’altro lato, possono anche essere considerate dei costi di opportunità,
dato che una volta impegnate in una data relazione potrebbero essere indisponibili
per un’altra.
I.5.3. La scuola anglo-australiana
Il pensiero fondamentale della scuola anglo-australiana è che le imprese siano in
condizione di avere relazioni non solo con i clienti ma anche con tanti altri
stakeholder: dipendenti, azionisti, fornitori, acquirenti e istituzioni. I principali
esponenti di questa scuola sono Martin Christopher, Adrian Payne, Helen Peck e
David Ballantyne.
Alcuni elementi che condizionano la relazione con gli stakeholder sono il livello
d’investimento, l’impegno e la durata. Mentre quello dell’IMP Group è un
approccio descrittivo, quello della scuola anglo-australiana è prescrittivo, cioè ha
l’obiettivo di coadiuvare i manager a realizzare migliori relazioni con i gruppi
interessati. Il modello “Six-Markets” (Christopher et al., 1991), più volte
aggiornato, è uno dei principali contributi concettuali di questa scuola. Sostiene
42
che le aziende debbano interfacciarsi con i seguenti “mercati”: i mercati interni, i
mercati alleati, i mercati di reclutamento, i mercati di riferimento, i mercati
d’influenza e i mercati dei clienti.
Figura I.5.3.-1. Modello Six-Markets
Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991)
Ognuna della relazioni con questi mercati, va costruita e mantenuta in una
maniera che permetta di creare valore sia dal punto di vista del prodotto che dei
servizi.
Il customer market è il centro del modello: i clienti, siano essi gli intermediari o
proprio gli utenti finali, devono continuare a rappresentare il primo centro di
attenzione di tutte le attività di marketing e i soggetti principali delle strategie di
marketing relazionale.
43
E’ innovativa la concettualizzazione del referral market, composto da tutti quei
soggetti che danno un parere positivo sul modo di agire dell’ente in analisi.
L’esistenza di questo mercato dà quindi importanza per le aziende ai due seguenti
elementi, il passaparola e la customer satisfaction. Il passaparola e la customer
satisfaction non devono essere tralasciati dall’impresa, dato che investendoci se ne
ha un ritorno.
Riguardo ai supplier markets, è necessario soffermarsi un attimo, dato che negli
ultimi anni, in questi mercati, le relazioni sono notevolmente cambiate. Clienti e
fornitori non sono più tra loro nemici, volti ad agire solo in un modo
opportunistico per ottenere il proprio esclusivo vantaggio, ma si affacciano
sempre più spesso ad un comportamento collaborativo. Dal momento in cui il loro
rapporto ha inizio, vengono definite le regole della cooperazione, ad esempio,
fissando esplicitamente determinati target di qualità e di servizio, di impegno ad
una produzione flessibile, ecc.
I recruitment markets, cioè i mercati del lavoro, riguardano la capacità delle
aziende di ricercare, attrarre e mantenere personale dalle caratteristiche di cui
necessitano. Solo l’azienda che abbia un personale competente e motivato può
goderne come vantaggio competitivo, soprattutto nell’ottica di marketing interno.
Gli influence markets sono invece quei mercati che possono includere soggetti
come i media, i gruppi di consumatori, le istituzioni governative, gli enti
44
finanziari, gli azionisti, ecc. Il modello include tale mercato a causa del ruolo
determinante svolto da tutte le attività pubbliche.
Infine ci sono gli internal markets. Il tipo di rapporti che è stato creato con i
soggetti che costituiscono l’internal market, come ad esempio i dipendenti,
evidenzia il ruolo primario di due aspetti fondamentali. Il primo aspetto concerne
il livello di coordinazione della catena del valore interna cliente-fornitore, nel
senso che sarebbe opportuno che le operazioni interne all’azienda siano realizzate
in modo ottimale grazie all’ineccepibile grado di servizio ed all’indiscussa
rapidità dei flussi di comunicazione in essere tra clienti e fornitori interni
dell’organizzazione. Per il secondo aspetto è invece necessario un controllo
costante sull’intero personale per accertare il rispetto della mission, della strategia
e degli obiettivi aziendali (Payne, 1993).
Nell’ambito di questa scuola, gli studiosi hanno studiato anche altri argomenti,
quali la customer retention, la loyalty e la soddisfazione del cliente, l’economia
della relazione con il cliente e la creazione di valore. Una delle loro principali
scoperte riguarda la customer satisfaction e la customer retention, entrambi
considerati indicatori di valore per gli azionisti (Payne e Frow, 2005).
I.5.4. La scuola nordamericana
La scuola nordamericana si concentra invece sulla connessione fra il successo
delle relazioni tra le imprese e un’eccellente prestazione aziendale. In sintesi, la
45
scuola sottolinea come la relazione riduca i costi relativi alle transazioni (Heide,
1994) e come tanto la fiducia che l’impegno siano condizioni di base per avere
relazioni di successo. Gli esponenti di maggior rilievo di questa scuola sono
Sandy Jap, Shelby Hunt, Jan Heide, Robert Morgan a Jagdish Sheth.
Il “Commitment-Trust Theory of Relationship Marketing”, ideato da Morgan e
Hunt (1994), è il contributo teorico più importante della scuola nordamericana, il
primo che nell’ambito della relazione cliente-fornitore collega in modo esplicito il
concetto di fiducia all’impegno.
Quindi, per creare relazioni di marketing di successo sono indispensabili la
presenza dell’impegno e quella della fiducia. Impegno e fiducia spingono i
marketer ad investire nella relazione cooperando con i partner, preferendo
aspettare i benefici di lungo termine rispetto a quelli di breve termine e pensando
che i partner non si comporteranno in modo opportunistico.
Quindi, solo se ci sono sia l’impegno che la fiducia, si raggiungono gli obiettivi
che ci si era posti e che promuovono l’efficienza, la produttività e l’efficacia.
Altro aspetto, prevede che commitment e trust portino in modo diretto a
comportamenti cooperativi, considerati favorevoli relazioni di marketing di
successo. Morgan e Hunt teorizzano il “key mediating variable (KMV) model of
relationship marketing” che mette in evidenza sia gli scambi relazionali che il
ruolo dell’impegno e della fiducia. Questi due assunti, già considerati costrutti
importanti nelle relazioni di marketing, sono anche punti focali di mediazione
46
nelle relazioni. Gli autori propongono di verificare il ruolo delle due variabili,
commitment e trust, nell’ambito del modello delle relazioni di mercato. Vengono
quindi elencate le principali cause (relationship terminal costs, relationship
benefits, shared values, communication, e opportunistic behavior) e conseguenze
(acquiescence, propensity to leave, cooperation, functional conflict, and decisionmaking uncertainty).
Figura I.5.4.-1. Il modello KMV di relationship marketing
Fonte: Morgan e Hunt (1994)
Il modello KMV, astraendo gli elementi di un’indagine empirica, presenta risultati
imprevedibili, facendo vedere come pur esistendo una correlazione positiva tra
47
molte della variabili ipotizzate, questa si realizza solo attraverso gli elementi
chiave di mediazione, cioè relationship commitment e trust.
La prima è definita come “an exchange partner believing that an ongoing
relationship with another is so important as to warrant maximum efforts at
maintaining it”, mentre la seconda come “existing when one party has confidence
in an exchange partner’s reliability and integrity” (Morgan e Hunt, 1994).
In base a questa teorizzazione, la fiducia è basata su valori condivisi, sulla
comunicazione, su un comportamento non opportunistico, su un basso conflitto
funzionale e sulla cooperazione. L’impegno, invece, oltre ad essere correlato agli
elevati costi di chiusura del rapporto, si basa sugli elevati benefici per la relazione
(Morgan e Hunt, 1994).
Dunque, la scuola nordamericana considera la relazione come uno strumento che
un’azienda può utilizzare al fine di realizzare un vantaggio competitivo. Tale
costrutto teorico pone l’attenzione sulle relazioni tra due soli soggetti piuttosto
che sui network, in particolare sui rapporti acquirente-fornitore e sulle alleanze
strategiche (Heide e Stump, 1995; Jap, 2001).
I.6. L’affermarsi della prospettiva relazionale
La letteratura che si occupa di marketing relazionale è in progressiva evoluzione
e di conseguenza, sta guadagnando il ruolo di nuovo paradigma di riferimento del
marketing. Questo nuovo punto di vista, più di quello tradizionale, è efficace nel
48
gestire i processi di scambio tipici dei mercati industriali e dei servizi, avendo
come finalità quella di creare e mantenere le relazioni per ottenere vantaggi
competitivi, sulla base di accordi di lungo termine con clienti e fornitori. Questa
scuola definisce il marketing come un management delle relazioni, il cui obiettivo
sarebbe quello di far nascere, vivere e organizzare una rete di relazioni che abbia
una lunga prospettiva di vita.
Iacobucci (1994), dato che il concetti di interazione, di interscambio, di doppio
legame erano già presenti nella teoria classica del marketing (Bagozzi, 1975),
ritiene che il marketing relazionale è semplicemente un modo diverso di
confrontarsi con il marketing tradizionale.
Mattsson (1997), invece, pensa che sia importante la razionalizzazione di una
teoria per avere il contesto di base in cui interpretare le varie tipologie di
transazioni di marketing, tra cui quelle che riguardano prodotti, servizi, persone.
Anche Sheth e Parvatiyar (2000) hanno la stessa opinione, anzi, questi ritengono
che l’approccio del marketing relazionale potrebbe includere tutte le subdiscipline del marketing, come il business-to-business marketing, channels
marketing, services marketing, marketing research, customer behaviour,
marketing communications, marketing strategy e international marketing.
Per molti anni si è ritenuto che il marketing relazionale rappresentasse il primo
grande cambiamento nel marketing. In realtà, dalla nascita del marketing ad oggi,
si sono susseguite fasi diverse del marketing, ciascuna legata ad una corrente di
49
pensiero prevalente. Christopher et al., (1991), fanno iniziare questa evoluzione
negli anni ’50 con la nascita del consumer marketing e la trascinano fino agli anni
’90 con la diffusione sempre maggiore del relationalship marketing.
Figura I.6.-1. L’evoluzione del marketing
Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991)
Ciascuna di queste scale rappresenta un’evoluzione all’interno della disciplina del
marketing, sia come nascita e sviluppo di nuove aree di ricerca sia come livello di
diffusione della disciplina nel mondo manageriale.
E’ opportuno porre in evidenza che ciascuno di questi step non è fine a se stesso,
ma risulta dall’evoluzione delle teorie precedenti e rappresenta il punto di
partenza per le teorie future. E’ per questo motivo che il marketing relazionale
50
include le influenze di tutte le teorie che l’hanno preceduto, comprendendo anche
concetti relativi alle teorie del total quality management e del knowledge
management (Gummesson, 1999).
Dunque, l’approccio relazionale descrive una visione dell’organizzazione di
imprese e mercati che riflette meglio la realtà degli attuali contesti competitivi,
oltre ad evidenziare che le imprese devono confrontarsi con molte relazioni
diverse, sia per lo spettro dei soggetti, molto diversi tra loro e molto numerosi, sia
per l’essenza della relazione che ha forza e stabilità ogni volta differenti. E’ da
questi assunti che nasce la prospettiva dei seguaci del continuum di relazioni di
mercato.
Figura I.6.-2. Il continuum del marketing
Fonte: Grönroos (1994)
51
Non c’è dubbio sul fatto che il paradigma relazionale si presenti come il modello
che in modo più compiuto e reale riflette le modalità e le tipologie di reciproche
relazioni che si hanno tra le imprese in mercati sempre più agitati e difficili.
E’ quindi chiaro che il paradigma sia molto diffuso. Inoltre, che sia considerato
molto duttile da un punto di vista concettuale ed applicativo, è dimostrato anche
dal fatto che discipline che si occupano di settori differenti della gestione
d’impresa abbiano riconosciuto come valida ed indiscussa la modalità di lettura
dei comportamenti d’impresa, adattando la sua applicazione agli specifici contesti
organizzativi.
52
CAPITOLO II
ASPETTI EVOLUTIVI DELLE RELAZIONI TRA INDUSTRIA E
DISTRIBUZIONE NELLA “SUPPLY CHAIN”
II.1. Spunti e riflessioni sull’applicazione del marketing relazionale
Negli ultimi anni la gestione delle relazioni è uno degli elementi progressivamente
più importanti ed è alla base di indubbi vantaggi competitivi. Le imprese, che
sono dotate di una gestione dei rapporti corretta, ottengono risultati positivi in
aggiunta non solo nei rapporti con i clienti, ma anche con i fornitori, le istituzioni,
la concorrenza e tutti gli stakeholder con cui si interfacciano. Nell’ambito di una
competizione così profonda, la creazione di relazioni consolidate si pone come
elemento indispensabile per mantenere certe posizioni, migliorare e velocizzarsi
nell’apprendimento ed operare fronteggiando un grado di rischio inferiore.
Data per assunta la posizione dell’approccio relazionale al marketing, in questo
momento la discussione riguarda i vari campi di applicazione. Il focus è su quali
relazioni coinvolgere, ovvero se basti porre in essere il modello del management
dei rapporti tra impresa e consumatori finali, o se invece sia indispensabile
permeare dalla teoria le relazioni con tutti gli stakeholder.
Nell’atto dell’applicazione pratica da parte delle imprese, si ritiene che il modello
relazionale si porrà come un modo di gestione, con impatti a tutti livelli della
catena del valore, dato che dal rapporto di interfaccia diretto con il consumatore si
53
avrà maggiore conoscenza dei suoi bisogni specifici, grazie al quale si potrà
ambire ad offrire prodotti e servizi sempre più customizzati.
La causa principale che porta le aziende a sviluppare relazioni con i clienti è di
natura economica, dato che le aziende stesse ottengono i risultati migliori quando
si interfacciano con i clienti in modo da individuare, acquisire e trattenere quelli di
loro più redditizi. Fondamentale risulta dunque la retention, il cui aumento è una
delle ragioni della crescita del portafoglio clienti. E’, comunque, opportuna una
riflessione e cioè che l’incremento del semplice numero dei clienti, senza un piano
preciso, non porta a grandi risultati. Viene quindi teorizzato che ciascuna azienda
dovrebbe porsi come obiettivo il mantenimento dei clienti esistenti; procederà ad
acquisirne di nuovi solo dopo averne trovati di potenzialmente redditizi o
importanti ai fini strategici (Buttle, 2012). Dall’incremento della retention
seguono ulteriori benefici, ovvero una progressiva riduzione dei costi di
marketing e la migliore comprensione delle esigenze e aspettative dei clienti.
Se guardiamo la relazione dal punto di vista del cliente, emergono molteplici
situazioni in cui il cliente stesso ricerca una relazione con i fornitori.
Nel contesto B2B gli esempi in cui un cliente desidera un rapporto di lungo
termine con un fornitore sono numerosi, ad esempio quando un prodotto è
complesso o d’importanza strategica, quando ci sono esigenze di servizio o
quando è presente un elevato rischio finanziario legato ad acquisti importanti. E’
però necessario considerare che la ricerca di una relazione con il fornitore da parte
54
del cliente non è la normalità, dato che in molte circostanze è usuale che i clienti
abbiano delle remore ad istaurare relazioni con i fornitori, come ad esempio la
paura della dipendenza, la mancanza di valore percepito nella relazione, la
mancanza di fiducia nel fornitore, la mancanza di orientamento relazionale e la
rapidità dei cambiamenti tecnologici (Biong et al., 1997).
Tra i numerosi contributi, sia teorici che empirici, che possono trovarsi nella
ricerca scientifica riguardo al tema dell’applicabilità dell’approccio relazionale, si
segnalano due visioni opposte: alcuni autori (Moller e Halinen, 1998; O’Malley e
Tynan, 2000; Hibbard e Iacobucci, 1998) sostengono l’impossibilità di applicare
l’approccio relazionale nei rapporti B2C, altri autori (Palmer, 1995), invece,
ritengono che le relazioni di lungo periodo tra cliente e fornitore nel mercato dei
beni di consumo esistono, ma sono legate a doppia mandata con la tipologia di
prodotto.
Come per instaurare una qualsiasi relazione, è necessaria la volontà dei due
partner. Nel mercato dei beni di consumo, più spesso rispetto a quello dei beni
industriali o dei servizi, il cliente non condivide l’intento del fornitore volto al
mantenimento di una relazione stabile. Ci sono molteplici situazioni in cui il
cliente è interessato alla singola transazione e cerca quindi di non fidelizzarsi ad
un unico fornitore.
55
Altra considerazione è che il successo di una relazione, soprattutto nel mercato dei
beni di consumo, non deriva solo dalle strategie e dalle politiche realizzate dal
venditore, ma anche dalla propensione del cliente a porre in essere una relazione.
Quindi, le imprese interessate ad attuare politiche volte a creare e mantenere relazioni
di lungo periodo, dovrebbero selezionare quei clienti che siano sensibili nei confronti
delle stesse.
Per quel che riguarda i rapporti con gli stakeholder, invece, ricerche recenti
teorizzano la possibilità di applicare l’approccio relazionale a qualunque tipologia di
cliente (Sheth e Parvatiyar, 1995; Palmer, 1995; Rowe e Barnes, 1998; Gwinner et
al., 1998).
Si ritiene che una conoscenza più spinta di tutti i detentori di interessi e
l’applicazione, anche nei loro confronti, di un approccio relazionale porterebbe
all’impresa performance migliori (Gummesson, 2006).
In tale ambito, si fa riferimento al four partnerships approach al relationship
marketing di Morgan e Hunt (1994) e Doyle (1995).
Entrambi i modelli concettualizzano l’esistenza di quattro classi di stakeholder
con cui bisogna stabilire specifiche relazioni.
Nel proseguo di questo capitolo verranno approfondite le relazioni che si
instaurano all’interno del cluster definito da Morgan e Hunt buyer partnerships e
da Doyle customer partnerships.
56
Figura II.1.-1. Il four partnership approach
Fonte: Morgan e Hunt (1994)
Fonte: Doyle (1995)
57
L’analisi sarà svolta dal punto di vista dell’industria, ovvero considerando
l’impresa industriale come azienda focale. Verranno quindi esaminati i rapporti
che l’impresa pone in essere con la domanda intermedia, cioè con la distribuzione,
con l’intento di dimostrare come tutte le relazioni siano funzionali allo sviluppo e
al consolidamento del rapporto con la domanda finale.
Il valore dell’impresa, infatti, sia essa industriale o commerciale, è determinato
dal consumatore. Dunque entrambe, a prescindere dal loro settore di
appartenenza, devono basare i propri rapporti su un forte e reale orientamento alla
domanda. Il consumatore può divenire la base su cui fondare una relazione stabile
e duratura tra le imprese nell’ambito della filiera e, in ultima istanza, la vera fonte
di vantaggio competitivo.
All’interno del capitolo, si darà inoltre spazio all’evoluzione delle relazioni tra
impresa e domanda intermedia ed al processo sottostante la loro creazione.
II.2. L’importanza della relazione e delle nuove tecnologie
Negli ambienti di mercato attuali, che sono definiti sia da un’elevata
competizione, che da una diffusa evoluzione tecnologica e da politiche importanti
di differenziazione dell’offerta, gli investimenti in capitale relazionale ricoprono
un ruolo sempre più centrale.
I mutamenti che si stanno verificando influenzano e modificano i rapporti
concorrenziali in mercati sempre più numerosi (Valdani, 1997), cioè per le
58
imprese diventano sempre più necessarie le proprie risorse relazionali con i
consumatori, i fornitori, gli intermediari e persino i concorrenti. Da questo segue
che il ruolo della funzione di marketing è sempre più critico e strategico per la
ridefinizione del rapporto tra l’impresa e il suo mercato, per mezzo dello sviluppo
di metodi sempre diversi di comunicazione, della valorizzazione della relazione
con i diversi soggetti con cui l’impresa si interfaccia e dell’uso delle potenzialità
di formazione di conoscenza.
Alcune imprese da tale riflessione hanno scelto un metodo applicativo che
coinvolga l’uso della tecnologia. Hanno quindi sviluppato il customer relationship
management (CRM), cioè un aggregato di attività e processi definiti volti
all’esame, alla gestione, al continuo miglioramento e al dare maggiore valore alle
relazioni con i clienti.
In letteratura, il CRM cresce contemporaneamente al relationship marketing.
Alcuni studiosi come Payne e Frow (2005) analizzano i due approcci in
simultanea e definiscono il CRM come “cross-functional integration of processes,
people, operations and marketing capabilities that is enabled through
information, technology and application”. Altri, invece, come Zablah et al. (2004)
ne evidenziano i punti di contatto considerando che il CRM è “a philosophicallyrelated offspring to relationship marketing which is for the most part neglected in
the literature” e in conclusione ritengono che “further exploration of CRM and its
related phenomena is not only warranted but also desperately needed”.
59
D’accordo con la sintesi appena esposta, Christopher, Payne e Ballantyne (1991)
teorizzano l’esistenza di un legame gerarchico tra il marketing relazionale ed il
CRM; in particolare, pongono l’attenzione su una connessione tra il marketing
relazionale, il CRM e una gestione tattica di specifiche relazioni con i clienti.
Figura II.2.-1. Relationship marketing e CRM: una gerarchia
Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991)
Il customer relationship management si basa sulla teoria di marketing relazionale,
ma utilizza le tecnologie IT al fine di rendere l’offerta delle imprese sempre più
vicina alle necessità ed alle caratteristiche dei clienti.
L’applicazione consiste nel preparare e presentare ai singoli clienti comunicazioni
personalizzate, grazie all’utilizzo ed all’elaborazione delle informazioni che
vengono da diverse fonti, quali le transazioni passate, le caratteristiche
demografiche e psicografiche, le abitudini, ecc.
60
L’obiettivo delle imprese, che si focalizzano sui clienti, i prodotti e i canali di
distribuzione più profittevoli, è una crescita alimentata da una più elevata quota di
spesa per ciascun cliente, grazie alla creazione di elevata fedeltà. Le imprese che
ottengono più successo nel marketing relazionale e nel CRM sono quelle capaci di
stimare il valore del cliente nel corso del suo ciclo di vita commerciale, e di
conseguenza capaci di pianificare offerte di mercato e prezzi tali da ottenere
risultati economici positivi nell’arco di tutto il ciclo di vita commerciale del
cliente.
L’elemento che ha favorito questa capacità delle imprese di sviluppare relazioni di
qualità sono le innovazioni tecnologiche. Lo strumento più utile è stato quello
della comunicazione interattiva, che ha reso possibile porre in essere azioni di
marketing one-to-one, tramite la personalizzazione della comunicazione e della
relazione con ogni singolo cliente.
Don Peppers e Martha Rogers (1999) teorizzano il processo volto alla
realizzazione di una strategia di marketing personalizzato composto da quattro
fasi: identificare, differenziare, interagire e fidelizzare i clienti, tutti realizzabili
con l’aiuto della tecnologia.
1. Identificare i clienti attuali e potenziali. L’obiettivo delle imprese non
dovrebbe essere quello di raggiungere tutti i clienti, ma è comunque opportuno
costruire, mantenere ed utilizzare un ampio database dei clienti, che disponga
di tutte le informazioni raccolte in tutti i canali e nei punti di contatto con il
61
cliente. L’analisi delle informazioni raccolte, che le trasforma in conoscenza,
renderà possibile alle aziende di identificare e ordinare i propri clienti sulla
base di criteri di profittabilità e di valore strategico.
2. Distinguere i clienti in funzione delle loro esigenze e del loro valore per
l’impresa. Alle varie classi di clienti è opportuno dare attenzione in base al
loro valore per l’impresa, ordinandoli con un sistema ABC (activity based
costing) che si basi sul calcolo del valore del ciclo vita di ogni cliente. In
concreto, bisognerebbe stimare il valore attuale netto di tutti i profitti futuri
che si trarrebbero dagli acquisti, dai margini di profitto e dai clienti portati da
altri clienti, al netto dei costi direttamente attribuibili al servizio al cliente.
3. Interagire con i singoli clienti per migliorare le conoscenze sulle loro
specifiche necessità e costruire relazioni più solide. Sarebbe opportuno per le
imprese differenziare il modo di avvicinarsi ai clienti sia con la
comunicazione che con l’offerta, in base alle loro specifiche necessità,
interfacciandosi con ciascuno di essi e producendo il maggior valore possibile
ai fini relazionali.
4. Personalizzare i prodotti, i servizi e i messaggi per ciascun cliente. E’
opportuno rendere la produzione personalizzata in base al cliente. Ciò può
porsi in essere non solo con il prodotto in sé ma anche con le modalità di
consegna, i servizi a esso connessi, il packaging e i termini di pagamento.
62
Si ritiene infatti che siano numerosi i benefici che possono ottenersi grazie ad un
approccio relazionale personalizzato (Cantone, 1996), tra cui costruire relazioni
stabili e continuative tra l’impresa e i suoi clienti a maggior valore strategico,
attraverso lo sviluppo di azioni di marketing specifiche per ciascun cliente, la
personalizzazione delle attività di comunicazione e di prodotti-servizi, che portino
ad una maggiore fedeltà di clienti. Si dovrebbe anche ottenere il beneficio di
riuscire a migliorare la precisione con cui si misura il valore delle azioni
intraprese sui clienti, oltre a quello del coinvolgimento dei clienti finali nelle
attività di business, mediante lo sviluppo di un rapporto cooperativo con essi.
II.3. Le relazioni distributive
Ogni impresa industriale, per mettere sul mercato i propri prodotti e contare su un
livello di guadagno idoneo, necessita del favore dei consumatori, che può ottenere
cercando di indirizzare le scelte degli users attuali e potenziali del prodotto e
lavorando per avere alti livelli di customer satisfaction. Per ottenere questi
risultati, l’azienda deve affrontare due ostacoli, ovvero innanzitutto la
competizione con i propri concorrenti, oltre agli eventuali caratteri strutturali dei
mercati di sbocco.
La maggior parte dei mercati, data la lontananza fisica e/o psicologica tra i
produttori e i consumatori, ha introdotto gli intermediari (Fornari, 2009), volti a
63
favorire un incontro efficiente tra domanda e offerta, procedendo a colmare questa
distanza spazio-temporale.
Quindi nei mercati di sbocco, oltre a con i consumatori finali, ci sono le relazioni
con i distributori, i quali quasi sempre ricoprono la posizione di interlocutori
diretti del produttore nella realizzazione di transazioni commerciali. Il canale di
distribuzione è teorizzato come un aggregato di imprese, volte ad effettuare
l’insieme di attività che servono per trasferire il prodotto, sia esso un bene fisico o
un servizio, e il relativo titolo di proprietà dal produttore al consumatore, creando
un flusso fisico, di titolo, di pagamento, di informazioni e di promozioni.
Da questa analisi emerge che la relazione dell’impresa industriale con il
consumatore nella realtà non è diretta, anzi necessita di impegno sempre maggiore
per essere dapprima iniziata e poi mantenuta. Quindi, l’influenza sulla domanda
pilotata dall’impresa industriale è sempre, almeno in parte, condizionata dalle
scelte e dalle azioni delle imprese della distribuzione, che da anni anche in Italia
non hanno più un ruolo indifferente rispetto alle politiche dell’industria. Anzi, il
distributore diventa un intermediario attivo, che pone in essere strategie autonome
al fine di conquistare e mantenere la propria clientela anche utilizzando strumenti,
come la marca. Quasi tutte le imprese della grande distribuzione, infatti, hanno
elaborato raffinate politiche di marca e gestiscono portafogli di private label che
incrementano progressivamente lo spazio sugli scaffali e conquistano sempre
maggiori quote di mercato, anche a discapito delle marche industriali leader.
64
Non vanno inoltre ignorate le iniziative delle imprese commerciali più illuminate
che hanno tratto il maggiore vantaggio possibile dalla loro vicinanza con
l’acquirente-consumatore, interpretando esse stesse le esigenze del mercato e
limitando la posizione dell’industria a semplice produttore (Pellegrini, 1998).
Dunque, la complessità delle relazioni con i mercati di sbocco risulta da un lato
dalle azioni di molteplici attori, detentori di filosofie e priorità differenti,
dall’altro anche dal loro essere in continua evoluzione, da cui emerge una
continua modifica delle posizioni di forza (Rullani, 1989).
Per analizzare quindi tali prospettive, riteniamo opportuno studiare l’evoluzione
del rapporto che si è modificato nel tempo tra l’industria e la distribuzione,
approfondendo anche le principali motivazioni che la hanno generata.
II.3.1. Evoluzione delle relazioni tra industria e distribuzione
Negli ultimi decenni la relazione industria-distribuzione si è modificata, in
particolare a causa dell’evoluzione del sistema distributivo. Quest’ultimo ha
infatti subito una forte concentrazione, che ne ha prodotto una sempre maggiore
redditività, rispetto al settore industriale. Quindi il ruolo dei distributori si è
sviluppato, passando da una mera intermediazione passiva ad una posizione
imprenditoriale attiva. Da ciò sta divenendo essenziale per le imprese industriali,
in particolare per le non leader, in alcuni casi al fine di realizzare buone
65
performance, in altri al fine stesso di sopravvivere, la gestione della relazione con
le imprese di distribuzione.
In molti hanno studiato il rapporto industria-distribuzione. Uno dei primi
interventi in letteratura è quello di Vaccà del 1963, la cui analisi esamina i
problemi affrontati dall’industria nella ricerca di una maggiore influenza sul
mercato finale e nella difesa del proprio potere di fronte a quello che si vedeva
progressivamente aumentare della grande distribuzione. Secondo lo studioso,
l’evoluzione del rapporto tra i due attori del canale distributivo si può teorizzare in
tre fasi successive. Mentre nella prima, quella del mercante-imprenditore, il
predominio è affidato al momento distributivo, nella seconda, quella dell’arrivo
dei prodotti di marca e della pubblicità, lo scettro del potere sul mercato è in mano
all’industria. Nell’ultima fase, invece, il potere di mercato si è spostato ancora
nelle mani dell’impresa distributrice.
Il dibattito sui rapporti industria-distribuzione è canalizzato da molteplici altri
contributi. Il focus di Varaldo (1971) riguarda i fattori e le condizioni che
influenzano il grado di potere dei vari operatori di mercato, da cui l’emergere di
conflitti nel canale di distribuzione e tra sistemi distributivi diversi.
I conflitti nel canale di distribuzione sono intracanale, cioè sul piano verticale tra
industria e distribuzione. E’ la caratteristica invasiva della integrazione verticale
dell’industria, che la porta ad assumere nuove attività, a creare conflitto, dato che
il ruolo dell’azienda produttrice si espande oltre le sue tipiche funzioni. Tale
66
fenomeno di integrazione verticale ha conquistato, d’altro lato, anche le imprese
al dettaglio che cercano di ampliare il loro campo di azione, assumendo funzioni
nel campo produttivo.
I conflitti tra sistemi distributivi che si sviluppano invece sul piano orizzontale, tra
distributori, sono intercanale. Il conflitto è prodotto dalle sempre maggiori
eterogeneità strutturali sul piano sia delle dimensioni aziendali, che dell’ampiezza
dell’assortimento, che del tipo di servizi offerti. Tali conflitti orizzontali tra
sistemi distributivi si riflettono anche sulle industrie, perché le stesse aziende
produttrici devono servire contestualmente clienti che appartengono a forme
distributive differenti e in conflitto fra loro.
Riconosciuti come inevitabili i conflitti interni ai canali distributivi, se ne può
contenere l’intensità se viene riconosciuta da parte del channel leader la necessità
di una congiunta massimizzazione degli obiettivi di tutti i componenti del canale.
Spranzi (1976) offre un altro contributo rilevante in materia di rapporti industriadistribuzione, conferendo una dimensione dinamica ed evolutiva alle relazioni di
tipo competitivo tra imprese industriali ed imprese commerciali, e ritenendo come
principale l’effetto della progressiva modernizzazione del settore distributivo sulle
politiche di mercato dell’industria. Tale conseguenza risulta diversa se applicata a
scenari di riferimento diversi, cioè se vista nell’ambito di un “commercio
precapitalistico non competitivo” oppure di un “commercio capitalistico
competitivo”. Nel caso del “commercio precapitalistico non competitivo”, la forza
67
dell’impresa industriale si basa sulla capacità di contrattazione e di imposizione,
nel caso del “commercio capitalistico competitivo” invece l’azienda industriale
deve ampliare le proprie politiche di marketing con suoi strumenti di azione
sostanzialmente differenti.
Le analisi successive dei rapporti tra l’industria e la distribuzione si focalizzano
proprio sulle problematiche del confronto competitivo fra i due ambiti, sulla
nascita dei conflitti e sulla differenziazione dell’offerta commerciale.
Mentre nel nostro Paese si è avuta la cosiddetta “rivoluzione commerciale”,
causata dalla modernizzazione dell’apparato distributivo e dalla crescita di peso
delle strutture della grande distribuzione, seguendo la stessa impostazione
economico-strutturale, si è sviluppata la letteratura sui rapporti industriadistribuzione. Gli studi in materia si arricchiscono di nuovi lavori (Lugli, 1976;
1978) principalmente dalla fine degli anni settanta, rivolgendosi essenzialmente in
due direzioni. Il primo è un filone di analisi di taglio empirico, volto a legittimare
l’approccio
economico-strutturale
sull’evoluzione
dei
rapporti
industria-
distribuzione. In questi scritti si utilizzano dati sintetici, settoriali e nazionali, che
misurano la concentrazione del sistema distributivo, al fine di dimostrare che al
crescere del peso della grande distribuzione, lo scenario competitivo subisce delle
modifiche e si sviluppano i rapporti verticali di mercato.
Il secondo filone di analisi degli equilibri tra industria e distribuzione sorge
dall’area istituzionale del marketing, ed è rappresentato dagli studi di trade
68
marketing (Fornari, 1985; 1990). In una prima fase queste analisi si limitano ai
problemi dell’impresa industriale; in momenti successivi ampliano il loro campo
di azione cercando di coprire anche l’approfondimento di tematiche, come quella
del retailing e del merchandising, riferite principalmente alla gestione
dell’impresa commerciale, esaminando nello specifico la manovra delle leve
strategiche che condizionano la formazione e le modifiche delle preferenze del
consumatore finale.
II.4. I rapporti industria-distribuzione nell’ottica del marketing management
Dall’analisi degli studi sul rapporto di filiera, i vari autori (Vaccà, 1963; Varaldo,
1971; Spranzi, 1976; Lugli, 1978) che si sono dedicati all’esame del rapporto di
filiera, concordano sul fatto che i rapporti di potere tra i produttori e i distributori
dipendano da quanto la struttura dei mercati e le condotte delle imprese abbiano
influenzato i cambiamenti di mercato industriali e commerciali. Il potere nei
rapporti industria-distribuzione identifica l’abilità di un membro del canale di
distribuzione di determinare con forza la ripartizione delle funzioni di marketing
tra gli altri membri del canale. Dunque mostra la forza di un soggetto del canale di
coordinare/controllare gli altri soggetti e di condizionare le loro decisioni
(Varaldo, 1971).
La distribuzione del potere nelle relazioni verticali è condizionata dall’evolversi
delle condizioni economiche, commerciali e industriali. Si può quindi teorizzare
69
l’esistenza di un ciclo evolutivo delle relazioni di canale in cui la struttura di
potere condiziona le condotte di marketing di produttori e distributori e quindi
determina il livello di cooperazione/conflitto tra gli uni e gli altri.
Una matrice può ben rappresentare questo ciclo evolutivo. In tale matrice in
ascissa e ordinata sono posizionate come variabili l’intensità della forza
contrattuale dei produttori e dei distributori nei rapporti di canale.
Figura II.4.-1. Potere e marketing nei rapporti industria-distribuzione
Fonte: Varaldo e Fornari (1998)
Creando le diverse combinazioni risultano diversi equilibri delle relazioni di
potere tra industria e distribuzione, caratterizzate dalla presenza di diversi modelli
di marketing, vale a dire il marketing funzionale, il marketing contrattuale, il
marketing relazionale e il marketing conflittuale (Varaldo e Fornari, 1998). Fra le
diverse configurazioni esiste un filo conduttore, che si muove dal quadrante 1 al
70
quadrante 4, facendo concludere che alla fine termine del ciclo evolutivo le
situazioni di conflitto tendono a prevalere su quelle di collaborazione.
Nei paragrafi successivi si procederà all’analisi di queste quattro fasi, alle quali
seguirà l’esame della fase che viene ritenuta attualmente in corso, cioè quella del
marketing sistemico.
II.4.1. La fase del marketing funzionale
La fase di marketing funzionale si pone negli anni ’60, periodo a partire dal quale
le relazioni iniziarono ad evidenziare primi sintomi di problematicità. Fino ad
allora, il sistema distributivo italiano era nelle mani dell’impresa grossista
(Burresi et al., 2006) che coordinava i vari operatori del canale di vendita, oltre a
dominare le principali funzioni di marketing. A livello di catena verticale, c’era
una rigida suddivisione delle competenze, per cui l’industria si limitava all’attività
produttiva in senso stretto e le aziende commerciali si occupavano della sola
distribuzione fisica dei prodotti. Il ruolo chiave, tra due mercati, quello industriale
e quello commerciale, entrambi dimensionalmente polverizzati, era svolto
dall’ingrosso, che esercitava il potere nei rapporti di canale, distribuendo le
funzioni di marketing tra produttori e dettaglianti (Stanton e Varaldo, 1986). Le
imprese della distribuzione all’ingrosso erano dunque il “ponte” ideale tra
produzione e consumo (Fornari, 1999).
71
Questo equilibrio inizia ad essere minacciato già nella seconda metà degli anni
’60, con il progressivo sviluppo dei consumi di massa. L’industria infatti inizia lo
sviluppo dei prodotti di marca e, con l’obiettivo di ottenere maggiore controllo
nella commercializzazione dei suoi prodotti, ricerca maggiori dimensioni
aziendali. L’obiettivo alla base era la realizzazione delle economie di scala
necessarie per essere in grado di abbassare i prezzi al consumo e massificare così
la domanda dei beni di marca. I mezzi utilizzati per raggiungere tale scopo sono
stati gli investimenti pubblicitari e strutture di vendita diffuse per assicurare una
vasta copertura del mercato. In questo ambito i produttori hanno posto in essere
un processo di integrazione verticale verso alcune funzioni distributive più a valle,
hanno cioè assunto la gestione diretta delle reti di vendita e delle attività
logistiche, i depositi e i trasporti. I costi necessari per ottenere tale integrazione
erano considerati giustificabili, dati gli importanti vantaggi di marketing che era
possibile ottenere in termini di barriere all’entrata verso i potenziali concorrenti.
In questo modo quindi l’industria, con il silenzio assenso della distribuzione, si
appropria del ruolo di channel leader, coordinando le modalità di ripartizione delle
funzioni di marketing fra i membri dei canali di distribuzione.
Gli aspetti qualificanti delle politiche di mercato (Varaldo e Fornari, 1998;
Fornari, 2009) identificati sono i seguenti:
 le spese relative al marketing erano per la maggior parte di tipo pull e
concentrate sulla comunicazione pubblicitaria;
72
 il product management industriale incarnava il centro dell’organizzazione di
vendita di filiera;
 l’approccio di fornitura era di tipo sell-in, cioè le contrattazioni si basavano
solo sulle quantità e sui volumi acquistati;
 non c’erano differenze tra i distributori riguardo al servizio logistico, che era
una componente dell’attività di produzione.
Questa organizzazione dei rapporti verticali ha resistito fino ai primi anni ’70,
anche a causa della ridotta competitività tra le industrie e le aziende del
commercio. Tale situazione, dal punto di vista delle industrie, era dovuta al
surplus di domanda rispetto all’offerta in particolare per i prodotti di marca, che
erano nella loro prima fase di introduzione/sviluppo. La ridotta concorrenza nei
mercati commerciali era invece dovuta al fatto che la finalità del commercio al
dettaglio tradizionale, polverizzato nelle dimensioni, fosse offrire un servizio di
vicinanza e di assistenza al consumatore piuttosto che la convenienza dei prodotti.
In questa fase storica quindi le relazioni tra industria e distribuzione hanno
rivestito una natura funzionale e collaborativa. L’industria contribuiva
aumentando i livelli produttivi ed assicurando ai commercianti un’elevata
percentuale di vendite di prodotti, mentre la funzione della distribuzione era
quella di supportare la penetrazione nel mercato dei prodotti di marca, da un lato
aumentando
il
numero
dei
punti
di
vendita,
dall’altro
sostituendo
progressivamente negli assortimenti commerciali i prodotti locali con i prodotti
73
nazionali. C’era una sorta di equilibrio nei rapporti verticali, e in generale il potere
risultava basso tanto per l’industria che per la distribuzione, data la quota di
mercato raggiunta dai prodotti di marca e dato il forte livello di intercambiabilità
dei punti vendita.
II.4.2. La fase del marketing contrattuale
Tra l’inizio degli anni ’70 e i primi anni ’80, l’equilibrio ha subito un punto di
rottura, dato che la crisi economica ha portato sfavorevoli condizioni ambientali,
che hanno influenzato fortemente le condizioni aziendali.
I rapporti tra l’industria e la distribuzione hanno subito l’impatto della
combinazione dei tre seguenti fenomeni: l’esplosione dell’inflazione, il
modificarsi dei comportamenti di acquisto dei consumatori e l’inizio di una fase di
modernizzazione e differenziazione del sistema produttivo. Inoltre, rispetto al
momento storico subito precedente, c’è una drastica riduzione dei consumi
(Burresi et al., 2006). I consumatori subiscono una enorme riduzione del loro
potere d’acquisto reale, a cui reagiscono cercando di attuare alcune strategie di
risparmio, basate su nuovi comportamenti di acquisto guidati da una maggiore
razionalità e da una maggiore abilità nello scegliere i prodotti per il livello di
convenienza. Anche l’esplosione dell’inflazione ha prodotto effetti significativi
sulla configurazione dei rapporti industria-distribuzione (Fornari, 1999). In primo
luogo è aumentata l’elasticità della domanda finale non solo al prezzo, ma anche
74
al servizio commerciale, dando maggiore enfasi a modelli di acquisto orientati alla
realizzazione di economie di spesa, e privilegiando dunque le forme distributive
che praticavano prezzi inferiori. Da questo andamento si è prodotta una sempre
più forte riduzione della domanda di servizi commerciali rivolta al dettaglio
tradizionale, a favore dell’aumento della domanda di servizi commerciali rivolta
alla distribuzione moderna.
Il cambiamento dei modelli di acquisto di consumatori si è modificato oltre che
per l’inflazione, anche per evoluzioni sostanziali della società, quali la crescita del
lavoro femminile, che ha ridotto il tempo disponibile da dedicare all’attività di
acquisto dei beni favorendo la spesa nei punti di vendita con l’assortimento più
completo, il miglioramento dei livelli d’istruzione, che ha agevolato le tecniche di
vendita moderne come il self-service, il consolidamento dei prodotti di marca, la
cui reputation ha finito per sostituire il ruolo di garanzia giocato dai commercianti
tradizionali e lo sviluppo della motorizzazione che, accrescendo la mobilità degli
acquirenti, ha ridotto la necessità di servizi commerciali di prossimità, dei
negozietti di quartiere (Varaldo e Fornari, 1998; Burresi et al., 2006).
Lo sviluppo di nuovi comportamenti d’acquisto ha spinto una nuova domanda di
servizi commerciali, più differenziata e segmentata, tanto da supportare
l’affermazione di un sistema distributivo con caratteristiche più moderne come il
self-service. Tale processo di modernizzazione della rete distributiva ha subito
forti rallentamenti a causa dell’esistenza di notevoli barriere all’entrata,
75
rappresentate principalmente dalla legislazione commerciale in vigore. La legge
426/1971 è stata messa come freno, al fine di ridurre la destabilizzazione che
avrebbe prodotto sull’ambiente e sulla distribuzione il rapido cambiamento dei
rapporti tra industria e distribuzione. Tale legge ha contribuito a (Fornari, 2009):
 privilegiare la crescita della Distribuzione Organizzata e Cooperativistica tra
piccole e medie imprese piuttosto che quella della Grande Distribuzione
capitalistica e succursalistica (Pellegrini, 1996);
 favorire il lavoro autonomo rispetto a quello dipendente nel commercio, per
contenere il grado di sindacalizzazione del settore e conservare un serbatoio di
consenso politico da parte dei ceti medi rappresentati dai commercianti (Cozzi
e Ferrero, 1996);
 impedire l’affermazione di un forte potere di mercato da parte della
distribuzione in grado di condizionare le scelte del consumatore e penalizzare
l’industria di marca.
In qualche modo, dunque, la legislazione commerciale ha creato il nuovo
equilibrio tra le diverse componenti del sistema socio-politico, volto a mantenere
una convergenza fra diversi micro-interessi. Questo patto è rimasto in vigore per
tutti gli anni ’70 e ’80, con l’effetto di diminuire le cause di conflitto nei rapporti
industria-distribuzione. Un effetto notevole di tale legislazione è stato quello di
garantire il potere dell’industria nei confronti della distribuzione (Burresi et al.,
2006), dando ai produttori la possibilità di modificare la suddivisione delle
76
funzioni marketing nei canali di vendita con la collaborazione dei distributori. A
causa dei fenomeni inflattivi, l’industria di marca ha quindi lasciato le attività
logistiche a valle della produzione ai dettaglianti, dando a loro il costo della
funzione di stoccare le merci. Questo risultato è stato ottenuto attraverso
l’elemento di contrattazione della scontistica. L’industria di marca ha utilizzato
infatti a proprio vantaggio, oltre alle classiche forme di sconto utilizzate nei
rapporti di fornitura, delle particolari forme di incentivazione, chiamate sconti
canvass, volte a sostenere le proprie politiche di sell-in. Con questo strumento
veniva raggiunto un duplice obiettivo: da un lato il costo dello stoccaggio era
trasferito a carico della distribuzione e dall’altro si creava una barriera all’entrata
sugli scaffali dei punti vendita. I distributori hanno accettato tacitamente le
politiche distributive industriali, dato che risultavano coerenti con le logiche
speculative praticate nell’attività di acquisto.
Altro elemento, che aveva sostenuto la forza contrattuale dell’industria e quindi le
sue politiche di sell-in, erano gli investimenti pubblicitari. La forza dei prodotti di
marca è stata supportata da un lato dalla comunicazione pubblicitaria che ne ha
rafforzato sia la quota di mercato sia la brand loyalty, dall’altro lato, dal fatto che i
punti vendita moderni, basati sulla vendita a libero servizio, hanno agito trattando
gli stessi prodotti di marca come un vincolo assortimentale, data la necessità di
sostituire il livello di servizio dei punti vendita tradizionali con la garanzia offerta
dai prodotti confezionati. Inoltre i beni di marca, avendo prezzi più bassi,
77
favorivano la competizione con i prodotti locali. Grazie alla presenza dei prodotti
di marca, inoltre, la GD ha potuto incrementare la standardizzazione degli
assortimenti nei punti vendita, con un duplice effetto positivo, e cioè una
migliorata immagine dell’insegna a livello territoriale e maggiori economie di
scala sul piano degli acquisti e del merchandising. Il potere dell’industria nei
rapporti di canale è, però, ancora evidente sia nel controllo da parte dei produttori
di marca della formazione del prezzo al consumo, sia nella pratica della politica
del prezzo imposto nei confronti dei distributori. La politica del prezzo imposto,
oltre al fine di dominare il margine commerciale per utilizzarlo come strumento di
controllo e di pressione per la promozione dei prodotti di marca, proteggeva il
dettaglio tradizionale dalle possibili politiche di prezzo aggressive che sarebbero
potute nascere nelle nuove forme distributive. Questo atteggiamento era dovuto
sia dalla necessità di assicurare ai prodotti di marca industriale una distribuzione
numerica elevata, sia dalla scelta opportunistica di garantire una tutela a quei
canali di vendita per mezzo dei quali si distribuiva ancora la quota prevalente dei
fatturati industriali (i punti di vendita tradizionali). La struttura dei rapporti
industria-distribuzione di questo periodo è stata di tipo contrattuale e collaborativo
(Collesei e Casarin, 1999), dato che il maggiore potere dell’industria è stato
alimentato proprio dalla situazione di mercato in cui la crescita delle forme
distributive moderne era supportata e collegata alla notevole presenza dei prodotti
di marca negli assortimenti commerciali.
78
II.4.3. La fase del marketing relazionale
Gli anni ’80 hanno assistito ad un nuovo equilibrio nei rapporti di potere tra
produttori e distributori, dovuto alla spinta di nuove condizioni economiche e
commerciali. Nell’ambito dell’analisi delle relazioni verticali, i due fattori più
significativi sono il deciso miglioramento della congiuntura economica e il veloce
consolidamento della distribuzione moderna. Il miglioramento della situazione
economica è avvenuto soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’80; nel
periodo dal 1986 al 1990 si è registrato un livello di crescita dei consumi tre volte
superiore rispetto a quello degli anni precedenti. Da ciò è emersa una nuova
configurazione qualitativa dei modelli e degli stili di consumo (Fornari, 2009). Il
nuovo consumatore ha livelli di consumo pro-capite, molto al di là dei suoi
fabbisogni individuali, dato che si diffonde la percezione della stretta relazione tra
tipologia di prodotti consumati e status sociale, per cui addirittura si tende a
privilegiare la qualità percepita rispetto alla qualità intrinseca (con l’effetto della
scarsa attenzione al rapporto qualità/prezzo dei prodotti), data la propensione a
ricercare nei prodotti valori più di tipo edonistico che non di tipo funzionale.
Questa così forte sensibilità alla marca, rafforza le situazioni di brand loyalty e la
conseguente quota di mercato dei prodotti di marca, portando ad un processo di
selezione dei punti di vendita, basato prevalentemente sul livello di servizio
offerto e definito soprattutto da assortimenti profondi ed ampi formati da prodotti
di marca, in grado di soddisfare il bisogno di quantità e di varietà dei consumatori.
79
Il processo di selezione dei punti vendita ha accelerato l’ammodernamento della
rete distributiva, dando inizio ad una vera e propria rivoluzione commerciale. In
quegli anni si impone la riduzione numerica degli esercizi commerciali, come
conseguenza di quel processo di modernizzazione e razionalizzazione della rete
distributiva che contribuì ad eliminare dal mercato diversi punti vendita (Burresi
et al., 2006). Nell’ambito delle differenti forme aziendali, l’evoluzione si è
rivelata più a favore delle forme associative come le DO rispetto alle catene
nazionali come la GD.
La trasformazione della struttura del sistema distributivo ha condizionato la
competizione nei canali di marketing provocando una concorrenza tra formule
distributive moderne e tradizionali così forte da dover far rivedere le politiche
industriali di imposizione del prezzo al consumo orientate principalmente a
tutelare la distribuzione tradizionale e ad assicurare una situazione di equilibrio tra
i canali della distribuzione (Varaldo e Fornari, 1998).
I distributori si evolvono ricercando una maggiore autonomia, posta in essere con
lo strumento del retailing mix volto a rafforzare le situazioni di store loyalty dei
consumatori. Ne segue una netta modifica dei rapporti di fornitura, con la mancata
accettazione da parte della distribuzione delle politiche di sell-in industriali
praticate negli anni ’70. Con la forte riduzione dei tassi di inflazione, negli anni
’80 non erano più rilevanti i vantaggi che le imprese commerciali avrebbero
potuto ottenere con la pratica degli acquisti speculativi. In questo scenario, la
80
distribuzione moderna ha attuato nuove tecniche di approvvigionamento,
esigendo, soprattutto dai produttori di marca, servizi logistici basati su una
maggiore rotazione delle scorte e quindi un miglioramento delle condizioni di
redditività commerciale dei prodotti industriali.
Lo sviluppo delle imprese commerciali moderne ha posto i distributori al centro
dei rapporti di fornitura, incrementando il controllo di marketing dei distributori
sui processi di filiera. Ciò ha implicato una nuova suddivisione verticale delle
funzioni di commercializzazione accompagnata da una progressiva, seppur lenta,
crescita del potere di contrattazione della distribuzione. La concentrazione nel
canale della distribuzione ha causato un incremento del peso della clientela
commerciale tanto che, al termine degli anni ’80, i primi 20 clienti superavano il
35% delle vendite industriali (Fornari, 1990). In questo contesto, il potere
negoziale della distribuzione si è modificato e ha permesso la richiesta di
condizioni di acquisto basate non più sulle quantità di merci acquistate, ma anche
e soprattutto sulla qualità dei servizi che il distributore offriva al produttore per la
promozione delle vendite industriali.
La natura dei rapporti di fornitura tra i due canali ha così subito una radicale
trasformazione, passando da quello che era solo uno scambio di merci ad uno
scambio caratterizzato sempre di più dai servizi offerti. Infatti, nelle condizioni di
vendita industriali, sempre più ampio è il ruolo ricoperto dai cosiddetti contributi
di marketing (Fornari, 2009), costituiti dalle risorse concesse dai fornitori per
81
ricompensare i servizi ricevuti e ottenere un miglior posizionamento della propria
marca nei punti vendita. Questo approccio ha causato una crescita esponenziale
dei costi di distribuzione industriali, tale da portare alla riduzione degli
investimenti tradizionali di marketing, che erano destinati all’innovazione di
prodotto e alla pubblicità. In un mondo di risorse limitate, l’industria di marca è
entrata in un meccanismo di trade off, in cui deve scegliere quante risorse di
marketing investire nel mercato del consumo e quante investirne nei canali di
vendita. Da tale sistema emerge il rischio di penalizzazione nel medio periodo
delle posizioni di forza dei produttori, i quali hanno puntato a realizzare una
strategia volta a recuperare e riequilibrare il loro potere negoziale, attraverso lo
sviluppo di due metodi. Il primo orientamento dell’industria è stato quello volto a
realizzare un maggiore livello di concentrazione, posto in essere attraverso un
notevole processo di acquisizioni aziendali. Il secondo metodo ha proceduto
all’implementazione di attività di trade marketing affianco a quelle del consumer
marketing (Fornari, 1990).
Il processo di business combination è nato con la finalità di porre in essere una
politica multiprodotto ed anche di rafforzare la posizione contrattuale nei
confronti della clientela commerciale (Pellegrini, 1988).
Tale politica di acquisizioni industriali ha modificato la struttura del mercato dei
beni di largo consumo, portando ad un notevole potenziamento dei principali
gruppi
industriali.
In
particolare,
l’accresciuta
82
presenza
delle
imprese
multinazionali ha richiesto una riorganizzazione dell’attività di vendita, anche
grazie all’implementazione di nuove politiche distributive. L’obiettivo di tali
politiche è stato evidenziare che l’attività di marketing sarebbe stata tanto più
efficace quanto più i rapporti verticali si fossero appoggiati sull’integrazione delle
singole catene del valore dei produttori e dei distributori (Porter, 1987). La nuova
visione dei rapporti verticali di filiera ha portato l’industria alla ricerca di nuove
collaborazioni con la clientela commerciale. Le industrie hanno innanzitutto
cambiato
le
loro
strutture
organizzative
tradizionali
integrando
negli
organigrammi nuovi profili funzionali e professionali (Trade Marketing Manager,
National Key Account, Merchandiser, …), specializzati con competenze volte a
definire e risolvere le problematiche distributive emergenti. Le industrie hanno
lavorato inoltre ad un processo di implementazione di nuovi sistemi logistici, volti
a massimizzare l’efficienza operativa e a minimizzare i costi di gestione dei flussi
fisici della merce. Volendo raggiungere una gestione integrata della supply chain,
utilizzando razionalmente le risorse nei processi amministrativi-informativi
(Fornari, 1990), si è cercato di diminuire la durata del ciclo ordine-consegna, il
volume complessivo delle scorte di canale e le rotture di stock.
Negli anni ’80, dunque, i cambiamenti economici, commerciali e industriali sono
stati tali da favorire una situazione di collaborazione e di integrazione nei rapporti
verticali. Si sostiene quindi che la rivoluzione commerciale non ha prodotto effetti
destabilizzanti, grazie a molteplici fattori che hanno prodotto un clima relazionale
83
e di partnership tra industria e distribuzione, tra cui una congiuntura economica
favorevole, la presenza di modelli di consumo caratterizzati da una forte
complementarietà fra brand loyalty e store loyalty, il rafforzamento di un potere
dei fornitori controbilanciante rispetto a quello crescente della clientela
commerciale, oltre all’andamento più favorevole, nel mercato distributivo, del
gruppo strategico della DO rispetto a quello della GD (Fornari, 2009).
Questo ultimo fattore, a favore della collaborazione, va letto nella natura delle
imprese commerciali della DO che, pur manifestando un ritmo di crescita
superiore a quelle della GD, hanno posto in essere una minore autonomia di
marketing, da cui è seguita una maggiore disponibilità verso integrazione e
cooperazione con l’industria di marca.
II.4.4. La fase del marketing conflittuale
Dagli anni ’90 si registra una forte discontinuità rispetto alle condizioni
ambientali che caratterizzano il periodo precedente. A livello macroeconomico, il
tasso di crescita del reddito disponibile registra una forte inversione di tendenza,
producendo un impatto molto negativo sull’andamento degli indicatori di sviluppo
come il PIL, il reddito disponibile e soprattutto i consumi. I consumi, in
particolare, vengono ridotti da molteplici elementi, tra cui le conseguenze dei
numerosi provvedimenti di politica economica finalizzati alla riduzione del deficit
pubblico e la diffusione di aspettative negative nella popolazione, dovute sia ad un
84
contesto politico-istituzionale precario sia ad una situazione di incertezza per il
futuro (Fornari, 1995).
In questa fase storica, che registra una riduzione quantitativa dei consumi, si
afferma però una nuova cultura del consumo, che detiene una gerarchia dei
consumi diversa da quella caratterizzante gli anni ’80 (Calvi, 1995). I consumi di
status dimostrativi e di immagine basati unicamente sulla qualità percepita
lasciano il campo all’acquisto di prodotti di maggiore qualità intrinseca. Vengono
quindi scelti stili più sobri, volti alla ricerca dell’essenzialità e della funzionalità.
L’evoluzione del consumatore, sempre più razionale e più informato, attribuisce
crescente importanza ai processi di ricerca e selezione dei punti di vendita che, a
parità di prodotti/marche trattate, possano offrire maggiori livelli di convenienza.
Vengono quindi teorizzati tre modelli di consumo: preference oriented, economy
oriented e bargain oriented (Vercelloni, 1995). Nel modello preference oriented, il
prezzo non assume un ruolo strategico, dato che il processo di acquisto è guidato
da fattori di tipo non-price, come qualità, servizio e immagine. Il secondo,
economy oriented, è invece orientato a scegliere i prodotti proprio tenendo conto
di convenienza e risparmio. L’ultimo modello, bargain oriented, invece, si
propone di ottenere la qualità al minor costo possibile. Nella prima parte degli
anni ’90 gli ultimi due modelli sono stati i più diffusi.
85
Il consumatore ha una nuova immagine multidimensionale, più trasversale, meno
prevedibile, meno condizionabile e tale da rendere inefficaci le politiche di
marketing decantate dalle imprese negli anni ’80.
La modifica qualitativa dei modelli di consumo e di acquisto ha causato due
grandi impatti sulle politiche di branding dei produttori. Il primo effetto è stata la
riduzione del ciclo di vita dei prodotti, che ha rafforzato per molti mercati la fase
di maturità. Il secondo effetto si concretizza nella diminuzione del grado di fedeltà
ai prodotti di marca, dovuta sia alla più ampia mobilità dei consumatori tra le
diverse marche, sia al rafforzamento dello store loyalty.
Il consolidamento di questi nuovi stili e comportamenti di consumo ha sancito la
riduzione dell’attrattività simbolica della marca e quindi della conseguente
apertura del consumatore a pagare un prezzo dei prodotti non corrispondente al
loro valore intrinseco (Fornari, 1995).
Questo nuovo comportamento ha indotto il successo dei punti vendita discount,
cioè di punti vendita che, nella versione originaria cosiddetta hard, hanno adottato
una formula distributiva basata su un assortimento ridotto di prodotti di largo
consumo, limitato a prodotti generici e a marche locali, ma con livelli di prezzo
inferiori del 40-50% rispetto al supermercato tradizionale (Lugli, 1993). Il veloce
ed ampio sviluppo di questo modello distributivo, favorito dalla difficile
situazione congiunturale, ha causato una rottura degli equilibri commerciali dando
i natali a nuovi meccanismi competitivi. A seguito della presenza dei discount da
86
un lato è fortemente aumentata la concorrenza di prezzo tra le formule distributive
moderne e dall’altro si sono sviluppati sempre più punti di vendita di grandi
dimensioni, in particolare ipermercati, con la loro ampia offerta assortimentale,
l’elevata rotazione delle merci e l’immagine evocativa di convenienza.
La nuova situazione competitiva del mercato distributivo vede quindi una
posizione di rilievo per gli ipermercati, e quindi un andamento più favorevole al
gruppo strategico della GD rispetto a quello della DO. Da ciò risulta anche una
presenza dei distributori stranieri in aumento (Lugli e Pellegrini, 2002).
Il gap competitivo di cui era stata vittima negli anni ’80, viene recuperato dalla
GD, innanzitutto grazie ad una maggiore disponibilità di risorse finanziarie, ma
anche attraverso una maggiore dotazione di competenze tecnologiche e
manageriali (Lugli, 1993). In particolare, è stato vincente il metodo delle imprese
di questo gruppo strategico, che hanno integrato il controllo centrale della
gestione operativa con l’adattamento del marketing alle specificità del mercato
locale. In tal modo hanno ottenuto la flessibilità imprenditoriale che era il punto di
forza della DO.
L’evoluzione del quadro competitivo della distribuzione ha avuto riflessi
significativi sulle relazioni tra industria e distribuzione. Il primo effetto è la
concentrazione del mercato distributivo sia sul piano delle vendite che degli
acquisti. Il secondo aspetto è stato il rendere maggiormente autonomo il
marketing della distribuzione nei confronti dell’industria. In passato il potere
87
dominante dell’industria aveva falsato la politica di formazione degli assortimenti
commerciali, spingendo i distributori a scegliere di mettere a scaffale i prodotti
principalmente in base al peso degli incentivi ricevuti dai fornitori.
Dal cambiamento delle condizioni macroeconomiche e microeconomiche, è
emerso un nuovo approccio alla formazione degli assortimenti, favorito
dall’incremento negli organigrammi aziendali delle imprese distributive moderne
di ruoli di marketing. In particolare questo orientamento si è manifestato
attraverso il passaggio da un’organizzazione degli acquisti per fornitore a
un’organizzazione degli acquisti per categoria di prodotto, modificando il mix
degli assortimenti dando maggiore importanza alle marche ed ai prodotti più
dinamici e redditizi e rafforzando il posizionamento della marca commerciale, con
un miglioramento del livello qualitativo e della quota di vendita (Fornari, 2009).
Il cambiamento della composizione degli assortimenti commerciali nei punti di
vendita moderni ha causato una nuova configurazione dei rapporti verticali, in cui
la distribuzione ha da un lato una maggiore autonomia nel marketing e dall’altro
un maggiore potere contrattuale nei riguardi dei produttori. Il potere di
negoziazione nei rapporti di filiera si è quindi spostato dalla fase della produzione
a quella della distribuzione. Per questo motivo, si parla di fase del marketing
distributivo (Fornari, 2009).
88
II.4.5. La fase del marketing sistemico
La fase del marketing sistemico è quella in corso, iniziata negli anni 2000. In
questi anni, una nuova e profonda discontinuità delle condizioni ambientali
socioeconomiche si sta realizzando ed è tale da implicare un’ulteriore forte
evoluzione delle relazioni di filiera. Questa discontinuità è sorta dalla presenza
contemporanea di fenomeni complessi e turbolenti. Il primo fattore si incarna nel
duro colpo subito da molti investitori a seguito del crollo dell’indice di borsa
Nasdaq, che rappresentava l’andamento della new economy, fallita dopo una
crescita esorbitante ed irrazionale. Da ciò è derivata una riduzione dei rendimenti
finanziari e quindi della ricchezza delle famiglie che ha prodotto immediati effetti
negativi sulla dinamica dei consumi complessivi. Il secondo fenomeno è stato il
radicamento del terrorismo internazionale. Il terzo è fenomeno è stata
l’introduzione della nuova moneta europea, con il passaggio in Italia dalla lira
all’euro. Il quarto è rappresentato dall’instabilità del prezzo delle materie prime
alimentari ed energetiche, che ha subito rilevanti picchi prima verso l’alto e poi
verso il basso. Tale andamento dei prezzi delle materie prime trova le sue ragioni
in fattori di natura sia produttiva sia finanziaria. L’iniziale aumento dei prezzi fu
la risposta alla crescita della domanda, a fronte di un’offerta in diminuzione, da un
lato dallo sviluppo dei paesi di nuova industrializzazione dall’altro dalle politiche
speculative attuate da alcuni operatori finanziari che hanno sostituito per i loro
investimenti i mercati finanziari con i più redditizi mercati delle materie prime.
89
Nella seconda fase, il picco verso il basso dei prezzi è stato determinato dal
progressivo rallentamento dell’attività produttiva a livello internazionale, dovuto
agli effetti pervasivi della crisi finanziaria che ha messo in discussione la stabilità
e gli equilibri socio-economici mondiali.
Da ciò segue un nuovo quadro delle politiche di mercato, in cui rivestono un ruolo
determinante i produttori per le politiche di trade marketing.
Al fine di pianificare queste linee di azione sarà sempre più opportuno porre
attenzione a diverse dimensioni di analisi (Fornari, 2009). Innanzitutto è
necessario valutare le implicazioni sui budget aziendali e sugli orientamenti
d’investimento del rallentamento del tasso di crescita dei mercati, oltre alla
crescente centralità dei modelli d’acquisto value for money, vale a dire di modelli
che sintetizzano e interpretano le relazioni esistenti tra la domanda di valore
(value) e la domanda di convenienza (money). Altro elemento è il diffuso bisogno
di rassicurazione espresso dai consumatori, ben evidenziato dai bassi livelli di
fiducia delle famiglie. Vanno anche considerate la modifica del posizionamento
dei canali di vendita, ora con prospettive di sviluppo molto differenti per i diversi
formati distributivi e l’innovazione necessaria nell’attività promozionale, dato che
le tecniche promozionali tradizionali appaiono sempre meno efficaci e adeguate a
soddisfare i bisogni dei consumatori. Va analizzata quindi la revisione, sia teorica
che operativa, delle valutazioni sulle potenzialità di sviluppo delle marche private,
oltre alla modifica delle strutture organizzative industriali e commerciali in quanto
90
in questo scenario di discontinuità sono richieste nuove competenze e soprattutto
nuovi modelli relazionali di filiera.
In un ambiente come quello descritto, il marketing si evolve ed entra in una nuova
fase storica, in cui i processi di pianificazione e di gestione aziendale richiedono
un approccio di sistema capace di supportare una forte integrazione tra i distinti
stadi della filiera. Questo approccio pone l’attenzione sugli inscindibili rapporti
tra condizioni ambientali e quadro delle relazioni di canale. Questo modello
presuppone una profonda conoscenza degli scenari macroeconomici, dei modelli
di consumo, dei canali di vendita, dei posizionamenti delle marche e delle
insegne, ritenendo valido l’assunto in base al quale le politiche commerciali non
saranno solo risultato delle performance negoziali verticali ma anche della natura
e degli effetti delle condizioni sociali e economiche. In questa nuova fase storica,
viene attribuita al trade marketing una posizione sempre più strategica nei
processi di creazione del valore di filiera.
La ricostruzione storica dell’evoluzione dei rapporti industria-distribuzione si
conclude con la fase del marketing sistemico, modello ora in essere. Tale analisi
storica permette di concludere che le relazioni che si creano nella filiera
dipendono dal maggior potere di una o dell’altra delle tre componenti che
definiscono la differente natura di tali rapporti: la componente contrattualisticanegoziale, la componente competitiva-conflittuale e la componente strategica
(Varaldo e Dalli, 2003). L’emergere di una componente sull’altra dipende dalle
91
caratteristiche e dalle condizioni del macro-ambiente socioeconomico e
competitivo che influenzano in modo diretto i comportamenti strategici
dell’industria e della distribuzione.
Si riportano, in conclusione, alcuni spunti sorti da un’analisi empirica posta in
essere da Varaldo e Fornari (1998) sull’andamento dei rapporti industriadistribuzione nei beni di largo consumo. Innanzitutto, la natura dei rapporti
verticali è condizionata dalla struttura del potere tra industria e distribuzione e il
grado di collaborazione tra industria e distribuzione tende ad essere maggiore nei
casi in cui il potere dei rapporti di canale risulta equilibrato. Nei sistemi
distributivi evoluti l’interesse dei produttori a cooperare con la clientela
commerciale è maggiore di quello che possono avere i distributori a cooperare con
i fornitori, infatti nei casi in cui si verifichi una situazione di dipendenza
dell’industria, le forme di cooperazione sono imposte dalla distribuzione e quindi
non massimizzano gli obiettivi dei fornitori.
Le potenzialità di integrazione tra industria e distribuzione sono diverse per le
diverse funzioni di commercializzazione tanto da risultare minori per le attività
strategiche di marketing.
Lo sviluppo della GD accresce le differenze strutturali tra produttori e distributori
e quindi la relazione diretta esistente tra queste differenze e l’intensità dei conflitti
nei rapporti verticali. Infatti, le relazioni verticali non sono statiche ma
condizionate dall’evoluzione tra produttori e distributori delle condizioni
92
ambientali, commerciali e industriali tanto da rendere difficile lo sviluppo di
soluzioni organizzative attraverso cui realizzare una convergenza cooperativa
stabile e duratura degli interessi industriali e commerciali.
II.5. Le implicazioni e il ruolo della funzione marketing nella gestione della
relazione
Data la complessità della situazione attuale, dato il peso della distribuzione,
riteniamo che l’impresa industriale che voglia mantenere ed accrescere la sua
posizione, non può prescindere dalla presenza nel suo organigramma di una
funzione marketing.
In letteratura, si ritenne molto significativa la seguente frase: “The most important
competitive mean in industrial marketing is the organizational design of the
marketing function” (Hakansson et al., 1979).
Si è avuto dibattito sul tema dell’organizzazione delle attività di marketing dato
che le imprese sembrano definire tale ruolo sia in conformità alle esigenze interne,
cioè organizzative, che esterne, cioè di mercato (Webster, 1992). Il nocciolo della
questione, secondo Webster, è l’attribuzione al ruolo del marketing di una
posizione chiave per poter gestire i rapporti con i clienti, che sono la risorsa più
importante che una impresa possiede.
A livello strategico quindi la mansione centrale del marketing dovrebbe essere
quello di stabilire, sviluppare e mantenere le relazioni con i clienti, piuttosto che
93
concentrarsi sulla gestione dei fattori del marketing mix (Ford, 1980). Infatti le
imprese hanno l’esigenza di distribuire nel modo più efficace ed efficiente
possibile le risorse a loro disposizione tra le diverse relazioni in atto.
E’ quindi necessario esaminare in concreto e in modo sistematico il ruolo del
marketing in relazione alle tre attività citate in precedenza.
Per stabilire una relazione è necessario svolgere un’analisi preliminare riguardo al
potenziale cliente, che comporta di porre l’attenzione sulle sue relazioni esistenti e
quindi sui competitors di scena sul mercato. In questa fase preliminare di studio è
opportuna un’interazione con il management dell’impresa dato che l’impresa
potrebbe essere influenzata da esperienze passate oppure potrebbe sperimentare
una distanza dal potenziale customer.
Lo sviluppo della relazione implica scelte di tipo organizzativo e strategiche. La
scelta tra una funzione di marketing adatta a seguire numerosi piccoli clienti e i
relationship managers può essere decisiva (Ford, 1990). I relashionship managers
sono persone di marketing incaricate di seguire le relazioni, che hanno efficacia
nel caso siano presenti pochi grandi clienti.
Mantenere una relazione nel lungo periodo significa tenerne continuamente sotto
controllo l’evoluzione, nel senso che l’impresa potrebbe anche razionalmente
decidere di abbandonare la relazione nel caso in cui l’istituzionalizzazione e le
routine si rivelassero antieconomiche. Ciò significa che la gestione delle relazioni
94
con i clienti porta alla necessità di valutare ogni rapporto anche nella prospettiva
del suo potenziale, delle risorse che richiede e quindi dei risultati realizzati.
Nell’ottica di una visione strategica dei rapporti con il mercato, risulta che il
compito basilare del marketing sia quello di indirizzare le scelte gestionali
dell’impresa (Ferrero e Tunisini, 2004). Sostanzialmente tutta l’organizzazione, e
con maggior enfasi i ruoli che si interfacciano con i clienti, dovrebbero essere in
grado di comprendere gli obiettivi delle singole relazioni, ovvero comprendere
quali siano i fattori che determinano il valore percepito dal cliente e cogliere le
interdipendenze tra gli attori che si muovono nel network. Quindi, il compito del
marketing dovrebbe esplicarsi nel presentare una visione ampia di mercato, per
identificare quali siano i protagonisti attuali e nel tempo, e nell’indicare su quali
attori l’impresa dovrebbe investire direttamente e su quali invece potrebbe agire
attraverso altre interazioni.
Sarebbe molto importante quindi che il marketing riuscisse a delineare una
visione olistica di mercato (Webster, 1992), tale da consentire all’impresa di
comprendere meglio la struttura di network nella quale agisce.
Da ciò risulta inadeguato un marketing rilegato ad una funzione dipartimentale,
dovendo incarnare una totally business philosophy, dato che la gestione della
relazione con il customer è effettuata da diverse funzioni aziendali (Fiocca et al.,
2003). Comunque, ovviamente, le attività di marketing possono essere gestite in
95
modi diversi, in base al tipo di soluzione-servizio che l’impresa offre sul mercato
e in base all’organizzazione dei processi interni.
Infatti è più che probabile che non esista un modello organizzativo ottimale, per
cui ogni impresa porrà in essere le soluzioni che riterrà più idonee ai suoi obiettivi
di sviluppo.
Dato che il marketing necessita di numerose competenze e diverse posizioni
organizzative, l’efficacia delle azioni sarà condizionata anche dallo sviluppo
nell’impresa di una cultura di mercato, appoggiata dall’alta direzione aziendale, e
da una funzione specialistica di esame ed integrazione dei flussi informativi
(Ferrero, Tunisini, 2004). Il primo passo da porre in essere in una impresa è quello
di integrare e diffondere le informazioni sui clienti, per poi valutarle in un
orizzonte di lungo periodo, al fine di valorizzarle. Ciò è possibile a patto che
l’impresa sia dotata di strumenti adeguati e competenze specifiche.
Una delle finalità principali di una organizzazione che vende un prodotto o un
servizio è il bisogno di soddisfare le esigenze del cliente (Fiocca et al., 2003). Ciò
richiederebbe che ci siano investimenti equilibrati sull’organizzazione dei flussi
informativi e sulle funzioni interne. Spesso accade infatti che le imprese investano
in sistemi volti ad assicurare una dotazione in risorse tecnico-produttive,
tralasciando oppure sottovalutando l’investimento in attività di marketing.
La funzione del marketing dovrebbe essere vista come un centro di eccellenza in
cui è conservata la conoscenza sui customers e dove sono poste in essere attività
96
rivolte alla diffusione della cultura di marketing tra tutte le funzioni aziendali
(Ivens et al., 2007).
La domanda a cui rispondere, a questo punto, è quali siano gli strumenti che il
marketing mette a disposizione per soddisfare l’esigenza di gestire una relazione.
Uno strumento che ricorre sempre più spesso è il customer relationship
management (CRM), favorito dell’utilizzo delle tecnologie informatiche, a
disposizione delle aziende per facilitare la relazione fornitore-cliente.
Il ruolo del marketing dovrebbe quindi essere sviluppato nell’organizzazione ed
agire da elemento aggregante tra diverse organizzazioni, dai distributori, ai
partners, agli investitori, ecc., cioè per l’intera supply chain.
Da una prospettiva di marketing, l’impresa industriale deve fronteggiare un
duplice orientamento al cliente: il cliente finale e il cliente intermedio. Per ogni
tipo di cliente ci sono strategie di marketing efficaci, cioè politiche di consumer
marketing rivolte al consumatore finale e di trade marketing indirizzate al
distributore.
Analizzando il cliente finale, si nota un cambiamento profondo nel consumatore,
che sta divenendo un soggetto attivo e contemporaneamente una fonte di
competenze (Hamel & Prahalad, 1990) per l’azienda. Anche esaminando il
cliente intermedio, si nota come il distributore stia diventando un soggetto attivo,
dato che ricopre un ruolo chiave per il successo dell’impresa industriale. Di qui
emerge la sempre maggiore importanza assunta dal trade marketing, appunto, la
97
funzione attraverso la quale si attuano le specifiche attività di marketing rivolte
dall’impresa verso gli intermediari.
Le politiche di trade marketing sono, quindi, complementari a quelle di consumer
marketing, richiedendo un ruolo importante anche nell’organigramma delle
imprese produttrici.
Il consumer marketing e il trade maketing, quindi sono due strategie gemelle
(Lawrence, 1983) e non possono essere considerate dicotomiche. Infatti, se è vero
che gli acquisti dipendono dalla domanda dei consumatori è vero anche l’opposto,
e cioè che la domanda subisce l’influenza dall'offerta di prodotti presenti nelle
strutture di vendita. Il condizionamento è quindi reciproco, con la conseguente
necessità di ritenere l’attività di vendita fortemente legata a quella di acquisto e
con l’esigenza di procedere ad una pianificazione della domanda.
L'interazione fra acquisto e vendita si evolve continuamente, con una ciclicità che
si presenta in diverse fasi, volte alla soddisfazione della clientela: esame e
valutazione della domanda; ricerca dei prodotti secondo le necessità evidenziate
dalla domanda; realizzazione delle campagne di vendita nei canali distributivi;
sviluppo di iniziative mirate alla distribuzione volte a far inserire il prodotto in
assortimento; attivazione di iniziative rivolte ai consumatori per spingerli
all’acquisto dei prodotti in assortimento.
98
“Market orientation is an important, influential force on channel relationships”,
quindi nell’analisi delle relazioni distributore-produttore, l’orientamento al
mercato non può essere sottovalutato (Siguaw, Simpson e Baker, 1998).
Nell’orientamento al mercato, distributori e produttori hanno il medesimo fine di
creare un valore maggiore per il consumatore finale. La vicinanza del distributore
al mercato è il punto focale su cui distributori e produttori lavorano insieme al fine
di assicurare ai consumatori finali un maggior valore rispetto ai concorrenti.
Se un produttore è market oriented e agisce con la finalità di soddisfare, oltre alle
richieste dei consumatori finali, anche quelle del distributore, allora il distributore
incrementerà il suo livello di fiducia nelle relazioni di collaborazione e si
convincerà che il produttore con cui agisce in partnership sta agendo per ottenere
gli stessi outcomes competitivi.
Se anche il distributore è market oriented e ha posto in essere una relazione di
collaborazione con il produttore, sa che la raccolta e la condivisione delle
informazioni sui consumatori deve aver luogo più velocemente possibile, così da
creare e proporre sul mercato un’offerta più vicina alla clientela, prima e meglio
dei concorrenti.
In conclusione, si può ritenere che l’aspetto focale per la costruzione di un
rapporto collaborativo tra distributori e produttori, fondato sulla creazione di
valore per il cliente, all’interno dell’intera supply chain, sia l’orientamento al
mercato.
99
Capitolo III
IL TRADE MARKETING: I RISULTATI DI UN’INDAGINE EMPIRICA
III.1. L’orientamento di trade marketing
Il trade marketing è un approccio gestionale che contraddistingue le relazioni tra
le imprese industriali e le imprese commerciali. Può essere considerato come il
marketing rivolto ai distributori, che si afferma conseguentemente al
riconoscimento della loro rilevanza e criticità. Il trade marketing, in parole
semplici ed esplicative, vuole essere il marketing che si rivolge al trade
distinguendosi così da quello consumer oriented, rivolto al consumatore finale.
Le imprese industriali, quindi, sono sempre più costrette a competere in due
mercati. Il primo è quello della domanda finale, quello dei consumatori; il
secondo mercato, invece, è quello della domanda intermedia, quella dei canali di
distribuzione.
In quest’ottica, l’attività di marketing si articola in due grandi componenti: la
componente del consumer marketing e la componente del trade marketing.
Parlare di consumer marketing significa parlare di tutte le azioni strategiche,
operative e organizzative che un produttore deve implementare per conquistare il
mercato finale. Le leve specifiche di questa area di attività sono quelle
dell’innovazione di prodotto, della comunicazione e del posizionamento di
prezzo.
101
Parlare, invece, di trade marketing significa parlare di tutte le azioni strategiche,
operative e organizzative che un produttore deve sviluppare per conquistare il
mercato intermedio della distribuzione e della clientela commerciale aziendale. Le
leve caratteristiche di questa area sono quelle delle condizioni commerciali, delle
iniziative di in store promotion, della logistica e del merchandising.
Le politiche di trade marketing sono diventate, quindi, speculari a quelle di
consumer marketing. La nozione coniata da Lawrence nel 1983, “twin marketing
strategies”, è estremamente efficace per spiegare la complementarità (Cuomo,
1988) e la relazione tra i due concetti.
Figura III.1.-1. Due strategie di marketing gemelle
Fonte: Lawrence (1990)
102
Nella prassi aziendale, le decisioni sugli investimenti di marketing sono, sempre
di più, il risultato della soluzione del dilemma su quanto investire da una parte e
quanto dall’altra.
Negli
ultimi
anni,
progressivamente
gli
la
componente
investimenti
di
trade
aziendali,
marketing
ha
assorbito
comportando
un
profondo
cambiamento nell’equilibrio degli investimenti tra le due parti del marketing. Tra i
fenomeni che hanno portato all’incremento dell’importanza del trade marketing
(Fornari, 2009) c’è l’evoluzione dei modelli di consumo e di acquisto, in cui è
cambiata la rilevanza relativa tra domanda di prodotti e domanda di servizi
commerciali. Ciò ha comportato un nuovo equilibrio tra la brand loyalty e la store
loyalty, dato che i consumatori ritengono i punti vendita mezzi di comunicazione
più efficaci di quelli tradizionali. Nel momento d’acquisto il consumatore è
sempre più informato e ricerca una controparte competente con cui relazionarsi.
La seconda causa della prevalenza del trade marketing è la rivoluzione
commerciale. Negli ultimi anni la distribuzione, infatti, si è modernizzata,
differenziata e concentrata (Sicca e Adreassi,
1988). Il contesto si sta
modificando, per cogliere opportunità che il mercato va evidenziando. Si pensi, ad
esempio, alla commercializzazione di prodotti attraverso internet e alle prime
esperienze di commercializzazione, anche di beni problematici, attuate dagli
operatori della GDO.
103
La terza e ultima ragione si individua nel decremento strutturale del tasso di
crescita dei consumi che, con la diffusa presenza di mercati maturi, ormai simili e
mancanti di innovazione, ha reso prodotti e marche sostituibili. Questi fenomeni
hanno portato ad un cambiamento nei rapporti gerarchici sia all’interno della
filiera che tra industria e distribuzione.
Alla luce di queste considerazioni, si comprende la crescente intenzione, propria
dell’impresa industriale, di incrementare il valore e il peso degli investimenti in
trade marketing, al fine di migliorare le condizioni di efficienza e di efficacia delle
politiche commerciali.
L’applicazione strutturale del trade marketing può migliorare il ruolo dei prodotti
presso la grande distribuzione e fronteggiare le richieste del consumatore finale.
Per un’azienda l’orientamento di trade marketing diventa fondamentale per
realizzare un’efficace commercializzazione che ottenga obiettivi quantitativi e
qualitativi specifici quali il mercato, un segmento scelto, la stessa grande
distribuzione, la vendita relativa, ecc.
“Il trade marketing diventa un imperativo categorico dal quale non ci si può
sottrarre in quanto è il solo in grado di assicurare il successo in questo ambito”
(Foglio, 2014). Per essere trade marketing oriented un’impresa deve produrre ciò
che la grande distribuzione può e vuole vendere, cioè quello che il consumatore
finale desidera, e non vendere semplicemente quello che produce.
104
Un’azienda che non ha questo approccio, non soddisfacendo le esigenze del
grande commercio, non riuscirà ad intercettare e a pianificare la domanda di un
prodotto. Dal punto di vista del marketing questa vision si realizza producendo
beni in linea con le richieste della grande distribuzione e dei consumatori finali e
non solo con quelle aziendali. Diventa quindi importante per l’azienda lo scambio
continuo, il “legame intelligente” (Foglio, 2014) con la grande distribuzione. Il
trade marketing diventa infatti il fattore intelligente che unisce azienda e grande
distribuzione.
Solo su questi presupposti l’azienda può attuare la sua strategia di trade
marketing. Esiste una correlazione in grado di dimostrare lo sviluppo di
un’azienda nei confronti del grande commercio, e cioè dove c’è sviluppo
aziendale, c’è trade marketing; poi questo sviluppo è maggiore dove è maggiore
l’uso e il credito nei confronti del trade marketing, sia a livello di pianificazione
dei mezzi da impiegare nei confronti del grande commercio, sia a livello di mirata
politica di prodotto, di prezzo, di vendita, di comunicazione e di promozione e di
controllo.
Il trade marketing ha assunto, quindi, una valenza strategica, diventando fonte di
vantaggio competitivo (Marino, 1988).
105
III.2. Il concetto di trade marketing: origine e evoluzione
Sia come tema di ricerca e sia come funzione aziendale, l’emergere del trade
marketing è da ricondurre all’evoluzione che ha interessato le imprese
commerciali e i conseguenti cambiamenti sostanziali avvenuti nei rapporti con i
fornitori.
Il concetto è apparso in diversi paesi europei tra la fine del 1980 e gli inizi del
1990 e nel corso degli anni si è sviluppato gradualmente con una serie di differenti
definizioni e/o descrizioni presentate da diversi autori.
Nel 1983 Lawrence, nel libro “La gestione del trade marketing”, ha fornito la
prima definizione di trade marketing: “What the manufacturer must do therefore
is to cultivate the development of his marketing policies through the trade by
equal attention both to the needs of the consumer and the needs of the distributive
trade”.
Pochi anni più tardi, nello stesso contesto anglosassone, due autori, Davies (1993)
e Randal (1994), hanno fatto riferimento al concetto di trade marketing come una
prassi industriale che si sviluppa in reazione ai cambiamenti legati al crescente
potere dei distributori. Senza definire il concetto, gli autori hanno fornito una serie
di note di grande interesse per circoscrivere l’argomento: da un lato, hanno
sottolineato la necessità per il produttore di considerare il distributore come
cliente piuttosto che come canale di distribuzione, dall’altro lato, hanno
evidenziato come il trade marketing dovrebbe essere rivolto a soddisfare le
106
esigenze dei consumatori e del mercato attraverso l’integrazione delle attività di
marketing dei fornitori e dei distributori.
Nel definire il significato di trade marketing, molti altri autori hanno fatto
riferimento al concetto di alleanza/integrazione tra il fornitore ed il distributore,
anche se con caratteristiche diverse a seconda del loro contesto, per servire e
soddisfare al meglio il consumatore. Ad esempio, in Francia, Chalouin (1992)
nella sua visione di trade marketing ha sottolineato la necessità di ottimizzare le
relazioni e di armonizzare le risorse, mentre Dupuis e Tissier-Desbordes (1996) si
sono focalizzati sull’importanza delle procedure metodiche che devono essere
svolte congiuntamente dai produttori e dai fornitori. In Spagna, invece, Velando e
Curras (1996), Santesmases (1999) e Domènech (2000) nel descrivere il trade
marketing, hanno evidenziato il concetto di alleanza strategica tra fornitore e
distributore, che è indispensabile non solo per soddisfare il consumatore finale,
ma anche per aumentare i vantaggi in termini di redditività dei due attori del
canale di distribuzione.
Anche in Italia, negli stessi anni, il trade marketing è diventato rapidamente
popolare. Tre volumi (Mauri, 1987; Marino, 1988; Fornari, 1990) e numerosi
articoli (Predeval, 1983; Fornari, 1985; Marcanti 1989) sono stati pubblicati, così
come una rivista dedicata a questo argomento.
La prima definizione italiana, su cui si basano quasi tutti i contributi successivi, è
stata proposta da Predeval nel 1983 in un articolo pubblicato su una rivista di
107
marketing: “il trade marketing è un’attività di pianificazione delle vendite
complementare e integrata al consumer marketing”. Questa definizione è stata più
propriamente implementata da Fornari (1985) nel seguente modo: “il trade
marketing è quella strategia distributiva che, basata sul concetto di
cliente/canale, punta a conoscere, pianificare e gestire il processo distributivo in
modo da ottenere da un lato un efficace impiego delle risorse aziendali e
dall’altro duraturi vantaggi competitivi nello scambio dei prodotti”. Altri autori
(Marcanti, 1989; Pellegrini, 1993; Lugli 1998; Beltramini e Gaeta, 1998) nel
definire il trade marketing hanno sottolineato, invece, l’insieme di azioni che il
fornitore mette in atto per facilitare i rapporti con il distributore.
I contributi presenti in letteratura per definire il trade marketing sono molteplici e
frammentati. Questo dipende dalla mancanza di una definizione comune del
fenomeno.
Dall’analisi della letteratura emerge che in sintesi il concetto di trade marketing
può essere considerato come:
 un’alleanza strategica ed operativa tra fornitore e distributore per definire
insieme i piani di marketing e per ridurre i conflitti (Sicca e Andreassi, 1988);
 un insieme di attività di una funzione ben definita che è presente nella
organizzazione aziendale;
108
 un orientamento generale, nel senso di pensare in termini di canale/cliente,
strutturando la strategia di marketing in base ai canali di vendita e ai clienti,
con la conseguente migliore gestione del portafoglio clienti.
Infine, per concludere questa sezione, si presenta l’ultima definizione di trade
marketing fornita da Fornari (2009), che a parere di chi scrive è la più appropriata:
“l’insieme di tutte quelle attività di natura strategica e operativa che, basate sul
trinomio prodotto/cliente/canale, si prefiggono di pianificare/organizzare/gestire
le relazioni verticali di filiera con l’obiettivo di soddisfare i bisogni dei
distributori e dei consumatori massimizzando il ritorno degli investimenti nel
mercato finale e nel mercato intermedio”.
Da questa concettualizzazione si ricava l’indicazione che ci sono tre dimensioni
che qualificano l’attività di trade marketing: la dimensione organizzativa, la
dimensione strategica e quella operativa.
Figura III.2.-1. Altre definizioni di trade marketing
CHALOUIN
Trade marketing is a common effort by suppliers and retailers to
(1992)
optimize relations and harmonize resources so as to better serve the
consumer and/or try and achieve mutual economies of scale... It is a
question of the supplier considering the retailer as a customer, with
all that involves. The retailer is no longer a mere subcontractor, he
has become a partner – and more than a partner, he has become a
customer and should be treated as such.
TISSIERTrade marketing is a strategic process covering everything that
DESBORDES ET AL. enables the optimization of trading methods between a retailer and a
(1993)
supplier.
DUPUIS E TISSIERTrade marketing is a methodical procedure carried out jointly by
DESBORDES
suppliers and retailers, whose objective is to better serve customers’
(1996)
needs and expectations, increase profitability and competitive
position while taking into account each other’s constraints and
specificity.
109
SANTESMASES
(1999)
DOMENECH
(2000)
MARCANTI
(1989)
PELLEGRINI
(1993)
LUGLI
(1998)
BELTRAMINI E
GAETA
(1998)
El trade marketing es una alianza estratégica entre el fabbricante y el
distribuidor orientada a desarrollar acciones conjuntas de publicitad,
promoción y presentación del producto en el punto de venta, con el
fin de inventivar la domanda final, en beneficio de ambos.
Trade marketing es una alianza estratégica entre membros de
diferente nivel del canal comercial para dasarollar la totalidad o una
parte de un plan de marketing compartido en beneficio mutuo y del
consumidor.
Il trade marketing è il marketing che si rivolge agli intermediari
commerciali.
Il trade marketing individua l’insieme di azioni che il produttore pone
in essere per agevolare il rapporto commerciale con la distribuzione.
Il trade marketing consiste nella strategia e nelle azioni finalizzate
alla realizzazione di un vantaggio competitivo nel mercato
intermedio.
Il trade marketing riduce l’antagonismo tra produttore e cliente
mettendo in relazione le necessità di entrambi.
Fonte: elaborazione propria
III.3. Il processo di pianificazione del trade marketing
In passato si è data più importanza al budget di prodotto che al budget per
cliente/canale, dando quindi più rilevanza agli investimenti in consumer
marketing piuttosto che a quelli in trade marketing. Si ritenevano di maggior ruolo
i budget di prodotto in quanto si consideravano strategici per il supporto del brand
aziendale, mentre i budget di cliente/canale erano visti semplicemente come
operativi e tattici. In questa nuova teorizzazione, le scelte sugli investimenti di
trade marketing risultano strategiche, necessitando una precisa pianificazione che
assista le decisioni operative.
110
Tre sono gli obiettivi di questa attività. Il primo è analizzare come si evolve il
mercato distributivo facendo attenzione ai canali di vendita e ai diversi gruppi
strategici. La seconda finalità è accertare il ruolo dell’azienda industriale nella
competizione con la clientela commerciale. In ultimo, va considerato l’aspetto
economico, cioè il grado di reddito prodotto dagli investimenti commerciali, dato
che le risorse disponibili sono sempre minori. Si tratta di applicare le metodologie
e gli strumenti di pianificazione utilizzati tradizionalmente nell’area del consumer
marketing
integrando
la
dimensione
di
analisi
basata
sul
binomio
prodotto/mercato con quella basata sul binomio cliente/canale (Vicari e Castaldo,
2005).
E’ quindi necessario sviluppare complementare al consumer plan un trade plan,
che evidenzi per un verso i limiti delle politiche di vendita e dall’altro le azioni
necessarie per affrontarli. Infine il trade plan è il mezzo tecnico per misurare il
grado di profitto degli investimenti commerciali, costruendo un conto economico
dei clienti.
111
Figura III.3.-1. Il processo di pianificazione di trade marketing
Fonte: Fornari (2009)
112
Condizione di base per per porre in essere il trade plan è possedere le
informazioni di base e, quindi, un sistema informativo articolato e dettagliato
sugli aspetti che determinano le politiche di vendita industriali. Le informazioni
necessarie si possono distinguere tra quelle di ambiente, di mercato e di
posizionamento.
Le informazioni di ambiente hanno il fine di tracciare l’evoluzione della struttura
del mercato distributivo per misurare gli impatti che tali cambiamenti producono
sull’aspetto dei canali di vendita e sulle politiche commerciali. Le informazioni di
mercato, invece, sono utili per analizzare quelle variabili, come la quota di
mercato, il grado di presenza nei mercati e la struttura del portafoglio punti
vendita, che evidenziano sia le politiche di sviluppo dei diversi distributori sia il
loro posizionamento economico e commerciale.
Le ultime, le informazioni di posizionamento, permettono di valutare il
posizionamento competitivo delle imprese industriali nei canali di vendita e nei
clienti commerciali. Da ciò emerge, quindi, il ruolo chiave svolto dalle
informazioni.
Tra le condizioni necessarie per pianificare e implementare un corretto
orientamento di trade marketing (Fornari, 2009), è opportuno analizzare il modo
di comportarsi in fase di acquisto dei consumatori enfatizzando quanto sulle
politiche commerciali agiscano la struttura e l’evoluzione della domanda dei
servizi commerciali. Il sistema informativo necessario deve essere aggiornato e
113
fornire informazioni sugli scenari distributivi, sul posizionamento delle insegne
commerciali, sui modi di crescita dei diversi canali di vendita, in modo che risulti
possibile indagare le performance industriali nei canali/clienti mettendo in
evidenza gli aspetti su cui intervenire per rendere più efficienti i risultati
commerciali. Le strutture organizzative vanno adeguate alla nuova realtà
distributiva sia per migliorare il tipo di rapporti all’interno della filiera sia la
compartecipazione delle varie funzioni all’interno dei processi aziendali. Per fare
ciò si dovrebbero utilizzare metodi di programmazione e di controllo delle vendite
volti a sviluppare piani-clienti e piani-prodotti tra loro complementari,
impiegando in modo efficiente ed efficace gli investimenti commerciali.
E’ opportuno comprendere come sia organizzata la supply chain aziendale per
individuare interventi opportuni per migliorare i processi produttivi e logistici.
Ultima azione ma non per importanza, dovrebbe essere quella di creare un
rapporto con la distribuzione così trasparente sulle condizioni commerciali da
portare ad una condivisione degli obiettivi per raggiungere il consumatore finale
piuttosto che un semplice vantaggio contrattuale per l’impresa industriale.
III.4. I risultati di una ricerca empirica
Sancita l’importanza del trade marketing, è importante ora affrontare l’analisi
delle dimensioni principali che lo caratterizzano. Al fine di comprendere in modo
compiuto un fenomeno così innovativo viene proposta un’analisi comparativa tra
114
quanto rintracciato nella letteratura accademica e quanto invece attuato nella
pratica aziendale. Nello specifico è stato condotto uno studio descrittivo ed
esplorativo che ha permesso di confermare la rilevanza della letteratura
accademica.
I casi di studio analizzati nel seguente progetto di ricerca hanno riguardato quattro
differenti best practices di trade marketing realizzate da aziende di calibro
nazionale e internazionale. Per avere una visione chiara e globale sono state
selezionate aziende operanti sia nel settore food che non food e al tempo stesso
con differente grado di implementazione della funzione di trade marketing.
Nell’ambito dell’indagine qualitativa, quindi, sono state effettuate tre interviste
face-to-face e un’intervista telefonica ai membri delle aziende selezionate che
occupano differenti ruoli all’interno dei loro organigrammi aziendali.
Nello specifico, sono statti intervistati: il trade marketing manager di Galbusera2,
il customer sales director di Coca-Cola HBC Italia 3 , il commercial director di
Danone4 e il sales manager di Beiesdorf5.
Le interviste semi strutturate hanno avuto una durata compresa tra 30 e 45 minuti
e hanno riguardato le seguenti aree tematiche: la collocazione organizzativa della
2
Galbusera è l’azienda leader nel segmento salutistico dei prodotti da forno in Italia.
Coca-Cola HBC Italia è il più grande imbottigliatore in Italia e una delle più grandi aziende nel
settore delle bibite analcoliche.
4
Danone è l’azienda leader nel mondo per i prodotti lattieri freschi e per la nutrizione medica.
5
Beiesdorf è leader in diverse categorie del personal & beauty care, come la cura della pelle e
l’automedicazione.
3
115
funzione di trade marketing, le skills del trade marketing manager, le principali
funzioni e attività e i principali indicatori di performance.
III.5. La dimensione organizzativa: le strutture organizzative
Con la consapevolezza che non vi è una configurazione ideale (Beltramini e
Gaeta, 1998), la prima condizione per sviluppare una strategia di trade marketing
è la modifica delle strutture organizzative (Predeval 1983; Fornari, 1990) perché
quelle tradizionali sono inadeguate. La divisione marketing, infatti, è orientata
principalmente al consumatore e non ai problemi di vendita, mentre la divisione
vendite è focalizzata sulle azioni operative e non su quelle di gestione.
Per quanto riguarda i cambiamenti strutturali, dall’analisi della letteratura emerge
che il primo step ha riguardato l’inserimento della figura di key account manager
(KAM) nella divisione commerciale o di vendita, nel tentativo di gestire il
problema dei grandi clienti. In questa prospettiva, alcuni clienti sono più
importanti di alcuni prodotti (Predeval, 1983; Fornari, 1990). Alcuni autori
(McDonalds e Rogers, 1998; Millman e Wilson, 1995), hanno sottolineato il ruolo
del KAM per sviluppare relazioni a lungo termine con clienti strategici e per
creare soluzioni a valore aggiunto. Questo modo di gestire i clienti intermedi può
comportare l’adozione di diverse soluzioni di business.
Negli ultimi anni si è spesso verificato l’inserimento di una nuova funzione,
denominata trade marketing, all’interno degli organigrammi aziendali. Ci sono tre
116
diverse principali soluzioni organizzative, ciascuna con i suoi vantaggi e
svantaggi (Vicari e Castaldo, 2005). La prima soluzione posiziona la funzione di
trade marketing in line con le funzioni di vendita e marketing, con una dipendenza
gerarchica diretta dal top management. Il vantaggio principale è l’implicazione
del top management nelle scelte di distribuzione, riconoscendo l’importanza
strategica delle relazioni con la clientela commerciale, mentre lo svantaggio è la
riduzione della responsabilità della divisione vendite. La seconda soluzione,
invece, pone la funzione di trade marketing all’interno della divisione marketing.
Il vantaggio di questa soluzione è quello di sfruttare le capacità di analisi e di
pianificazione. Lo svantaggio è quello di concentrarsi eccessivamente sul
consumatore. Infine, la terza soluzione pone la funzione di trade marketing nella
divisione vendite. Questa è la posizione più appropriata in quanto può agire da
supporto per i diversi canali. Da un lato fornisce informazioni ai key account
manager aiutando, quindi, la funzione di vendita (Domènech, 2000) e, dall’altro
lato funge da collegamento tra marketing e vendite. I vantaggi sono la conoscenza
delle vendite esistenti e la possibilità di identificare le opportunità per
clienti/canali. Il limite è la difficoltà di introdurre elementi di pianificazione nelle
vendite. Nonostante ciò, questa’ultima configurazione ha trovato maggiore
applicazione nelle realtà aziendali (Fornari, 2009) pur con configurazioni
differenti. Una configurazione, quella più tradizionale, si basa sulla ripartizione
della funzione vendita tra presidio territoriale e presidio di canale/cliente con la
117
presenza di responsabili del canale moderno e del canale tradizionale. Nel caso in
cui la funzione di trade marketing si trovi in staff alla direzione vendite, avrebbe il
ruolo di fornire informazioni sia nel momento in cui vengano sviluppati i piani
commerciali sia quando vengono poste in essere iniziative speciali per la
distribuzione. Il ruolo del trade marketing manager consiste, oltre che
nell’interazione continua con la funzione marketing, nel pianificare le relazioni
con la clientela commerciale dando supporto nel contrattare le condizioni di
vendita, la qualità e il numero delle iniziative promozionali e il collocamento dei
nuovi prodotti nei punti vendita.
Figura III.5.-1. Il modello organizzativo tradizionale di trade marketing
Fonte: Fornari (2009)
Nella configurazione che viene definita evoluta, la funzione trade marketing è in
line con la direzione di customer management e la direzione field assumendo
dunque un ruolo rilevante. Il ruolo include le funzioni di category management, di
118
training commerciale, di shopper management e di innovazione/sviluppo delle
attività commerciali.
Nella configurazione evoluta, date le caratteristiche organizzative, il trade
marketing propone la scontistica e i budget di investimento per canale, pianifica le
politiche promozionali, lancia i nuovi prodotti nei punti vendita, sviluppa
specifiche attività di co-marketing con la clientela, collabora nella definizione dei
listini industriali e dei prezzi al consumo, pone in essere studi e ricerche
specifiche sui temi di category management e di shopper marketing, effettua test
di merchandising, costruisce e condivide con le funzioni di Customer
Management i conti economici di canale/cliente, individua proposte commerciali
innovative per aumentare la visibilità e l’accessibilità delle referenze nei punti
vendita, forma e aggiorna il personale di vendita e, infine, gestisce i database
interni ed esterni su cui si basa l’attività di pianificazione di marketing.
Figura III.5.-2. Il modello organizzativo evoluto di trade marketing
Fonte: Fornari (2009)
119
La complessità della funzione di trade marketing, configurabile come un mix
attività di pianificazione e di attività operative, costituisce un ostacolo molto forte
per un inserimento di questa funzione ad un livello aziendale che ne valorizzi il
significato strategico. Perciò le tendenze generali sono di inserire gradualmente le
funzioni e i ruoli previsti di trade marketing.
Terminata la sintesi di quanto rintracciato in letteratura in merito alla componente
organizzativa del trade marketing, si passa ora alla presentazione dei casi di studio
analizzati con l’obiettivo primario di fornire una lettura chiara di quello che si
verifica nella pratica aziendale e di conseguenza evidenziare eventuali differenze
tra il contesto aziendale e quello accademico. Dall’analisi delle esperienze
aziendali, emergono modelli organizzativi alternativi in cui la funzione di trade
marketing ha collocazioni diverse negli organigrammi aziendali e al tempo stesso
svolge funzioni differenti.
Nell’analisi dei casi, l’attenzione è stata focalizzata su tre aspetti: da quando la
funzione di trade marketing è presente nelle aziende, la collocazione all’interno
dell’organigramma aziendale e la denominazione attribuitagli. Le quattro aziende
analizzate presentano soluzioni tra loro differenti.
In Galbusera, la funzione è chiamata trade marketing ed è stata introdotta di
recente in posizione di staff tra le divisioni di marketing e di vendita con il
compito principale di favorirne l’interconnessione. Al contrario, in Coca-Cola
HBC Italia e in Danone, la funzione di trade marketing è posizionata all’interno
120
della divisione commerciale allo stesso livello gerarchico del marketing e delle
vendite, ma con denominazione e responsabilità differenti. In Coca-Cola HBC
Italia, la funzione viene chiamata trade marketing e il suo compito è quello di
elaborare piani di marketing operativi per i diversi canali di vendita. Per questo
motivo, la divisione trade marketing si compone di vari managers, ciascuno dei
quali è responsabile di un canale. Al contrario, in Danone, la funzione viene
chiamata commercial development. Ha due compiti principali: da un lato deve
mantenere la coerenza tra attività di marketing e di vendita e dall’altro deve
attuare strategie di marketing per clienti/canali attraverso i customer marketing
managers. Fin dagli anni ’90, quando la funzione è stata introdotta, le due aziende
hanno sviluppato una prospettiva di trade marketing. La funzione di trade
marketing è diventata sempre più importante per le attività commerciali e al
tempo stesso una fonte per ottenere vantaggi competitivi. Infine, in Beiesdorf, la
funzione di trade marketing si chiama shopper & customer marketing.
Gerarchicamente è collocata nella divisione vendite e svolge un ruolo di
collegamento tra marketing e vendite. In particolare deve garantire la coerenza tra
le attività di marketing per clienti e i diversi canali di vendita. Negli ultimi tre anni
ha aumentato la sua autonomia, ma ancora non ha raggiunto l’indipendenza come
nelle altre.
121
Figura III.5.-3. La dimensione organizzativa del trade marketing nelle aziende studiate
Fonte: Elaborazione propria
In riferimento alla componente organizzativa del trade marketing, l’analisi
empirica ha confermato la visione di vari autori (Predeval 1983; Beltramini e
Gaeta, 1998; Vicari e Castaldo, 2005): non esiste una definizione ideale della
funzione di trade marketing.
Il primo aspetto da evidenziare, infatti, è che la funzione ha una collocazione
differente nell’organigramma aziendale; può essere posizionata nella divisione
vendite (Beiesdorf), nella divisione commerciale (Coca-Cola HBC Italia e
Danone), o assumere un ruolo di staff (Galbusera).
La collocazione organizzativa, inoltre, influenza anche il suo operare: può essere
una semplice attività di supporto per il marketing e le vendite, come in Galbusera;
può avere maggiori responsabilità attuando attività di marketing per i diversi
canali di vendita, come in Beiesdorf; può essere molto strutturata e importante
tanto quanto le divisioni marketing e vendite, come in Coca-Cola HBC Italia e
Danone.
Un argomento strettamente collegato alla posizione della funzione del trade
marketing all’interno dell’organigramma aziendale riguarda le competenze
122
richieste al trade marketing manager per svolgere in modo adeguato le sue
mansioni.
Dall’analisi empirica emerge che questa figura deve avere capacità analitiche e di
visione, ma deve essere anche razionale, pratica e con esperienza di vendita. In
sintesi deve possedere le skills tipiche di chi opera nelle aree marketing e vendite.
Quindi in un azienda, il trade marketing manager è solitamente una persona che
precedentemente ha occupato un ruolo importante in una o in tutte e due le aree.
Figura III.5.-4. Il trade marketing manager nelle aziende studiate
Fonte: Elaborazione propria
Nei casi analizzati, anche se il livello di sviluppo della funzione è differente, la
presente affermazione è stata ampiamente condivisa.
Per concludere va evidenziato che indipendentemente dalla configurazione
organizzativa scelta, ci sono alcune condizioni essenziali che si devono verificare
per realizzare un corretto e performante trade marketing: il coinvolgimento del top
management, la definizione dei compiti caso per caso e un focus sul business,
sulla cultura aziendale e sulle risorse umane.
123
III.6.
La
dimensione
strategica
e
la
dimensione
operativa:
dalla
pianificazione agli strumenti di trade mix
Analizzando la letteratura, pochi studi individuano le aree di attività e di
responsabilità della funzione di trade marketing all’interno dell’azienda. Non ci
sono né vincoli specifici sui suoi compiti, né una singola configurazione. Tuttavia,
possono essere identificate due dimensioni principali. La prima è strategica e si
concentra sulle attività di back office, come la pianificazione, l’analisi e il
controllo. La seconda, invece, è operativa e si concentra sulle attività di field,
utilizzando le leve di trade mix. Queste due prospettive sono strettamente
collegate tra di loro. Infatti, l’attività di pianificazione è essenziale al fine di
supportare le decisioni operative. Il primo passo per le aziende trade marketing
oriented è, quindi, l’applicazione delle metodologie e degli strumenti di
pianificazione utilizzati tradizionalmente nel consumer marketing. Infatti,
nonostante le due funzioni operino in mercati differenti, utilizzano e gestiscono gli
stessi strumenti di marketing anche se in modo diverso a seconda del loro contesto
di riferimento.
La pianificazione, come descritto in precedenza, prevede la formalizzazione di un
“trade plan”, complementare a un “consumer plan” (Fornari, 2009), con un
sistema informativo strutturato ed esauriente.
La definizione di trade marketing come “marketing che si rivolge agli
intermediari commerciali” (Marcanti, 1989; Pellegrini, 1993; Lugli, 1998) ne
124
sottolinea le somiglianze con il business marketing (Fiocca, Snehota e Tunisini,
2009). Entrambi i settori hanno diversi aspetti in comune, come la natura derivata
della domanda, la concentrazione dei clienti, l’importanza delle componenti di
servizio, la necessità di aggiustamenti nella fornitura di prodotti, ecc. Queste
affinità e similitudini sembrano giustificare l’applicazione di concetti sviluppati
nel campo dei beni industriali (Ford e McDowell, 1999; Gadde, Hjelmgren e
Skarp, 2012), come la gestione delle relazioni, lo scambio di informazioni e la
collaborazione. In sostanza la logica e gli strumenti di gestione non cambiano,
sono semplicemente ridisegnati e articolati in modo diverso.
In sintesi, si può affermare che le fasi del processo di marketing sono simili a
prescindere dal mercato di riferimento. Comunque, devono essere adattate al
contesto specifico, partendo dalla definizione degli obiettivi, attraverso
l’elaborazione delle strategie (target di mercato, segmentazione e posizionamento)
e delle azioni operative (politiche di prodotto, prezzo, comunicazione e altre) per
identificare infine le procedure di controllo (Marcanti, 1989; Vicari e Castaldo,
2005).
Anche se le due dimensioni del trade marketing sono entrambe fondamentali per
il successo delle attività, molti autori si concentrano soprattutto sugli aspetti
operativi. Gli strumenti di gestione sono strettamente interdipendenti e usati
insieme anche se con combinazioni variabili tra imprese diverse o per la stessa
impresa in situazioni differenti. Per sottolineare l’uso coordinato delle varie leve
125
da parte delle imprese industriali, si utilizza l’espressione trade marketing mix,
dove mix sta proprio ad indicare le diverse combinazioni delle azioni che possono
essere intraprese. Esistono diversi modi per classificare le leve del trade
marketing. Molti autori (Mauri, 1987; Fornari 1990; Pellegrini 1993; Beltramini e
Gaeta, 1998, Vicari e Castaldo, 2005) sono concordi sulla classificazione che
comprende i seguenti elementi: le politiche di prodotto, le condizioni di vendita, le
promozioni, la logistica e il merchandising.
Esempi di politiche di prodotto sono lo stabilire con quale posizionamento di
qualità e di prezzo collocarsi negli assortimenti dei clienti, se produrre articoli con
il marchio dei distributori, ecc.. Le decisioni sono molto importanti in quanto
richiedono risorse e competenze produttive, di marketing e di vendita assai
diverse. I prodotti, infatti, devono essere adeguati alle richieste dei partner
commerciali e a quelle dei loro clienti. L’obiettivo è che il prodotto sia
remunerativo per l’impresa industriale, e il migliore possibile sia come brand che
come caratteristiche fisiche, tecniche, di prestazione, di qualità, di affidabilità, di
differenziazione, ecc (Foglio, 2014).
Riguardo alle condizioni di vendita, l’impresa industriale si propone di
confrontarsi con la distribuzione per ottenere vantaggi nelle politiche di pricing,
nei modi ed i tempi di pagamento, negli sconti e nelle altre forme di riduzione di
prezzo. Ovviamente gli obiettivi non sono gli stessi in caso di produttori con
marche leader e produttori con marche minori. L’obiettivo dei primi è il sell out,
126
cioè le vendite nel punto vendita, dato che la notorietà del brand garantisce la
presenza nell’assortimento commerciale. Il sell out si ottiene tramite un
coordinamento con le politiche di marketing del distributore. L’obiettivo dei
secondi, invece, è il sell in poiché devono assicurarsi la presenza dei loro articoli
nell’assortimento del distributore (Burresi et al., 2006).
Le politiche promozionali sono un’altra area di azione del trade marketing; si
tratta di interventi di marketing che offrono per un tempo limitato condizioni
favorevoli a specifici target di destinatari, al fine di spingerli a prendere decisioni
impulsive (Fornari, 1999). L’impresa industriale ricerca la collaborazione dei
distributori per evitare la perdita di efficacia delle proprie politiche di pricing ed
infine un peggioramento della propria immagine di brand.
Un’altra area di intervento riguarda la logistica, che riguarda il flusso fisico dei
beni dai fornitori ai distributori. Un maggior coordinamento tra i due soggetti
consente di ridurre i costi di gestione dei prodotti e di evitare rotture di stock con
un miglioramento del servizio commerciale.
Infine vi è il merchandising, una componente fondamentale del marketing
all’interno dei punti vendita. Esso riguarda la gestione dello spazio espositivo e
quindi le dimensioni del layout delle attrezzature oltre alle decisioni di display
merceologico con il posizionamento a scaffale dei prodotti (Lugli, 1998). Nel
merchandising si può anche includere la predisposizione di materiale volto a
127
comunicare con il cliente finale nel momento in cui si trova all’interno del
negozio: il cosiddetto materiale POP (point of purchase).
L’importanza di questa leva è sottolineata, dal momento che si è evoluta in visual
merchandising, definito come il marketing del punto vendita nel punto vendita
(Zaghi, 2013). Oggi, infatti, l’82% delle decisioni di acquisto avvengono
direttamente nei punti vendita (Popai, 2014).
Proprio questa è la motivazione che ha orientato l’indagine empirica ad
approfondire in particolare modo questa leva del trade marketing.
L’in-store marketing, infatti, favorisce una migliore collaborazione tra i fornitori e
i distributori (Sciarelli, 1994) al fine di soddisfare i consumatori finali. Ciò
determina anche uno spostamento del loro rapporto verso una migliore
partnership.
Dall’analisi delle esperienze aziendali emerge la complessità della funzione di
trade marketing, configurabile come un mix di attività di marketing e di vendite.
Come l’analisi descritta nel paragrafo precedente ha mostrato in alcuni casi
l’esistenza nella pratica aziendale di modelli organizzativi alternativi, in questa
sezione si presentano le principali attività e leve adottate dalle aziende oggetto
d’indagine per soddisfare al meglio le loro esigenze.
Riguardo a questa tematica, emergono dal un lato alcuni elementi comuni a tutti i
casi analizzati e dall’altro differenze legate soprattutto al diverso livello di
sviluppo della funzione e alla collocazione organizzativa.
128
In Galbusera, la funzione di trade marketing svolge sia attività analitiche che
operative. Le prime, come la definizione degli investimenti e dei piani strategici e
promozionali, in precedenza erano svolte dalla funzione marketing. Le seconde,
invece, sono attività nuove e riguardano principalmente azioni nei punti vendita,
come il merchandising o il posizionamento del prodotto sugli scaffali. In CocaCola HBC Italia e in Beiesdorf, invece, la funzione di trade marketing si occupa
principalmente della definizione degli investimenti in ogni canale/cliente, della
comunicazione nei punti vendita, oltre all’analisi del portafoglio prodotti per ogni
tipologia di canale.
Danone, invece, azienda più strutturata in prospettiva di trade marketing,
attribuisce molta importanza alle attività di in-store. Ha, infatti, investito una
grande quantità di denaro in software per definire planogrammi, materiali POP e
in-store promotion. Sviluppa, inoltre, progetti di category management o progetti
ad hoc per i singoli clienti.
Figura III.6.-1. Le principali attività del trade marketing nelle aziende studiate
Fonte: Elaborazione propria
129
In riferimento alle attività a punto vendita è necessaria una precisazione.
L’implementazione non è una responsabilità del trade marketing. Nelle aziende
più strutturate, come Coca-Cola HBC Italia e Danone, ci sono field teams, mentre
nelle altre è presente il supporto di agenzie esterne.
L’indagine ha confermato l’importanza di molte attività evidenziate in letteratura,
in particolare in riferimento a quelle di in-store (Lawrence, 1983; Mauri, 1987;
Fornari, 2009).
A questa tematica è, inoltre, strettamente correlata la fase di controllo che ha il
compito di valutare i risultati ottenuti, in termini di raggiungimento degli obiettivi
e degli effetti delle azioni di trade marketing. Poiché le attività di controllo non
sono solo economiche, non ci sono KPI specifici per il trade marketing. I
managers utilizzano di solito indicatori tipici di vendita, come il ROI, i volumi, i
ricavi, i profitti e le quote di mercato.
Figura III.6.-2. I principali KPI utilizzati dal trade marketing nelle aziende studiate
Fonte: Elaborazione propria
A questo punto è necessaria una riflessione: è presente una sovrapposizione di
analisi tra la fase di controllo e la dimensione analitica del trade marketing.
130
Entrambe, infatti, possono utilizzare gli stessi strumenti: la prima ex ante per
pianificare e la seconda ex post per verificare.
Il trade marketing, quindi, può essere interpretato come un processo circolare:
l’analisi condotta nella fase di controllo è utile successivamente per impostare
strategie e politiche con eventuali adeguamenti (Vicari e Castaldo, 2005).
III.6.1. Le attività nei punti vendita
All’interno della dimensione operativa di trade marketing rientrano gli interventi
nei punti vendita. Per un’azienda industriale, infatti, svolgere attività di marketing
a punto vendita è molto importante in quanto:
 fa percepire l’esistenza della propria offerta al consumatore al momento
dell’acquisto;
 permette di mantenere coerenza nella qualità della propria offerta e di
rinforzare il valore della marca;
 permette di prolungare l’attività di comunicazione all’interno del punto
vendita;
 permette di raccogliere informazioni sui clienti.
Inoltre, intercettare il consumatore nel punto vendita diviene una condizione
necessaria per avviare un dialogo volto ad inserire l’offerta aziendale nella
valutazione delle sue alternative, in quanto la sola presenza in assortimento non è
più in grado di garantire il risultato commerciale.
131
Compreso ciò, molte aziende hanno incominciato a definire degli specifici budget
di spesa per le attività a punto vendita e a realizzare specifiche attività di
merchandising che Collesei nel 1989 definisce come un “insieme di tecniche
utilizzate, separatamente o congiuntamente dalle imprese commerciali e
industriali, con il duplice obiettivo di migliorare la redditività del punto di
vendita e di adeguare la presentazione dei prodotti sugli scaffali ai bisogni degli
acquirenti”.
Il
contenuto
dell’attività
di
merchandising
consiste,
dunque,
nella
programmazione ed esecuzione di tutte le operazioni indirizzate a ottimizzare
l’esposizione e lo stato di conservazione e di presentazione dei prodotti.
Pur svolgendo un ruolo primario nella gestione redditizia del punto vendita, il
merchandising è incapace di valorizzare appieno le potenzialità insite nella
comunicazione visiva (Provenzano, 2012). Proprio per ovviare a questo limite, si
tende sempre più frequentemente ad ampliare il suo campo di azione fino ad
includere l’architettura commerciale, il design e tutta la comunicazione POP
riguardante la segnaletica, la cartellonistica e la cartellinistica. Si giunge, in tal
modo a definire il visual merchandising che rappresenta “il marketing del punto
vendita nel punto vendita: una disciplina multifunzionale che grazie
all’interazione sinergica di marketing, semiotica, design e psicologia sociale
rappresenta uno strumento attivo di comunicazione dell’immagine del punto
132
vendita e dei prodotti ivi contenuti, ma anche di informazione, suggestione,
persuasione e promozione delle vendite” (Zaghi, 2013).
L’industria, nel processo di pianificazione e gestione dell’attività di visual
merchandising, assume un ruolo cruciale. In particolare, l’esigenza di sviluppare
attività di visual merchandising nasce dalla finalità di garantire alle proprie
marche e ai propri prodotti un’adeguata quantità e qualità di spazio in termini di
visibilità e accessibilità. Tutto ciò però non è sufficiente. Le vendite, infatti, sono
fortemente influenzate dalla comunicazione visiva, per cui le aziende sono sempre
più impegnate nell’ottenere maggiore e migliore esposizione per sedurre il
potenziale cliente, diventandone oggetto di desiderio.
Infatti, il visual merchandising dell’industria ha due filoni principali. Il primo si
occupa dell’organizzazione dello spazio e
può quindi espandersi nel
miglioramento della produttività. Il secondo è più emotivo, dato che vuole
coniugare le informazioni e le sensazioni che il prodotto e la marca evocano nel
consumatore. Quindi attraverso gli investimenti che vengono effettuati
nell’attività di visual merchandising l’impresa si propone di perseguire tre diversi
orientamenti strategici (Zaghi, 2014):
1. la produttività dello spazio;
2. la comunicazione del prodotto;
3. il valore della marca.
133
La produttività dello spazio è l’orientamento tecnico-formale ed ha come fine
aumentare il numero di facing, rendere più elevata possibile la produttività del
lineare, promuovere le diverse linee di prodotto, ecc. In base a questa
interpretazione diventa molto importante decidere come esporre i prodotti sui
ripiani. Alle diverse altezze a cui possono essere collocati i prodotti
corrispondono, infatti, diverse potenzialità di vendita. Gli scaffali possono essere
ripartiti in senso verticale in cinque livelli: suolo, mani, occhi, cappello e sopra
cappello. Gli articoli collocati a livello mani o a livello occhi sono quelli che
hanno più probabilità di vendita, in quanto il livello mani favorisce l’accessibilità
al prodotto mentre il livello occhi è quello che assicura maggiore visibilità.
Figura III.6.1.-1. Rappresentazione dei livelli di uno scaffale
Fonte: Elaborazione propria
Quanto appena descritto, cioè la posizione che le referenze possono assumere
all’interno delle attrezzature di vendita, rappresenta la qualità dello spazio
espositivo. Considerando lo spazio espositivo nella dimensione orizzontale, si usa
134
misurare il numero di facing, cioè il numero di pezzi di cui si vede la stessa
facciata espositiva nella prima fila dello scaffale.
L’orientamento strategico della comunicazione di prodotto intende, invece,
migliorare l’interazione tra cliente e prodotto ed ha tra gli altri obiettivi l’attrarre il
cliente e l’aumentare la visibilità della marca.
Il terzo ed ultimo orientamento, cioè il valore della marca, vuole migliorare
l’identità della marca tramite azioni come il supportare il lancio di nuovi prodotti,
il migliorare l’esperienza d’acquisto, l’esaltare la dimensione simbolica della
marca stessa.
Facendo un bilancio riguardo i lati positivi e negativi del visual merchandising,
emergono molte potenzialità, ma anche molti limiti, riconducibili in particolare
alla diversa finalità di industria e distribuzione, infatti mentre la prima vuole
valorizzare solo la sua marca, la seconda intende promuovere l’intero
assortimento.
Per superare questa diversità, l’industria si propone nei confronti della
distribuzione come un partner capace di fornire supporto e valore, ad esempio
attraverso l’implementazione di progetti di category management, in cui vi è una
gestione della categoria e non del singolo prodotto o marca.
Nella letteratura e nella prassi aziendale sono state proposte diverse definizioni di
category management. Quelle che reputo più appropriate sono quelle che
135
riconoscono le categorie di prodotti come aree strategiche d’affari ed hanno
un’ottica customer centric.
Nel 1992 Nielsen definisce il category management come “un processo di
gestione delle categorie merceologiche come aree strategiche d’affari e si
propone di soddisfare i bisogni del consumatore, punto vendita per punto
vendita”.
Nel 2000 Castaldo e Bertozzi, invece, lo definiscono come “una modalità di
reingegnerizzazione del processo di marketing adottabile da imprese di
produzione e distribuzione finalizzata a migliorare il livello di soddisfazione del
consumatore attraverso il trasferimento di maggiore valore in un ottica customerbased” mentre Fornari nel 2009 come “un processo interattivo e funzionale tra
industria e distribuzione che punta a organizzare, pianificare e gestire gli
assortimenti come un insieme di Strategic Business Unit (SBU) con l’obiettivo di
massimizzare il livello di efficacia ed efficienza delle politiche di marketing delle
imprese industriali e commerciali migliorando sia la profittabilità aziendale sia la
soddisfazione dei consumatori”.
Da analisi empiriche emerge che la realizzazione di progetti di category
management favorisce l’instaurazione di una partnership produttore-distributore
in quanto solo attraverso la condivisione di risorse, di fiducia e di conoscenze è
possibile creare un surplus di valore.
136
La logica su cui si basa il category management non è molto distante da quella del
trade marketing, dall’attività di pianificazione, alla definizione delle strategie e
delle leve da utilizzare. Queste ultime, sono addirittura le stesse, ma gestite in
ottica aziendale nel trade marketing e in ottica shopper nel category management.
Figura III.6.1.-2. Dal trade marketing al category management
Fonte: Elaborazione propria
III.7. Risultati e prime considerazioni
Come già trattato nelle pagine precedenti, si può affermare che negli ultimi anni i
rapporti tra produttori e distributori sono cambiati radicalmente. Attualmente il
potere è nelle mani delle imprese distributive a causa del processo di
concentrazione che si è verificato (Sicca e Andreassi, 1988). In questo contesto
competitivo i fornitori devono sviluppare alleanze strategiche con i retailers al
137
fine di rafforzare le loro relazioni (Santesmases, 1999; Domènech, 2000). Per fare
questo, devono prestare attenzione alle loro esigenze e cercare di soddisfarle
meglio dei competitors. I fornitori, quindi, dovrebbero considerare i retailers come
clienti e non come meri intermediari del canale di distribuzione (Davies, 1993;
Randal, 1994) e indirizzare loro strategie di marketing: questo è il trade
marketing.
La mancanza di una definizione unanime ha comportato che il concetto potesse
essere interpretato in modo differente: come un’alleanza strategica tra fornitore e
distributore, come un insieme di attività o come un approccio generico per fare
business. Nonostante ciò, parlare di trade marketing nelle aziende è ormai
indispensabile.
Queste affermazioni trovano conferma nell’analisi del caso di studio multiplo, da
cui emergono aspetti e profili differenti a causa di alcuni fattori come il contesto
di riferimento, la grandezza delle aziende o il grado di sviluppo. Nelle aziende più
strutturate, la collocazione organizzativa della funzione di trade marketing è
all’interno della divisione commerciale, pari livello con il marketing e vendite e le
attività principali sono sia strategiche che operative.
L’indagine empirica, inoltre, conferma l’importanza del coinvolgimento del top
management nello sponsorizzare la nuova funzione e nel definire la giusta
posizione all’interno dell'organizzazione aziendale (Predeval, 1983).
138
Figura III.7.-1. Il trade marketing nelle aziende studiate
Fonte: Elaborazione propria
Sulla base dell’analisi effettuata, il fattore principale per il successo di una
strategia di trade marketing è sempre la relazione (Giacomazzi, 2002),
internamente tra le divisioni marketing e vendite ed esternamente con i diversi
distributori.
Nonostante la grande importanza del trade marketing, le imprese industriali
devono essere consapevoli che la mera esistenza della funzione non è sufficiente
per assicurare la cooperazione tra le divisioni marketing e vendite e soprattutto per
assicurare collaborazione con i retailers.
139
Proprio per questo motivo, sempre più spesso i fornitori stanno ricorrendo
all’utilizzo di strumenti e sistemi che permettano di raccogliere informazioni che
facilitino la creazione di conoscenza utile per soddisfare i bisogni dei distributori.
Esempi significativi sono rappresentati dai sistemi di customer relationship
management (CRM), utilizzati sia in contesti B2C che B2B su cui sia in
letteratura che nella pratica aziendale si è molto discusso.
A seguito dell’indagine empirica e delle relative considerazioni riguardanti la
condivisione delle informazioni, volte a realizzare una buona relazione con la
distribuzione per ottenere vantaggio competitivo, è emersa l’importanza di un
nuovo modello di CRM, in cui l’oggetto d’analisi non è il cliente, ma il buyer,
l’attore chiave che collega le due realtà. Il CRM di cui il buyer è il protagonista
può definirsi buyer relationship management (BRM).
L’implementazione di sistemi di CRM nel contesto business to business è già
stata affrontata sia in ambito accademico che nella pratica aziendale.
L’aspetto innovativo della mia ricerca è rappresentato dall’attenzione indirizzata
a questa specifica figura della distribuzione, il buyer, che ne viene posizionato al
centro.
Nel capitolo successivo, oltre ai background teorici di riferimento, si presenta
attraverso un caso di studio l’implementazione del ruolo del trade marketing e, tra
le sue metodologie, la formalizzazione del modello del BRM.
140
Capitolo IV
UN APPROCCIO INNOVATIVO: LO SVILUPPO DEL BRM NEL
GRUPPO FILENI
IV.1. Dal trade marketing al buyer relationship management
L’impresa di produzione, di fronte all’evoluzione dei consumi, dei comportamenti
dei consumatori e delle richieste della grande distribuzione, se non dispone di una
strategia di marketing ben chiara che le permetta di riscontrare questa situazione,
può trovarsi in una posizione di disorientamento. L’impresa produttiva ha
assolutamente bisogno di una reazione di ordine produttivo, e quindi
commerciale, ricorrendo appunto al trade marketing, da un lato per impostare al
meglio il necessario riscontro di marketing nei confronti della distribuzione e
dall’altro per mettere in atto un’efficace politica di vendita nei suoi confronti.
Come mostrato nell’analisi empirica del capitolo precedente, la presenza del trade
marketing è quindi fondamentale per le imprese industriali ed è un imperativo
categorico per ottenere successo. Le imprese industriali che si rapportano con la
distribuzione non possono più prescindere dalla presenza di questa funzione.
Detto ciò è necessaria la consapevolezza che la sola creazione del ruolo di trade
marketing
all’interno
degli
organigrammi
aziendali
non
è
sufficiente.
L’interconnessione, che svolge internamente tra le divisioni marketing e vendite
ed esternamente con i retailers, non si improvvisa ma va impostata con criterio e
141
gradualmente, dal marketing al trade marketing, “passando” per il marketing
relazionale. Seguendo questa prospettiva l’impresa industriale ha la possibilità di
attuare una gestione strategica delle relazioni con la distribuzione, oggi quanto
mai, importante ai fini della costruzione di vantaggio competitivo. Il governo
delle due tipologie di imprese è infatti diventato notevolmente più complesso nel
corso degli ultimi due decenni.
Per le imprese industriali sviluppare relazioni di qualità è quindi indispensabile e
un elemento che ha favorito questa capacità è rappresentato sicuramente
dall’Information Technology (IT), vale a dire un insieme di strumenti hardware e
software che permettono la distribuzione di conoscenza, la sua scoperta,
generazione e successivo utilizzo.
A tal proposito nel corso di questo capitolo, nell’ottica dell’impresa industriale,
verrà approfondita la creazione di valore nella supply chain. A tal fine sarà
mostrato, attraverso un caso di studio, il percorso evolutivo che sta attuando il
gruppo Fileni, a partire dall’inserimento della funzione di trade marketing per
arrivare allo sviluppo un particolare sistema CRM in ambito business-to-business,
il buyer relationship management (BRM), in cui l’oggetto d’analisi è il buyer, cioè
il principale touchpoint con la distribuzione. Il BRM ha l’obiettivo di favorire da
un lato la raccolta di dati e informazioni e dall’altro la diffusione di conoscenza
utile per la definizione delle strategie aziendali. I clienti, infatti, non sono tutti
uguali (Altavilla e Bolwijn, 2007). In questo modo si può stabilire ed investire
142
nella relazione. E’ possibile conoscere le potenzialità e le esigenze dei clienti, vale
a dire sapere chiaramente “con chi fare cosa”.
Il buyer può diventare, quindi, la base su cui costruire una relazione stabile e
duratura con la distribuzione.
All’interno del capitolo, prima di presentare l’indagine empirica, si affronta
brevemente
il
tema
del
customer
relationship
management
(CRM),
rappresentando le fondamenta per lo sviluppo di un progetto così innovativo.
IV.2. Customer relationship management: diverse prospettive
Il termine “customer relationship management” è stato utilizzato per la prima
volta tra le comunità dei venditori di IT (Information Technology) nella metà
degli anni ’90, per descrivere le soluzioni di base tecnologica per i clienti. Negli
stessi anni, tra gli accademici, si inizia ad utilizzare lo stesso termine, spesso
associato al concetto di relationship marketing, anche se quest’ultimo, che ha
provocato un grande cambiamento nel mondo del business, ne è considerato il
predecessore.
La letteratura riguardante il CRM è molto vasta e discussa ampiamente altrove;
l’obiettivo di questa sezione non è presentare una completa revisione della
tematica, ma piuttosto evidenziare alcuni aspetti del CRM, per comprenderne il
significato, la struttura e soprattutto l’utilità per un’impresa.
143
I contributi che in letteratura sono emersi per definire cosa rappresenti il CRM
sono veramente molteplici e frammentati. Ciò dipende dalla mancanza di una
comune concettualizzazione del fenomeno. Persino tra i marketers ci sono
ambivalenze sulla sua natura; alcuni lo considerano come un insieme di strumenti
tecnologici specializzati, altri come un insieme di processi di business che si
focalizza sulla gestione della customer experience, altri ancora come una strategia
per la customer retention.
Per avanzare la conoscenza su questo concetto di crescente interesse ed
importanza, Zablah et al. nel 2004 revisionano ed analizzano le numerose opere
che caratterizzano la letteratura e giungono a definire 5 prospettive: CRM come
processo (Swift, 2000; Lambert, 2009; Finnegan e Currie, 2010), CRM come
strategia (Anderson e Stang, 2000; Dikbaş e Ercoşkun, 2006; Garrido-Moreno e
Padilla-Meléndez, 2011), CRM come filosofia (Fairhurst, 2000; Bueren et al.,
2004; Greenberg, 2010), CRM come potenzialità (Peppers et al., 1999; Boulding
et al., 2005) e CRM come strumento tecnologico (Gefen e Ridings, 2002;
Agarwal et al., 2004; Yang e Rhee, 2009).
La prima dimensione è quella che intende il CRM come una successione di
attività o di processi che permette di ottenere determinati risultati. La seconda
dimensione, quella che vede il CRM come strategia, per essere compresa
necessita di una premessa: i clienti sono classificati in base al valore che
potrebbero apportare all’impresa. In quest’ottica il CRM permette di definire i
144
clienti a cui dare priorità. La terza dimensione si riferisce all’accostamento tra il
CRM e la filosofia aziendale, nel senso che il customer relationship management
condiziona e permea l’impresa per la costruzione di relazioni di lungo periodo con
i clienti.
La quarta dimensione, il CRM come potenzialità, sta invece ad indicare come
l’acquisizione e lo sviluppo di un mix adeguato di risorse permetta di raggiungere
le performance volute e quindi come l’impresa abbia la capacità di gestire i
clienti.
L’ultima dimensione, vale a dire il CRM visto come strumento tecnologico, indica
come si possono individuare nel CRM un insieme di strumenti e sistemi che
permettono alle imprese di costruire relazioni con i clienti.
Figura IV.2.-1. Alcune definizioni di CRM delle prospettive dominanti
DIMENSIONE
PROCESSO
STRATEGIA
DEFINIZIONE
CRM is an enterprise approach to understanding and
influencing customer behavior through meaningful
communication to improve customer acquisition,
customer retention, customer loyalty and customer
profitability.
CRM is described as a macro-business process.
CRM is an ongoing evolutionary process that aims to
bring together diverse pieces of information about
customers, sales, marketing effectiveness and
responsiveness and market trends.
CRM is a business strategy designed to help an
enterprise understand and anticipate the needs of its
potential and current customers.
CRM is a knowledge driven strategy for Total Quality
Management, to enable sustainability of enterprises in
contemporary marketing arena with the extensive
support of ICT available.
CRM is a business strategy that aims to establish and
develop value-creating relationships with customers
based on knowledge.
145
AUTORE
Swift (2000)
Lambert (2009)
Finnegan e Currie
(2010)
Anderson e Stang
(2000)
Dibkaş e Ercoşkun
(2006)
Garrido-Moreno e
Padilla-Meléndez
(2011)
CRM is a way to run the business that, in some cases,
technology can make easier.
With the CRM philosophy aiming at creating an
integrated view of the customer across the enterprise,
these systems were connected and today from the
FILOSOFIA
building blocks of comprehensive integrated CRM
systems.
CRM is a philosophy and a business strategy supported
by a system and a technology designed to improve
human interaction in a business environment.
CRM means being willing and able to change your
behavior toward an individual customer based on what
the customer tells you and what else you know about
POTENZIALITÀ the customer.
CRM is the outcome of the continuing evolution and
integration of marketing ideas and newly available
data, technologies, and organizational forms.
CRMS are ERP modules that specialize in capturing,
integrating, managing, and analyzing customer data,
such as who, what, when, and how a customer did what
with the organization.
STRUMENTO
CRM as product or service targeted at internal
TECNOLOGICO customers.
CRM is an analytical tool by which marketing
strategies are established according to the results of
collecting and evaluating customer information via
chosen channels.
Fonte: elaborazione propria
Fairhurst (2000)
Bueren et al.
(2004)
Greenberg (2010)
Peppers et al.
(1999)
Boulding et al.
(2005)
Gefen e Ridings
(2002)
Agarwal et al.
(2004)
Yang e Rhee
(2008)
Sebbene le dimensioni individuate tendano a sostenere uno specifico punto di
vista, non è strano rintracciare concettualizzazioni che marcano più prospettive
contemporaneamente; ancor oggi tra i vari studiosi è in corso un dibattito riguardo
cosa il CRM rappresenti. Nonostante le molte visioni che non considerano il CRM
come strumento tecnologico, emerge che gli avanzamenti in IT hanno
significativamente influenzato e favorito l’utilizzo del CRM (Bueren et al., 2004).
Bose (2000), ad esempio, definisce il CRM come “an integration of technologies
and business process used to satisfy the needs of a customer during any given
interaction”.
146
Anche tra gli autori che considerano il CRM come una strategia, un processo, una
filosofia o che hanno una visione che integra più prospettive emerge chiaramente
che la tecnologia costituisce uno degli elementi abilitanti e fondamentali per
l’implementazione del CRM (Kotler et al., 2012), ma anche che la sola
applicazione per la gestione della relazione con i clienti, non garantisce alcun
risultato. Per avere successo, un progetto di CRM necessita di cambiamenti interni
alle aziende, soprattutto nel gestire le informazioni dei clienti (Campbell, 2003).
La maggior parte degli studi sul customer relationship management riguarda
contesti business-to-customer, ma molti autori hanno scritto in merito all’adozione
del sistema anche nel business-to-business (Gummesson, 2004; Ata e Toker,
2012; Johnson et al., 2012; Stein et al., 2013).
Il processo di CRM è, quindi, in continua evoluzione; da un sistema di PRM
(Partner Relationship Management) orientato ai partner, a un sistema di gestione
della relazione più generico, l’XRM, realizzato da fabbricanti di software e
concettualizzato da Radjou et al. (2001). Il primo, considerato come
un’applicazione specifica del CRM nel contesto business-to-business, è orientato
ai fornitori e ai distributori più importanti, cioè agli intermediari presenti nel
canale distributivo, da un lato per ridurre i costi di transazione e per attenuare i
comportamenti opportunistici (Storey e Kocabasoglu-Hillmer, 2013), dall’altro
per alimentare la creazione di valore per i clienti finali (Suh et al., 2005). Il
secondo, l’XRM, invece, è considerato da un lato come termine generico per
147
applicazioni specifiche e dall’altro come un’integrazione del CRM. Nel 2008,
comunque, ottiene grande attenzione quando viene presentato come Anything
Relationship Management, indicato con la sigla xRM e offerto da Microsoft come
nuovo software per la gestione di svariate relazioni con i clienti, i fornitori, gli
impiegati o i partner (Britsch et al., 2012).
Per concludere, si riportano le due definizioni che mostrano la prospettiva di
CRM che sarà seguita nel lavoro.
 “CRM is an enterprise approach to understanding and influencing customer
behavior through meaningful communication to improve customer acquisition,
customer retention, customer loyalty, and customer profitability” (Swift,
2000).
 “Il CRM è un processo integrato e strutturato per la gestione delle relazioni
con la clientela, il cui scopo è la costruzione di relazioni personalizzate di
lungo periodo con il cliente, in grado di aumentare la soddisfazione dei clienti
e, in ultima analisi, il valore per il cliente e per l’impresa” (Farinet e
Ploncher, 2002).
IV.3. Le caratteristiche strutturali del CRM
Per effettuare un esame di CRM è necessario indagare le caratteristiche
fondamentali della sua struttura.
148
Con il termine CRM si usa considerare tutti i processi aziendali realizzati dalle
aziende al fine di gestire i propri clienti, attraverso un’adeguata selezione, un
opportuno sviluppo e uno strutturato metodo di conservazione che permetta nel
lungo periodo una maggiore profittabilità.
Questo obiettivo può essere perseguito per mezzo di un progressivo
miglioramento della conoscenza ottenuta nell’impresa riguardo alle necessità, ai
comportamenti e ai valori dei clienti.
Per porre in essere un modello di CRM sono necessarie tre componenti
fondamentali (Farinet e Ploncher, 2002): l’architettura tecnologica, i contenuti e i
servizi e le relazioni.
IV.3.1. L’architettura tecnologica
Al centro di un modello di CRM c’è la scelta dei dati più opportuni che elaborati
possano tracciare il profilo dei clienti, è quindi, necessaria l’implementazione di
un’infrastruttura tecnologica.
Le infrastrutture dell’Information Technology sono una delle caratteristiche che
favoriscono lo sviluppo di un modello di customer loyalty, permettendo
l’elaborazione di un’enormità di dati e informazioni che provengono da molteplici
fonti.
149
Per architettura tecnologica si intendono quindi gli strumenti hardware, software e
i servizi che aumentano l’efficienza e l’efficacia del processo per mezzo del quale
l’azienda crea valore definendo conoscenza sui clienti.
L’infrastruttura tecnologica, invece, si compone di:
 database e datawarehouse, che raccolgono le informazioni sui clienti da
diverse fonti;
 sistemi di Business Intelligence, che a partire dai dati raccolti, elaborano
informazioni e conoscenza;
 strumenti di Customer Interaction System, che collegano l’impresa con i
clienti.
Figura IV.3.1.-1. L’infrastruttura tecnologica di una strategia di CRM
Fonte: Farinet e Ploncher (2002)
150
Il cuore del CRM è il Customer Warehouse, una piattaforma sulla quale vengono
archiviati i dati provenienti dalle diverse aree dell’organizzazione. Tali dati
devono essere aggiornati e integrati continuamente per supportare tutte le
operazioni di tipo decisionale.
Dal modello proposto emerge con chiarezza la possibilità di individuare due
principali dimensioni di CRM, il CRM operativo e il CRM analitico, anche se
nelle classificazioni di vari autori (Greenberg, 2001; Farinet e Ploncher, 2002;
Gebert et al., 2003; Khodakarami e Chan, 2014) è menzionato anche il CRM
collaborativo che rispetto agli altri svolge principalmente una funzione di
supporto.
Il CRM operativo ha l’obiettivo di favorire la comunicazione tra l’azienda e il
cliente, quindi, riguarda tutte le aree aziendali che si interfacciano con esso.
Appartengono a questa categoria sistemi di customer service, sistemi di vendita e
sistemi di marketing operativo. Le tecnologie utilizzate sono definite di frontoffice (Greenberg, 2001; Jayachandran et al., 2005; Josiassen et al., 2014) e sono i
call centers, i sistemi di personalizzazione dei siti e le tecnologie di sales force
management.
Il CRM analitico, invece, deve fornire una migliore comprensione dei
comportamenti, dei bisogni e delle preferenze dei clienti, analizzando e
interpretando i dati che provengono da sistemi ERP o da altri database aziendali.
Le applicazioni utilizzate nel CRM analitico sono definite di back-office
151
(Greenberg, 2001; Jayachandran et al., 2005; Josiassen et al., 2014) e sono
costituite da database e data warehouse, nei quali le informazioni sono archiviate,
e da sistemi di Business Intelligence, come il Data Mining o gli On Line
Analytical Program (OLAP) che, invece, interpretano le informazioni e le
trasformano in conoscenza.
IV.3.2. Il ruolo dei contenuti e dei servizi
I contenuti e i servizi posti in essere dall’impresa incarnano il concetto di valore
offerto ai clienti. Partendo delle informazioni archiviate nei datawarehouse e
datamining aziendali, opportunamente elaborate ed interpretate, l’azienda può
rendere l’offerta di contenuti e servizi adeguata ai vari target di clientela
individuati. Infatti, si fa percepire dal cliente come di maggior valore, adeguando i
prodotti e i servizi alla soddisfazione delle sue esigenze.
L’attività che conduce alla teorizzazione di valore per il cliente è molto varia e si
conclude con lo sviluppo di conoscenza sui bisogni espressi e latenti che i clienti
descrivono più o meno direttamente all’impresa.
Per accrescere la relazione di fiducia con i clienti è necessario conoscerne i
bisogni e le abitudini. Per ottenere tale scopo è indispensabile una relazione
stabile per realizzare valore, e al tempo stesso fidelizzare il cliente con un legame
che porta vantaggi ad entrambi.
152
La customizzazione può essere a diversi stadi, con un livello di complessità
progressiva e un risvolto sulla supply chain crescente. Può interessare prodotti,
servizi e canali.
Per sviluppare nelle imprese le nuove tecnologie, non si può prescindere dai
contenuti che si possono categorizzare in (Farinet e Ploncher, 2002):
 contenuti per attivare le relazioni;
 contenuti per fidelizzare le relazioni;
 contenuti per personalizzare le relazioni.
Da questa spiegazione emerge la complementarietà tra contenuti e obiettivi
relazionali.
IV.3.3. La centralità delle relazioni
La relazione con il cliente rappresenta il fulcro di una strategia di CRM. Il fine da
raggiungere è quello di aumentare il più possibile la durata del ciclo di vita del
cliente e quella del periodo in cui il rapporto con la clientela è proficuo cercando
di allargare i possibili servizi e prodotti offerti con attività di cross-selling e upselling.
L’intera organizzazione deve essere quindi mirata a rapporti di lungo periodo con
il cliente e non solo alla massimizzazione della redditività delle singole
transazioni nel breve periodo, sulla base di un’interazione bidirezionale con il
cliente stesso.
153
Lo strumento da utilizzare per la relazione con il cliente è quindi il marketing
relazionale, realizzato dall’intera struttura aziendale, utilizzando i numerosi
strumenti a disposizione dell’azienda in modo integrato.
Il marketing relazionale fornisce gli strumenti per disegnare e attuare l’interazione
(Ferrero, 1992). La gestione della relazione si baserà sulle caratteristiche del
cliente già acquisito, di quello ad esso correlato e di quelli prospettici. Affinché la
relazione sia efficace è importante che il cliente possa autopersonalizzare il
servizio.
Le fasi della gestione di una relazione di valore con il cliente sono le seguenti
(Farinet e Ploncher, 2002):
 si identifica il cliente, attraverso la descrizione del suo essere, dei suoi
comportamenti e dei suoi desideri;
 si classifica il cliente in base al valore che produrrà per l’impresa;
 si associa al cliente una strategia relazionale;
 si identificano tutti i canali che permettono una relazione con il singolo
cliente;
 si teorizza la gestione di un insieme di tecniche di apprendimento-adattamento
per aumentare la soddisfazione del cliente.
Ogni politica volta alla gestione delle relazioni con il cliente si caratterizza per tre
fondamentali principi:
154
1. segmentazione e profilazione della clientela: bisogna comprendere il valore di
ogni singolo cliente per l’impresa;
2. integrazione dei punti di contatto: tutti i canali attraverso i quali è possibile
contattare il cliente devono essere tra loro integrati;
3. integrazione dei processi: condividere le informazioni che derivano dai
processi di front-office e back-office affinché la visione globale sia diffusa
all’intero sistema azienda.
L’impresa può costruire relazioni di lungo periodo solo conoscendo le abitudini e
le preferenze d’acquisto dei consumatori. Quindi, per instaurare una relazione
personale con il singolo cliente, l’impresa deve avere il maggior il numero di
informazioni possibile.
IV.4. I risultati di una ricerca empirica
La presente ricerca, che percorre tutto il fil rouge dai rapporti nella supply chain,
dal marketing al marketing relazionale e dal trade marketing al CRM, ha lo scopo
di evidenziare come l’industria abbia la possibilità di gestire al meglio la relazione
con la distribuzione, condizione ormai indispensabile per ottenere buone
performance. A tal fine si presenta l’approccio evolutivo ed innovativo attuato dal
gruppo Fileni, operante nel settore agroalimentare, che nel corso di tre anni è
passato dall’inserire la funzione di trade marketing all’interno dell’organigramma
aziendale, allo sviluppare un progetto di buyer relationship management (BRM). I
155
distributori, infatti, non sono più dei meri intermediari, ma dei veri e propri
soggetti attivi del canale di distribuzione da considerare come clienti a tutti gli
effetti, verso i quali indirizzare vere e proprie strategie. E’ proprio in quest’ottica
che si inserisce il trade marketing. Strettamente connesso a questo, nell’ottica di
avere a disposizione più informazioni possibili per sviluppare conoscenza e per
impostare corrette attività, prende forma il progetto BRM che, oltre a migliorare e
rafforzare i legami con i clienti, favorisce il raggiungimento di performance
migliori.
Nei paragrafi seguenti sarà presentata la descrizione del caso empirico, suddiviso
in due parti principali: nella prima sarà affrontata la tematica riguardante lo
studio, l’analisi e l’implementazione della funzione di trade marketing, mentre
nella seconda sarà presentato l’iter seguito per lo sviluppo del progetto di BRM.
Il processo d’implementazione della funzione di trade marketing si compone di
due steps principali. Nel primo si è indagata la situazione attuale del gruppo
Fileni, raccogliendo informazioni dalle divisioni che presentano maggiori
similarità con il trade marketing, vale a dire il marketing e le vendite.
Quest’ultima, come emerso dall’analisi della letteratura e dai casi affrontati nel
capitolo precedente, essendo la più adatta per l’inserimento della funzione, è stata
oggetto di maggiori approfondimenti. Nella seconda fase, invece, si presenta il
vero e proprio inserimento della funzione nel gruppo in termini di posizionamento
nella struttura organizzativa e di definizione delle prime funzioni e attività.
156
Il progetto di BRM, che sarà affrontato nell’ultima sezione del capitolo, è utile per
le imprese industriali, in quanto, favorisce la creazione di una conoscenza
approfondita, non solo dei dati meramente commerciali, ma anche di informazioni
qualitative riguardanti i comportamenti e i bisogni dei clienti. Ciò permette di
istaurare relazioni più salde e durature e al tempo stesso di soddisfare i clienti in
maniera più efficace della concorrenza. Il percorso che porta all’implementazione
del sistema di BRM è rappresentato da un modello circolare al cui centro è
posizionato il buyer e attorno al quale si sviluppano le diverse fasi strategiche,
raggruppate in due macro fasi, quella di raccolta e analisi dei dati e quella
strategico-operativa.
Questo modello, oltre ad essere utile nella priatica aziendale in quanto favorisce
una migliore gestione dei clienti, permette, nella realtà accademica, di avanzare
gli studi in materia di CRM. L’elemento di novità è rappresentato dal focalizzare
l’attenzione su una specifica figura della distribuzione, il buyer.
L’intera ricerca è stata condotta avvalendosi del metodo del caso di studio (Yin,
1994; Eisenhaedt, 1989). Sono stati utilizzati strumenti di ricerca quali i
questionari, le interviste e le osservazioni indirette. Un’importante considerazione
riguarda il fatto che per condurre il presente lavoro si è agito in una logica di
action research (Vignali, 1988), considerando, quindi il coinvolgimento diretto
durante la realizzazione del progetto del gruppo Fileni.
157
IV.4.1. Il profilo del Gruppo Fileni
Fondato da Giovanni Fileni nel 1970, il gruppo Fileni è il primo produttore
italiano di carni avicole da allevamento biologico e il terzo player nel settore
avicunicolo nazionale.
I prodotti Fileni, a marchio Fileni, Fileni BIO, Club dei Galli, Almaverde BIO,
Sempre Domenica, Magic e I Maestri delle Carni sono presenti in tutte le insegne
della grande distribuzione moderna e nei canali della ristorazione e del normal
trade. Fileni fornisce, inoltre, carni bianche a grandi gruppi industriali di
trasformazione alimentare.
Ad oggi il Gruppo fattura 330 milioni di € (dato 2014), offre lavoro a più di 2.900
persone (1.749 dipendenti diretti, 1.200 facenti parte dell’indotto aziendale) e
produce oltre 100.000 tonnellate di carne ogni anno.
Alla base del successo, si pone la scelta strategica di combinare tradizione e
innovazione, nel segno della qualità, allineando modelli di business e offerta
produttiva ai nuovi trend di consumo.
La mission aziendale è diventare la marca delle carni bianche predominante nel
segmento del benessere e dell’alta gastronomia. Per raggiungere questo obiettivo,
il gruppo Fileni metterà in atto una strategia organizzata per creare valore verso il
trade.
158
IV.5. Il percorso del cambiamento: l’implementazione del trade marketing
La complessità dell’ambiente competitivo e il crescente potere della distribuzione
sono stati alcuni degli aspetti che hanno indotto il gruppo Fileni ad iniziare un
percorso di cambiamento, nell’ottica di creare maggiore valore verso il trade. La
scelta di adottare una strategia di trade marketing risulta ormai una necessità
indispensabile. Nelle grandi aziende, la presenza del trade marketing rappresenta
ormai la normalità. Il problema è però che spesso il concetto viene utilizzato in
contesti diversi, per indicare cose molto diverse, così come è diverso il lavoro del
trade marketing manager, o trade marketing specialist.
Per alcuni, ad esempio, trade marketing significa organizzare in-store promotions
negli ipermercati, per altri, invece, è sinonimo di pubblicità rivolte al trade mentre
per altri ancora vuol dire piazzare materiali promozionali all’interno dei negozi.
Ogni singola realtà, quindi, ha la sua visione di trade marketing, ma c’è coerenza
nel ritenere che è un processo che ha l’obiettivo di migliorare le probabilità di
successo dell’azienda nei confronti del trade. Approcciare il mercato in ottica di
trade marketing, significa capire di cosa hanno bisogno i clienti, per organizzare
di conseguenza la produzione e non produrre per poi vendere. Il mercato, quindi,
non deve essere più affrontato nell’ottica tipica di vendita.
Consapevole dell’importanza di quanto appena affermato, la divisione marketing
del gruppo Fileni, nello specifico le figure di direttore e di responsabile, ha deciso
di valutare l’inserimento di una definita e stabile funzione di trade marketing in
159
azienda, in quanto allo stato attuale le attività che rientrano nelle sue competenze,
in alcuni casi sono gestite dal marketing, in altri dalle vendite e in altri ancora non
sono neanche svolte. A partire dalla modifica della struttura organizzativa,
passando per una chiara definizione dei compiti e delle mansioni, si può arrivare
ad ottenere vantaggio competitivo e performance significative.
Il valore riconosciuto all’implementazione di questa funzione è testimoniato
dall’impegno dell’alta Direzione, che ha promosso lo sviluppo di questo progetto
incaricando il responsabile marketing di costituire un team di ricerca composto da
figure accademiche con competenze specifiche.
Il team ha un’idea molto precisa delle linee guida che dovranno caratterizzare il
progetto. In primo luogo si enfatizza l’importanza di una prima fase di analisi, in
cui si verifica se il gruppo Fileni sta svolgendo attività di business che in
letteratura sono identificate come competenza di trade marketing. La priorità è
posta, dunque, sulla comprensione delle attività svolte principalmente dalla
divisione vendite, in quanto la divisione marketing è orientata principalmente ad
attività di consumo. Alla fine di questa fase di analisi si procede alla definizione
della fase di startup, vale a dire la collocazione organizzativa e le prime attività di
competenza.
Analizziamo ora nel dettaglio la fase analitica. Inizialmente si è deciso di
intervistare varie figure dell’area vendite per cercare di capire quali
comportamenti e decisioni adottare per una successiva implementazione della
160
funzione di trade marketing. Lo strumento di rilevazione utilizzato è stato un
questionario, con domande prevalentemente a risposta chiusa con scala valutativa
di tipo numerico da 1 a 5, sottoposto a sette figure della divisione vendite, tre capi
canale (GD, DO e Tradizionale), due responsabili di mestiere (Biologico e Carni
Rosse), un Key Account Manager e un Coordinatore del Food Service.
E’ stata somministrata, inoltre, un’intervista dalla durata di circa 30 minuti ai
medesimi soggetti, in cui sono state analizzate e discusse le risposte del
questionario, per arrivare ad affrontare questioni di tipo più qualitativo.
Gli interrogativi a cui si è cercato di rispondere sono stati i seguenti:
 Quali sono le attività che svolge attualmente la divisione vendite?
 Quali sono le specifiche attività di trade marketing che svolge attualmente la
divisione vendite?
 Quali altre attività potrebbe fare e perché?
Per quanto riguarda la prima domanda, l’indagine conferma che la divisione
vendite si occupa principalmente di attività tipiche di vendita, di cui contattare i
clienti è la più frequente. Ci sono anche le attività di presa degli ordini e di
definizione degli sconti.
161
Figura IV.5.-1. Attività svolte più di frequente dalla divisione vendite
Visitare i punti vendita
Definire l'inserimento dei prodotti nei volantini
Definire i prezzi di listino
Definire gli sconti da applicare
Evadere gli ordini
Prendere gli ordini
Contattare i clienti
0
5
10
15
Giorni al mese
20
25
Le attività più strategiche sono: supportare il lancio di nuovi prodotti, proporre
progetti di collaborazione ai clienti e invitare i clienti in azienda.
Figura IV.5.-2. Grado d’importanza delle attività ritenute più strategiche
3,57
Partecipare a convegni/workshop di settore
3,86
Enfatizzare la presenza di promozioni di valore
4,29
Invitare i clienti in azienda
4,57
Proporre progetti di collaborazione
4,86
Supportare il lancio di nuovi prodotti
1
min
2
3
Grado d'importanza
4
5
max
C’è la consapevolezza che il distributore debba essere considerato come un
partner piuttosto che come un cliente (Fornari, 2009). In riferimento alle attività di
trade marketing, l’attenzione è stata focalizzata sulle attività a punto vendita.
Queste sono essenziali per le aziende non-leader, in quanto permettono di
162
catturare l’attenzione del consumatore finale durante il momento di acquisto. Nel
corso delle trattative con la distribuzione, non vengono avanzate richieste di
frequente. Occasionalmente si prova a definire il periodo di presenza dei prodotti
all’interno dell’assortimento dei clienti o si richiede un’esposizione preferenziale
all’interno del punto di vendita.
Figura IV.5.-3. Frequenza delle richieste avanzate alla distribuzione in fase di contrattazione
2,2
Numero di facing per le singole referenze
2,4
Livelli espositivi su cui posizionare le referenze
2,6
Esposizione prodotti in strutture fuori scaffale
3,4
Periodo presenza referenze in assortimento
1
2
mai
3
Grado di frequenza
4
5
sempre
Per quanto riguarda l’in store marketing, si nota che ci sono molte opportunità di
miglioramento. Attualmente o si realizzano in store promotions con hostess o si
cerca di posizionare i prodotti nelle aree promozionali dei punti di vendita. Le
strategie fondamentali, come l’utilizzo di materiali POP o l’agire sul numero di
facing o sul livello di esposizione, sono attuate raramente.
163
Figura IV.5.-4. Frequenza delle attività svolte nei punti vendita
Avancassa
1
Livelli espositivi
2
Numero di facing
2
Fasce sottoprezzo
2,2
Basette
2,25
Crowner
2,6
Stopper
3,2
Testata di gondola
3,4
Hostess e promoter
3,6
Vasche in aree promo
3,8
1
mai
2
3
4
Grado di frequenza
5
sempre
Questo può dipendere sia da fattori economici che di altra natura, quali la
resistenza dei distributori o l’uso improprio del materiale POP. Un altro aspetto da
migliorare riguarda i progetti di category management. Attualmente non sono in
essere progetti di category management, nonostante l’azienda possieda le
conoscenze e le competenze necessarie per svilupparli facilmente, dato che ne ha
già implementati diversi con alcuni clienti in passato. Ancora una volta emerge
come fattore chiave l’importanza delle relazioni (Costabile, 2001). Una
partnership tra il fornitore e il distributore è essenziale per la gestione delle
categorie, dall’analisi degli shopper, alla condivisione dei dati. Con i progetti di
category management, entrambi gli attori del canale di distribuzione otterrebbero
benefici, in termini di visibilità, rotazione e soprattutto marginalità.
164
L’ultimo aspetto riguarda il controllo delle attività nei punti di vendita, che rientra
nelle competenze dei key account manager. Nel momento dell’analisi questi, però,
non devono redigere relazioni scritte e visitano solamente il 25% dei punti di
vendita dei clienti. Gli indicatori per misurare l’efficacia delle attività nei punti di
vendita sono molteplici; i principali sono la presenza e la posizione dei prodotti,
oltre alla rottura di stock.
Figura IV.5.-5. Principali indicatori utilizzati per il monitoraggio delle attività nei punti vendita
Facing
Presenza materiale POP
Corretta gestione attività promozionale
Corretto utilizzo materiale POP
Rotture di stock
Corretta posizione dei prodotti
Presenza prodotti
0%
20%
40%
60%
80%
100%
Dall’analisi emerge che la divisione vendite occupa la maggior parte del tempo
nello svolgere attività tipiche di vendita, mentre solo occasionalmente e in
maniera poco strutturata, riesce a dedicarsi ad attività strategiche non prettamente
commerciali. Anche se le attività di in-store marketing sono ancora nella fase
iniziale, devono essere strutturate e gestite con più attenzione. Un prerequisito per
raggiungere questo obiettivo è l’atteggiamento verso i distributori.
Infine, il monitoraggio viene effettuato solo occasionalmente, sia attraverso
analisi desk, che ispezioni nei punti di vendita.
165
Alla luce di tutte queste considerazioni, il gruppo Fileni ha deciso di iniziare una
fase di test per sviluppare correttamente le attività di trade marketing. La
decisione è molto importante perché richiede cambiamenti non solo dei sistemi
operativi e di gestione, ma anche della struttura organizzativa. Questi non sono
facili da attuare e il coinvolgimento del top management è essenziale, sia per
sostenere questa nuova funzione, che per definirne la giusta posizione all’interno
dell’organizzazione aziendale (Predeval, 1983).
A livello organizzativo, il trade marketing è stato posizionato all’interno della
divisione vendite, con un team composto da 6 figure: un trade marketing manager,
un trade marketing analyst e 4 area visual merchandiser.
Nel paragrafo successivo si presentano le principali attività e mansioni di
competenza di questa nuova funzione aziendale.
IV.5.1. La strategia di trade marketing
La configurazione della funzione di trade marketing del gruppo Fileni ha assunto
sin da subito un ruolo rilevante, svolgendo attività nuove e allo stesso tempo
occupandosi di attività che in precedenza erano di competenza delle divisioni
marketing e vendite. Prima di affrontarne la discussione, è importante sottolineare
il ruolo di interconnessione che questa nuova funzione svolge all’interno
dell’azienda tra il marketing e le vendite. Spesso, infatti, tra le due divisioni si
instaura un rapporto conflittuale, a causa di posizioni e visioni differenti. Ad
166
esempio, nella definizione di strategie o attività da attuare, la divisione marketing
è ambiziosa, mentre la divisione vendite, più analitica e cinica, non è ottimista sul
possibile risultato. In queste circostanze, emerge l’importanza del ruolo di trade
marketing, che è quello di tradurre la negatività delle vendite in previsioni.
Laddove viene sollevato un rischio, viene esaminato con analisi approfondite con
l’obiettivo di eliminarlo.
Oltre a favorire l’interconnessione tra l’area marketing e l’area vendite, la
funzione di trade marketing svolge alcuni compiti, identificati in letteratura
all’interno della configurazione evoluta di trade marketing (Fornari, 2009):
 Fornisce supporto informativo per la progettazione dei piani commerciali
attraverso l’analisi di conto economico e la definizione del calendario delle
attività. Nello specifico, se da un lato si effettuano vere e proprie previsioni
attraverso simulazioni su investimenti, costi e ricavi, dall’altro si definiscono
le attività da realizzare in termini di prodotto, cliente, periodo, ecc.
 Supporta la divisione marketing per definire il posizionamento di prezzo dei
prodotti e la pianificazione delle attività di marketing raccogliendo ed
elaborando dati di provenienza sia interna che esterna. In particolare, definisce
il listino prezzi e organizza la gestione dei clienti, in termini di priorità e di
assortimenti.
 Supporta la divisione vendite nella fase di trattativa con i clienti, fornendo
informazioni sia quantitative che qualitative. Queste ultime possono
167
riguardare, ad esempio, trend di mercato, soluzioni che possono migliorare la
visibilità e l’accessibilità dei prodotti nei punti di vendita, ecc.
 Definisce test di merchandising con i clienti per valutare il posizionamento a
scaffale dei prodotti.
Questi compiti, in precedenza, erano svolti in maniera occasionale e non
strutturata e di conseguenza procuravano vantaggi limitati. Con questa nuova
organizzazione, invece, c’è maggiore chiarezza nella definizione e nell’esecuzione
delle mansioni e, inoltre, sono aumentate le potenzialità per ottenere performance
migliori.
Il vero aspetto evolutivo per il gruppo Fileni a seguito dell’introduzione della
funzione di trade marketing ha riguardato principalmente la ricerca di soluzioni
per migliorare le attività nei punti di vendita con l’obiettivo di fornire supporto ai
clienti, e di conseguenza cercare di avvicinare e soddisfare i consumatori finali. In
quest’ottica, sono state intraprese due nuove attività, l’analisi dei volantini
promozionali della distribuzione e il presidio dei punti di vendita i cui tratti
salienti saranno affrontati nei paragrafi successivi.
IV.5.2. L’analisi dei volantini promozionali
Il gruppo Fileni ha acquistato un software, In-Store Flyer STAT, che permette di
monitorare e analizzare i volantini promozionali. Questi, infatti, rappresentano
oggi un importantissimo strumento di comunicazione e di vendita; ogni anno in
168
Italia si stampano, infatti, circa 12 miliardi di volantini per pubblicizzare le offerte
della grande distribuzione. Se non vengono gestiti con la dovuta attenzione non
sono efficaci né per l’impresa industriale né per quella di distribuzione e
rappresentano solamente uno spreco di denaro.
Il software fornisce in tempo reale il panorama completo delle offerte
promozionali su volantino attive in Italia. Con l’accesso via web ad un portale
online, In-Store Flyer STAT permette di effettuare ricerche ed analisi mirate a
tutti i livelli di aggregazione, dal singolo prodotto su uno specifico punto vendita,
fino alla totalità delle offerte su tutte le insegne, nel periodo o nella zona
geografica definita. Lo strumento, quindi, si presta ad un utilizzo sia tattico che
strategico. In riferimento al primo c’è la possibilità di effettuare un focus sul
monitoraggio delle execution delle promozioni concordate con un orizzonte
temporale di tipo giornaliero/settimanale con un’attenzione particolare a indicatori
quali l’inserimento a volantino e la copertura territoriale. Caratteristiche
fondamentali sono la tempestività e la freschezza dei dati: una visione real-time
della presenza sui volantini e della relativa modalità di esecuzione è un fattore
abilitante per reazioni e contromosse efficaci. Un’ulteriore possibilità è
l’approfondire fenomeni, entrare nel dettaglio e rispondere a necessità ad hoc
generate dal contesto di business.
169
Figura IV.5.2.-1. La sezione di ricerca di In-Store Flyer STAT
L’utilizzo strategico dello strumento riguarda, invece, l’incrociare analisi per
generare insights, individuare tendenze e monitorare l’andamento dei flyer con
periodicità che vanno dal mese al trimestre.
In questo caso, l’indicatore fondamentale è rappresentato dalla quota di
penetrazione promozionale. Si tratta di un indicatore che riassume in un unico
numero diverse informazioni, quali la numerica di volantini, il potenziale dei
punti di vendita presidiati, la durata, il numero di referenze in promozione ed il
potenziale di sell-out di ogni singolo punto vendita. La sezione di analisi, si
170
compone di due parti, un’analisi veloce e generale e un’altra più complessa ma
personalizzabile in base alle specifiche esigenze.
Figura IV.5.2.-2. Un esempio di analisi quick di In-Store Flyer STAT
171
Figura IV.5.2.-3. La sezione di analisi advanced di In-Store Flyer STAT
Grazie a questo strumento, il gruppo Fileni ha potuto godere di una maggior
consapevolezza del fenomeno volantini. L’utilizzo sempre più frequente dello
strumento nell’operatività delle diverse divisioni ha fatto sì che si sia instaurato
uno scambio di nuove esigenze e di nuovi spunti di riflessione che il trade
marketing riporta di volta in volta. Queste danno luogo alla creazione di sempre
nuove reportistiche interne. Grazie a questo strumento, inoltre, i key account
manager (KAM) e gli area visual merchandiser (AVM) hanno la possibilità di
172
essere più consapevoli delle dinamiche delle attività promozionali in atto nel
mercato, migliorando il loro operato e arricchendo il loro know-how.
IV.5.3. Il presidio dei punti di vendita
Negli ultimi anni le grandi imprese industriali stanno effettuando elevati
investimenti di in-store marketing. Per un’impresa industriale la presenza sul
territorio rappresenta sempre più spesso un aspetto fondamentale in quanto
permette di:
 far percepire l’esistenza della propria offerta al consumatore al momento
dell’acquisto;
 mantenere coerenza nella qualità della propria offerta e rinforzare il valore
della marca;
 prolungare l’attività di comunicazione nei punti di vendita;
 raccogliere informazioni sui clienti e sui competitors.
Per fare ciò, comunque, è necessario un requisito fondamentale: una buona
relazione con la distribuzione. Infatti, per poter agire all’interno dei punti di
vendita della distribuzione, o si è un’azienda leader con dei marchi molto noti che
non possono mancare negli assortimenti o è necessario far comprendere alla
distribuzione che si possiedono competenze, capacità di analisi e una visione non
limitata ai propri prodotti ma all’intera categoria. L’obiettivo è quindi fornire
173
supporto al cliente non solo in termini di profittabilità ma anche di capacità di
attirare i consumatori.
La presenza nei punti vendita, oltre a favorire l’estensione delle attività di
marketing, permette di ricavare dati e informazioni molto importanti sia di tipo
quantitativo, come la presenza dei prodotti, che di tipo qualitativo, come anomalie
riguardanti la qualità, l’etichettatura o il confezionamento dei prodotti. Tali
informazioni quali-quantitative permettono di avere una visione sempre più chiara
e realistica sia del cliente finale che intermedio, con il fine ultimo di ottenere
migliori performance.
Le imprese industriali, per avere una buona execution a scaffale, stanno
effettuando investimenti sia economici che organizzativi. Se agli investimenti
segue una corretta execution nei punti di vendita, le strategie di marketing sono
destinate ad avere effetto sulle vendite e a contribuire al raggiungimento dei target
prefissati. Se invece ciò non avviene, le industrie rischiano di perdere il controllo
di ciò che succede a scaffale e di conseguenza di vanificare l’impegno e gli
investimenti profusi a sostegno delle diverse attività in store.
In quest’ottica, il gruppo Fileni ha attuato un progetto con l’obiettivo di assicurare
una corretta relazione con i punti vendita, attraverso un presidio costante e piani
visite mirati sulla base dell’importanza dei punti di vendita.
174
Nello specifico, è stata formata una squadra di visual merchandiser, composta da
personale diretto e indiretto, che nell’arco temporale di cinque settimane visita
oltre 600 punti di vendita.
Rispondendo al trade marketing manager e funzionalmente al trade marketing
analyst, la squadra di field assicura un corretto presidio del territorio su
supermercati e ipermercati, monitorando le azioni commerciali del gruppo Fileni e
dei competitors. Si interfaccia, inoltre, con i KAM sulla gestione di informazioni
riguardanti la presenza degli assortimenti concordati, i prezzi, le promozioni,
l’esposizione e il posizionamento dei competitors. Tutte queste informazioni sono
rilevate attraverso l’utilizzo di un palmare e vengono inviate giornalmente ad un
portale online con accesso via web.
La conoscenza dettagliata dell’assortimento di ogni punto vendita, che può
arrivare nel dettaglio fino alla tipologia di struttura espositiva, al numero di facing
o alla presenza di materiale POP, è molto importante soprattutto nei confronti dei
grandi clienti, nei i quali avviene una consegna alle centrali d’acquisto e non ai
punti vendita.
Con la presenza nel territorio, si riesce quindi ad avere una visione più chiara. E’
possibile, ad esempio, incrociare i dati interni con quelli provenienti dall’esterno
e, effettuando i dovuti ragionamenti, definire strategie ed azioni.
175
Il presidio dei punti vendita permette, inoltre, di monitorare l’andamento dei
progetti realizzati ad hoc con i clienti, con la possibilità di apportare, se necessari,
aggiustamenti in itinere.
Nella grande distribuzione, se non si è un’impresa leader con marchi affermati, è
difficile convincere i clienti ad attuare progetti particolari, per cui qualsiasi attività
si voglia realizzare deve essere ben strutturata, e prima di essere indirizzata alle
realtà più grandi, necessita di essere sperimentata in quelle più piccole. Un
esempio di successo, è rappresentato dal progetto Fileni Bio, che dopo essere stato
testato in un cliente, è stato replicato in altri. Si tratta di un progetto di valore, che
permette agli stessi clienti che lo condividono di ottenere buoni risultati. Il gruppo
Fileni, infatti, mette a disposizione del cliente una conoscenza molto dettagliata
riguardante i dati e le tendenze del mercato, ma anche la tipologia di esposizione e
il materiale comunicazionale. La visibilità nei punti di vendita è, infatti, un
elemento fondamentale.
176
Figura IV.5.3.-1. Esempio di display di un ipermercato ad alta visibilità e valore
A questo punto emergono due riflessioni inerenti al presidio dei punti di vendita.
La prima riguarda le attività di monitoraggio; la mera fase operativa di controllo è
importante, in quanto da un lato permette di valutare l’efficacia delle misure
implementate e dall’altro offre l’opportunità di studiare le azioni dei competitors.
La seconda riguarda le attività di in-store marketing; il merchandising o l’utilizzo
del materiale comunicazionale rappresenta la giusta conclusione, se la parte a
monte, vale a dire la relazione con i clienti, è stata ben sviluppata. Ad esempio, se
il fornitore non si è dimostrato competente, il cliente non gli concede
l’autorizzazione per operare nei suoi punti di vendita.
Detto ciò, le fasi da seguire per operare correttamente sono le seguenti:
1. analizzare i clienti;
177
2. definire chiaramente i progetti da realizzare;
3. co-creare i progetti con la distribuzione;
4. monitorare i risultati.
Nell’ottica di realizzare al meglio la prima fase, indispensabile per costruire un
percorso di valore, il gruppo Fileni, consapevole che non è possibile porre in
essere le medesime attività con tutti i clienti, ha implementato un innovativo
sistema di CRM, il buyer relationship management, che sarà presentato in
dettaglio nel paragrafo seguente.
IV.6. Il progetto di buyer relationship management
Il gruppo Fileni, a seguito delle considerazioni emerse dopo l’introduzione della
funzione di trade marketing, su spinta dell’area marketing, nello specifico delle
figure di direttore e di responsabile, ha intrapreso un percorso per valutare lo
sviluppo di un progetto di BRM, cioè un particolare sistema di CRM indirizzato ai
buyers.
L’area marketing sin dall’inizio ha assunto un ruolo primario nella gestione del
progetto e al fine di coinvolgere e rendere partecipe l’intera organizzazione
aziendale, ha organizzato un brainstorming a cui sono stati invitati il management
aziendale, i rappresentanti principali delle aree marketing e vendite e due figure
accademiche. L’obiettivo è di far emergere sia lo stato dell’arte che la necessità di
migliorare la relazione con la distribuzione, attraverso l’applicazione di concetti
178
discussi ampiamente in letteratura (Gummesson, 2004; Ata e Toker, 2012;
Johnson et al., 2012; Stein et al., 2013), come il CRM.
Quello che si vuole dimostrare è che per creare conoscenza non è sufficiente
limitarsi all’analisi di dati meramente commerciali, ma sono necessarie altre
informazioni, generate
anche da comunicazioni dirette o da rapporti
interpersonali.
L’obiettivo del progetto di BRM è, quindi, da un lato la raccolta di dati e
informazioni e dall’altro la diffusione di conoscenza per supportare le attività
dell’area marketing e vendite.
L’aspetto innovativo sta nel focalizzare l’attenzione su un particolare attore della
distribuzione, il buyer, che permette di iniziare qualsiasi trattativa con i clienti; per
l’impresa industriale è ormai indispensabile ragionare in ottica buyer centrica.
A partire dall’analisi dei buyer, si è cercato di creare una visione unitaria dei
clienti, in quanto allo stato dell’analisi sono contemporaneamente approcciati da
più figure aziendali senza una chiara e mirata azione condivisa.
Tutte queste considerazioni e riflessioni hanno creato i presupposti per
intraprendere il progetto di BRM.
Dopo la fase di studio preliminare, le fasi che distinguono il percorso di
implementazione del processo possono essere così sintetizzate:
 acquisizione di dati e informazioni;
 trasformazione dei dati e delle informazioni in conoscenza;
179
 segmentazione e profilazione;
 definizione di strategie e azioni;
 valutazione delle performance.
Figura IV.6.-1. Le fasi del processo di BRM
Fonte: adattamento da Farinet e Ploncher (2002)
IV.6.1. Acquisizione di dati e informazioni
In questa prima fase viene raccolto il maggior numero di informazioni e di dati
disponibili sui buyer. Ciò che si intende acquisire, non riguarda esclusivamente
l’aspetto contabile, ma anche alcune caratteristiche specifiche, poiché attraverso
queste l’impresa può individuare con più chiarezza le strategie da mettere in atto.
Infatti, attraverso un’approfondita e chiara descrizione, ha la possibilità di
180
identificare i profili dei buyers che possono essere accomunati, in quanto
caratterizzati da comportamenti e caratteristiche simili. L’acquisizione delle
informazioni avviene attraverso la creazione di una scheda tecnica, suddivisa in
quattro sezioni: dati personali, ruolo e livello di competenze, dati di acquisti e
strategie e dati riguardanti la soddisfazione nella relazione.
Figura IV.6.1.-1. Scheda tecnica del buyer
Fonte: elaborazione propria
Nella fase di test è stata realizzata l’analisi su un campione di 30 buyers
appartenenti a vari canali/settori. Inizialmente, le informazioni sono state acquisite
181
somministrando questionari face-to-face a risposta chiusa a scelta multipla a 3
responsabili di canale (responsabile GD, responsabile DO e responsabile
Gastronomia) del gruppo Fileni che settimanalmente si interfacciano con i buyers
oggetto d’analisi. Successivamente, per verificare se le percezioni emerse
dall’analisi autoreferenziale fossero corrette, sono stati somministrati questionari a
risposta chiusa a scelta multipla tramite posta elettronica direttamente ai buyers.
Infine, per avere una visione a 360° sul buyer, sono stati integrati i dati
provenienti dai database interni.
Tutte queste informazioni, provenienti da diverse fonti, sono state raggruppate in
un unico database al fine di produrre un efficace sistema per successive fasi di
analisi e di clusterizzazione.
IV.6.2. Trasformazione dei dati e delle informazioni in conoscenza
L’azienda che intende porre al centro della propria attenzione il buyer, non si deve
limitare all’acquisizione di una molteplicità di dati, ma deve anche saperli gestire,
affinché da essi possa trarne il massimo beneficio. L’obiettivo diviene pertanto
quello di trasformare dati e informazioni in conoscenza, strategicamente utile per
prendere decisioni aziendali ed operative. Le varie informazioni raccolte vengono
analizzate al fine di individuare quali sono i bisogni espliciti che i buyers e di
conseguenza i clienti vogliono soddisfare. Da tutte queste considerazioni prende
forma il buyer relationship management (BRM), un sistema che crea nuova
182
conoscenza e che supporta le attività delle aree vendite, marketing e trade
marketing.
Figura IV.6.2.-1. Schema del BRM
Fonte: elaborazione propria
Le vendite traggono vantaggio nella gestione della trattativa, le altre, il marketing
e il trade marketing, invece, nel definire le attività da attuare, in quanto si può già
ipotizzare a chi potrebbero interessare e a chi non (Altavilla e Bolwijn, 2007).
Infatti, osservando i dati contenuti nel database, l’impresa può cercare di
prevedere quali saranno i desideri futuri dei buyers, le loro richieste e i
comportamenti d’acquisto. Adottando questo comportamento proattivo, l’impresa
ha la possibilità di muoversi in anticipo rispetto alla concorrenza, ottenendo un
forte vantaggio competitivo.
183
IV.6.3. Segmentazione e profilazione
Una volta raccolti i dati e opportunamente trasformati in conoscenza, l’impresa
deve cercare di capire quali sono i clienti in grado di apportare maggiore valore,
ovvero, deve identificare quelli che le consentiranno di ottenere i maggiori profitti
e che le permetteranno di instaurare e mantenere solide relazioni.
Dopo aver effettuato un’analisi complessiva delle grandezze principali, sono state
costruite diverse linee del valore e mappe di posizionamento, che hanno permesso
di individuare le variabili per realizzare la segmentazione dei buyers. Dalla
letteratura, infatti, emerge spesso che le scelte di posizionamento e di
segmentazione sono tra loro interdipendenti e adottate in maniera congiunta
(Burresi et al., 2006).
La segmentazione dei buyers rappresenta il cuore del BRM ed è, inoltre, una fase
ad elevato contenuto strategico, in quanto dalla modalità di segmentazione
derivano implicazioni importanti, come l’individuazione dei clienti chiave sui
quali focalizzare le iniziative e gli investimenti, la comprensione delle loro
aspettative attuali e potenziali e, in base a ciò, la conseguente declinazione di
offerte personalizzate (Altavilla e Bolwijn, 2007).
In questo case study, i 30 buyers oggetto d’analisi sono stati raggruppati in 4
cluster, omogenei internamente e eterogenei esternamente, e le variabili per
definirli sono state la marginalità, il grado di collaborazione, il grado di fedeltà e il
grado di innovazione, perché più significative. Ogni segmento si caratterizza per
184
particolari aspetti, quindi i buyers appartenenti a profili diversi richiedono una
gestione differente. Inoltre, i profili emersi sono rappresentativi dell’intero
universo dei buyers, per cui quando si estenderà l’analisi, sicuramente le
caratteristiche che emergeranno faranno collocare le varie figure in uno dei
segmenti già individuati.
Il profilo con le caratteristiche più vantaggiose è rappresentato dal collaborativo;
l’estremo opposto, invece, è occupato dal promotion sensitive, mentre nelle
situazioni intermedie sono posizionati il duro negoziatore e il buyer fantasma. Di
seguito si descrivono in breve le caratteristiche di ogni singolo profilo.
1) Il collaborativo è caratterizzato da un’elevata flessibilità, apertura alle
innovazioni, fedeltà e marginalità. E’ il profilo migliore. Con i buyers che
hanno queste caratteristiche si può istaurare un rapporto che permetta di
ottenere benefici, creando valore e realizzando progetti in comune; rappresenta,
quindi, il partner del futuro.
2) Il promotion sensitive non è collaborativo, fedele, aperto alle innovazioni e non
permette di ottenere un’elevata marginalità. E’ il profilo peggiore e i buyers che
rientrano in questo cluster hanno molto spesso comportamenti opportunistici.
3) Il duro negoziatore non è collaborativo, fedele ed è inflessibile nella
contrattazione. Nonostante ciò, ha un elevato grado di apertura alle innovazioni
e permette di ottenere un’elevata marginalità. Appartengono a questo profilo
abili negoziatori che in fase di trattativa non accettano compromessi.
185
4) Il buyer fantasma è collaborativo e fedele, non aperto all’innovazione e non
permette di ottenere un’elevata marginalità. I buyers che appartengono a questo
segmento ancora non hanno un’identità ben delineata, per cui devono essere
analizzati e monitorati continuamente per valutarne la possibilità di sviluppo e
di passaggio ad un profilo migliore.
Figura IV.6.3.-1. I profili dei buyers
Fonte: elaborazione propria
IV.6.4. Definizione di strategie e azioni
A questo punto si possiede quanto necessario per fare in modo che il progetto
diventi operativo. In ottica aziendale, il BRM, attraverso la conoscenza che mette
186
a disposizione, può favorire la migliore gestione dei buyers e di conseguenza dei
clienti. Questa, non è fine a se stessa, ma ha lo scopo di aumentare le performance
dei clienti. L’obiettivo è, quindi, cercare di definire ed attuare strategie e azioni
tali, da permettere uno spostamento del maggior numero di clienti nei quadranti di
destra della matrice utilizzata per la segmentazione, vale a dire quelli ad alta
marginalità. In questa prospettiva, il gruppo Fileni può iniziare a ragionare in
termini di definizione di azioni “a cascata” da rivolgere ai buyers; a partire da
azioni generali da rivolgere a tutti, passando per azioni da indirizzare a coloro che
hanno caratteristiche e comportamenti simili, per arrivare ad azioni personalizzate
per i singoli. Alcuni esempi pratici sono: dall’organizzazione di convegni e
seminari su argomenti e tematiche emergenti e di settore per tutti i clienti,
all’attuazione di progetti specifici, come il Fileni Bio, per i clienti che rientrano in
un definito profilo, per giungere al testare nuovi prodotti da lanciare sul mercato o
alla realizzazione di prodotti a marchio commerciale per singoli clienti.
Con il supporto della funzione di trade marketing, la divisione marketing può
sfruttare l’implementazione del BRM per la creazione dei piani di marketing, per
la gestione del budget o per la definizione di programmi di fidelizzazione.
La divisione vendite, invece, oltre a gestire la relazione in modo migliore, può
avere una visione chiara sulle azioni prioritarie da intraprendere e sugli scopi da
raggiungere, come accrescere i ricavi, i margini, la fidelizzazione, la customer
satisfation, ecc.
187
IV.6.5. Valutazione delle performance
A seguito dell’attuazione delle azioni e delle strategie, è necessaria un’attività di
monitoraggio per accertarsi se gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti.
Ciò permette di interrompere determinate azioni se non si riscontrano risultati
positivi o di incentivarne altre se comportano il raggiungimento di esiti ben
migliori di quelli sperati.
Questi controlli possono essere a priori, nel mentre o a posteriori.
Nel primo si controlla fin dall’inizio il perseguimento delle iniziative e ai primi
risultati non conformi alle proprie aspettative, si attua un’azione correttiva. Nel
secondo, invece, dopo un periodo stabilito, si ricorre ad un attento controllo e, se
necessario, si interviene immediatamente per permettere il raggiungimento degli
obiettivi. Nell’ultimo, quello a posteriori, il controllo avviene a risultati ottenuti.
In questo caso non è possibile attuare azioni correttive, ma si mettono in atto
iniziative alternative che permettono di evitare gli errori precedentemente
commessi.
Oltre all’attività di controllo è necessario continuare ad implementare il processo
di sviluppo di nuova conoscenza sui clienti, in quanto i loro bisogni sono in
continua evoluzione. Solo in questo modo l’impresa sarà in grado di modificare
l’offerta per soddisfare adeguatamente le necessità dei clienti. Si ritorna dunque
alla fase iniziale del percorso, il quale sarà ripreso generando un ciclo continuo.
188
IV.7. Le implicazioni organizzative
Per lo sviluppo del progetto di BRM è stato necessario il coinvolgimento di
diverse aree dell’organizzazione, in particolare il marketing e le vendite,
richiedendo nelle fasi iniziali un notevole sforzo sia organizzativo che culturale.
Nonostante la consapevolezza dell’importanza della figura del buyer, sviluppare
una visione buyer centrica, traslando la visione cliente centrica proposta da Levitt
(1960), non è stato semplice ed immediato. In quest’ottica, il buyer, infatti, è da
intendere come il punto di partenza per poter definire e sviluppare qualsiasi
strategia o attività. Nel gruppo Fileni, fondamentale è stato il supporto del vertice
aziendale per rendere attuativo questo nuovo orientamento. Questo percorso di
cambiamento, iniziato con l’introduzione del trade marketing, è infatti
indispensabile per riuscire ad affrontare nella maniera più appropriata possibile un
mercato in continua evoluzione.
Un elemento che ha comportato un primo cambiamento è rappresentato dalla
costituzione di un team dedicato a seguire il progetto. Importante è stata
l’interazione tra l’area marketing e figure accademiche per lo sviluppo del
progetto. La definizione di un team dedicato ha rappresentato un importante
passaggio, per sancire la volontà di investire in un’iniziativa di lungo periodo.
Inoltre, il team ha rappresentato un punto di riferimento all’interno
dell’organizzazione, in quanto ha svolto una funzione di raccordo tra il top
management e le altre funzioni aziendali.
189
In questa fase di startup, si è cercato di valutare quali effetti possa creare un
sistema di BRM, nel senso di definire quale utilizzo possa essere fatto della
conoscenza generata nell’ottica di migliorare la relazione e la gestione dei clienti.
Da un punto di vista operativo, è stato necessario un cambiamento delle routine
aziendali per far convergere tutte le informazioni disponibili sui buyers in un
unico database. E’ necessario ricercare, quindi, una forte integrazione e,
contemporaneamente, un’elevata flessibilità e dinamicità. In questo modo è stato
possibile sviluppare conoscenza che le aree aziendali, marketing e vendite in
primis, hanno potuto utilizzare per creare valore ai clienti, producendo contenuti o
servizi specifici. Nel caso empirico, si è deciso di sviluppare inizialmente il
progetto in termini di valutazione e di ricerca dei possibili vantaggi e soluzioni da
adottare, per considerare solamente in una fase successiva l’investimento e
l’introduzione di specifiche tecnologie di CRM, analizzando le soluzioni proposte
dai vari venditori di software. Dall’analisi della letteratura emerge, infatti, che la
tecnologia è una componente fondamentale per implementare una strategia di
CRM (Farinet e Ploncher, 2002), ma anche che ci sono elevati casi di insuccesso,
per i quali difficilmente viene giustificato il costo dell’investimento (Lindgreen et
al., 2006).
Nonostante la spiegazione delle finalità del progetto di BRM e dei possibili
vantaggi pratici per l’impresa, si è riscontrato un certo scetticismo da parte di
alcune figure dell’area vendite, in quanto non sono riuscite a comprenderne le
190
elevate potenzialità e l’effettiva utilità. Una problematica rilevante è legata quindi
all’aspetto culturale. Mentre alcuni considerano il BRM come uno strumento di
marketing utile per azioni future, altri ritengono d’utilità solamente una limitata
parte delle informazioni presenti nel sistema, soprattutto per la gestione delle
relazioni. Altri ancora, invece, considerano il BRM come un semplice database in
cui non ci sono informazioni strategiche, dunque non ne vedono l’utilità per il
miglioramento della relazione con i clienti. Ad esempio, ritengono che il sistema,
oltre a generare mansioni aggiuntive come l’inserimento dei dati, non apporti
vantaggi nella gestione delle relazioni. Piuttosto, pensano che i fattori che la
influenzano e la migliorano sono l’esperienza maturata, le informazioni scambiate
informalmente e il rapporto costruito nel tempo.
Per affrontare proattivamente questa tipologia di contrasti di stampo culturale, è
stato investito del tempo in attività formative riguardanti principalmente i concetti
di marketing relazionale e di trade marketing durante le fasi di sviluppo del
progetto, per far in modo che all’interno del gruppo Fileni si crei un orientamento
e una mentalità buyer centrica.
La presenza di quest’ostacolo, comunque, non deve sorprendere; è infatti
necessario del tempo per far sì che il BRM sia assimilato dall’intera
organizzazione. Va comunque evidenziato che l’elemento fondamentale per
rendere il BRM efficace è il fattore umano, nel senso di avere il supporto e il
coinvolgimento del personale nelle varie iniziative e attività. Un’azienda, infatti,
191
non può sviluppare ed utilizzare un sistema buyer-focused senza l’appoggio di
personale motivato (Payne e Frow, 2006), ma soprattutto che ha fiducia e che
crede nelle decisioni aziendali.
192
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Il presente lavoro può risultare utile per comprendere il modo in cui le imprese
industriali possano migliorare la relazione e, soprattutto, la gestione del rapporto
con le imprese commerciali, che negli ultimi anni stanno occupando una posizione
dominante all’interno della supply chain. Queste, infatti, non sono più considerate
dei meri attori del canale distributivo, ma dei veri e propri clienti da soddisfare o
con cui sviluppare strategie di collaborazione.
La presente ricerca, che ha percorso tutto il fil rouge dei rapporti nella supply
chain, passando prima per il marketing relazionale e poi per il trade marketing, è
giunta a presentare e concettualizzare un particolare ed innovativo sistema di
CRM, il buyer relationship management (BRM), capace di fornire il supporto
necessario per migliorare la relazione con la distribuzione.
Il concetto di relazione ha rappresentato, quindi, l’elemento cardine della ricerca,
essendo un vero e proprio patrimonio (Costabile, 2001) e la chiave di successo per
le imprese industriali (Giacomazzi, 2002).
Collocandosi la teorizzazione della relazione all’interno di svariati ambiti di
studio, l’analisi della letteratura ha permesso di identificare le tematiche con cui
analizzarla e approfondirla.
Il primo grande tema della ricerca è il trade marketing, molto importante nella
pratica aziendale e discusso in ambito accademico soprattutto negli anni della sua
introduzione, tra il 1990 e il 2000. Per le imprese industriali, la presenza del trade
193
marketing è ormai imprescindibile, anche se viene considerato, strutturato e
definito in base a peculiari esigenze, livelli di sviluppo o contesti di riferimento,
non esistendo una definizione e interpretazione unica. A mio avviso la più
appropriata è la visione di Fornari, che usa il termine per identificare l’insieme di
azioni eseguite dai fornitori per facilitare la relazione con i retailers. Il trade
marketing rappresenta, quindi, un orientamento strategico e non una specifica
funzione aziendale. L’indagine empirica, rivolta a quattro aziende ha permesso di
verificare quanto riscontrato in letteratura riguardo al trade marketing, cioè la
mancanza di una definizione comune e l’importanza per l’impresa (Predeval
1983; Beltramini e Gaeta, 1998; Vicari e Castaldo, 2005). Nelle aziende più
strutturate, la collocazione organizzativa della funzione è all’interno della
divisione commerciale, pari livello con le divisioni marketing e vendite. Le
attività principali sono sia strategiche che operative, tra loro interdipendentemente
legate: inizialmente le attività strategiche sono essenziali per supportare le
decisioni operative e successivamente le attività di field possono proporre
aggiustamenti per future implementazioni (Vicari e Castaldo, 2005). L’indagine
empirica, inoltre, conferma l’importanza del coinvolgimento del top management
nello sponsorizzare la funzione e nel definirne la giusta posizione all’interno
dell’organizzazione aziendale (Predeval, 1983). I limiti di questa ricerca sono
ricondotti principalmente alle scelte metodologiche effettuate. L’investigazione,
infatti, si è focalizzata su imprese industriali che sono leader nei loro business e di
194
conseguenza hanno il potere per gestire efficacemente la relazione con la
distribuzione. Al contrario, le piccole e medie imprese si trovano in una posizione
differente, trovando maggiori difficoltà nell’impegnarsi con i grandi retailer,
specialmente riguardo alle attività di in-store marketing. In quest’ottica, una
prospettiva di sviluppo potrebbe essere l’analisi della funzione di trade marketing
nelle aziende di piccole e medie dimensioni. Un’altra prospettiva di sviluppo
potrebbe riguardare, invece, lo studio della percezione e dell’adeguatezza delle
pratiche di trade marketing dalla prospettiva del distributore.
Analizzato il trade marketing nella letteratura e avendone verificato l’applicazione
pratica nei quattro casi empirici, ho affrontato l’analisi del gruppo Fileni. In tale
contesto si è innanzitutto implementato un modello di trade marketing, per poi
sviluppare un sistema che possa esserne di supporto, il BRM.
L’obiettivo è, quindi, di individuare le implicazioni e i riflessi organizzativi, che
le imprese potrebbero vivere implementando da un lato un progetto di trade
marketing e dall’altro un innovativo sistema capace di creare e sviluppare
conoscenza, il BRM. Un elemento di convergenza con la precedente indagine è
rappresentato dall’importanza del coinvolgimento del top management, nel
momento in cui si effettuano cambiamenti di rilievo. Infatti, l’analisi empirica
dimostra che l’implementazione del trade marketing prima e del BRM poi non
segue un percorso semplice e lineare.
195
L’analisi del caso è molto interessante, perché permette di rispondere alle
domande di ricerca.
Le imprese industriali, infatti, prestando attenzione alle esigenze e ai bisogni dei
clienti, sono in grado di produrre beni, non per rispondere alle sole opportunità
aziendali, ma alle necessità di questi e di conseguenza al mercato. Agendo
seguendo questa logica, le imprese trade marketing oriented, oltre a rafforzare i
legami con le imprese di distribuzione, hanno anche la possibilità di sviluppare
alleanze strategiche o addirittura partnership.
Delle riflessioni sul trade marketing, ha preso avvio lo sviluppo del modello di
BRM, il cui scopo è integrare in modo strutturato tutte le informazioni sui clienti,
a partire dai buyer, in modo da poterle analizzare e comprendere, per istaurare
relazioni ben salde, che permettono di aumentare la soddisfazione e le
performance di entrambe le parti, le aziende di produzione e di distribuzione.
Il BRM e il trade marketing sono quindi strettamente connessi; il primo permette
di immagazzinare informazioni che, trasformate in conoscenza, permettono al
secondo di attuare specifiche azioni.
Il caso empirico ha effettivamente dimostrato come siano individuabili vantaggi,
in ordine al miglioramento della gestione della relazione. Un interessante risultato
della ricerca ha evidenziato che la maggiore conoscenza ottenibile, mediante il
BRM, può essere utilizzata per anticipare i bisogni e le attese dei clienti, oltre che
per permettere di definire specifiche strategie o azioni da attuare. La gestione
196
della conoscenza e l’uso della stessa, al fine di migliorare la relazione con il
cliente, è stata una tematica affrontata senza prendere in considerazione il ruolo
che potrebbe svolgere la tecnologica. L’analisi ha voluto evidenziare come sia
necessario, dapprima sviluppare il progetto in termini di ricerca delle soluzioni più
adatte per rispondere alle richieste dell’area vendite, marketing e trade marketing,
poi entrare in azione direttamente con l’area tecnica dei sistemi informativi.
Le due aree, vendite e marketing, avendo a disposizione informazioni molto
approfondite, da dati meramente commerciali a competenze e capacità personali,
su ogni singolo buyer, traggono ciascuna i propri vantaggi: la prima nella gestione
della trattativa e la seconda nel definire le attività, in quanto può già ipotizzare a
chi potrebbero interessare e a chi non.
Realizzare un corretto ed ampio database in cui far convogliare informazioni da
più fonti è quindi il primo step. Centralizzate tutte le informazioni nel BRM,
consegue che ogni singolo interessato ha la possibilità di estrapolare facilmente e
velocemente i dati di cui necessita.
Realizzando l’indagine empirica si è dimostrata la potenzialità che un sistema di
BRM ha all’interno di un’impresa industriale. È ovvio che una corretta
implementazione comporta un cambiamento nelle routine aziendali. Infatti, dopo
aver inserito tutte le informazioni disponibili sui buyers in un database è
necessario mantenerle aggiornate.
197
Un ostacolo rilevato in riferimento al BRM riguarda la percezione della sua
effettiva utilità. Alcune figure dell’area vendite, infatti, ritengono che il sistema
non apporti vantaggi nella gestione delle relazioni. Piuttosto, pensano che i fattori
che la influenzano e la migliorano sono solo l’esperienza maturata, le
informazioni scambiate informalmente e il rapporto costruito nel tempo. Ciò,
comunque, non deve sorprendere; è infatti necessario del tempo per far sì che il
BRM sia assimilato dall’intera organizzazione.
I limiti della ricerca sono ricondotti principalmente alle scelte metodologiche
effettuate. Infatti, è stata limitata l’osservazione ad un caso aziendale. Una
prospettiva di sviluppo potrebbe essere quindi l’ampliamento del campione da
analizzare, con l’obiettivo di verificare le conclusioni qui emerse in termini di
profilazione dei buyers, sia dello stesso settore aziendale sia di altri.
Un’altra prospettiva di sviluppo potrebbe riguardare lo studio del sistema di BRM,
dopo un anno dalla sua introduzione, con l’obiettivo di verificarne l’effettiva
utilità.
La ricerca, infine, consiglia un insieme di avanzamenti che l’azienda può attuare
se intende adottare il sistema di BRM. Inizialmente sarà necessario l’inserimento
del database all’interno della intranet aziendale, in modo da poter testare
operativamente la validità del progetto realizzato. Saranno creati per gli utenti
diversi profili, ad esempio profilo marketing e profilo vendite, in modo che ogni
utente avrà l’autorizzazione per accedere solamente alle informazioni di sua
198
competenza. In questo modo si cercherà anche di dimostrare agli scettici l’utilità
dello strumento. Successivamente si dovrà ampliare il campione, estendendo
l’analisi a tutti i buyers, con l’obiettivo di verificare la correttezza della
profilazione e concretizzare definitivamente l’utilizzo del BRM.
Un’interessante conclusione del lavoro si lega al contributo significativo offerto
per la letteratura esistente. La prima parte infatti, quella relativa al trade
marketing, permette di aggiornare ed avanzare gli studi di una tematica che,
nonostante l’importanza nel contesto professionale, attualmente non è
frequentemente affrontata nel contesto accademico (Scattolini e Gregori, 2015).
La seconda parte, invece, quella relativa al BRM, permette di concettualizzare un
nuovo modello di CRM, nel contesto business to business, centrato su una
specifica figura della distribuzione, il buyer, che è proprio innovativo (Scattolini,
2014).
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