UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE FACOLTÀ DI ECONOMIA “GIORGIO FUÀ” _______________________________________________________________ Scuola di Dottorato di ricerca – XIV Ciclo Curriculum “Economia Aziendale” LA GESTIONE DELLA RELAZIONE NELLA SUPPLY CHAIN: DAL TRADE MARKETING AL BRM Tutor Chiar.mo Prof. Gian Luca Gregori Coordinatore di Dottorato di ricerca Chiar.mo Prof. Luca Del Bene Tesi di dottorato del Dott. Daniele Scattolini INDICE INTRODUZIONE 1 Capitolo I - DAL MARKETING TRADIZIONALE AL MARKETING RELAZIONALE: SINTETIZZAZIONE DELLE PRINCIPALI TEORIE 9 I.1. Il paradigma di marketing tradizionale 9 I.2. Principali fattori di crisi del marketing tradizionale I.2.1. La rigidità del marketing mix 14 14 I.2.2. I limiti degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale 18 I.3. Le origini della filosofia del marketing relazionale 21 I.4. Marketing relazionale e marketing mix a confronto 29 I.5. Gli approcci al marketing relazionale 31 I.5.1. La scuola nordica 33 I.5.2. Industrial Marketing and Purchasing Group 37 I.5.3. La scuola anglo-australiana 42 I.5.4. La scuola nordamericana 45 I.6. L’affermazione della prospettiva relazionale 48 Capitolo II - ASPETTI EVOLUTIVI DELLE RELAZIONI TRA INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE NELLA “SUPPLY CHAIN” 53 II.1. Spunti e riflessioni sull’applicazione del marketing relazionale 53 II.2. L’importanza della relazione e delle nuove tecnologie 58 II.3. Le relazioni distributive 63 II.3.1. Evoluzione delle relazioni tra industria e distribuzione II.4. I rapporti industria-distribuzione nell’ottica del marketing management 65 69 II.4.1. La fase del marketing funzionale 71 II.4.2. La fase del marketing contrattuale 74 I II.4.3. La fase del marketing relazionale 79 II.4.4. La fase del marketing conflittuale 84 II.4.5. La fase del marketing sistemico 89 II.5. Le implicazioni e il ruolo della funzione marketing nella gestione della relazione 93 Capitolo III - IL TRADE MARKETING: I RISULTATI DI UN’INDAGINE EMPIRICA 101 III.1. L’orientamento di trade marketing 101 III.2. Il concetto di trade marketing: origine e evoluzione 106 III.3. Il processo di pianificazione del trade marketing 110 III.4. I risultati di una ricerca empirica 114 III.5. La dimensione organizzativa: le strutture organizzative 116 III.6. La dimensione strategica e la dimensione operativa: dalla pianificazione agli strumenti di trade mix 124 III.6.1. Le attività nei punti vendita 131 III.7. Risultati e prime considerazioni 137 Capitolo IV - UN APPROCCIO INNOVATIVO: LO SVILUPPO DEL BRM NEL GRUPPO FILENI 141 IV.1. Dal trade marketing al buyer relationship management 141 IV.2. Customer relationship management: diverse prospettive 143 IV.3. Le caratteristiche strutturali del CRM 148 IV.3.1. L’architettura tecnologica 149 IV.3.2. Il ruolo dei contenuti e dei servizi 152 IV.3.3. La centralità delle relazioni 153 IV.4. I risultati di una ricerca empirica 155 IV.4.1. Il profilo del Gruppo Fileni 158 II IV.5. Il percorso del cambiamento: l’implementazione del trade marketing 159 IV.5.1. La strategia di trade marketing 166 IV.5.2. L’analisi dei volantini promozionali 168 IV.5.3. Il presidio dei punti di vendita 173 IV.6. Il progetto di buyer relationship management 178 IV.6.1. Acquisizione di dati e informazioni 180 IV.6.2. Trasformazione dei dati e delle informazioni in conoscenza 182 IV.6.3. Segmentazione e profilazione 184 IV.6.4. Definizione di strategie e azioni 186 IV.6.5. Valutazione delle performance 188 IV.7. Le implicazioni organizzative 189 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 193 BIBLIOGRAFIA 201 III INTRODUZIONE La mia ricerca, posta in essere nell’ambito del dottorato di ricerca cofinanziato dal Gruppo Fileni, riguarda il rapporto tra l’industria e la distribuzione. Nello specifico, si sviluppa nell’osservare quali azioni l’impresa di produzione può intraprendere per migliorare la relazione e la gestione della relazione stessa con le imprese commerciali. Si colloca, quindi, nel contesto business to business. Il rapporto tra industria e distribuzione rappresenta, quindi, l’elemento cardine del mio studio, essendo la chiave di successo delle imprese industriali (Giacomazzi, 2002), dato che incarna l’elemento di contatto e di continuità tra le tematiche di studio affrontate. Nella ricerca, a partire dal marketing relazionale, si passerà a presentare il tema del trade marketing, per arrivare ad affrontare l’adozione di un sistema di marketing relazionale innovativo, il buyer relationship management (BRM), capace di apportare benefici in termini di gestione della relazione e di performance. L’obiettivo principale è, pertanto, comprendere sotto quali condizioni organizzative e sotto quale approccio manageriale sia possibile implementare un percorso di sviluppo in grado di far conseguire alle imprese industriali risultati utili. A tal fine, si è cercato di rispondere alle seguenti domande di ricerca: Come si può gestire efficacemente la relazione con i clienti? Perché è importante conoscerli approfonditamente? 1 Lo studio della relazione delle imprese con i propri clienti è un tema dibattuto nella letteratura di marketing (Morgan e Hunt 1994; Gummesson, 1999), in particolare con riferimento al ruolo che tali rapporti assumono nel miglioramento della performance competitiva nei mercati in cui le stesse imprese operano. In primo luogo, il lavoro si focalizza, quindi, sul marketing relazionale, ovvero l’approccio di marketing volto a stabilire, mantenere e migliorare le relazioni con i clienti (Grönroos, 1994), il quale oltre ad essere un salto paradigmatico nella teoria di marketing, rappresenta un nuovo modo di vedere la relazione come fonte primaria del vantaggio competitivo. Dall’analisi della letteratura, sono stati identificati i principi, i processi e i modelli del marketing relazionale, poi applicati allo studio delle relazioni all’interno della supply chain. Negli ultimi decenni, nella supply chain, la relazione tra l’industria e la distribuzione ha subito consistenti cambiamenti, soprattutto a causa della concentrazione del sistema distributivo e della maggiore redditività generata dallo stesso, a scapito di quella generata dal settore industriale. In particolare, il ruolo dei distributori si è evoluto, passando da una mera intermediazione passiva ad una posizione imprenditoriale attiva (Fornari, 2009). Per le imprese industriali, soprattutto per le non leader, la gestione della relazione con le imprese di distribuzione sta diventando fondamentale per ottenere buone performance o anche per la semplice sopravvivenza. 2 La ricerca, percorrendo tutta l’evoluzione dei rapporti nella supply chain, arriva al trade marketing, considerato come il marketing rivolto ai distributori (Marcanti, 1989; Pellegrini, 1993; Lugli, 1998), il quale, a partire dagli anni ’90, ha riscontrato un elevato interesse sia in letteratura che a livello manageriale. Il trade marketing rappresenta, a mio avviso, più che una specifica funzione aziendale, un orientamento strategico. Le imprese industriali, infatti, competono su due mercati, quello della domanda finale e quello della domanda intermedia; negli ultimi anni hanno affrontato un profondo cambiamento della struttura degli investimenti di marketing, stimolando una forte crescita della componente di trade marketing. Nonostante non ne esista una definizione unanime (Predeval 1983; Beltramini e Gaeta, 1998), c’è la consapevolezza nel ritenere che le imprese industriali non possano prescindere dall’attuarlo e che, per essere efficace, debba essere impostato e strutturato con molta attenzione. Al fine di verificarne a livello pratico l’applicazione, si è proceduto ad interviste dirette e telefoniche a chi si occupa di trade marketing in quattro aziende leader 1, per riscontrarne la collocazione organizzativa, le principali funzioni e attività e gli indicatori di performance. Proseguendo nell’analisi della letteratura, che non pretende di essere esaustiva, sono emersi spunti di riflessione riguardo possibili nuovi contributi per creare 1 Le aziende sono: Danone, Coca-Cola HBC Italia, Galbusera e Beiersdorf. 3 valore nella supply chain. Dalla mia analisi ha preso forma il BRM, un particolare sistema di CRM in ambito business-to-business, in cui l’oggetto d’esame è il buyer. Infatti, il buyer è risultato l’interfaccia principale nelle relazioni tra l’industria e la distribuzione, tanto da meritare un ruolo egemone nel modello che ho teorizzato. Quello che si vuole dimostrare è che per creare conoscenza non è sufficiente limitarsi all’analisi di dati meramente commerciali, ma sono necessarie altre informazioni, generate da comunicazioni dirette o da rapporti interpersonali. Elemento centrale è, quindi, la relazione da considerare come un vero e proprio patrimonio (Costabile, 2001). Il BRM permette, quindi, da un lato la raccolta di dati e informazioni e dall’altro la diffusione di conoscenza. Un aspetto fondamentale del BRM è che, oltre a comportare benefici nella realtà aziendale, creando un sistema utile per una migliore gestione delle relazioni, ha favorito in prospettiva accademica l’avanzare di studi in materia di CRM. Il lavoro ha coinvolto due ambiti che talvolta hanno corso paralleli e talvolta si sono intrecciati e alimentati reciprocamente, dato che si teorizza a livello accademico e si sperimenta a livello aziendale. La ricerca ha permesso di portare avanti oltre ad una riflessione teorica sul rapporto industria-distribuzione, due indagini empiriche; la prima ha rappresentato il supporto di verifica per l’analisi della tematica del trade 4 marketing, mentre la seconda un esempio di percorso evolutivo da seguire per creare valore nella supply chain. La struttura del lavoro si articola in quattro capitoli, suddivisi tra la revisione della letteratura, la presentazione di indagini empiriche e la descrizione del modello implementato. Nel primo capitolo, dopo aver affrontato i motivi dell’affermazione, i tratti salienti e le riflessioni sviluppate dalla ricerca in tema di marketing relazionale, si è effettuata un’analisi delle principali scuole di pensiero. Nel secondo capitolo, il sistema di relazioni è stato calato all’interno della supply chain, considerando l’impresa industriale come azienda focale. Vengono esaminati i rapporti che l’impresa industriale pone in essere con la domanda intermedia, cioè con la distribuzione. In particolare, si affronta l’evoluzione della relazione nell’ottica di marketing management. Infine, vengono messi in luce le implicazioni e il ruolo svolto dalla funzione marketing. Il terzo capitolo affronta un particolare aspetto del rapporto industriadistribuzione, appunto il trade marketing, una forma di collaborazione in cui l’impresa industriale considera il distributore come un vero cliente. Al fine di comprenderne in modo compiuto tutti i tratti salienti, si propone un confronto tra quanto rintracciato nella letteratura e quanto attuato nella pratica aziendale, attraverso un’indagine empirica di tipo descrittivo ed esplorativo, basata sul metodo del caso di studio multiplo. L’attenzione è stata focalizzata sulle aree 5 tematiche fondamentali del trade marketing, vale a dire la collocazione organizzativa della funzione, le principali funzioni e attività e i principali indicatori di performance. Il capitolo termina con alcune considerazioni propedeutiche all’analisi del successivo caso empirico. Il quarto ed ultimo capitolo offre la descrizione del caso empirico del gruppo Fileni, una media impresa marchigiana operante nel settore alimentare. Inizialmente viene contestualizzato il buyer relationship manahement (BRM), affrontando i tratti salienti del CRM, che rappresenta le fondamenta per lo sviluppo del mio progetto innovativo. Successivamente si presenta il profilo del gruppo, con particolare evidenza al percorso evolutivo di cambiamento che sta effettuando, dando ampio spazio all’implementazione della funzione di trade marketing, declinata nel dare vita ad un progetto di BRM. La ricerca quindi ripercorre gli stadi della recente evoluzione del gruppo Fileni ed evidenzia le fasi di sviluppo, le principali caratteristiche e i riflessi organizzativi che ne sono derivati. A livello metodologico, il presente lavoro è stato condotto avvalendosi del metodo del caso di studio (Yin, 1994; Eisenhardt, 1989) agendo in una logica di action research (Vignali, 1988), caratterizzata da una mia diretta partecipazione allo sviluppo del progetto di BRM. L’analisi empirica si è svolta mediante interviste rivolte a varie figure dell’area vendite del gruppo Fileni e di seguito ai buyers 6 stessi. La raccolta dati è avvenuta, inoltre, per mezzo di altri strumenti di ricerca quali questionari e osservazioni dirette. 7 CAPITOLO I DAL MARKETING TRADIZIONALE AL MARKETING REAZIONALE: SINTETIZZAZIONE DELLE PRINCIPALI TEORIE I.1. Il paradigma di marketing tradizionale Dalla fine degli anni ’50 il marketing ha avuto lo sviluppo della sua concettualizzazione, precisa ed ampia, partendo dai primi studi, che sono stati affrontati già negli anni venti. Nonostante i molteplici e diversi modi di affrontare la ricerca e nonostante i differenti strumenti di esame, tutti gli studiosi sono d’accordo nell’individuare un paradigma, che ha influenzato le successive ricerche e applicazioni di marketing. Questo paradigma è stato definito da Gummesson (1987) “marketing concept” e da Grönroos (1989) “marketing mix model”. Dalle varie definizioni di marketing attribuite a vari autori di può identificare la sostanza di questo paradigma. Quella proposta da Kotler (1976), nella terza edizione del libro Marketing Management, è la seguente: “il marketing management consiste nell’analisi, nella pianificazione, nella realizzazione e nel controllo di programmi volti all’effettuazione di scambi desiderati con mercatiobiettivo allo scopo di realizzare obiettivi aziendali. Esso mira soprattutto ad adeguare l’offerta dell’impresa ai bisogni e ai desideri del mercato-obiettivo ed all’uso efficace delle tecniche di determinazione del prezzo, della comunicazione e della distribuzione per informare, motivare e servire il mercato”. La definizione 9 dell’American Marketing Association (1985), invece, recita che “marketing is the process of planning and executing the conception, pricing, promotion and distribution of ideas, goods and services to create exchange and satisfy individual and organizational objectives”. Nel 1986 Stanton e Varaldo affermano che il “marketing, nella sua concezione tradizionale di estrazione aziendalistica, è un sistema di attività disegnato per pianificare, attribuire il prezzo, promuovere e distribuire prodotti o servizi che siano in grado di soddisfare i bisogni e i desideri dei clienti attuali e potenziali, nonché di far realizzare all’impresa un adeguato profitto”. Da analisi ed interpretazione delle definizioni decantate, si delinea nella disciplina del marketing una prospettiva transazionale. L’attenzione si posa sulle singole transazioni realizzate dall’impresa con il cliente finale. I caratteri distintivi della transazione stessa, che condizionano il modo di agire delle parti coinvolte durante l’atto di scambio, sono il prodotto/prestazione e il prezzo. Entrambi sono gestiti in modo unilaterale dal venditore, l’unico soggetto attivo dello scambio. Il venditore dunque affronta il problema di marketing per trovare la migliore combinazione dei parametri dell’offerta, che susciti nella controparte una risposta positiva per la transazione (Stanton e Varaldo, 1986). Quella descritta è una prospettiva che si ferma al breve termine e si fonda su due concetti fondamentali, il modello delle 4P e l’orientamento al consumatore. 10 In base alla teoria del marketing transazionale/tradizionale, quindi, il mezzo operativo e immediato volto alla gestione dei parametri dell’offerta è il marketing mix. Le 4P del marketing mix diventano il framework che pervade tanto la ricerca accademica che la pratica aziendale. Alla fine degli anni ’80, la validità di tale paradigma non era messa in dubbio (Grönroos, 1989), tanto che la maggior parte delle imprese ha adottato in pratica le teorizzazioni. In tal modo sono emersi alcuni limiti rilevanti. La riconosciuta autonomia funzionale del marketing management si blocca davanti alla possibilità di scorgere e implementare sinergie che provengano da una strategia più integrata. Questo approccio, tradizionale, non ha grande attenzione al contesto internazionale e si pone in modo fin troppo flessibile nei confronti dell’ambiente e dei suoi mutamenti. A partire dagli anni settanta, i limiti di quest’approccio di marketing sono risultati molto più evidenti a seguito dei cambiamenti strutturali del contesto competitivo in cui le imprese operano. Il solo focus sugli elementi del marketing mix ha ridotto le potenzialità della ricerca di vantaggi competitivi di lungo periodo. Questo metodo non è quindi quello ideale per spingere le imprese alla continua innovazione, dato che sponsorizza al contrario la diffusione di prodotti imitativi, resi di successo grazie agli elevati investimenti in differenziazione e comunicazione. 11 Un approccio critico pervade anche l’ulteriore filone di studi relativo agli ambiti applicativi del paradigma tradizionale (Kotler e Levy, 1969). Nei primordiali esperimenti in settori differenti, soprattutto nell’ambito dei servizi, è risultato una problematica il fatto che l’approccio tradizionale al marketing transazionale analizzi il comportamento degli operatori e della struttura del mercato dei beni di consumo di massa tramite un modello di scambio caratterizzato dalla sua quasi esclusiva unidirezionalità; l’unico ruolo attivo nel processo di transazione è quello del venditore (Gummesson, 2006). Le parti che pongono in essere lo scambio, hanno quindi strutture di dell’acquirente è troppo potere asimmetriche. limitata per negoziare La forza contrattuale le caratteristiche del prodotto/servizio e le condizioni contrattuali, dato che l’acquirente è un unico soggetto e che il peso dei suoi acquisti è quindi scarso. Questa è la tipica struttura atomistica del mercato, composta da numerosi acquirenti anonimi e sostituibili. Inoltre, dato l’elevato grado di sostituibilità degli acquirenti, i costi di transazione di questi mercati sono minimi, se non addirittura nulli. In tali contesti, i venditori, gli attori del mercato, sono orientati verso transazioni indipendenti realizzate con un gran numero di controparti, in cui le relazioni collaborative stabili di lungo periodo avvengono solo per eccezione. Gli studiosi hanno fortemente dibattuto sui limiti e sulle possibilità di ampliamento degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale; da tale spunto sono emersi due differenti approcci al problema. Nel primo caso si è 12 cercato di superare i limiti individuati attraverso la modifica e la rielaborazione degli approcci già esistenti, senza però superare il marketing concept (Kotler, 1986). Il secondo approccio ha invece formulato vere e proprie teorie alternative e differenti per i diversi settori di possibile applicazione, considerando il paradigma tradizionale inconciliabile con la rivoluzione in atto (Arndt, 1983). Ai due diversi orientamenti corrisponde, dunque, una distinta classificazione dei nuovi approcci di marketing. Nel primo caso si vede un’evoluzione rispetto al paradigma tradizionale, mentre nel secondo caso se ne riconosce una piena autonomia. Il nuovo approccio del marketing relazionale mostra in modo esplicito la differenza. Certi studiosi sottolineano una essenziale vicinanza agli assiomi della teoria tradizionale, ponendo l’accento soltanto su una parte rinnovata, mentre un’altra corrente di autori ritiene che tale concetto resti fortemente radicato su punti di vista in contrasto con il marketing management. Prima di affrontare il tema del marketing relazionale, si esamina nei prossimi paragrafi più approfonditamente i due fattori principali, strettamente collegati, che hanno sottoposto a forti critiche il paradigma di marketing tradizionale, vale a dire la rigidità del marketing mix e i limiti degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale. 13 I.2. Principali fattori di crisi del marketing tradizionale Fin dalla sua introduzione, il marketing mix ha rivestito il ruolo di modello dominate negli studi, nelle ricerche e nelle pratiche di marketing. In ambito aziendale, le 4P hanno sempre tracciato in modo evidente le principali mansioni dei marketing managers. All’inizio degli anni ottanta, però, è iniziata la crisi del paradigma del marketing concept, da un lato per motivazioni dovute alle dinamiche interne alla disciplina stessa, come i progressivi ampliamenti sia dell’oggetto degli studi di marketing che delle relative applicazioni, d’altro lato per fattori esterni, quali l’emergere di nuove teorie, la sempre maggiore complessità dell’ambiente e lo sviluppo di nuove tecnologie. Dopo questa premessa, descriviamo ed approfondiamo nei paragrafi seguenti le cause più importanti alla base della crisi del marketing tradizionale: 1. la rigidità del marketing mix; 2. i limiti degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale. I.2.1. La rigidità del marketing mix La rigidità del marketing mix è la prima grande critica. Le 4P, che sono state il fulcro del paradigma di marketing tradizionale e che per decenni hanno rappresentato lo strumento operativo delle organizzazioni per sviluppare strategie di marketing, non trovano più applicazione contemporanea in ogni contesto. 14 L’espressione marketing mix è stata introdotta da Borden nel 1964 che ha reinterpretato quella del collega Culliton (1948), “mixer of ingredients”, in uno studio sui costi di marketing. Il marketing mix di Borden si componeva di 12 elementi (product planning, pricing, branding, channel of distribution, personal selling, advertising, promotions, packaging, display, servicing, physical handling, fact finding and analysis) che saranno raggruppati e sintetizzati poco tempo dopo da McCarthy (1964) nelle classiche 4P del marketing mix, ovvero product, price, place e promotion. Le prime obiezioni vengono poste in essere già al momento dell’affermazione del marketing mix concept: in primo luogo, viene posta in essere la mancanza di interazioni tra i quattro pilastri. Il modello, infatti, non include alcun rapporto tra le variabili, nonostante McCarthy (1978) avesse esplicitato la necessità di collegamenti. Un secondo elemento di discussione, invece, è emerso nel tentativo ampliarne gli ambiti applicativi; il modello delle 4P risultava troppo rigido, di carattere quasi “normativo”. Alcuni autori avevano cercato di aggiornarlo e di ampliarlo, ma senza riuscire ad apportare cambiamenti nella sostanza agli standard del classico “holy quadruple…of the marketing faith…written in table of stone” (Kent, 1986). Dall’analisi della letteratura, emergono comunque alcuni degli adattamenti tentati. Tra i più noti, il modello delle 5P razionalizzato da Judd (1987), che include People come quinto elemento, il modello delle 7P di Booms e Bitner (1981) che, 15 invece, individua altre tre nuove variabili: Partecipants, Physical Evidence e Process. Baumgartner (1991), invece, propone un sistema con 15P. Kotler (1986) nel modello del megamarketing, accoda alle usuali 4P altre due variabili, Public Relations e Political Power, importanti per le imprese che abbiano l’intento di penetrare in mercati protetti da alte barriere all’entrata. Nel 1999 Goldsmith aggiunge la Personalisation, teorizzando un modello con 8P, riformulando il concetto delle 7P di Booms e Bitner ed evolvendolo. Nello stesso anno Kotler et al. (1999) presentano una teoria diversa, avendo come punto di partenza la seguente riflessione: le tradizionali 4P rappresentano il punto di vista dell’azienda che produce e vende i suoi prodotti nel mercato; sarebbe auspicabile, invece, seguire una reale prospettiva customer-oriented. Sulla base di questa riflessione, le 4P si evolvono nelle 4C (Lauterborn, 1990), dove la pura vendita del prodotto da parte dell’impresa viene sostituita dalla ricerca del valore per il consumatore. 16 Figura I.2.1.-1. Alcuni adattamenti al modello delle 4Ps 4Ps Product, Price, Promotion, Place 5Ps Product, Price, Promotion, Place, People 6Ps Product, Price, Promotion, Place, Public Relations, Politic Power 7Ps Product, Price, Promotion, Place, Partecipants, Physical Evidence, Process 8Ps Product, Price, Promotion, Place, Personnel, physical assets, procedures, personalization Product/Service, Price, Promotion, Place, People, Politics, Public Relations, Probe, Partition, Prioritize, Position, Profit, Plan, Performance, Positive Implementations Custumer, Cost, Convenience, Communication 15Ps 4 Cs Fonte: Elaborazione propria Ci sono comunque autori, che nonostante le critiche e i limiti discussi, pensano che si possa ancora utilizzare il tradizionale marketing mix. Grönroos (1996), ad esempio, ritiene che è sufficiente semplicemente tener conto di altri elementi che spesso non sono considerati attività caratteristica della funzione marketing, quali la logistica, l’installazione, la sostituzione o la riparazione, l’assistenza, i reclami, la formazione rivolta al cliente. Gummesson (1994), invece, sostiene che il classico paradigma del marketing mix sia ancora valido, nonostante stia riducendo la sua importanza a favore della gestione delle relazioni che l’azienda crea con i suoi stakeholders. In ogni caso, nonostante molti autori abbiano cercato di far evolvere il modello delle 4P, il marketing management si è limitato alla semplice gestione delle quattro variabili principali, senza evidenziare né il vero significato né le possibili 17 conseguenze che una vera applicazione del marketing concept potrebbe comportare (Grönroos, 1994). I.2.2. I limiti degli ambiti applicativi del paradigma di marketing tradizionale Alla critica presentata nel paragrafo precedente, si affianca quella relativa agli ambiti di applicazione del paradigma del marketing tradizionale. Gli autori più importanti che hanno esaminato questo argomento fanno parte della scuola svedese di marketing industriale e della scuola nordica dei servizi. Innanzitutto vengono messe in discussione l’oggettività e l’universalità delle conoscenze e dei modelli interpretativi che seguono dagli studi di marketing. Inoltre, questi critici ritengono che il tradizionale marketing mix, teorizzato in funzione dei rapporti tra venditori ad acquirenti nei mercati dei beni di consumo e di massa, non si adatti in pieno ai loro contesti di riferimento, cioè al settore dei beni industriali e al settore dei servizi, in cui l’aspetto relazionale ha un ruolo fondamentale. Qui di seguito una sintesi degli elementi dell’approccio di marketing tradizionale che non si riscontrano in questi contesti: le transazioni indipendenti ed isolate; la struttura atomistica del mercato; la struttura di potere asimmetrica tra le parti; l’unidirezionalità del modello di scambio. 18 Ad esempio, nel mercato dei beni industriali, la prima condizione indicata non si verifica poiché i rapporti tra i fornitori e gli acquirenti sono spesso caratterizzati da un’elevata stabilità. Gli acquirenti, infatti, da una relazione stabile con i fornitori ottengono una riduzione dei costi e dei rischi legati alla ricerca e alla valutazione dei fornitori, dei costi dovuti agli eventuali problemi organizzativi causati dal cambiamento degli stessi e dei costi per problemi di adattamento dei macchinari o di altre componenti che possono sorgere dalle modifiche nei prodotti acquistati (Hakansson, 1982). Alla stabilità corrisponde la personalizzazione del rapporto, aspetto da considerare. Ogni acquirente riconosce individualmente il suo partner di riferimento e non lo considera come un qualsiasi componente di un mercato. La stessa corrispondenza si applica anche dal lato di osservazione del fornitore. Nei mercati industriali, il potere è distribuito in modo equilibrato e non in misura asimmetrica tra le parti. Anzi spesso si verifica una dipendenza reciproca fra gli attori dello scambio. In questi mercati, inoltre, non si realizza l’unidirezionalità nei processi di scambio; anche gli acquirenti recitano di solito un ruolo attivo. Entrambi i protagonisti dello scambio possono essere considerati come parti di uno stesso processo: pongono in essere attività di ricerca, contribuiscono a definire le specifiche di prodotto e condizionano il processo stesso. 19 Da ciò emerge che per ottenere una adeguata conoscenza dei mercati industriali bisogna effettuare un esame parallelo dei comportamenti relazionali dei due attori del processo di scambio, il fornitore e l’acquirente (Hakansson, 1982). Vanno quindi tenuti in considerazione aspetti quali la negoziazione, i rapporti di potere, le forme di collaborazione, che usualmente vengono tralasciati dagli studiosi degli approcci tradizionali di marketing (Ferrero, 1992). Nel mercato dei servizi, come nei mercati dei beni industriali, il cliente ha un ruolo attivo, anche se si esplicita in forme e modalità in parte differenti. Infatti, per produrre ed erogare un servizio è necessario che il cliente partecipi direttamente. Il cliente passa dunque da una posizione passiva ad un nuovo ruolo, addirittura di coproduttore. Ne segue l’esigenza di teorizzare un nuovo approccio di marketing, di tipo interattivo. Gummesson (1987) ha identificato molte relazioni interattive fra acquirenti e venditori nelle transazioni nel mercato dei servizi, tra cui interazioni fra il personale di contatto dell’acquirente e del venditore, quelle fra i sistemi produttivi, i macchinari e le routine organizzative adottate dagli acquirenti e dai venditori, le interazioni fra l’acquirente e l’ambiente fisico del fornitore, oltre agli interscambi fra i diversi clienti, nella fase di produzione e uso del servizio, che provengono dalle condizioni create dal venditore. Lo studioso, analizzando le stesse, afferma: “it is essential to recognize that a service in partly producted, marketed and consumed in an interactive relationship 20 between the consumer and the selling firm that the quality of this relationship as well as the quality of the service in the result of efforts from both sides”. Nel mercato dei servizi va anche considerato l’aspetto temporale delle relazioni tra le parti. Tali relazioni, necessitando tempi lunghi di costruzione e mantenimento, andrebbero inquadrate in un orizzonte di lungo termine, al fine di determinare profitti più elevati. Gli approcci adottati dagli studiosi della scuola svedese di marketing industriale e della scuola nordica dei servizi sono sintetizzati dall’affermazione di Grönroos (1989) riguardante il compito del marketing: “the most important issue in marketing is to establish, strenghen and develop customer relations where they can be commercialised at a profit and where individual and organizational objectives are met”. I.3. Le origini della filosofia del marketing relazionale Il marketing relazionale ha origine quindi dalla seconda metà degli anni settanta nel momento in cui si è iniziato a mettere in discussione il paradigma di marketing tradizionale. L’aspetto innovativo della nuova teoria si concretizza nella prospettiva relazionale che all’interno della disciplina di marketing sostituisce la prospettiva transazionale come focus principale. Le prime concettualizzazioni di marketing relazionale hanno avuto origine nell’ambito di studi realizzati nei settori dei beni industriali e dei servizi, in cui si era dimostrata l’inefficace 21 applicazione del marketing management. Il marketing relazionale, quindi, si sviluppa con l’obiettivo di iniziare, contrattare e mantenere le relazioni di scambio per ottenere vantaggi competitivi sulla base di accordi di lungo termine tra clienti e fornitori (Hakansson e Wootz, 1979). Ne segue che il grande elemento innovativo è rappresentato dalla centralità e dall’interattività dei rapporti che si sviluppano tra le parti; entrambi gli attori coinvolti recitano un ruolo attivo nelle transazioni realizzate. Altra novità si evidenzia nell’individuare nel medio/lungo termine l’orizzonte temporale di riferimento. In base a questo nuovo approccio, il marketing andrebbe inteso come management delle relazioni e dovrebbe essere rivolto a stabilire, sviluppare e negoziare relazioni di lungo termine con i clienti in modo che gli obiettivi delle parti coinvolte siano raggiunti (Grönroos, 1989). La prima apparizione del termine marketing relazionale fu nel 1983 in un paper scritto da Berry nell’ambito del settore dei servizi. L’autore parla di “attrating, mainteining and – in-multi services organizations – enanching customer relationship”. In questa prima definizione, è posto in evidenza che l’obiettivo del marketing è creare relazioni con i clienti, considerando i seguenti tre aspetti di pari importanza: l’attrarre, il mantenere e l’aumentare. L’obiettivo del marketing tradizionale, invece, era solo quello di conquistare nuovi clienti. Una successiva definizione fu proposta due anni dopo da Jackson (1985), che la utilizzò in un progetto di ricerca sull’industiral marketing, sia nel libro Winning and Keeping 22 Industrial Customers, sia in un articolo pubblicato nell’Harvard Business Review, “marketing oriented toward strong, lasting relationships with individual accounts”. Molte altre definizioni sono sfilate nel tempo, ciascuna con l’intento di sottolineare differenti aspetti della relazione. Nel 1991 Berry, in collaborazione con Parasuraman ha rivisto la sua precedente definizione enfatizzando lo sviluppo della relazione: “relationship marketing concerns attracting, developing, and retaining customer relationships”. Il pensiero di Grönroos (1990), invece, evidenzia l’ottica di lungo periodo: “relatioship marketing relates to the development of long-term relationships with customers and other parties”. Gummesson (1994), dal canto suo, focalizza l’attenzione sul concetto di rete e di interazione: “relationship marketing is marketing seen as relationships, networks and interaction”. Nel 1994, Sheth, nella sua definizione di marketing relazionale, presenta un elemento di novità, ovvero il riferimento esplicito agli attori della relazione, i fornitori e i clienti: “relationship marketing is the understanding, explanation, and management of the ongoing collaborative business relationships between suppliers and customers”. Nello stesso anno, Grönroos presenta la sua definizione più completa ed esaustiva: “marketing to establish, maintain, and enhance relationships with customers and 23 other partners, at a profit, so that the objectives of the parties involved are met. This is achieved by a mutual exchange and fulfiment of promises”. Molti studiosi uniscono al marketing relazionale il tema della fiducia. Ciò perché tra gli attori dello scambio si possono istaurare relazioni consolidate e continue e non più isolate e occasionali solo in costanza di un clima di reciproca fiducia. Dunque la fiducia diventa una delle componenti fondamentali del processo di generazione del valore, tramite la realizzazione di rapporti duraturi e collaborativi. Il concetto di fiducia, riconosciuto da alcuni autori (Dwyer, Schurr e Oh, 1987) come variabile fondamentale nel processo di nascita e di sviluppo della relazione, è molto importante per promuovere e favorire le transazioni, soprattutto in condizioni di mercato permeate da asimmetria informativa. Dall’analisi della letteratura si possono individuare diverse concettualizzazioni della fiducia. Ci sono in tal senso definizioni del concetto di tipo multidimensionale e monodimensionale. Gli studi che riguardano il comportamento d’acquisto concludono per l’esistenza di un legame tra la creazione di un clima di affidabilità e la soddisfazione che deriva dalla conferma delle aspettative di performance dovuta a ripetute transazioni. In sostanza i rapporti di reciproca fiducia derivano da situazioni di soddisfazione ripetute nel tempo. Oltre alla fiducia, gli studi di marketing relazionale hanno evidenziato il commitment e la cooperazione, quali elementi che caratterizzano le relazioni stabili e durature. 24 Il commitment può essere considerato come la propensione del cliente a mantenere una relazione di lungo periodo con il fornitore (Anderson e Weitz,1989; Morgan e Hunt 1994). Morgan e Hunt (1994) ritengono che il committment sia determinato dal grado di condivisione dei valori fra l’impresa e il cliente, dal grado di condivisione dei fini della relazione e dal valore dei benefici derivanti dalla relazione rispetto ai costi determinati da una semplice transazione. Le ricerche di Morgan e Hunt e di altri autori hanno evidenziato da un lato l’importanza della cooperazione, influenzata dalla fiducia e dal commitment, soprattutto in termini di reciprocità relativa, dall’altro lato quella del potere. Gli studi relativi alla cooperazione si sono concentrati in particolare nei contesti business to business. Tali analisi hanno evidenziato come l’alto livello di soddisfazione e la fiducia vissuta nel corso delle transazioni favoriscano atteggiamenti cooperativi. La cooperazione viene definita come disponibilità ad operare per raggiungere obiettivi comuni o individuali. Wilson (1995) teorizza che le cause della cooperazione e della reciprocità sono la mutualità degli obiettivi e la convinzione che l’agire insieme e il mantenere la relazione ne consentano il raggiungimento. Gruen (1995), invece, ha collegato il concetto di commitment relazionale e quello di soddisfazione derivante dall’equità percepita nel processo di scambio, basandosi sull’ipotesi che un’alta sensazione di equità e un consolidato commitment nella relazione riducano il rischio di comportamenti opportunistici. 25 In realtà le teorie della letteratura di marketing relazionale sono così interdipendenti tra loro che risulta estremamente difficile stabilire in modo univoco le cause e le conseguenze. Quindi, mentre non vi è dubbio sul fatto che la soddisfazione sia una condicio sine qua non per la determinazione di relazioni improntate sulla reciproca fiducia, non è univoca la spiegazione delle relazioni tra tra commitment, cooperazione, reciprocità, equità transazionale, e condivisione di obiettivi e valori. Nonostante ciò, è chiaro che tutte le relazioni si basino sul requisito fondamentale della reciproca fiducia tra le parti che vi partecipano. La maggior parte delle definizioni di marketing relazionale hanno limitato la loro concettualizzazione all’evoluzione del rapporto tra fornitore e cliente, mentre altre hanno incluso quella di numerosi altri attori, mercati e stakeholders. Figura I.3.-1. Alcune relazioni proposte nell’approccio al marketing Autori Categorie di relazione Sottocategorie Christopher, Payne e Ballantyne (1991) 6 mercati Mercati dei clienti (1) Mercati di supporto (5) Kotler (1992) 10 attori Micro-ambiente (4) Macro-ambiente (6) Morgan e Hunt (1994) 10 partnership Acquirenti (2) Fornitori (2) Laterali (3) Interne (3) Gummesson (1994) 30 relazioni Relazioni di mercato: -classiche (3) -speciali (14) Relazioni non di mercato: -mega relazioni (6) -nano relazioni (7) Fonte: Gummesson, 2006 26 Christopher, Payne e Ballatyne (1991) presentano un modello a “sei mercati” che si compone di un mercato dei clienti, sia esistenti che potenziali, circondato da mercati di supporto. I mercati di supporto sono concettualizzati in mercati di riferimento, che includono i clienti soddisfatti che raccomandano il fornitore ad altri; in mercati dei fornitori, da considerare come partner piuttosto che come avversari; in mercati dei dipendenti, con i relativi concetti di assunzione e promozione dei meritevoli; in mercati di influenza che includono gli analisti finanziari, i giornalisti, gli opinion leader e le istituzioni; e in mercati interni, cioè quelli che riguardano la gestione delle risorse umane. Nel suo concetto di “total marketing”, Kotler (1992), da un lato non sposa una totale trasformazione del paradigma tradizionale ma dall’altro si affaccia alla prospettiva del network e delle relazioni. L’autore ritiene dunque che il marketing relazionale sia una semplice teoria di supporto al marketing management classico e mette in evidenza che all’interno di un’impresa ci sono tanti attori fondamentali, almeno dieci, due dei quali sono il cliente diretto e quello finale. In questo senso Kotler focalizza i giocatori presenti nell’ambiente immediatamente circostante l’azienda, il microambiente, distanziandoli da quelli presenti nel macroambiente attorno all’impresa. Nel primo gruppo rientrano quattro giocatori: i fornitori, i distributori, gli utenti finali e i dipendenti. Il secondo team, invece, si compone di sei giocatori: le aziende finanziarie, i governi, i media, gli alleati, i concorrenti e il grande pubblico. 27 Morgan e Hunt (1994) teorizzano invece dieci scambi di relazioni con quattro tipologie di partnership: con gli acquirenti, sia ultimi che intermediari; con i fornitori, sia di beni che di servizi; con i soggetti laterali, cioè i concorrenti, le organizzazioni no profit e le amministrazioni governative; con i soggetti interni, cioè con i dipartimenti funzionali, i dipendenti e le unità commerciali. Nella classifica stilata da Gummesson (1994), invece, sono elencati 30 generi di relazioni, le cui caratteristiche evidenziate sono le proprietà delle relazioni stesse oltre ai soggetti che le pongono in essere. Dato questo assunto, l’elenco che ne deriva è diverso, dato che i tratti peculiari delle relazioni fanno parte della loro essenza. Ci sono relazioni in cui è essenziale il contenuto, come quelle che si fondano sulle leggi, relazioni che derivano dalla forma, come le alleanze, relazioni che si sostanziano con i mezzi di comunicazione, come le relazioni elettroniche. Tutti i quattro approcci descritti teorizzano dunque relazioni commerciali o non commerciali, che a loro volta possono raggrupparsi in sottoinsiemi di mega e nano relazioni. Dalla presente analisi emerge che c’è un substrato comune tra le quattro scuole, dato che non nascono scontri palesi, anche se ovviamente ci sono differenze nei contenuti e nella scelta dei punti messi in evidenza. 28 I.4. Marketing relazionale e marketing mix a confronto Nel momento in cui il marketing relazionale si sostituisce al marketing mix tradizionale, assumendo un ruolo di primaria importanza nel pensiero di marketing, si verifica un cambiamento evolutivo anche dell’operatività del marketing stesso. I classici elementi, quali il prodotto, il prezzo, la comunicazione, la distribuzione e le altre P, pur mantenendo anche nel marketing relazionale una posizione di rilievo, assumeranno aspetti differenti. La nuova teoria abbandona l’acronimo 4P e parla soltanto di P, indicando le attività sotto il controllo del fornitore al fine di gestire i clienti e persuaderli a ripetere gli acquisti. Viene comunque sempre considerato indispensabile qualche elemento di persuasione e di influenza. Il ruolo delle P viene disegnato come di supporto e non più di guida. Ne segue dunque l’esigenza di un cambiamento di prospettiva. Avendo infatti assunto, nel corso del tempo, un’accezione troppo manipolativa, le P hanno danneggiato la credibilità e la funzionalità della disciplina di marketing. Le P sono dirette al marketing di massa che resta sempre presente, anche se ha perso il suo ruolo centrale (Gummesson, 1994). 29 Figura I.4.-1. Transizione dal marketing mix al marketing relazionale Fonte: Gummesson (1994) L’interattività dei rapporti che si sviluppano tra le parti è l’elemento innovativo e centrale del marketing relazionale. Un ruolo attivo nelle transazioni realizzate è recitato da tutti e due gli attori coinvolti nello scambio. Un ulteriore elemento distintivo del marketing relazionale è l’evoluzione dell’orizzonte temporale di riferimento. In questo nuovo approccio si ragiona nel medio-lungo periodo (Kotler, 1992), in quanto è necessario del tempo, affinché le relazioni vengano analizzate, costruite e mantenute. Quindi, in sintesi, nella disciplina del marketing, la prospettiva relazionale viene a contrapporsi alla più tradizionale prospettiva transazionale; la prima si pone l’obiettivo di qualificare la relazione con il cliente, la seconda, invece, ha l’obiettivo di rendere efficace la transazione nei confronti del mercato. Sono 30 significativi e numerosi gli elementi in cui il marketing relazionale si distingue dal marketing transazionale. La tabella qui sotto riassume le caratteristiche delle due tipologie di marketing: transazionale e relazionale. Figura I.4.-2. Marketing transazionale e relazionale a confronto MARKETING MARKETING TRANSAZIONALE RELAZIONALE Singola transazione e Customer retention e volume d’affari FOCUS customer loyalty Caratteristiche del prodotto ENFASI Customer value Breve periodo ORIZZONTE TEMPORALE Lungo periodo Bassa importanza CUSTOMER SERVICE Alta importanza Basso livello CUSTOMER CONTACT Alto livello Qualità del prodotto CONCETTO DI QUALITA’ Qualità della relazione Fonte: elaborazione propria da Christopher, Payne, Ballantyne (2002) Da tutto ciò risulta come la relazione con il cliente finale sia ormai da ritenere l’ambito di evoluzione degli studi di marketing, non essendo limitata all’analisi dei soli mercati industriali e dei servizi. I.5. Gli approcci al marketing relazionale Chiarito il ruolo della relazione, analizziamo in quali ambiti si possa applicare questo nuovo approccio di gestione e come i diversi stakeholders si rapportino con 31 le aziende. Molti studiosi hanno tentato di inquadrare le molteplici relazioni nell’ambito di modelli teorici. Il primo per importanza è il “manifesto di sfida” di Gummesson al marketing tradizionale. Nel 1987, l’autore enumera nove punti focali che dimostrano quanto sia complessa la gestione dell’attuale contesto competitivo con la messa in pratica degli strumenti del marketing tradizionale. Tabella I.5.-1. I concetti di Gummesson che sfidano il marketing tradizionale 1. The many-headed customer and seller 2. The real customer does not necessarily appear in the market-place 3. The customer as co-producer 4. Market mechanisms are controlled outside the firm 5. Market mechanisms are brought inside the firm 6. Interfunctional dependency and the “part-time marketer” 7. Process management and the internal customer 8. Internal marketing 9. Relational quality Fonte: Gummesson (1987) Il manifesto di Gummesson incarna il primo tentativo di sintetizzare le varie critiche dirette al marketing tradizionale e rappresenta quindi il punto di partenza per la concettualizzazione dei successivi modelli. In particolare, lo studioso pone in evidenza che nelle strategie di marketing devono essere presi in considerazione il concetto di rete e le varie interazioni e sottolinea che la gestione delle relazioni interne ad un’azienda ha la stessa significatività della gestione di quelle con l’esterno. Inoltre evidenzia che tutta l’organizzazione deve essere customer- 32 oriented, e che quindi la natura e l’ampiezza dei rapporti con i clienti devono essere dapprima analizzate e di seguito gestite con una grande attenzione. Molti autori in seguito hanno citato e superato il pensiero di Gummesson. Dall’analisi della letteratura si sono rintracciate scuole di pensiero effettive, che presentato molteplici punti di vista sul concetto di marketing relazionale. Le principali sono la scuola nordica, l’Industrial Marketing and Purchasing (IMP) Group, la scuola anglo-australiana e la scuola nordamericana. I.5.1. La scuola nordica La scuola nordica ha origine alla fine degli anni Settanta in Scandinavia all’interno degli studi sui servizi di marketing che si propongono di colmare le lacune individuate nell’approccio transazionale al marketing. Il concetto di fondo della teoria è che il servizio sia una componente molto importante nel qualificare i rapporti tra fornitori e clienti (Grönroos, 1994; Gummesson, 1997), in particolare si tratta dello strumento attraverso il quale si può migliorarne la qualità, sia fidelizzando i clienti e sia allungando il ciclo di vita dei rapporti (Grönroos e Gummesson, 1985; Grönroos, 1990). I principali esponenti di questa scuola sono Christian Grönroos ed Evert Gummesson. Questa teoria, che ha esercitato una grande influenza nell’ambito del marketing relazionale, si applica sia a contesti B2B che B2C. 33 Il 30R approach di Gummesson (1994) è uno dei più importanti contributi di questa scuola alla teoria del marketing relazionale, e procede ad identificare 30 relazioni esistenti in imprese e altre organizzazioni con le relative conseguenze. La caratteristica più rilevante consta del tentativo di rendere pratico ed operativo il marketing relazionale. In questo modello lo studioso classifica le 30 relazioni in: relazioni di mercato, classiche e speciali, e di non mercato, le mega e le nano relazioni (Gummesson, 1997). Queste ultime hanno la mansione di supportare le relazioni di mercato. Nella prima presentazione dell’approccio (1994), Gummesson ha elencato le 30 relazioni senza attribuire un ordine preciso, ritenendo che potessero essere posizionate in categorie differenti, essendo caratterizzate da molte qualità. Nella rielaborazione più recente (2002), invece, l’autore aggiorna la sua teoria collocando le relazioni nelle quattro categorie di base: 1. le relazioni classiche di mercato; 2. le relazioni speciali di mercato; 3. le mega relazioni; 4. le nano relazioni. 34 Figura I.5.1.-1. Il 30R Approach di Gummesson Relazioni classiche di mercato 1. La diade classica: relazione cliente – fornitore 2. La triade classica: il triangolo cliente – fornitore – concorrente 3. Il network classico: relazioni lungo i canali di distribuzione Relazioni speciali di mercato 4. Relazioni tramite full time marketers e part time marketers 5. La relazione interattiva tra clienti e fornitori di servizi nei momenti della verità 6. La relazione tra responsabili dell’impresa fornitrice e dell’impresa cliente (marketing industriale) 7. La relazione con il cliente del cliente 8. La relazione vicina vs la relazione lontana 9. La relazione con il cliente insoddisfatto 10. La relazione monopolistica: il cliente o il fornitore come prigionieri 11. Il cliente come membro 12. La e-relationship 13. Le relazioni simboliche 14. La relazione non commerciale (settore pubblico, volontariato, famiglia) 15. La relazione verde (o ambientale) 16. La relazione basata sulla legge 17. La rete criminale Mega relazioni 18. Network personali e sociali 19. Mega marketing (governi, legislatori, influenzatori, opinione pubblica) 20. La relazione cooperativa (alleanze tra imprese, franchising, JV, co-marketing) 21. La relazione di conoscenza (impresa come sistema cognitivo) 22. Le mega alleanze (UE libera mobilità per professionisti, Nafta) 23. La relazione con i mass media (RP) Nano Relazioni 24. Meccanismi di mercato dentro l’organizzazione 25. La relazione con il cliente interno (programmi TQM) 26. La relazione tra gestione operativa e marketing 27. Le relazioni con il mercato dei dipendenti: il marketing interno 28. La relazione bidimensionale nell’organizzazione a matrice 29. La relazione con i fornitori esterni dei servizi di marketing 30. La relazione con proprietari e finanziatori Fonte: Gummesson (2002) La scuola nordica individua inoltre le principali caratteristiche in una relazione, ovvero l’interazione, il dialogo e il valore (Grönroos, 2000). 35 Anche l’IMP Group, come vedremo successivamente, condivide l’importanza dell’interazione nell’ambito della gestione della relazione. In base a questo punto di vista, il servizio domina le interazioni dato che i clienti e i fornitori interagendo realizzano rispettivamente servizi l’un per l’altro. I clienti producono informazioni e i fornitori forniscono soluzioni. Gli scambi tra le imprese si realizzano nell’ambito più vasto delle interazioni in corso. Questa ottica è distante dai tradizionali approcci di marketing che vedono gli scambi interaziendali come eventi discreti e non collegati, quasi fuori dal contesto. La seconda caratteristica di una relazione individuata dalla scuola nordica è il dialogo. Ciò implica che la comunicazione tra i partner è ritenuta indispensabile per stabilire, mantenere e rafforzare le relazioni (Grönroos, 1994). I fornitori e i clienti dialogano. La comunicazione è biunivoca, a differenza di quella teorizzata dal marketing tradizionale, che la immaginava unidirezionale, dall’azienda al cliente. L’ultimo aspetto che la scuola nordica considera è il valore, di cui viene evidenziata la reciprocità. Affinché i clienti generino valore, le aziende devono mostrare un valore percepito come tale dal cliente. In base a questa ottica, la performance di servizio ricopre il ruolo di fattore chiave per determinare il valore percepito dal cliente. 36 I.5.2. Industrial Marketing and Purchasing Group L’IMP Group è nato anch’esso verso la fine degli anni settanta, nell’ambito delle ricerche compiute da alcuni ricercatori europei con il semplice scopo di descrivere in modo molto accurato le relazioni B2B. Tra i maggiori esponenti dell’IMP si ricordano Malcom Cunningham, David Ford, Lars-Erick Gadde, Hakan Hakansson, Ivan Snehota, Peter Naudé e Peter Turnbull. L’obiettivo iniziale delle analisi era solo quello di sviluppare modelli idonei a descrivere la realtà dei mercati industriali, da un punto di vista complementare rispetto agli approcci tradizionali. In secondo luogo, la valutazione si focalizzò sui i rapporti commerciali che si sviluppavano, al fine di individuare se avessero caratteri riconducibili a quelli dei beni di largo consumo. Caratteristiche dei mercati dei beni sono la complessità e la specificità dei beni/servizi scambiati, tipici delle situazioni business to business (Giulivi, 2001; Fiocca, Snehota e Tunisini, 2003). Molto spesso in tali contesti di mercato le imprese hanno relazioni con un numero ristretto sia di clienti che di fornitori. Nei mercati dei beni industriali, i rapporti commerciali che si instaurano tra clienti e fornitori non sono di solito singole transazioni occasionali, ma relazioni stabili inquadrate in un’ottica di lungo periodo. Il focus si sposta quindi dalle singole transazioni alle relazioni stabili che si stabiliscono tra gli operatori dei mercati dei beni industriali (Webster, 1992). 37 Il contributo dell’IMP Group al marketing relazionale si concretizza in due approcci distinti, ma complementari: l’interaction approach e l’industrial network approach. L’approccio interattivo, inquadrato nella prima metà degli anni ottanta, pone l’attenzione sulle relazioni diadiche che si sviluppano tra le imprese (Hakansson et al., 1979). I ricercatori hanno cercato di standardizzare modelli interpretativi delle relazioni basate su collaborazioni di lungo periodo, individuando i fattori che ne condizionano la nascita, lo sviluppo e le caratteristiche (Hallen e Sandstorm, 1991). Hakansson, nel 1982, ha sicuramente fornito il modello di maggior rilievo che propone di fornire indicazioni operative concrete alle imprese per semplificare il processo di gestione delle relazioni. A tal fine, considera quattro differenti gruppi di fattori che ritiene condizionino le caratteristiche e il processo di evoluzione delle relazioni: il processo di interazione fra le parti coinvolte, le caratteristiche dei partecipanti al processo di interazione, l’ambiente in cui si sviluppa il processo di interazione e l’atmosfera che ne risulta. 38 Figura I.5.2.-1. Il modello dell’interaction approach Fonte:Hakansson (1982) L'Autore ritiene che gli episodi e gli aspetti di lungo termine siano due elementi differenti, ma al tempo stesso collegati del processo di interazione. Gli episodi si riferiscono alle singole transazioni che hanno luogo fra le parti e possono avere ad oggetto scambi di beni, servizi, attività finanziarie, informazioni oppure natura 39 sociale. Il ripetersi nel tempo degli episodi favorisce una loro standardizzazione e crea aspettative sui ruoli e sui comportamenti delle parti coinvolte, conferendo stabilità al rapporto. Le relazioni di lungo termine si pongono, dunque, come conseguenza di molteplici episodi. Il modello teorizza che le relazioni sono strettamente legate alle caratteristiche dei partecipanti; in particolare, secondo Hakansson, gli aspetti più influenti sono il livello di tecnologia posseduto dalle parti, la struttura organizzativa e la strategia implementata. L’interaction approach presenta l’impatto significativo sulla relazione dell’ambiente esterno. Gli elementi che hanno influenza sulla relazione, e che vanno quindi considerati dalle imprese, sono la struttura del mercato in cui le imprese stesse agiscono, il livello di dinamismo e il livello di internazionalizzazione di tale mercato oltre al sistema sociale. Infine, il modello esamina l’atmosfera che proviene dal processo di interazione e che lo condiziona. Questa atmosfera include gli atteggiamenti assunti dalle parti sia nei confronti dei partners che delle relazioni stesse. L’atmosfera, quindi, non dipende solo dalle esperienze passate, ma può condizionare lo sviluppo futuro delle relazioni e mediare le influenze ambientali che potranno cambiare nel tempo. A partire dalla seconda metà degli ottanta, l’interaction approach si amplia e subisce un’evoluzione, spostando l’attenzione sull’analisi delle relazioni diadiche 40 in un contesto network. Ne segue il network approach, che si concentra sulle relazioni di tipo reticolare. Tale teoria sottolinea che le imprese operano in ambiti molto più ampi, i cosiddetti networks. Pur essendo le relazioni essenzialmente diadiche, è necessario inquadrarle come ingranaggi di meccanismi networks molto più vasti e complessi da esaminare. Secondo l’IMP Group, dunque, le transazioni B2B si realizzano nell’ambito più ampie relazioni di lungo termine, esse stesse incluse in una rete di relazioni ancora più estesa (Gummesson, 1987). Ogni singola relazione B2B tra fornitore e cliente implica legami tra le dimensioni chiave delle relazioni all’interno dei networks, ovvero sulle attività, le risorse e fra le persone (Gadde et al., 2012). Per legami fra le persone si intendono contatti interpersonali tra le figure di aziende partner che si basano sulla fiducia, l’impegno e l’adattamento (Hakansson e Snehota, 1995). Tali legami derivano da una comunicazione interpersonale e della creazione di un rapporto di fiducia. I legami di attività sono rapporti commerciali, tecnici, finanziari, amministrativi e di altro genere stretti tra aziende che interagiscono. Le attività possono riguardare acquisti o vendite, collaborazioni tecniche o progetti tra le aziende di varia natura. Attività come ad esempio scambi di sapere fra partner o la creazione di sistemi di IT comuni, di sistemi produttivi integrati o di processi di gestione della qualità totale sono, infatti, investimenti che dimostrano impegno. 41 Le risorse sono gli aspetti positivi e negativi sia negli ambiti umani, che finanziari, legali, fisici, manageriali, intellettuali o di altra natura propri di un’azienda (Barney, 1991). I legami riguardanti le risorse si creano quando queste vengono usate per svolgere attività che legano fornitore e cliente. Le risorse consumate in una relazione B2B possono rafforzare e approfondire tale rapporto. Tuttavia, d’altro lato, possono anche essere considerate dei costi di opportunità, dato che una volta impegnate in una data relazione potrebbero essere indisponibili per un’altra. I.5.3. La scuola anglo-australiana Il pensiero fondamentale della scuola anglo-australiana è che le imprese siano in condizione di avere relazioni non solo con i clienti ma anche con tanti altri stakeholder: dipendenti, azionisti, fornitori, acquirenti e istituzioni. I principali esponenti di questa scuola sono Martin Christopher, Adrian Payne, Helen Peck e David Ballantyne. Alcuni elementi che condizionano la relazione con gli stakeholder sono il livello d’investimento, l’impegno e la durata. Mentre quello dell’IMP Group è un approccio descrittivo, quello della scuola anglo-australiana è prescrittivo, cioè ha l’obiettivo di coadiuvare i manager a realizzare migliori relazioni con i gruppi interessati. Il modello “Six-Markets” (Christopher et al., 1991), più volte aggiornato, è uno dei principali contributi concettuali di questa scuola. Sostiene 42 che le aziende debbano interfacciarsi con i seguenti “mercati”: i mercati interni, i mercati alleati, i mercati di reclutamento, i mercati di riferimento, i mercati d’influenza e i mercati dei clienti. Figura I.5.3.-1. Modello Six-Markets Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991) Ognuna della relazioni con questi mercati, va costruita e mantenuta in una maniera che permetta di creare valore sia dal punto di vista del prodotto che dei servizi. Il customer market è il centro del modello: i clienti, siano essi gli intermediari o proprio gli utenti finali, devono continuare a rappresentare il primo centro di attenzione di tutte le attività di marketing e i soggetti principali delle strategie di marketing relazionale. 43 E’ innovativa la concettualizzazione del referral market, composto da tutti quei soggetti che danno un parere positivo sul modo di agire dell’ente in analisi. L’esistenza di questo mercato dà quindi importanza per le aziende ai due seguenti elementi, il passaparola e la customer satisfaction. Il passaparola e la customer satisfaction non devono essere tralasciati dall’impresa, dato che investendoci se ne ha un ritorno. Riguardo ai supplier markets, è necessario soffermarsi un attimo, dato che negli ultimi anni, in questi mercati, le relazioni sono notevolmente cambiate. Clienti e fornitori non sono più tra loro nemici, volti ad agire solo in un modo opportunistico per ottenere il proprio esclusivo vantaggio, ma si affacciano sempre più spesso ad un comportamento collaborativo. Dal momento in cui il loro rapporto ha inizio, vengono definite le regole della cooperazione, ad esempio, fissando esplicitamente determinati target di qualità e di servizio, di impegno ad una produzione flessibile, ecc. I recruitment markets, cioè i mercati del lavoro, riguardano la capacità delle aziende di ricercare, attrarre e mantenere personale dalle caratteristiche di cui necessitano. Solo l’azienda che abbia un personale competente e motivato può goderne come vantaggio competitivo, soprattutto nell’ottica di marketing interno. Gli influence markets sono invece quei mercati che possono includere soggetti come i media, i gruppi di consumatori, le istituzioni governative, gli enti 44 finanziari, gli azionisti, ecc. Il modello include tale mercato a causa del ruolo determinante svolto da tutte le attività pubbliche. Infine ci sono gli internal markets. Il tipo di rapporti che è stato creato con i soggetti che costituiscono l’internal market, come ad esempio i dipendenti, evidenzia il ruolo primario di due aspetti fondamentali. Il primo aspetto concerne il livello di coordinazione della catena del valore interna cliente-fornitore, nel senso che sarebbe opportuno che le operazioni interne all’azienda siano realizzate in modo ottimale grazie all’ineccepibile grado di servizio ed all’indiscussa rapidità dei flussi di comunicazione in essere tra clienti e fornitori interni dell’organizzazione. Per il secondo aspetto è invece necessario un controllo costante sull’intero personale per accertare il rispetto della mission, della strategia e degli obiettivi aziendali (Payne, 1993). Nell’ambito di questa scuola, gli studiosi hanno studiato anche altri argomenti, quali la customer retention, la loyalty e la soddisfazione del cliente, l’economia della relazione con il cliente e la creazione di valore. Una delle loro principali scoperte riguarda la customer satisfaction e la customer retention, entrambi considerati indicatori di valore per gli azionisti (Payne e Frow, 2005). I.5.4. La scuola nordamericana La scuola nordamericana si concentra invece sulla connessione fra il successo delle relazioni tra le imprese e un’eccellente prestazione aziendale. In sintesi, la 45 scuola sottolinea come la relazione riduca i costi relativi alle transazioni (Heide, 1994) e come tanto la fiducia che l’impegno siano condizioni di base per avere relazioni di successo. Gli esponenti di maggior rilievo di questa scuola sono Sandy Jap, Shelby Hunt, Jan Heide, Robert Morgan a Jagdish Sheth. Il “Commitment-Trust Theory of Relationship Marketing”, ideato da Morgan e Hunt (1994), è il contributo teorico più importante della scuola nordamericana, il primo che nell’ambito della relazione cliente-fornitore collega in modo esplicito il concetto di fiducia all’impegno. Quindi, per creare relazioni di marketing di successo sono indispensabili la presenza dell’impegno e quella della fiducia. Impegno e fiducia spingono i marketer ad investire nella relazione cooperando con i partner, preferendo aspettare i benefici di lungo termine rispetto a quelli di breve termine e pensando che i partner non si comporteranno in modo opportunistico. Quindi, solo se ci sono sia l’impegno che la fiducia, si raggiungono gli obiettivi che ci si era posti e che promuovono l’efficienza, la produttività e l’efficacia. Altro aspetto, prevede che commitment e trust portino in modo diretto a comportamenti cooperativi, considerati favorevoli relazioni di marketing di successo. Morgan e Hunt teorizzano il “key mediating variable (KMV) model of relationship marketing” che mette in evidenza sia gli scambi relazionali che il ruolo dell’impegno e della fiducia. Questi due assunti, già considerati costrutti importanti nelle relazioni di marketing, sono anche punti focali di mediazione 46 nelle relazioni. Gli autori propongono di verificare il ruolo delle due variabili, commitment e trust, nell’ambito del modello delle relazioni di mercato. Vengono quindi elencate le principali cause (relationship terminal costs, relationship benefits, shared values, communication, e opportunistic behavior) e conseguenze (acquiescence, propensity to leave, cooperation, functional conflict, and decisionmaking uncertainty). Figura I.5.4.-1. Il modello KMV di relationship marketing Fonte: Morgan e Hunt (1994) Il modello KMV, astraendo gli elementi di un’indagine empirica, presenta risultati imprevedibili, facendo vedere come pur esistendo una correlazione positiva tra 47 molte della variabili ipotizzate, questa si realizza solo attraverso gli elementi chiave di mediazione, cioè relationship commitment e trust. La prima è definita come “an exchange partner believing that an ongoing relationship with another is so important as to warrant maximum efforts at maintaining it”, mentre la seconda come “existing when one party has confidence in an exchange partner’s reliability and integrity” (Morgan e Hunt, 1994). In base a questa teorizzazione, la fiducia è basata su valori condivisi, sulla comunicazione, su un comportamento non opportunistico, su un basso conflitto funzionale e sulla cooperazione. L’impegno, invece, oltre ad essere correlato agli elevati costi di chiusura del rapporto, si basa sugli elevati benefici per la relazione (Morgan e Hunt, 1994). Dunque, la scuola nordamericana considera la relazione come uno strumento che un’azienda può utilizzare al fine di realizzare un vantaggio competitivo. Tale costrutto teorico pone l’attenzione sulle relazioni tra due soli soggetti piuttosto che sui network, in particolare sui rapporti acquirente-fornitore e sulle alleanze strategiche (Heide e Stump, 1995; Jap, 2001). I.6. L’affermarsi della prospettiva relazionale La letteratura che si occupa di marketing relazionale è in progressiva evoluzione e di conseguenza, sta guadagnando il ruolo di nuovo paradigma di riferimento del marketing. Questo nuovo punto di vista, più di quello tradizionale, è efficace nel 48 gestire i processi di scambio tipici dei mercati industriali e dei servizi, avendo come finalità quella di creare e mantenere le relazioni per ottenere vantaggi competitivi, sulla base di accordi di lungo termine con clienti e fornitori. Questa scuola definisce il marketing come un management delle relazioni, il cui obiettivo sarebbe quello di far nascere, vivere e organizzare una rete di relazioni che abbia una lunga prospettiva di vita. Iacobucci (1994), dato che il concetti di interazione, di interscambio, di doppio legame erano già presenti nella teoria classica del marketing (Bagozzi, 1975), ritiene che il marketing relazionale è semplicemente un modo diverso di confrontarsi con il marketing tradizionale. Mattsson (1997), invece, pensa che sia importante la razionalizzazione di una teoria per avere il contesto di base in cui interpretare le varie tipologie di transazioni di marketing, tra cui quelle che riguardano prodotti, servizi, persone. Anche Sheth e Parvatiyar (2000) hanno la stessa opinione, anzi, questi ritengono che l’approccio del marketing relazionale potrebbe includere tutte le subdiscipline del marketing, come il business-to-business marketing, channels marketing, services marketing, marketing research, customer behaviour, marketing communications, marketing strategy e international marketing. Per molti anni si è ritenuto che il marketing relazionale rappresentasse il primo grande cambiamento nel marketing. In realtà, dalla nascita del marketing ad oggi, si sono susseguite fasi diverse del marketing, ciascuna legata ad una corrente di 49 pensiero prevalente. Christopher et al., (1991), fanno iniziare questa evoluzione negli anni ’50 con la nascita del consumer marketing e la trascinano fino agli anni ’90 con la diffusione sempre maggiore del relationalship marketing. Figura I.6.-1. L’evoluzione del marketing Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991) Ciascuna di queste scale rappresenta un’evoluzione all’interno della disciplina del marketing, sia come nascita e sviluppo di nuove aree di ricerca sia come livello di diffusione della disciplina nel mondo manageriale. E’ opportuno porre in evidenza che ciascuno di questi step non è fine a se stesso, ma risulta dall’evoluzione delle teorie precedenti e rappresenta il punto di partenza per le teorie future. E’ per questo motivo che il marketing relazionale 50 include le influenze di tutte le teorie che l’hanno preceduto, comprendendo anche concetti relativi alle teorie del total quality management e del knowledge management (Gummesson, 1999). Dunque, l’approccio relazionale descrive una visione dell’organizzazione di imprese e mercati che riflette meglio la realtà degli attuali contesti competitivi, oltre ad evidenziare che le imprese devono confrontarsi con molte relazioni diverse, sia per lo spettro dei soggetti, molto diversi tra loro e molto numerosi, sia per l’essenza della relazione che ha forza e stabilità ogni volta differenti. E’ da questi assunti che nasce la prospettiva dei seguaci del continuum di relazioni di mercato. Figura I.6.-2. Il continuum del marketing Fonte: Grönroos (1994) 51 Non c’è dubbio sul fatto che il paradigma relazionale si presenti come il modello che in modo più compiuto e reale riflette le modalità e le tipologie di reciproche relazioni che si hanno tra le imprese in mercati sempre più agitati e difficili. E’ quindi chiaro che il paradigma sia molto diffuso. Inoltre, che sia considerato molto duttile da un punto di vista concettuale ed applicativo, è dimostrato anche dal fatto che discipline che si occupano di settori differenti della gestione d’impresa abbiano riconosciuto come valida ed indiscussa la modalità di lettura dei comportamenti d’impresa, adattando la sua applicazione agli specifici contesti organizzativi. 52 CAPITOLO II ASPETTI EVOLUTIVI DELLE RELAZIONI TRA INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE NELLA “SUPPLY CHAIN” II.1. Spunti e riflessioni sull’applicazione del marketing relazionale Negli ultimi anni la gestione delle relazioni è uno degli elementi progressivamente più importanti ed è alla base di indubbi vantaggi competitivi. Le imprese, che sono dotate di una gestione dei rapporti corretta, ottengono risultati positivi in aggiunta non solo nei rapporti con i clienti, ma anche con i fornitori, le istituzioni, la concorrenza e tutti gli stakeholder con cui si interfacciano. Nell’ambito di una competizione così profonda, la creazione di relazioni consolidate si pone come elemento indispensabile per mantenere certe posizioni, migliorare e velocizzarsi nell’apprendimento ed operare fronteggiando un grado di rischio inferiore. Data per assunta la posizione dell’approccio relazionale al marketing, in questo momento la discussione riguarda i vari campi di applicazione. Il focus è su quali relazioni coinvolgere, ovvero se basti porre in essere il modello del management dei rapporti tra impresa e consumatori finali, o se invece sia indispensabile permeare dalla teoria le relazioni con tutti gli stakeholder. Nell’atto dell’applicazione pratica da parte delle imprese, si ritiene che il modello relazionale si porrà come un modo di gestione, con impatti a tutti livelli della catena del valore, dato che dal rapporto di interfaccia diretto con il consumatore si 53 avrà maggiore conoscenza dei suoi bisogni specifici, grazie al quale si potrà ambire ad offrire prodotti e servizi sempre più customizzati. La causa principale che porta le aziende a sviluppare relazioni con i clienti è di natura economica, dato che le aziende stesse ottengono i risultati migliori quando si interfacciano con i clienti in modo da individuare, acquisire e trattenere quelli di loro più redditizi. Fondamentale risulta dunque la retention, il cui aumento è una delle ragioni della crescita del portafoglio clienti. E’, comunque, opportuna una riflessione e cioè che l’incremento del semplice numero dei clienti, senza un piano preciso, non porta a grandi risultati. Viene quindi teorizzato che ciascuna azienda dovrebbe porsi come obiettivo il mantenimento dei clienti esistenti; procederà ad acquisirne di nuovi solo dopo averne trovati di potenzialmente redditizi o importanti ai fini strategici (Buttle, 2012). Dall’incremento della retention seguono ulteriori benefici, ovvero una progressiva riduzione dei costi di marketing e la migliore comprensione delle esigenze e aspettative dei clienti. Se guardiamo la relazione dal punto di vista del cliente, emergono molteplici situazioni in cui il cliente stesso ricerca una relazione con i fornitori. Nel contesto B2B gli esempi in cui un cliente desidera un rapporto di lungo termine con un fornitore sono numerosi, ad esempio quando un prodotto è complesso o d’importanza strategica, quando ci sono esigenze di servizio o quando è presente un elevato rischio finanziario legato ad acquisti importanti. E’ però necessario considerare che la ricerca di una relazione con il fornitore da parte 54 del cliente non è la normalità, dato che in molte circostanze è usuale che i clienti abbiano delle remore ad istaurare relazioni con i fornitori, come ad esempio la paura della dipendenza, la mancanza di valore percepito nella relazione, la mancanza di fiducia nel fornitore, la mancanza di orientamento relazionale e la rapidità dei cambiamenti tecnologici (Biong et al., 1997). Tra i numerosi contributi, sia teorici che empirici, che possono trovarsi nella ricerca scientifica riguardo al tema dell’applicabilità dell’approccio relazionale, si segnalano due visioni opposte: alcuni autori (Moller e Halinen, 1998; O’Malley e Tynan, 2000; Hibbard e Iacobucci, 1998) sostengono l’impossibilità di applicare l’approccio relazionale nei rapporti B2C, altri autori (Palmer, 1995), invece, ritengono che le relazioni di lungo periodo tra cliente e fornitore nel mercato dei beni di consumo esistono, ma sono legate a doppia mandata con la tipologia di prodotto. Come per instaurare una qualsiasi relazione, è necessaria la volontà dei due partner. Nel mercato dei beni di consumo, più spesso rispetto a quello dei beni industriali o dei servizi, il cliente non condivide l’intento del fornitore volto al mantenimento di una relazione stabile. Ci sono molteplici situazioni in cui il cliente è interessato alla singola transazione e cerca quindi di non fidelizzarsi ad un unico fornitore. 55 Altra considerazione è che il successo di una relazione, soprattutto nel mercato dei beni di consumo, non deriva solo dalle strategie e dalle politiche realizzate dal venditore, ma anche dalla propensione del cliente a porre in essere una relazione. Quindi, le imprese interessate ad attuare politiche volte a creare e mantenere relazioni di lungo periodo, dovrebbero selezionare quei clienti che siano sensibili nei confronti delle stesse. Per quel che riguarda i rapporti con gli stakeholder, invece, ricerche recenti teorizzano la possibilità di applicare l’approccio relazionale a qualunque tipologia di cliente (Sheth e Parvatiyar, 1995; Palmer, 1995; Rowe e Barnes, 1998; Gwinner et al., 1998). Si ritiene che una conoscenza più spinta di tutti i detentori di interessi e l’applicazione, anche nei loro confronti, di un approccio relazionale porterebbe all’impresa performance migliori (Gummesson, 2006). In tale ambito, si fa riferimento al four partnerships approach al relationship marketing di Morgan e Hunt (1994) e Doyle (1995). Entrambi i modelli concettualizzano l’esistenza di quattro classi di stakeholder con cui bisogna stabilire specifiche relazioni. Nel proseguo di questo capitolo verranno approfondite le relazioni che si instaurano all’interno del cluster definito da Morgan e Hunt buyer partnerships e da Doyle customer partnerships. 56 Figura II.1.-1. Il four partnership approach Fonte: Morgan e Hunt (1994) Fonte: Doyle (1995) 57 L’analisi sarà svolta dal punto di vista dell’industria, ovvero considerando l’impresa industriale come azienda focale. Verranno quindi esaminati i rapporti che l’impresa pone in essere con la domanda intermedia, cioè con la distribuzione, con l’intento di dimostrare come tutte le relazioni siano funzionali allo sviluppo e al consolidamento del rapporto con la domanda finale. Il valore dell’impresa, infatti, sia essa industriale o commerciale, è determinato dal consumatore. Dunque entrambe, a prescindere dal loro settore di appartenenza, devono basare i propri rapporti su un forte e reale orientamento alla domanda. Il consumatore può divenire la base su cui fondare una relazione stabile e duratura tra le imprese nell’ambito della filiera e, in ultima istanza, la vera fonte di vantaggio competitivo. All’interno del capitolo, si darà inoltre spazio all’evoluzione delle relazioni tra impresa e domanda intermedia ed al processo sottostante la loro creazione. II.2. L’importanza della relazione e delle nuove tecnologie Negli ambienti di mercato attuali, che sono definiti sia da un’elevata competizione, che da una diffusa evoluzione tecnologica e da politiche importanti di differenziazione dell’offerta, gli investimenti in capitale relazionale ricoprono un ruolo sempre più centrale. I mutamenti che si stanno verificando influenzano e modificano i rapporti concorrenziali in mercati sempre più numerosi (Valdani, 1997), cioè per le 58 imprese diventano sempre più necessarie le proprie risorse relazionali con i consumatori, i fornitori, gli intermediari e persino i concorrenti. Da questo segue che il ruolo della funzione di marketing è sempre più critico e strategico per la ridefinizione del rapporto tra l’impresa e il suo mercato, per mezzo dello sviluppo di metodi sempre diversi di comunicazione, della valorizzazione della relazione con i diversi soggetti con cui l’impresa si interfaccia e dell’uso delle potenzialità di formazione di conoscenza. Alcune imprese da tale riflessione hanno scelto un metodo applicativo che coinvolga l’uso della tecnologia. Hanno quindi sviluppato il customer relationship management (CRM), cioè un aggregato di attività e processi definiti volti all’esame, alla gestione, al continuo miglioramento e al dare maggiore valore alle relazioni con i clienti. In letteratura, il CRM cresce contemporaneamente al relationship marketing. Alcuni studiosi come Payne e Frow (2005) analizzano i due approcci in simultanea e definiscono il CRM come “cross-functional integration of processes, people, operations and marketing capabilities that is enabled through information, technology and application”. Altri, invece, come Zablah et al. (2004) ne evidenziano i punti di contatto considerando che il CRM è “a philosophicallyrelated offspring to relationship marketing which is for the most part neglected in the literature” e in conclusione ritengono che “further exploration of CRM and its related phenomena is not only warranted but also desperately needed”. 59 D’accordo con la sintesi appena esposta, Christopher, Payne e Ballantyne (1991) teorizzano l’esistenza di un legame gerarchico tra il marketing relazionale ed il CRM; in particolare, pongono l’attenzione su una connessione tra il marketing relazionale, il CRM e una gestione tattica di specifiche relazioni con i clienti. Figura II.2.-1. Relationship marketing e CRM: una gerarchia Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991) Il customer relationship management si basa sulla teoria di marketing relazionale, ma utilizza le tecnologie IT al fine di rendere l’offerta delle imprese sempre più vicina alle necessità ed alle caratteristiche dei clienti. L’applicazione consiste nel preparare e presentare ai singoli clienti comunicazioni personalizzate, grazie all’utilizzo ed all’elaborazione delle informazioni che vengono da diverse fonti, quali le transazioni passate, le caratteristiche demografiche e psicografiche, le abitudini, ecc. 60 L’obiettivo delle imprese, che si focalizzano sui clienti, i prodotti e i canali di distribuzione più profittevoli, è una crescita alimentata da una più elevata quota di spesa per ciascun cliente, grazie alla creazione di elevata fedeltà. Le imprese che ottengono più successo nel marketing relazionale e nel CRM sono quelle capaci di stimare il valore del cliente nel corso del suo ciclo di vita commerciale, e di conseguenza capaci di pianificare offerte di mercato e prezzi tali da ottenere risultati economici positivi nell’arco di tutto il ciclo di vita commerciale del cliente. L’elemento che ha favorito questa capacità delle imprese di sviluppare relazioni di qualità sono le innovazioni tecnologiche. Lo strumento più utile è stato quello della comunicazione interattiva, che ha reso possibile porre in essere azioni di marketing one-to-one, tramite la personalizzazione della comunicazione e della relazione con ogni singolo cliente. Don Peppers e Martha Rogers (1999) teorizzano il processo volto alla realizzazione di una strategia di marketing personalizzato composto da quattro fasi: identificare, differenziare, interagire e fidelizzare i clienti, tutti realizzabili con l’aiuto della tecnologia. 1. Identificare i clienti attuali e potenziali. L’obiettivo delle imprese non dovrebbe essere quello di raggiungere tutti i clienti, ma è comunque opportuno costruire, mantenere ed utilizzare un ampio database dei clienti, che disponga di tutte le informazioni raccolte in tutti i canali e nei punti di contatto con il 61 cliente. L’analisi delle informazioni raccolte, che le trasforma in conoscenza, renderà possibile alle aziende di identificare e ordinare i propri clienti sulla base di criteri di profittabilità e di valore strategico. 2. Distinguere i clienti in funzione delle loro esigenze e del loro valore per l’impresa. Alle varie classi di clienti è opportuno dare attenzione in base al loro valore per l’impresa, ordinandoli con un sistema ABC (activity based costing) che si basi sul calcolo del valore del ciclo vita di ogni cliente. In concreto, bisognerebbe stimare il valore attuale netto di tutti i profitti futuri che si trarrebbero dagli acquisti, dai margini di profitto e dai clienti portati da altri clienti, al netto dei costi direttamente attribuibili al servizio al cliente. 3. Interagire con i singoli clienti per migliorare le conoscenze sulle loro specifiche necessità e costruire relazioni più solide. Sarebbe opportuno per le imprese differenziare il modo di avvicinarsi ai clienti sia con la comunicazione che con l’offerta, in base alle loro specifiche necessità, interfacciandosi con ciascuno di essi e producendo il maggior valore possibile ai fini relazionali. 4. Personalizzare i prodotti, i servizi e i messaggi per ciascun cliente. E’ opportuno rendere la produzione personalizzata in base al cliente. Ciò può porsi in essere non solo con il prodotto in sé ma anche con le modalità di consegna, i servizi a esso connessi, il packaging e i termini di pagamento. 62 Si ritiene infatti che siano numerosi i benefici che possono ottenersi grazie ad un approccio relazionale personalizzato (Cantone, 1996), tra cui costruire relazioni stabili e continuative tra l’impresa e i suoi clienti a maggior valore strategico, attraverso lo sviluppo di azioni di marketing specifiche per ciascun cliente, la personalizzazione delle attività di comunicazione e di prodotti-servizi, che portino ad una maggiore fedeltà di clienti. Si dovrebbe anche ottenere il beneficio di riuscire a migliorare la precisione con cui si misura il valore delle azioni intraprese sui clienti, oltre a quello del coinvolgimento dei clienti finali nelle attività di business, mediante lo sviluppo di un rapporto cooperativo con essi. II.3. Le relazioni distributive Ogni impresa industriale, per mettere sul mercato i propri prodotti e contare su un livello di guadagno idoneo, necessita del favore dei consumatori, che può ottenere cercando di indirizzare le scelte degli users attuali e potenziali del prodotto e lavorando per avere alti livelli di customer satisfaction. Per ottenere questi risultati, l’azienda deve affrontare due ostacoli, ovvero innanzitutto la competizione con i propri concorrenti, oltre agli eventuali caratteri strutturali dei mercati di sbocco. La maggior parte dei mercati, data la lontananza fisica e/o psicologica tra i produttori e i consumatori, ha introdotto gli intermediari (Fornari, 2009), volti a 63 favorire un incontro efficiente tra domanda e offerta, procedendo a colmare questa distanza spazio-temporale. Quindi nei mercati di sbocco, oltre a con i consumatori finali, ci sono le relazioni con i distributori, i quali quasi sempre ricoprono la posizione di interlocutori diretti del produttore nella realizzazione di transazioni commerciali. Il canale di distribuzione è teorizzato come un aggregato di imprese, volte ad effettuare l’insieme di attività che servono per trasferire il prodotto, sia esso un bene fisico o un servizio, e il relativo titolo di proprietà dal produttore al consumatore, creando un flusso fisico, di titolo, di pagamento, di informazioni e di promozioni. Da questa analisi emerge che la relazione dell’impresa industriale con il consumatore nella realtà non è diretta, anzi necessita di impegno sempre maggiore per essere dapprima iniziata e poi mantenuta. Quindi, l’influenza sulla domanda pilotata dall’impresa industriale è sempre, almeno in parte, condizionata dalle scelte e dalle azioni delle imprese della distribuzione, che da anni anche in Italia non hanno più un ruolo indifferente rispetto alle politiche dell’industria. Anzi, il distributore diventa un intermediario attivo, che pone in essere strategie autonome al fine di conquistare e mantenere la propria clientela anche utilizzando strumenti, come la marca. Quasi tutte le imprese della grande distribuzione, infatti, hanno elaborato raffinate politiche di marca e gestiscono portafogli di private label che incrementano progressivamente lo spazio sugli scaffali e conquistano sempre maggiori quote di mercato, anche a discapito delle marche industriali leader. 64 Non vanno inoltre ignorate le iniziative delle imprese commerciali più illuminate che hanno tratto il maggiore vantaggio possibile dalla loro vicinanza con l’acquirente-consumatore, interpretando esse stesse le esigenze del mercato e limitando la posizione dell’industria a semplice produttore (Pellegrini, 1998). Dunque, la complessità delle relazioni con i mercati di sbocco risulta da un lato dalle azioni di molteplici attori, detentori di filosofie e priorità differenti, dall’altro anche dal loro essere in continua evoluzione, da cui emerge una continua modifica delle posizioni di forza (Rullani, 1989). Per analizzare quindi tali prospettive, riteniamo opportuno studiare l’evoluzione del rapporto che si è modificato nel tempo tra l’industria e la distribuzione, approfondendo anche le principali motivazioni che la hanno generata. II.3.1. Evoluzione delle relazioni tra industria e distribuzione Negli ultimi decenni la relazione industria-distribuzione si è modificata, in particolare a causa dell’evoluzione del sistema distributivo. Quest’ultimo ha infatti subito una forte concentrazione, che ne ha prodotto una sempre maggiore redditività, rispetto al settore industriale. Quindi il ruolo dei distributori si è sviluppato, passando da una mera intermediazione passiva ad una posizione imprenditoriale attiva. Da ciò sta divenendo essenziale per le imprese industriali, in particolare per le non leader, in alcuni casi al fine di realizzare buone 65 performance, in altri al fine stesso di sopravvivere, la gestione della relazione con le imprese di distribuzione. In molti hanno studiato il rapporto industria-distribuzione. Uno dei primi interventi in letteratura è quello di Vaccà del 1963, la cui analisi esamina i problemi affrontati dall’industria nella ricerca di una maggiore influenza sul mercato finale e nella difesa del proprio potere di fronte a quello che si vedeva progressivamente aumentare della grande distribuzione. Secondo lo studioso, l’evoluzione del rapporto tra i due attori del canale distributivo si può teorizzare in tre fasi successive. Mentre nella prima, quella del mercante-imprenditore, il predominio è affidato al momento distributivo, nella seconda, quella dell’arrivo dei prodotti di marca e della pubblicità, lo scettro del potere sul mercato è in mano all’industria. Nell’ultima fase, invece, il potere di mercato si è spostato ancora nelle mani dell’impresa distributrice. Il dibattito sui rapporti industria-distribuzione è canalizzato da molteplici altri contributi. Il focus di Varaldo (1971) riguarda i fattori e le condizioni che influenzano il grado di potere dei vari operatori di mercato, da cui l’emergere di conflitti nel canale di distribuzione e tra sistemi distributivi diversi. I conflitti nel canale di distribuzione sono intracanale, cioè sul piano verticale tra industria e distribuzione. E’ la caratteristica invasiva della integrazione verticale dell’industria, che la porta ad assumere nuove attività, a creare conflitto, dato che il ruolo dell’azienda produttrice si espande oltre le sue tipiche funzioni. Tale 66 fenomeno di integrazione verticale ha conquistato, d’altro lato, anche le imprese al dettaglio che cercano di ampliare il loro campo di azione, assumendo funzioni nel campo produttivo. I conflitti tra sistemi distributivi che si sviluppano invece sul piano orizzontale, tra distributori, sono intercanale. Il conflitto è prodotto dalle sempre maggiori eterogeneità strutturali sul piano sia delle dimensioni aziendali, che dell’ampiezza dell’assortimento, che del tipo di servizi offerti. Tali conflitti orizzontali tra sistemi distributivi si riflettono anche sulle industrie, perché le stesse aziende produttrici devono servire contestualmente clienti che appartengono a forme distributive differenti e in conflitto fra loro. Riconosciuti come inevitabili i conflitti interni ai canali distributivi, se ne può contenere l’intensità se viene riconosciuta da parte del channel leader la necessità di una congiunta massimizzazione degli obiettivi di tutti i componenti del canale. Spranzi (1976) offre un altro contributo rilevante in materia di rapporti industriadistribuzione, conferendo una dimensione dinamica ed evolutiva alle relazioni di tipo competitivo tra imprese industriali ed imprese commerciali, e ritenendo come principale l’effetto della progressiva modernizzazione del settore distributivo sulle politiche di mercato dell’industria. Tale conseguenza risulta diversa se applicata a scenari di riferimento diversi, cioè se vista nell’ambito di un “commercio precapitalistico non competitivo” oppure di un “commercio capitalistico competitivo”. Nel caso del “commercio precapitalistico non competitivo”, la forza 67 dell’impresa industriale si basa sulla capacità di contrattazione e di imposizione, nel caso del “commercio capitalistico competitivo” invece l’azienda industriale deve ampliare le proprie politiche di marketing con suoi strumenti di azione sostanzialmente differenti. Le analisi successive dei rapporti tra l’industria e la distribuzione si focalizzano proprio sulle problematiche del confronto competitivo fra i due ambiti, sulla nascita dei conflitti e sulla differenziazione dell’offerta commerciale. Mentre nel nostro Paese si è avuta la cosiddetta “rivoluzione commerciale”, causata dalla modernizzazione dell’apparato distributivo e dalla crescita di peso delle strutture della grande distribuzione, seguendo la stessa impostazione economico-strutturale, si è sviluppata la letteratura sui rapporti industriadistribuzione. Gli studi in materia si arricchiscono di nuovi lavori (Lugli, 1976; 1978) principalmente dalla fine degli anni settanta, rivolgendosi essenzialmente in due direzioni. Il primo è un filone di analisi di taglio empirico, volto a legittimare l’approccio economico-strutturale sull’evoluzione dei rapporti industria- distribuzione. In questi scritti si utilizzano dati sintetici, settoriali e nazionali, che misurano la concentrazione del sistema distributivo, al fine di dimostrare che al crescere del peso della grande distribuzione, lo scenario competitivo subisce delle modifiche e si sviluppano i rapporti verticali di mercato. Il secondo filone di analisi degli equilibri tra industria e distribuzione sorge dall’area istituzionale del marketing, ed è rappresentato dagli studi di trade 68 marketing (Fornari, 1985; 1990). In una prima fase queste analisi si limitano ai problemi dell’impresa industriale; in momenti successivi ampliano il loro campo di azione cercando di coprire anche l’approfondimento di tematiche, come quella del retailing e del merchandising, riferite principalmente alla gestione dell’impresa commerciale, esaminando nello specifico la manovra delle leve strategiche che condizionano la formazione e le modifiche delle preferenze del consumatore finale. II.4. I rapporti industria-distribuzione nell’ottica del marketing management Dall’analisi degli studi sul rapporto di filiera, i vari autori (Vaccà, 1963; Varaldo, 1971; Spranzi, 1976; Lugli, 1978) che si sono dedicati all’esame del rapporto di filiera, concordano sul fatto che i rapporti di potere tra i produttori e i distributori dipendano da quanto la struttura dei mercati e le condotte delle imprese abbiano influenzato i cambiamenti di mercato industriali e commerciali. Il potere nei rapporti industria-distribuzione identifica l’abilità di un membro del canale di distribuzione di determinare con forza la ripartizione delle funzioni di marketing tra gli altri membri del canale. Dunque mostra la forza di un soggetto del canale di coordinare/controllare gli altri soggetti e di condizionare le loro decisioni (Varaldo, 1971). La distribuzione del potere nelle relazioni verticali è condizionata dall’evolversi delle condizioni economiche, commerciali e industriali. Si può quindi teorizzare 69 l’esistenza di un ciclo evolutivo delle relazioni di canale in cui la struttura di potere condiziona le condotte di marketing di produttori e distributori e quindi determina il livello di cooperazione/conflitto tra gli uni e gli altri. Una matrice può ben rappresentare questo ciclo evolutivo. In tale matrice in ascissa e ordinata sono posizionate come variabili l’intensità della forza contrattuale dei produttori e dei distributori nei rapporti di canale. Figura II.4.-1. Potere e marketing nei rapporti industria-distribuzione Fonte: Varaldo e Fornari (1998) Creando le diverse combinazioni risultano diversi equilibri delle relazioni di potere tra industria e distribuzione, caratterizzate dalla presenza di diversi modelli di marketing, vale a dire il marketing funzionale, il marketing contrattuale, il marketing relazionale e il marketing conflittuale (Varaldo e Fornari, 1998). Fra le diverse configurazioni esiste un filo conduttore, che si muove dal quadrante 1 al 70 quadrante 4, facendo concludere che alla fine termine del ciclo evolutivo le situazioni di conflitto tendono a prevalere su quelle di collaborazione. Nei paragrafi successivi si procederà all’analisi di queste quattro fasi, alle quali seguirà l’esame della fase che viene ritenuta attualmente in corso, cioè quella del marketing sistemico. II.4.1. La fase del marketing funzionale La fase di marketing funzionale si pone negli anni ’60, periodo a partire dal quale le relazioni iniziarono ad evidenziare primi sintomi di problematicità. Fino ad allora, il sistema distributivo italiano era nelle mani dell’impresa grossista (Burresi et al., 2006) che coordinava i vari operatori del canale di vendita, oltre a dominare le principali funzioni di marketing. A livello di catena verticale, c’era una rigida suddivisione delle competenze, per cui l’industria si limitava all’attività produttiva in senso stretto e le aziende commerciali si occupavano della sola distribuzione fisica dei prodotti. Il ruolo chiave, tra due mercati, quello industriale e quello commerciale, entrambi dimensionalmente polverizzati, era svolto dall’ingrosso, che esercitava il potere nei rapporti di canale, distribuendo le funzioni di marketing tra produttori e dettaglianti (Stanton e Varaldo, 1986). Le imprese della distribuzione all’ingrosso erano dunque il “ponte” ideale tra produzione e consumo (Fornari, 1999). 71 Questo equilibrio inizia ad essere minacciato già nella seconda metà degli anni ’60, con il progressivo sviluppo dei consumi di massa. L’industria infatti inizia lo sviluppo dei prodotti di marca e, con l’obiettivo di ottenere maggiore controllo nella commercializzazione dei suoi prodotti, ricerca maggiori dimensioni aziendali. L’obiettivo alla base era la realizzazione delle economie di scala necessarie per essere in grado di abbassare i prezzi al consumo e massificare così la domanda dei beni di marca. I mezzi utilizzati per raggiungere tale scopo sono stati gli investimenti pubblicitari e strutture di vendita diffuse per assicurare una vasta copertura del mercato. In questo ambito i produttori hanno posto in essere un processo di integrazione verticale verso alcune funzioni distributive più a valle, hanno cioè assunto la gestione diretta delle reti di vendita e delle attività logistiche, i depositi e i trasporti. I costi necessari per ottenere tale integrazione erano considerati giustificabili, dati gli importanti vantaggi di marketing che era possibile ottenere in termini di barriere all’entrata verso i potenziali concorrenti. In questo modo quindi l’industria, con il silenzio assenso della distribuzione, si appropria del ruolo di channel leader, coordinando le modalità di ripartizione delle funzioni di marketing fra i membri dei canali di distribuzione. Gli aspetti qualificanti delle politiche di mercato (Varaldo e Fornari, 1998; Fornari, 2009) identificati sono i seguenti: le spese relative al marketing erano per la maggior parte di tipo pull e concentrate sulla comunicazione pubblicitaria; 72 il product management industriale incarnava il centro dell’organizzazione di vendita di filiera; l’approccio di fornitura era di tipo sell-in, cioè le contrattazioni si basavano solo sulle quantità e sui volumi acquistati; non c’erano differenze tra i distributori riguardo al servizio logistico, che era una componente dell’attività di produzione. Questa organizzazione dei rapporti verticali ha resistito fino ai primi anni ’70, anche a causa della ridotta competitività tra le industrie e le aziende del commercio. Tale situazione, dal punto di vista delle industrie, era dovuta al surplus di domanda rispetto all’offerta in particolare per i prodotti di marca, che erano nella loro prima fase di introduzione/sviluppo. La ridotta concorrenza nei mercati commerciali era invece dovuta al fatto che la finalità del commercio al dettaglio tradizionale, polverizzato nelle dimensioni, fosse offrire un servizio di vicinanza e di assistenza al consumatore piuttosto che la convenienza dei prodotti. In questa fase storica quindi le relazioni tra industria e distribuzione hanno rivestito una natura funzionale e collaborativa. L’industria contribuiva aumentando i livelli produttivi ed assicurando ai commercianti un’elevata percentuale di vendite di prodotti, mentre la funzione della distribuzione era quella di supportare la penetrazione nel mercato dei prodotti di marca, da un lato aumentando il numero dei punti di vendita, dall’altro sostituendo progressivamente negli assortimenti commerciali i prodotti locali con i prodotti 73 nazionali. C’era una sorta di equilibrio nei rapporti verticali, e in generale il potere risultava basso tanto per l’industria che per la distribuzione, data la quota di mercato raggiunta dai prodotti di marca e dato il forte livello di intercambiabilità dei punti vendita. II.4.2. La fase del marketing contrattuale Tra l’inizio degli anni ’70 e i primi anni ’80, l’equilibrio ha subito un punto di rottura, dato che la crisi economica ha portato sfavorevoli condizioni ambientali, che hanno influenzato fortemente le condizioni aziendali. I rapporti tra l’industria e la distribuzione hanno subito l’impatto della combinazione dei tre seguenti fenomeni: l’esplosione dell’inflazione, il modificarsi dei comportamenti di acquisto dei consumatori e l’inizio di una fase di modernizzazione e differenziazione del sistema produttivo. Inoltre, rispetto al momento storico subito precedente, c’è una drastica riduzione dei consumi (Burresi et al., 2006). I consumatori subiscono una enorme riduzione del loro potere d’acquisto reale, a cui reagiscono cercando di attuare alcune strategie di risparmio, basate su nuovi comportamenti di acquisto guidati da una maggiore razionalità e da una maggiore abilità nello scegliere i prodotti per il livello di convenienza. Anche l’esplosione dell’inflazione ha prodotto effetti significativi sulla configurazione dei rapporti industria-distribuzione (Fornari, 1999). In primo luogo è aumentata l’elasticità della domanda finale non solo al prezzo, ma anche 74 al servizio commerciale, dando maggiore enfasi a modelli di acquisto orientati alla realizzazione di economie di spesa, e privilegiando dunque le forme distributive che praticavano prezzi inferiori. Da questo andamento si è prodotta una sempre più forte riduzione della domanda di servizi commerciali rivolta al dettaglio tradizionale, a favore dell’aumento della domanda di servizi commerciali rivolta alla distribuzione moderna. Il cambiamento dei modelli di acquisto di consumatori si è modificato oltre che per l’inflazione, anche per evoluzioni sostanziali della società, quali la crescita del lavoro femminile, che ha ridotto il tempo disponibile da dedicare all’attività di acquisto dei beni favorendo la spesa nei punti di vendita con l’assortimento più completo, il miglioramento dei livelli d’istruzione, che ha agevolato le tecniche di vendita moderne come il self-service, il consolidamento dei prodotti di marca, la cui reputation ha finito per sostituire il ruolo di garanzia giocato dai commercianti tradizionali e lo sviluppo della motorizzazione che, accrescendo la mobilità degli acquirenti, ha ridotto la necessità di servizi commerciali di prossimità, dei negozietti di quartiere (Varaldo e Fornari, 1998; Burresi et al., 2006). Lo sviluppo di nuovi comportamenti d’acquisto ha spinto una nuova domanda di servizi commerciali, più differenziata e segmentata, tanto da supportare l’affermazione di un sistema distributivo con caratteristiche più moderne come il self-service. Tale processo di modernizzazione della rete distributiva ha subito forti rallentamenti a causa dell’esistenza di notevoli barriere all’entrata, 75 rappresentate principalmente dalla legislazione commerciale in vigore. La legge 426/1971 è stata messa come freno, al fine di ridurre la destabilizzazione che avrebbe prodotto sull’ambiente e sulla distribuzione il rapido cambiamento dei rapporti tra industria e distribuzione. Tale legge ha contribuito a (Fornari, 2009): privilegiare la crescita della Distribuzione Organizzata e Cooperativistica tra piccole e medie imprese piuttosto che quella della Grande Distribuzione capitalistica e succursalistica (Pellegrini, 1996); favorire il lavoro autonomo rispetto a quello dipendente nel commercio, per contenere il grado di sindacalizzazione del settore e conservare un serbatoio di consenso politico da parte dei ceti medi rappresentati dai commercianti (Cozzi e Ferrero, 1996); impedire l’affermazione di un forte potere di mercato da parte della distribuzione in grado di condizionare le scelte del consumatore e penalizzare l’industria di marca. In qualche modo, dunque, la legislazione commerciale ha creato il nuovo equilibrio tra le diverse componenti del sistema socio-politico, volto a mantenere una convergenza fra diversi micro-interessi. Questo patto è rimasto in vigore per tutti gli anni ’70 e ’80, con l’effetto di diminuire le cause di conflitto nei rapporti industria-distribuzione. Un effetto notevole di tale legislazione è stato quello di garantire il potere dell’industria nei confronti della distribuzione (Burresi et al., 2006), dando ai produttori la possibilità di modificare la suddivisione delle 76 funzioni marketing nei canali di vendita con la collaborazione dei distributori. A causa dei fenomeni inflattivi, l’industria di marca ha quindi lasciato le attività logistiche a valle della produzione ai dettaglianti, dando a loro il costo della funzione di stoccare le merci. Questo risultato è stato ottenuto attraverso l’elemento di contrattazione della scontistica. L’industria di marca ha utilizzato infatti a proprio vantaggio, oltre alle classiche forme di sconto utilizzate nei rapporti di fornitura, delle particolari forme di incentivazione, chiamate sconti canvass, volte a sostenere le proprie politiche di sell-in. Con questo strumento veniva raggiunto un duplice obiettivo: da un lato il costo dello stoccaggio era trasferito a carico della distribuzione e dall’altro si creava una barriera all’entrata sugli scaffali dei punti vendita. I distributori hanno accettato tacitamente le politiche distributive industriali, dato che risultavano coerenti con le logiche speculative praticate nell’attività di acquisto. Altro elemento, che aveva sostenuto la forza contrattuale dell’industria e quindi le sue politiche di sell-in, erano gli investimenti pubblicitari. La forza dei prodotti di marca è stata supportata da un lato dalla comunicazione pubblicitaria che ne ha rafforzato sia la quota di mercato sia la brand loyalty, dall’altro lato, dal fatto che i punti vendita moderni, basati sulla vendita a libero servizio, hanno agito trattando gli stessi prodotti di marca come un vincolo assortimentale, data la necessità di sostituire il livello di servizio dei punti vendita tradizionali con la garanzia offerta dai prodotti confezionati. Inoltre i beni di marca, avendo prezzi più bassi, 77 favorivano la competizione con i prodotti locali. Grazie alla presenza dei prodotti di marca, inoltre, la GD ha potuto incrementare la standardizzazione degli assortimenti nei punti vendita, con un duplice effetto positivo, e cioè una migliorata immagine dell’insegna a livello territoriale e maggiori economie di scala sul piano degli acquisti e del merchandising. Il potere dell’industria nei rapporti di canale è, però, ancora evidente sia nel controllo da parte dei produttori di marca della formazione del prezzo al consumo, sia nella pratica della politica del prezzo imposto nei confronti dei distributori. La politica del prezzo imposto, oltre al fine di dominare il margine commerciale per utilizzarlo come strumento di controllo e di pressione per la promozione dei prodotti di marca, proteggeva il dettaglio tradizionale dalle possibili politiche di prezzo aggressive che sarebbero potute nascere nelle nuove forme distributive. Questo atteggiamento era dovuto sia dalla necessità di assicurare ai prodotti di marca industriale una distribuzione numerica elevata, sia dalla scelta opportunistica di garantire una tutela a quei canali di vendita per mezzo dei quali si distribuiva ancora la quota prevalente dei fatturati industriali (i punti di vendita tradizionali). La struttura dei rapporti industria-distribuzione di questo periodo è stata di tipo contrattuale e collaborativo (Collesei e Casarin, 1999), dato che il maggiore potere dell’industria è stato alimentato proprio dalla situazione di mercato in cui la crescita delle forme distributive moderne era supportata e collegata alla notevole presenza dei prodotti di marca negli assortimenti commerciali. 78 II.4.3. La fase del marketing relazionale Gli anni ’80 hanno assistito ad un nuovo equilibrio nei rapporti di potere tra produttori e distributori, dovuto alla spinta di nuove condizioni economiche e commerciali. Nell’ambito dell’analisi delle relazioni verticali, i due fattori più significativi sono il deciso miglioramento della congiuntura economica e il veloce consolidamento della distribuzione moderna. Il miglioramento della situazione economica è avvenuto soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’80; nel periodo dal 1986 al 1990 si è registrato un livello di crescita dei consumi tre volte superiore rispetto a quello degli anni precedenti. Da ciò è emersa una nuova configurazione qualitativa dei modelli e degli stili di consumo (Fornari, 2009). Il nuovo consumatore ha livelli di consumo pro-capite, molto al di là dei suoi fabbisogni individuali, dato che si diffonde la percezione della stretta relazione tra tipologia di prodotti consumati e status sociale, per cui addirittura si tende a privilegiare la qualità percepita rispetto alla qualità intrinseca (con l’effetto della scarsa attenzione al rapporto qualità/prezzo dei prodotti), data la propensione a ricercare nei prodotti valori più di tipo edonistico che non di tipo funzionale. Questa così forte sensibilità alla marca, rafforza le situazioni di brand loyalty e la conseguente quota di mercato dei prodotti di marca, portando ad un processo di selezione dei punti di vendita, basato prevalentemente sul livello di servizio offerto e definito soprattutto da assortimenti profondi ed ampi formati da prodotti di marca, in grado di soddisfare il bisogno di quantità e di varietà dei consumatori. 79 Il processo di selezione dei punti vendita ha accelerato l’ammodernamento della rete distributiva, dando inizio ad una vera e propria rivoluzione commerciale. In quegli anni si impone la riduzione numerica degli esercizi commerciali, come conseguenza di quel processo di modernizzazione e razionalizzazione della rete distributiva che contribuì ad eliminare dal mercato diversi punti vendita (Burresi et al., 2006). Nell’ambito delle differenti forme aziendali, l’evoluzione si è rivelata più a favore delle forme associative come le DO rispetto alle catene nazionali come la GD. La trasformazione della struttura del sistema distributivo ha condizionato la competizione nei canali di marketing provocando una concorrenza tra formule distributive moderne e tradizionali così forte da dover far rivedere le politiche industriali di imposizione del prezzo al consumo orientate principalmente a tutelare la distribuzione tradizionale e ad assicurare una situazione di equilibrio tra i canali della distribuzione (Varaldo e Fornari, 1998). I distributori si evolvono ricercando una maggiore autonomia, posta in essere con lo strumento del retailing mix volto a rafforzare le situazioni di store loyalty dei consumatori. Ne segue una netta modifica dei rapporti di fornitura, con la mancata accettazione da parte della distribuzione delle politiche di sell-in industriali praticate negli anni ’70. Con la forte riduzione dei tassi di inflazione, negli anni ’80 non erano più rilevanti i vantaggi che le imprese commerciali avrebbero potuto ottenere con la pratica degli acquisti speculativi. In questo scenario, la 80 distribuzione moderna ha attuato nuove tecniche di approvvigionamento, esigendo, soprattutto dai produttori di marca, servizi logistici basati su una maggiore rotazione delle scorte e quindi un miglioramento delle condizioni di redditività commerciale dei prodotti industriali. Lo sviluppo delle imprese commerciali moderne ha posto i distributori al centro dei rapporti di fornitura, incrementando il controllo di marketing dei distributori sui processi di filiera. Ciò ha implicato una nuova suddivisione verticale delle funzioni di commercializzazione accompagnata da una progressiva, seppur lenta, crescita del potere di contrattazione della distribuzione. La concentrazione nel canale della distribuzione ha causato un incremento del peso della clientela commerciale tanto che, al termine degli anni ’80, i primi 20 clienti superavano il 35% delle vendite industriali (Fornari, 1990). In questo contesto, il potere negoziale della distribuzione si è modificato e ha permesso la richiesta di condizioni di acquisto basate non più sulle quantità di merci acquistate, ma anche e soprattutto sulla qualità dei servizi che il distributore offriva al produttore per la promozione delle vendite industriali. La natura dei rapporti di fornitura tra i due canali ha così subito una radicale trasformazione, passando da quello che era solo uno scambio di merci ad uno scambio caratterizzato sempre di più dai servizi offerti. Infatti, nelle condizioni di vendita industriali, sempre più ampio è il ruolo ricoperto dai cosiddetti contributi di marketing (Fornari, 2009), costituiti dalle risorse concesse dai fornitori per 81 ricompensare i servizi ricevuti e ottenere un miglior posizionamento della propria marca nei punti vendita. Questo approccio ha causato una crescita esponenziale dei costi di distribuzione industriali, tale da portare alla riduzione degli investimenti tradizionali di marketing, che erano destinati all’innovazione di prodotto e alla pubblicità. In un mondo di risorse limitate, l’industria di marca è entrata in un meccanismo di trade off, in cui deve scegliere quante risorse di marketing investire nel mercato del consumo e quante investirne nei canali di vendita. Da tale sistema emerge il rischio di penalizzazione nel medio periodo delle posizioni di forza dei produttori, i quali hanno puntato a realizzare una strategia volta a recuperare e riequilibrare il loro potere negoziale, attraverso lo sviluppo di due metodi. Il primo orientamento dell’industria è stato quello volto a realizzare un maggiore livello di concentrazione, posto in essere attraverso un notevole processo di acquisizioni aziendali. Il secondo metodo ha proceduto all’implementazione di attività di trade marketing affianco a quelle del consumer marketing (Fornari, 1990). Il processo di business combination è nato con la finalità di porre in essere una politica multiprodotto ed anche di rafforzare la posizione contrattuale nei confronti della clientela commerciale (Pellegrini, 1988). Tale politica di acquisizioni industriali ha modificato la struttura del mercato dei beni di largo consumo, portando ad un notevole potenziamento dei principali gruppi industriali. In particolare, l’accresciuta 82 presenza delle imprese multinazionali ha richiesto una riorganizzazione dell’attività di vendita, anche grazie all’implementazione di nuove politiche distributive. L’obiettivo di tali politiche è stato evidenziare che l’attività di marketing sarebbe stata tanto più efficace quanto più i rapporti verticali si fossero appoggiati sull’integrazione delle singole catene del valore dei produttori e dei distributori (Porter, 1987). La nuova visione dei rapporti verticali di filiera ha portato l’industria alla ricerca di nuove collaborazioni con la clientela commerciale. Le industrie hanno innanzitutto cambiato le loro strutture organizzative tradizionali integrando negli organigrammi nuovi profili funzionali e professionali (Trade Marketing Manager, National Key Account, Merchandiser, …), specializzati con competenze volte a definire e risolvere le problematiche distributive emergenti. Le industrie hanno lavorato inoltre ad un processo di implementazione di nuovi sistemi logistici, volti a massimizzare l’efficienza operativa e a minimizzare i costi di gestione dei flussi fisici della merce. Volendo raggiungere una gestione integrata della supply chain, utilizzando razionalmente le risorse nei processi amministrativi-informativi (Fornari, 1990), si è cercato di diminuire la durata del ciclo ordine-consegna, il volume complessivo delle scorte di canale e le rotture di stock. Negli anni ’80, dunque, i cambiamenti economici, commerciali e industriali sono stati tali da favorire una situazione di collaborazione e di integrazione nei rapporti verticali. Si sostiene quindi che la rivoluzione commerciale non ha prodotto effetti destabilizzanti, grazie a molteplici fattori che hanno prodotto un clima relazionale 83 e di partnership tra industria e distribuzione, tra cui una congiuntura economica favorevole, la presenza di modelli di consumo caratterizzati da una forte complementarietà fra brand loyalty e store loyalty, il rafforzamento di un potere dei fornitori controbilanciante rispetto a quello crescente della clientela commerciale, oltre all’andamento più favorevole, nel mercato distributivo, del gruppo strategico della DO rispetto a quello della GD (Fornari, 2009). Questo ultimo fattore, a favore della collaborazione, va letto nella natura delle imprese commerciali della DO che, pur manifestando un ritmo di crescita superiore a quelle della GD, hanno posto in essere una minore autonomia di marketing, da cui è seguita una maggiore disponibilità verso integrazione e cooperazione con l’industria di marca. II.4.4. La fase del marketing conflittuale Dagli anni ’90 si registra una forte discontinuità rispetto alle condizioni ambientali che caratterizzano il periodo precedente. A livello macroeconomico, il tasso di crescita del reddito disponibile registra una forte inversione di tendenza, producendo un impatto molto negativo sull’andamento degli indicatori di sviluppo come il PIL, il reddito disponibile e soprattutto i consumi. I consumi, in particolare, vengono ridotti da molteplici elementi, tra cui le conseguenze dei numerosi provvedimenti di politica economica finalizzati alla riduzione del deficit pubblico e la diffusione di aspettative negative nella popolazione, dovute sia ad un 84 contesto politico-istituzionale precario sia ad una situazione di incertezza per il futuro (Fornari, 1995). In questa fase storica, che registra una riduzione quantitativa dei consumi, si afferma però una nuova cultura del consumo, che detiene una gerarchia dei consumi diversa da quella caratterizzante gli anni ’80 (Calvi, 1995). I consumi di status dimostrativi e di immagine basati unicamente sulla qualità percepita lasciano il campo all’acquisto di prodotti di maggiore qualità intrinseca. Vengono quindi scelti stili più sobri, volti alla ricerca dell’essenzialità e della funzionalità. L’evoluzione del consumatore, sempre più razionale e più informato, attribuisce crescente importanza ai processi di ricerca e selezione dei punti di vendita che, a parità di prodotti/marche trattate, possano offrire maggiori livelli di convenienza. Vengono quindi teorizzati tre modelli di consumo: preference oriented, economy oriented e bargain oriented (Vercelloni, 1995). Nel modello preference oriented, il prezzo non assume un ruolo strategico, dato che il processo di acquisto è guidato da fattori di tipo non-price, come qualità, servizio e immagine. Il secondo, economy oriented, è invece orientato a scegliere i prodotti proprio tenendo conto di convenienza e risparmio. L’ultimo modello, bargain oriented, invece, si propone di ottenere la qualità al minor costo possibile. Nella prima parte degli anni ’90 gli ultimi due modelli sono stati i più diffusi. 85 Il consumatore ha una nuova immagine multidimensionale, più trasversale, meno prevedibile, meno condizionabile e tale da rendere inefficaci le politiche di marketing decantate dalle imprese negli anni ’80. La modifica qualitativa dei modelli di consumo e di acquisto ha causato due grandi impatti sulle politiche di branding dei produttori. Il primo effetto è stata la riduzione del ciclo di vita dei prodotti, che ha rafforzato per molti mercati la fase di maturità. Il secondo effetto si concretizza nella diminuzione del grado di fedeltà ai prodotti di marca, dovuta sia alla più ampia mobilità dei consumatori tra le diverse marche, sia al rafforzamento dello store loyalty. Il consolidamento di questi nuovi stili e comportamenti di consumo ha sancito la riduzione dell’attrattività simbolica della marca e quindi della conseguente apertura del consumatore a pagare un prezzo dei prodotti non corrispondente al loro valore intrinseco (Fornari, 1995). Questo nuovo comportamento ha indotto il successo dei punti vendita discount, cioè di punti vendita che, nella versione originaria cosiddetta hard, hanno adottato una formula distributiva basata su un assortimento ridotto di prodotti di largo consumo, limitato a prodotti generici e a marche locali, ma con livelli di prezzo inferiori del 40-50% rispetto al supermercato tradizionale (Lugli, 1993). Il veloce ed ampio sviluppo di questo modello distributivo, favorito dalla difficile situazione congiunturale, ha causato una rottura degli equilibri commerciali dando i natali a nuovi meccanismi competitivi. A seguito della presenza dei discount da 86 un lato è fortemente aumentata la concorrenza di prezzo tra le formule distributive moderne e dall’altro si sono sviluppati sempre più punti di vendita di grandi dimensioni, in particolare ipermercati, con la loro ampia offerta assortimentale, l’elevata rotazione delle merci e l’immagine evocativa di convenienza. La nuova situazione competitiva del mercato distributivo vede quindi una posizione di rilievo per gli ipermercati, e quindi un andamento più favorevole al gruppo strategico della GD rispetto a quello della DO. Da ciò risulta anche una presenza dei distributori stranieri in aumento (Lugli e Pellegrini, 2002). Il gap competitivo di cui era stata vittima negli anni ’80, viene recuperato dalla GD, innanzitutto grazie ad una maggiore disponibilità di risorse finanziarie, ma anche attraverso una maggiore dotazione di competenze tecnologiche e manageriali (Lugli, 1993). In particolare, è stato vincente il metodo delle imprese di questo gruppo strategico, che hanno integrato il controllo centrale della gestione operativa con l’adattamento del marketing alle specificità del mercato locale. In tal modo hanno ottenuto la flessibilità imprenditoriale che era il punto di forza della DO. L’evoluzione del quadro competitivo della distribuzione ha avuto riflessi significativi sulle relazioni tra industria e distribuzione. Il primo effetto è la concentrazione del mercato distributivo sia sul piano delle vendite che degli acquisti. Il secondo aspetto è stato il rendere maggiormente autonomo il marketing della distribuzione nei confronti dell’industria. In passato il potere 87 dominante dell’industria aveva falsato la politica di formazione degli assortimenti commerciali, spingendo i distributori a scegliere di mettere a scaffale i prodotti principalmente in base al peso degli incentivi ricevuti dai fornitori. Dal cambiamento delle condizioni macroeconomiche e microeconomiche, è emerso un nuovo approccio alla formazione degli assortimenti, favorito dall’incremento negli organigrammi aziendali delle imprese distributive moderne di ruoli di marketing. In particolare questo orientamento si è manifestato attraverso il passaggio da un’organizzazione degli acquisti per fornitore a un’organizzazione degli acquisti per categoria di prodotto, modificando il mix degli assortimenti dando maggiore importanza alle marche ed ai prodotti più dinamici e redditizi e rafforzando il posizionamento della marca commerciale, con un miglioramento del livello qualitativo e della quota di vendita (Fornari, 2009). Il cambiamento della composizione degli assortimenti commerciali nei punti di vendita moderni ha causato una nuova configurazione dei rapporti verticali, in cui la distribuzione ha da un lato una maggiore autonomia nel marketing e dall’altro un maggiore potere contrattuale nei riguardi dei produttori. Il potere di negoziazione nei rapporti di filiera si è quindi spostato dalla fase della produzione a quella della distribuzione. Per questo motivo, si parla di fase del marketing distributivo (Fornari, 2009). 88 II.4.5. La fase del marketing sistemico La fase del marketing sistemico è quella in corso, iniziata negli anni 2000. In questi anni, una nuova e profonda discontinuità delle condizioni ambientali socioeconomiche si sta realizzando ed è tale da implicare un’ulteriore forte evoluzione delle relazioni di filiera. Questa discontinuità è sorta dalla presenza contemporanea di fenomeni complessi e turbolenti. Il primo fattore si incarna nel duro colpo subito da molti investitori a seguito del crollo dell’indice di borsa Nasdaq, che rappresentava l’andamento della new economy, fallita dopo una crescita esorbitante ed irrazionale. Da ciò è derivata una riduzione dei rendimenti finanziari e quindi della ricchezza delle famiglie che ha prodotto immediati effetti negativi sulla dinamica dei consumi complessivi. Il secondo fenomeno è stato il radicamento del terrorismo internazionale. Il terzo è fenomeno è stata l’introduzione della nuova moneta europea, con il passaggio in Italia dalla lira all’euro. Il quarto è rappresentato dall’instabilità del prezzo delle materie prime alimentari ed energetiche, che ha subito rilevanti picchi prima verso l’alto e poi verso il basso. Tale andamento dei prezzi delle materie prime trova le sue ragioni in fattori di natura sia produttiva sia finanziaria. L’iniziale aumento dei prezzi fu la risposta alla crescita della domanda, a fronte di un’offerta in diminuzione, da un lato dallo sviluppo dei paesi di nuova industrializzazione dall’altro dalle politiche speculative attuate da alcuni operatori finanziari che hanno sostituito per i loro investimenti i mercati finanziari con i più redditizi mercati delle materie prime. 89 Nella seconda fase, il picco verso il basso dei prezzi è stato determinato dal progressivo rallentamento dell’attività produttiva a livello internazionale, dovuto agli effetti pervasivi della crisi finanziaria che ha messo in discussione la stabilità e gli equilibri socio-economici mondiali. Da ciò segue un nuovo quadro delle politiche di mercato, in cui rivestono un ruolo determinante i produttori per le politiche di trade marketing. Al fine di pianificare queste linee di azione sarà sempre più opportuno porre attenzione a diverse dimensioni di analisi (Fornari, 2009). Innanzitutto è necessario valutare le implicazioni sui budget aziendali e sugli orientamenti d’investimento del rallentamento del tasso di crescita dei mercati, oltre alla crescente centralità dei modelli d’acquisto value for money, vale a dire di modelli che sintetizzano e interpretano le relazioni esistenti tra la domanda di valore (value) e la domanda di convenienza (money). Altro elemento è il diffuso bisogno di rassicurazione espresso dai consumatori, ben evidenziato dai bassi livelli di fiducia delle famiglie. Vanno anche considerate la modifica del posizionamento dei canali di vendita, ora con prospettive di sviluppo molto differenti per i diversi formati distributivi e l’innovazione necessaria nell’attività promozionale, dato che le tecniche promozionali tradizionali appaiono sempre meno efficaci e adeguate a soddisfare i bisogni dei consumatori. Va analizzata quindi la revisione, sia teorica che operativa, delle valutazioni sulle potenzialità di sviluppo delle marche private, oltre alla modifica delle strutture organizzative industriali e commerciali in quanto 90 in questo scenario di discontinuità sono richieste nuove competenze e soprattutto nuovi modelli relazionali di filiera. In un ambiente come quello descritto, il marketing si evolve ed entra in una nuova fase storica, in cui i processi di pianificazione e di gestione aziendale richiedono un approccio di sistema capace di supportare una forte integrazione tra i distinti stadi della filiera. Questo approccio pone l’attenzione sugli inscindibili rapporti tra condizioni ambientali e quadro delle relazioni di canale. Questo modello presuppone una profonda conoscenza degli scenari macroeconomici, dei modelli di consumo, dei canali di vendita, dei posizionamenti delle marche e delle insegne, ritenendo valido l’assunto in base al quale le politiche commerciali non saranno solo risultato delle performance negoziali verticali ma anche della natura e degli effetti delle condizioni sociali e economiche. In questa nuova fase storica, viene attribuita al trade marketing una posizione sempre più strategica nei processi di creazione del valore di filiera. La ricostruzione storica dell’evoluzione dei rapporti industria-distribuzione si conclude con la fase del marketing sistemico, modello ora in essere. Tale analisi storica permette di concludere che le relazioni che si creano nella filiera dipendono dal maggior potere di una o dell’altra delle tre componenti che definiscono la differente natura di tali rapporti: la componente contrattualisticanegoziale, la componente competitiva-conflittuale e la componente strategica (Varaldo e Dalli, 2003). L’emergere di una componente sull’altra dipende dalle 91 caratteristiche e dalle condizioni del macro-ambiente socioeconomico e competitivo che influenzano in modo diretto i comportamenti strategici dell’industria e della distribuzione. Si riportano, in conclusione, alcuni spunti sorti da un’analisi empirica posta in essere da Varaldo e Fornari (1998) sull’andamento dei rapporti industriadistribuzione nei beni di largo consumo. Innanzitutto, la natura dei rapporti verticali è condizionata dalla struttura del potere tra industria e distribuzione e il grado di collaborazione tra industria e distribuzione tende ad essere maggiore nei casi in cui il potere dei rapporti di canale risulta equilibrato. Nei sistemi distributivi evoluti l’interesse dei produttori a cooperare con la clientela commerciale è maggiore di quello che possono avere i distributori a cooperare con i fornitori, infatti nei casi in cui si verifichi una situazione di dipendenza dell’industria, le forme di cooperazione sono imposte dalla distribuzione e quindi non massimizzano gli obiettivi dei fornitori. Le potenzialità di integrazione tra industria e distribuzione sono diverse per le diverse funzioni di commercializzazione tanto da risultare minori per le attività strategiche di marketing. Lo sviluppo della GD accresce le differenze strutturali tra produttori e distributori e quindi la relazione diretta esistente tra queste differenze e l’intensità dei conflitti nei rapporti verticali. Infatti, le relazioni verticali non sono statiche ma condizionate dall’evoluzione tra produttori e distributori delle condizioni 92 ambientali, commerciali e industriali tanto da rendere difficile lo sviluppo di soluzioni organizzative attraverso cui realizzare una convergenza cooperativa stabile e duratura degli interessi industriali e commerciali. II.5. Le implicazioni e il ruolo della funzione marketing nella gestione della relazione Data la complessità della situazione attuale, dato il peso della distribuzione, riteniamo che l’impresa industriale che voglia mantenere ed accrescere la sua posizione, non può prescindere dalla presenza nel suo organigramma di una funzione marketing. In letteratura, si ritenne molto significativa la seguente frase: “The most important competitive mean in industrial marketing is the organizational design of the marketing function” (Hakansson et al., 1979). Si è avuto dibattito sul tema dell’organizzazione delle attività di marketing dato che le imprese sembrano definire tale ruolo sia in conformità alle esigenze interne, cioè organizzative, che esterne, cioè di mercato (Webster, 1992). Il nocciolo della questione, secondo Webster, è l’attribuzione al ruolo del marketing di una posizione chiave per poter gestire i rapporti con i clienti, che sono la risorsa più importante che una impresa possiede. A livello strategico quindi la mansione centrale del marketing dovrebbe essere quello di stabilire, sviluppare e mantenere le relazioni con i clienti, piuttosto che 93 concentrarsi sulla gestione dei fattori del marketing mix (Ford, 1980). Infatti le imprese hanno l’esigenza di distribuire nel modo più efficace ed efficiente possibile le risorse a loro disposizione tra le diverse relazioni in atto. E’ quindi necessario esaminare in concreto e in modo sistematico il ruolo del marketing in relazione alle tre attività citate in precedenza. Per stabilire una relazione è necessario svolgere un’analisi preliminare riguardo al potenziale cliente, che comporta di porre l’attenzione sulle sue relazioni esistenti e quindi sui competitors di scena sul mercato. In questa fase preliminare di studio è opportuna un’interazione con il management dell’impresa dato che l’impresa potrebbe essere influenzata da esperienze passate oppure potrebbe sperimentare una distanza dal potenziale customer. Lo sviluppo della relazione implica scelte di tipo organizzativo e strategiche. La scelta tra una funzione di marketing adatta a seguire numerosi piccoli clienti e i relationship managers può essere decisiva (Ford, 1990). I relashionship managers sono persone di marketing incaricate di seguire le relazioni, che hanno efficacia nel caso siano presenti pochi grandi clienti. Mantenere una relazione nel lungo periodo significa tenerne continuamente sotto controllo l’evoluzione, nel senso che l’impresa potrebbe anche razionalmente decidere di abbandonare la relazione nel caso in cui l’istituzionalizzazione e le routine si rivelassero antieconomiche. Ciò significa che la gestione delle relazioni 94 con i clienti porta alla necessità di valutare ogni rapporto anche nella prospettiva del suo potenziale, delle risorse che richiede e quindi dei risultati realizzati. Nell’ottica di una visione strategica dei rapporti con il mercato, risulta che il compito basilare del marketing sia quello di indirizzare le scelte gestionali dell’impresa (Ferrero e Tunisini, 2004). Sostanzialmente tutta l’organizzazione, e con maggior enfasi i ruoli che si interfacciano con i clienti, dovrebbero essere in grado di comprendere gli obiettivi delle singole relazioni, ovvero comprendere quali siano i fattori che determinano il valore percepito dal cliente e cogliere le interdipendenze tra gli attori che si muovono nel network. Quindi, il compito del marketing dovrebbe esplicarsi nel presentare una visione ampia di mercato, per identificare quali siano i protagonisti attuali e nel tempo, e nell’indicare su quali attori l’impresa dovrebbe investire direttamente e su quali invece potrebbe agire attraverso altre interazioni. Sarebbe molto importante quindi che il marketing riuscisse a delineare una visione olistica di mercato (Webster, 1992), tale da consentire all’impresa di comprendere meglio la struttura di network nella quale agisce. Da ciò risulta inadeguato un marketing rilegato ad una funzione dipartimentale, dovendo incarnare una totally business philosophy, dato che la gestione della relazione con il customer è effettuata da diverse funzioni aziendali (Fiocca et al., 2003). Comunque, ovviamente, le attività di marketing possono essere gestite in 95 modi diversi, in base al tipo di soluzione-servizio che l’impresa offre sul mercato e in base all’organizzazione dei processi interni. Infatti è più che probabile che non esista un modello organizzativo ottimale, per cui ogni impresa porrà in essere le soluzioni che riterrà più idonee ai suoi obiettivi di sviluppo. Dato che il marketing necessita di numerose competenze e diverse posizioni organizzative, l’efficacia delle azioni sarà condizionata anche dallo sviluppo nell’impresa di una cultura di mercato, appoggiata dall’alta direzione aziendale, e da una funzione specialistica di esame ed integrazione dei flussi informativi (Ferrero, Tunisini, 2004). Il primo passo da porre in essere in una impresa è quello di integrare e diffondere le informazioni sui clienti, per poi valutarle in un orizzonte di lungo periodo, al fine di valorizzarle. Ciò è possibile a patto che l’impresa sia dotata di strumenti adeguati e competenze specifiche. Una delle finalità principali di una organizzazione che vende un prodotto o un servizio è il bisogno di soddisfare le esigenze del cliente (Fiocca et al., 2003). Ciò richiederebbe che ci siano investimenti equilibrati sull’organizzazione dei flussi informativi e sulle funzioni interne. Spesso accade infatti che le imprese investano in sistemi volti ad assicurare una dotazione in risorse tecnico-produttive, tralasciando oppure sottovalutando l’investimento in attività di marketing. La funzione del marketing dovrebbe essere vista come un centro di eccellenza in cui è conservata la conoscenza sui customers e dove sono poste in essere attività 96 rivolte alla diffusione della cultura di marketing tra tutte le funzioni aziendali (Ivens et al., 2007). La domanda a cui rispondere, a questo punto, è quali siano gli strumenti che il marketing mette a disposizione per soddisfare l’esigenza di gestire una relazione. Uno strumento che ricorre sempre più spesso è il customer relationship management (CRM), favorito dell’utilizzo delle tecnologie informatiche, a disposizione delle aziende per facilitare la relazione fornitore-cliente. Il ruolo del marketing dovrebbe quindi essere sviluppato nell’organizzazione ed agire da elemento aggregante tra diverse organizzazioni, dai distributori, ai partners, agli investitori, ecc., cioè per l’intera supply chain. Da una prospettiva di marketing, l’impresa industriale deve fronteggiare un duplice orientamento al cliente: il cliente finale e il cliente intermedio. Per ogni tipo di cliente ci sono strategie di marketing efficaci, cioè politiche di consumer marketing rivolte al consumatore finale e di trade marketing indirizzate al distributore. Analizzando il cliente finale, si nota un cambiamento profondo nel consumatore, che sta divenendo un soggetto attivo e contemporaneamente una fonte di competenze (Hamel & Prahalad, 1990) per l’azienda. Anche esaminando il cliente intermedio, si nota come il distributore stia diventando un soggetto attivo, dato che ricopre un ruolo chiave per il successo dell’impresa industriale. Di qui emerge la sempre maggiore importanza assunta dal trade marketing, appunto, la 97 funzione attraverso la quale si attuano le specifiche attività di marketing rivolte dall’impresa verso gli intermediari. Le politiche di trade marketing sono, quindi, complementari a quelle di consumer marketing, richiedendo un ruolo importante anche nell’organigramma delle imprese produttrici. Il consumer marketing e il trade maketing, quindi sono due strategie gemelle (Lawrence, 1983) e non possono essere considerate dicotomiche. Infatti, se è vero che gli acquisti dipendono dalla domanda dei consumatori è vero anche l’opposto, e cioè che la domanda subisce l’influenza dall'offerta di prodotti presenti nelle strutture di vendita. Il condizionamento è quindi reciproco, con la conseguente necessità di ritenere l’attività di vendita fortemente legata a quella di acquisto e con l’esigenza di procedere ad una pianificazione della domanda. L'interazione fra acquisto e vendita si evolve continuamente, con una ciclicità che si presenta in diverse fasi, volte alla soddisfazione della clientela: esame e valutazione della domanda; ricerca dei prodotti secondo le necessità evidenziate dalla domanda; realizzazione delle campagne di vendita nei canali distributivi; sviluppo di iniziative mirate alla distribuzione volte a far inserire il prodotto in assortimento; attivazione di iniziative rivolte ai consumatori per spingerli all’acquisto dei prodotti in assortimento. 98 “Market orientation is an important, influential force on channel relationships”, quindi nell’analisi delle relazioni distributore-produttore, l’orientamento al mercato non può essere sottovalutato (Siguaw, Simpson e Baker, 1998). Nell’orientamento al mercato, distributori e produttori hanno il medesimo fine di creare un valore maggiore per il consumatore finale. La vicinanza del distributore al mercato è il punto focale su cui distributori e produttori lavorano insieme al fine di assicurare ai consumatori finali un maggior valore rispetto ai concorrenti. Se un produttore è market oriented e agisce con la finalità di soddisfare, oltre alle richieste dei consumatori finali, anche quelle del distributore, allora il distributore incrementerà il suo livello di fiducia nelle relazioni di collaborazione e si convincerà che il produttore con cui agisce in partnership sta agendo per ottenere gli stessi outcomes competitivi. Se anche il distributore è market oriented e ha posto in essere una relazione di collaborazione con il produttore, sa che la raccolta e la condivisione delle informazioni sui consumatori deve aver luogo più velocemente possibile, così da creare e proporre sul mercato un’offerta più vicina alla clientela, prima e meglio dei concorrenti. In conclusione, si può ritenere che l’aspetto focale per la costruzione di un rapporto collaborativo tra distributori e produttori, fondato sulla creazione di valore per il cliente, all’interno dell’intera supply chain, sia l’orientamento al mercato. 99 Capitolo III IL TRADE MARKETING: I RISULTATI DI UN’INDAGINE EMPIRICA III.1. L’orientamento di trade marketing Il trade marketing è un approccio gestionale che contraddistingue le relazioni tra le imprese industriali e le imprese commerciali. Può essere considerato come il marketing rivolto ai distributori, che si afferma conseguentemente al riconoscimento della loro rilevanza e criticità. Il trade marketing, in parole semplici ed esplicative, vuole essere il marketing che si rivolge al trade distinguendosi così da quello consumer oriented, rivolto al consumatore finale. Le imprese industriali, quindi, sono sempre più costrette a competere in due mercati. Il primo è quello della domanda finale, quello dei consumatori; il secondo mercato, invece, è quello della domanda intermedia, quella dei canali di distribuzione. In quest’ottica, l’attività di marketing si articola in due grandi componenti: la componente del consumer marketing e la componente del trade marketing. Parlare di consumer marketing significa parlare di tutte le azioni strategiche, operative e organizzative che un produttore deve implementare per conquistare il mercato finale. Le leve specifiche di questa area di attività sono quelle dell’innovazione di prodotto, della comunicazione e del posizionamento di prezzo. 101 Parlare, invece, di trade marketing significa parlare di tutte le azioni strategiche, operative e organizzative che un produttore deve sviluppare per conquistare il mercato intermedio della distribuzione e della clientela commerciale aziendale. Le leve caratteristiche di questa area sono quelle delle condizioni commerciali, delle iniziative di in store promotion, della logistica e del merchandising. Le politiche di trade marketing sono diventate, quindi, speculari a quelle di consumer marketing. La nozione coniata da Lawrence nel 1983, “twin marketing strategies”, è estremamente efficace per spiegare la complementarità (Cuomo, 1988) e la relazione tra i due concetti. Figura III.1.-1. Due strategie di marketing gemelle Fonte: Lawrence (1990) 102 Nella prassi aziendale, le decisioni sugli investimenti di marketing sono, sempre di più, il risultato della soluzione del dilemma su quanto investire da una parte e quanto dall’altra. Negli ultimi anni, progressivamente gli la componente investimenti di trade aziendali, marketing ha assorbito comportando un profondo cambiamento nell’equilibrio degli investimenti tra le due parti del marketing. Tra i fenomeni che hanno portato all’incremento dell’importanza del trade marketing (Fornari, 2009) c’è l’evoluzione dei modelli di consumo e di acquisto, in cui è cambiata la rilevanza relativa tra domanda di prodotti e domanda di servizi commerciali. Ciò ha comportato un nuovo equilibrio tra la brand loyalty e la store loyalty, dato che i consumatori ritengono i punti vendita mezzi di comunicazione più efficaci di quelli tradizionali. Nel momento d’acquisto il consumatore è sempre più informato e ricerca una controparte competente con cui relazionarsi. La seconda causa della prevalenza del trade marketing è la rivoluzione commerciale. Negli ultimi anni la distribuzione, infatti, si è modernizzata, differenziata e concentrata (Sicca e Adreassi, 1988). Il contesto si sta modificando, per cogliere opportunità che il mercato va evidenziando. Si pensi, ad esempio, alla commercializzazione di prodotti attraverso internet e alle prime esperienze di commercializzazione, anche di beni problematici, attuate dagli operatori della GDO. 103 La terza e ultima ragione si individua nel decremento strutturale del tasso di crescita dei consumi che, con la diffusa presenza di mercati maturi, ormai simili e mancanti di innovazione, ha reso prodotti e marche sostituibili. Questi fenomeni hanno portato ad un cambiamento nei rapporti gerarchici sia all’interno della filiera che tra industria e distribuzione. Alla luce di queste considerazioni, si comprende la crescente intenzione, propria dell’impresa industriale, di incrementare il valore e il peso degli investimenti in trade marketing, al fine di migliorare le condizioni di efficienza e di efficacia delle politiche commerciali. L’applicazione strutturale del trade marketing può migliorare il ruolo dei prodotti presso la grande distribuzione e fronteggiare le richieste del consumatore finale. Per un’azienda l’orientamento di trade marketing diventa fondamentale per realizzare un’efficace commercializzazione che ottenga obiettivi quantitativi e qualitativi specifici quali il mercato, un segmento scelto, la stessa grande distribuzione, la vendita relativa, ecc. “Il trade marketing diventa un imperativo categorico dal quale non ci si può sottrarre in quanto è il solo in grado di assicurare il successo in questo ambito” (Foglio, 2014). Per essere trade marketing oriented un’impresa deve produrre ciò che la grande distribuzione può e vuole vendere, cioè quello che il consumatore finale desidera, e non vendere semplicemente quello che produce. 104 Un’azienda che non ha questo approccio, non soddisfacendo le esigenze del grande commercio, non riuscirà ad intercettare e a pianificare la domanda di un prodotto. Dal punto di vista del marketing questa vision si realizza producendo beni in linea con le richieste della grande distribuzione e dei consumatori finali e non solo con quelle aziendali. Diventa quindi importante per l’azienda lo scambio continuo, il “legame intelligente” (Foglio, 2014) con la grande distribuzione. Il trade marketing diventa infatti il fattore intelligente che unisce azienda e grande distribuzione. Solo su questi presupposti l’azienda può attuare la sua strategia di trade marketing. Esiste una correlazione in grado di dimostrare lo sviluppo di un’azienda nei confronti del grande commercio, e cioè dove c’è sviluppo aziendale, c’è trade marketing; poi questo sviluppo è maggiore dove è maggiore l’uso e il credito nei confronti del trade marketing, sia a livello di pianificazione dei mezzi da impiegare nei confronti del grande commercio, sia a livello di mirata politica di prodotto, di prezzo, di vendita, di comunicazione e di promozione e di controllo. Il trade marketing ha assunto, quindi, una valenza strategica, diventando fonte di vantaggio competitivo (Marino, 1988). 105 III.2. Il concetto di trade marketing: origine e evoluzione Sia come tema di ricerca e sia come funzione aziendale, l’emergere del trade marketing è da ricondurre all’evoluzione che ha interessato le imprese commerciali e i conseguenti cambiamenti sostanziali avvenuti nei rapporti con i fornitori. Il concetto è apparso in diversi paesi europei tra la fine del 1980 e gli inizi del 1990 e nel corso degli anni si è sviluppato gradualmente con una serie di differenti definizioni e/o descrizioni presentate da diversi autori. Nel 1983 Lawrence, nel libro “La gestione del trade marketing”, ha fornito la prima definizione di trade marketing: “What the manufacturer must do therefore is to cultivate the development of his marketing policies through the trade by equal attention both to the needs of the consumer and the needs of the distributive trade”. Pochi anni più tardi, nello stesso contesto anglosassone, due autori, Davies (1993) e Randal (1994), hanno fatto riferimento al concetto di trade marketing come una prassi industriale che si sviluppa in reazione ai cambiamenti legati al crescente potere dei distributori. Senza definire il concetto, gli autori hanno fornito una serie di note di grande interesse per circoscrivere l’argomento: da un lato, hanno sottolineato la necessità per il produttore di considerare il distributore come cliente piuttosto che come canale di distribuzione, dall’altro lato, hanno evidenziato come il trade marketing dovrebbe essere rivolto a soddisfare le 106 esigenze dei consumatori e del mercato attraverso l’integrazione delle attività di marketing dei fornitori e dei distributori. Nel definire il significato di trade marketing, molti altri autori hanno fatto riferimento al concetto di alleanza/integrazione tra il fornitore ed il distributore, anche se con caratteristiche diverse a seconda del loro contesto, per servire e soddisfare al meglio il consumatore. Ad esempio, in Francia, Chalouin (1992) nella sua visione di trade marketing ha sottolineato la necessità di ottimizzare le relazioni e di armonizzare le risorse, mentre Dupuis e Tissier-Desbordes (1996) si sono focalizzati sull’importanza delle procedure metodiche che devono essere svolte congiuntamente dai produttori e dai fornitori. In Spagna, invece, Velando e Curras (1996), Santesmases (1999) e Domènech (2000) nel descrivere il trade marketing, hanno evidenziato il concetto di alleanza strategica tra fornitore e distributore, che è indispensabile non solo per soddisfare il consumatore finale, ma anche per aumentare i vantaggi in termini di redditività dei due attori del canale di distribuzione. Anche in Italia, negli stessi anni, il trade marketing è diventato rapidamente popolare. Tre volumi (Mauri, 1987; Marino, 1988; Fornari, 1990) e numerosi articoli (Predeval, 1983; Fornari, 1985; Marcanti 1989) sono stati pubblicati, così come una rivista dedicata a questo argomento. La prima definizione italiana, su cui si basano quasi tutti i contributi successivi, è stata proposta da Predeval nel 1983 in un articolo pubblicato su una rivista di 107 marketing: “il trade marketing è un’attività di pianificazione delle vendite complementare e integrata al consumer marketing”. Questa definizione è stata più propriamente implementata da Fornari (1985) nel seguente modo: “il trade marketing è quella strategia distributiva che, basata sul concetto di cliente/canale, punta a conoscere, pianificare e gestire il processo distributivo in modo da ottenere da un lato un efficace impiego delle risorse aziendali e dall’altro duraturi vantaggi competitivi nello scambio dei prodotti”. Altri autori (Marcanti, 1989; Pellegrini, 1993; Lugli 1998; Beltramini e Gaeta, 1998) nel definire il trade marketing hanno sottolineato, invece, l’insieme di azioni che il fornitore mette in atto per facilitare i rapporti con il distributore. I contributi presenti in letteratura per definire il trade marketing sono molteplici e frammentati. Questo dipende dalla mancanza di una definizione comune del fenomeno. Dall’analisi della letteratura emerge che in sintesi il concetto di trade marketing può essere considerato come: un’alleanza strategica ed operativa tra fornitore e distributore per definire insieme i piani di marketing e per ridurre i conflitti (Sicca e Andreassi, 1988); un insieme di attività di una funzione ben definita che è presente nella organizzazione aziendale; 108 un orientamento generale, nel senso di pensare in termini di canale/cliente, strutturando la strategia di marketing in base ai canali di vendita e ai clienti, con la conseguente migliore gestione del portafoglio clienti. Infine, per concludere questa sezione, si presenta l’ultima definizione di trade marketing fornita da Fornari (2009), che a parere di chi scrive è la più appropriata: “l’insieme di tutte quelle attività di natura strategica e operativa che, basate sul trinomio prodotto/cliente/canale, si prefiggono di pianificare/organizzare/gestire le relazioni verticali di filiera con l’obiettivo di soddisfare i bisogni dei distributori e dei consumatori massimizzando il ritorno degli investimenti nel mercato finale e nel mercato intermedio”. Da questa concettualizzazione si ricava l’indicazione che ci sono tre dimensioni che qualificano l’attività di trade marketing: la dimensione organizzativa, la dimensione strategica e quella operativa. Figura III.2.-1. Altre definizioni di trade marketing CHALOUIN Trade marketing is a common effort by suppliers and retailers to (1992) optimize relations and harmonize resources so as to better serve the consumer and/or try and achieve mutual economies of scale... It is a question of the supplier considering the retailer as a customer, with all that involves. The retailer is no longer a mere subcontractor, he has become a partner – and more than a partner, he has become a customer and should be treated as such. TISSIERTrade marketing is a strategic process covering everything that DESBORDES ET AL. enables the optimization of trading methods between a retailer and a (1993) supplier. DUPUIS E TISSIERTrade marketing is a methodical procedure carried out jointly by DESBORDES suppliers and retailers, whose objective is to better serve customers’ (1996) needs and expectations, increase profitability and competitive position while taking into account each other’s constraints and specificity. 109 SANTESMASES (1999) DOMENECH (2000) MARCANTI (1989) PELLEGRINI (1993) LUGLI (1998) BELTRAMINI E GAETA (1998) El trade marketing es una alianza estratégica entre el fabbricante y el distribuidor orientada a desarrollar acciones conjuntas de publicitad, promoción y presentación del producto en el punto de venta, con el fin de inventivar la domanda final, en beneficio de ambos. Trade marketing es una alianza estratégica entre membros de diferente nivel del canal comercial para dasarollar la totalidad o una parte de un plan de marketing compartido en beneficio mutuo y del consumidor. Il trade marketing è il marketing che si rivolge agli intermediari commerciali. Il trade marketing individua l’insieme di azioni che il produttore pone in essere per agevolare il rapporto commerciale con la distribuzione. Il trade marketing consiste nella strategia e nelle azioni finalizzate alla realizzazione di un vantaggio competitivo nel mercato intermedio. Il trade marketing riduce l’antagonismo tra produttore e cliente mettendo in relazione le necessità di entrambi. Fonte: elaborazione propria III.3. Il processo di pianificazione del trade marketing In passato si è data più importanza al budget di prodotto che al budget per cliente/canale, dando quindi più rilevanza agli investimenti in consumer marketing piuttosto che a quelli in trade marketing. Si ritenevano di maggior ruolo i budget di prodotto in quanto si consideravano strategici per il supporto del brand aziendale, mentre i budget di cliente/canale erano visti semplicemente come operativi e tattici. In questa nuova teorizzazione, le scelte sugli investimenti di trade marketing risultano strategiche, necessitando una precisa pianificazione che assista le decisioni operative. 110 Tre sono gli obiettivi di questa attività. Il primo è analizzare come si evolve il mercato distributivo facendo attenzione ai canali di vendita e ai diversi gruppi strategici. La seconda finalità è accertare il ruolo dell’azienda industriale nella competizione con la clientela commerciale. In ultimo, va considerato l’aspetto economico, cioè il grado di reddito prodotto dagli investimenti commerciali, dato che le risorse disponibili sono sempre minori. Si tratta di applicare le metodologie e gli strumenti di pianificazione utilizzati tradizionalmente nell’area del consumer marketing integrando la dimensione di analisi basata sul binomio prodotto/mercato con quella basata sul binomio cliente/canale (Vicari e Castaldo, 2005). E’ quindi necessario sviluppare complementare al consumer plan un trade plan, che evidenzi per un verso i limiti delle politiche di vendita e dall’altro le azioni necessarie per affrontarli. Infine il trade plan è il mezzo tecnico per misurare il grado di profitto degli investimenti commerciali, costruendo un conto economico dei clienti. 111 Figura III.3.-1. Il processo di pianificazione di trade marketing Fonte: Fornari (2009) 112 Condizione di base per per porre in essere il trade plan è possedere le informazioni di base e, quindi, un sistema informativo articolato e dettagliato sugli aspetti che determinano le politiche di vendita industriali. Le informazioni necessarie si possono distinguere tra quelle di ambiente, di mercato e di posizionamento. Le informazioni di ambiente hanno il fine di tracciare l’evoluzione della struttura del mercato distributivo per misurare gli impatti che tali cambiamenti producono sull’aspetto dei canali di vendita e sulle politiche commerciali. Le informazioni di mercato, invece, sono utili per analizzare quelle variabili, come la quota di mercato, il grado di presenza nei mercati e la struttura del portafoglio punti vendita, che evidenziano sia le politiche di sviluppo dei diversi distributori sia il loro posizionamento economico e commerciale. Le ultime, le informazioni di posizionamento, permettono di valutare il posizionamento competitivo delle imprese industriali nei canali di vendita e nei clienti commerciali. Da ciò emerge, quindi, il ruolo chiave svolto dalle informazioni. Tra le condizioni necessarie per pianificare e implementare un corretto orientamento di trade marketing (Fornari, 2009), è opportuno analizzare il modo di comportarsi in fase di acquisto dei consumatori enfatizzando quanto sulle politiche commerciali agiscano la struttura e l’evoluzione della domanda dei servizi commerciali. Il sistema informativo necessario deve essere aggiornato e 113 fornire informazioni sugli scenari distributivi, sul posizionamento delle insegne commerciali, sui modi di crescita dei diversi canali di vendita, in modo che risulti possibile indagare le performance industriali nei canali/clienti mettendo in evidenza gli aspetti su cui intervenire per rendere più efficienti i risultati commerciali. Le strutture organizzative vanno adeguate alla nuova realtà distributiva sia per migliorare il tipo di rapporti all’interno della filiera sia la compartecipazione delle varie funzioni all’interno dei processi aziendali. Per fare ciò si dovrebbero utilizzare metodi di programmazione e di controllo delle vendite volti a sviluppare piani-clienti e piani-prodotti tra loro complementari, impiegando in modo efficiente ed efficace gli investimenti commerciali. E’ opportuno comprendere come sia organizzata la supply chain aziendale per individuare interventi opportuni per migliorare i processi produttivi e logistici. Ultima azione ma non per importanza, dovrebbe essere quella di creare un rapporto con la distribuzione così trasparente sulle condizioni commerciali da portare ad una condivisione degli obiettivi per raggiungere il consumatore finale piuttosto che un semplice vantaggio contrattuale per l’impresa industriale. III.4. I risultati di una ricerca empirica Sancita l’importanza del trade marketing, è importante ora affrontare l’analisi delle dimensioni principali che lo caratterizzano. Al fine di comprendere in modo compiuto un fenomeno così innovativo viene proposta un’analisi comparativa tra 114 quanto rintracciato nella letteratura accademica e quanto invece attuato nella pratica aziendale. Nello specifico è stato condotto uno studio descrittivo ed esplorativo che ha permesso di confermare la rilevanza della letteratura accademica. I casi di studio analizzati nel seguente progetto di ricerca hanno riguardato quattro differenti best practices di trade marketing realizzate da aziende di calibro nazionale e internazionale. Per avere una visione chiara e globale sono state selezionate aziende operanti sia nel settore food che non food e al tempo stesso con differente grado di implementazione della funzione di trade marketing. Nell’ambito dell’indagine qualitativa, quindi, sono state effettuate tre interviste face-to-face e un’intervista telefonica ai membri delle aziende selezionate che occupano differenti ruoli all’interno dei loro organigrammi aziendali. Nello specifico, sono statti intervistati: il trade marketing manager di Galbusera2, il customer sales director di Coca-Cola HBC Italia 3 , il commercial director di Danone4 e il sales manager di Beiesdorf5. Le interviste semi strutturate hanno avuto una durata compresa tra 30 e 45 minuti e hanno riguardato le seguenti aree tematiche: la collocazione organizzativa della 2 Galbusera è l’azienda leader nel segmento salutistico dei prodotti da forno in Italia. Coca-Cola HBC Italia è il più grande imbottigliatore in Italia e una delle più grandi aziende nel settore delle bibite analcoliche. 4 Danone è l’azienda leader nel mondo per i prodotti lattieri freschi e per la nutrizione medica. 5 Beiesdorf è leader in diverse categorie del personal & beauty care, come la cura della pelle e l’automedicazione. 3 115 funzione di trade marketing, le skills del trade marketing manager, le principali funzioni e attività e i principali indicatori di performance. III.5. La dimensione organizzativa: le strutture organizzative Con la consapevolezza che non vi è una configurazione ideale (Beltramini e Gaeta, 1998), la prima condizione per sviluppare una strategia di trade marketing è la modifica delle strutture organizzative (Predeval 1983; Fornari, 1990) perché quelle tradizionali sono inadeguate. La divisione marketing, infatti, è orientata principalmente al consumatore e non ai problemi di vendita, mentre la divisione vendite è focalizzata sulle azioni operative e non su quelle di gestione. Per quanto riguarda i cambiamenti strutturali, dall’analisi della letteratura emerge che il primo step ha riguardato l’inserimento della figura di key account manager (KAM) nella divisione commerciale o di vendita, nel tentativo di gestire il problema dei grandi clienti. In questa prospettiva, alcuni clienti sono più importanti di alcuni prodotti (Predeval, 1983; Fornari, 1990). Alcuni autori (McDonalds e Rogers, 1998; Millman e Wilson, 1995), hanno sottolineato il ruolo del KAM per sviluppare relazioni a lungo termine con clienti strategici e per creare soluzioni a valore aggiunto. Questo modo di gestire i clienti intermedi può comportare l’adozione di diverse soluzioni di business. Negli ultimi anni si è spesso verificato l’inserimento di una nuova funzione, denominata trade marketing, all’interno degli organigrammi aziendali. Ci sono tre 116 diverse principali soluzioni organizzative, ciascuna con i suoi vantaggi e svantaggi (Vicari e Castaldo, 2005). La prima soluzione posiziona la funzione di trade marketing in line con le funzioni di vendita e marketing, con una dipendenza gerarchica diretta dal top management. Il vantaggio principale è l’implicazione del top management nelle scelte di distribuzione, riconoscendo l’importanza strategica delle relazioni con la clientela commerciale, mentre lo svantaggio è la riduzione della responsabilità della divisione vendite. La seconda soluzione, invece, pone la funzione di trade marketing all’interno della divisione marketing. Il vantaggio di questa soluzione è quello di sfruttare le capacità di analisi e di pianificazione. Lo svantaggio è quello di concentrarsi eccessivamente sul consumatore. Infine, la terza soluzione pone la funzione di trade marketing nella divisione vendite. Questa è la posizione più appropriata in quanto può agire da supporto per i diversi canali. Da un lato fornisce informazioni ai key account manager aiutando, quindi, la funzione di vendita (Domènech, 2000) e, dall’altro lato funge da collegamento tra marketing e vendite. I vantaggi sono la conoscenza delle vendite esistenti e la possibilità di identificare le opportunità per clienti/canali. Il limite è la difficoltà di introdurre elementi di pianificazione nelle vendite. Nonostante ciò, questa’ultima configurazione ha trovato maggiore applicazione nelle realtà aziendali (Fornari, 2009) pur con configurazioni differenti. Una configurazione, quella più tradizionale, si basa sulla ripartizione della funzione vendita tra presidio territoriale e presidio di canale/cliente con la 117 presenza di responsabili del canale moderno e del canale tradizionale. Nel caso in cui la funzione di trade marketing si trovi in staff alla direzione vendite, avrebbe il ruolo di fornire informazioni sia nel momento in cui vengano sviluppati i piani commerciali sia quando vengono poste in essere iniziative speciali per la distribuzione. Il ruolo del trade marketing manager consiste, oltre che nell’interazione continua con la funzione marketing, nel pianificare le relazioni con la clientela commerciale dando supporto nel contrattare le condizioni di vendita, la qualità e il numero delle iniziative promozionali e il collocamento dei nuovi prodotti nei punti vendita. Figura III.5.-1. Il modello organizzativo tradizionale di trade marketing Fonte: Fornari (2009) Nella configurazione che viene definita evoluta, la funzione trade marketing è in line con la direzione di customer management e la direzione field assumendo dunque un ruolo rilevante. Il ruolo include le funzioni di category management, di 118 training commerciale, di shopper management e di innovazione/sviluppo delle attività commerciali. Nella configurazione evoluta, date le caratteristiche organizzative, il trade marketing propone la scontistica e i budget di investimento per canale, pianifica le politiche promozionali, lancia i nuovi prodotti nei punti vendita, sviluppa specifiche attività di co-marketing con la clientela, collabora nella definizione dei listini industriali e dei prezzi al consumo, pone in essere studi e ricerche specifiche sui temi di category management e di shopper marketing, effettua test di merchandising, costruisce e condivide con le funzioni di Customer Management i conti economici di canale/cliente, individua proposte commerciali innovative per aumentare la visibilità e l’accessibilità delle referenze nei punti vendita, forma e aggiorna il personale di vendita e, infine, gestisce i database interni ed esterni su cui si basa l’attività di pianificazione di marketing. Figura III.5.-2. Il modello organizzativo evoluto di trade marketing Fonte: Fornari (2009) 119 La complessità della funzione di trade marketing, configurabile come un mix attività di pianificazione e di attività operative, costituisce un ostacolo molto forte per un inserimento di questa funzione ad un livello aziendale che ne valorizzi il significato strategico. Perciò le tendenze generali sono di inserire gradualmente le funzioni e i ruoli previsti di trade marketing. Terminata la sintesi di quanto rintracciato in letteratura in merito alla componente organizzativa del trade marketing, si passa ora alla presentazione dei casi di studio analizzati con l’obiettivo primario di fornire una lettura chiara di quello che si verifica nella pratica aziendale e di conseguenza evidenziare eventuali differenze tra il contesto aziendale e quello accademico. Dall’analisi delle esperienze aziendali, emergono modelli organizzativi alternativi in cui la funzione di trade marketing ha collocazioni diverse negli organigrammi aziendali e al tempo stesso svolge funzioni differenti. Nell’analisi dei casi, l’attenzione è stata focalizzata su tre aspetti: da quando la funzione di trade marketing è presente nelle aziende, la collocazione all’interno dell’organigramma aziendale e la denominazione attribuitagli. Le quattro aziende analizzate presentano soluzioni tra loro differenti. In Galbusera, la funzione è chiamata trade marketing ed è stata introdotta di recente in posizione di staff tra le divisioni di marketing e di vendita con il compito principale di favorirne l’interconnessione. Al contrario, in Coca-Cola HBC Italia e in Danone, la funzione di trade marketing è posizionata all’interno 120 della divisione commerciale allo stesso livello gerarchico del marketing e delle vendite, ma con denominazione e responsabilità differenti. In Coca-Cola HBC Italia, la funzione viene chiamata trade marketing e il suo compito è quello di elaborare piani di marketing operativi per i diversi canali di vendita. Per questo motivo, la divisione trade marketing si compone di vari managers, ciascuno dei quali è responsabile di un canale. Al contrario, in Danone, la funzione viene chiamata commercial development. Ha due compiti principali: da un lato deve mantenere la coerenza tra attività di marketing e di vendita e dall’altro deve attuare strategie di marketing per clienti/canali attraverso i customer marketing managers. Fin dagli anni ’90, quando la funzione è stata introdotta, le due aziende hanno sviluppato una prospettiva di trade marketing. La funzione di trade marketing è diventata sempre più importante per le attività commerciali e al tempo stesso una fonte per ottenere vantaggi competitivi. Infine, in Beiesdorf, la funzione di trade marketing si chiama shopper & customer marketing. Gerarchicamente è collocata nella divisione vendite e svolge un ruolo di collegamento tra marketing e vendite. In particolare deve garantire la coerenza tra le attività di marketing per clienti e i diversi canali di vendita. Negli ultimi tre anni ha aumentato la sua autonomia, ma ancora non ha raggiunto l’indipendenza come nelle altre. 121 Figura III.5.-3. La dimensione organizzativa del trade marketing nelle aziende studiate Fonte: Elaborazione propria In riferimento alla componente organizzativa del trade marketing, l’analisi empirica ha confermato la visione di vari autori (Predeval 1983; Beltramini e Gaeta, 1998; Vicari e Castaldo, 2005): non esiste una definizione ideale della funzione di trade marketing. Il primo aspetto da evidenziare, infatti, è che la funzione ha una collocazione differente nell’organigramma aziendale; può essere posizionata nella divisione vendite (Beiesdorf), nella divisione commerciale (Coca-Cola HBC Italia e Danone), o assumere un ruolo di staff (Galbusera). La collocazione organizzativa, inoltre, influenza anche il suo operare: può essere una semplice attività di supporto per il marketing e le vendite, come in Galbusera; può avere maggiori responsabilità attuando attività di marketing per i diversi canali di vendita, come in Beiesdorf; può essere molto strutturata e importante tanto quanto le divisioni marketing e vendite, come in Coca-Cola HBC Italia e Danone. Un argomento strettamente collegato alla posizione della funzione del trade marketing all’interno dell’organigramma aziendale riguarda le competenze 122 richieste al trade marketing manager per svolgere in modo adeguato le sue mansioni. Dall’analisi empirica emerge che questa figura deve avere capacità analitiche e di visione, ma deve essere anche razionale, pratica e con esperienza di vendita. In sintesi deve possedere le skills tipiche di chi opera nelle aree marketing e vendite. Quindi in un azienda, il trade marketing manager è solitamente una persona che precedentemente ha occupato un ruolo importante in una o in tutte e due le aree. Figura III.5.-4. Il trade marketing manager nelle aziende studiate Fonte: Elaborazione propria Nei casi analizzati, anche se il livello di sviluppo della funzione è differente, la presente affermazione è stata ampiamente condivisa. Per concludere va evidenziato che indipendentemente dalla configurazione organizzativa scelta, ci sono alcune condizioni essenziali che si devono verificare per realizzare un corretto e performante trade marketing: il coinvolgimento del top management, la definizione dei compiti caso per caso e un focus sul business, sulla cultura aziendale e sulle risorse umane. 123 III.6. La dimensione strategica e la dimensione operativa: dalla pianificazione agli strumenti di trade mix Analizzando la letteratura, pochi studi individuano le aree di attività e di responsabilità della funzione di trade marketing all’interno dell’azienda. Non ci sono né vincoli specifici sui suoi compiti, né una singola configurazione. Tuttavia, possono essere identificate due dimensioni principali. La prima è strategica e si concentra sulle attività di back office, come la pianificazione, l’analisi e il controllo. La seconda, invece, è operativa e si concentra sulle attività di field, utilizzando le leve di trade mix. Queste due prospettive sono strettamente collegate tra di loro. Infatti, l’attività di pianificazione è essenziale al fine di supportare le decisioni operative. Il primo passo per le aziende trade marketing oriented è, quindi, l’applicazione delle metodologie e degli strumenti di pianificazione utilizzati tradizionalmente nel consumer marketing. Infatti, nonostante le due funzioni operino in mercati differenti, utilizzano e gestiscono gli stessi strumenti di marketing anche se in modo diverso a seconda del loro contesto di riferimento. La pianificazione, come descritto in precedenza, prevede la formalizzazione di un “trade plan”, complementare a un “consumer plan” (Fornari, 2009), con un sistema informativo strutturato ed esauriente. La definizione di trade marketing come “marketing che si rivolge agli intermediari commerciali” (Marcanti, 1989; Pellegrini, 1993; Lugli, 1998) ne 124 sottolinea le somiglianze con il business marketing (Fiocca, Snehota e Tunisini, 2009). Entrambi i settori hanno diversi aspetti in comune, come la natura derivata della domanda, la concentrazione dei clienti, l’importanza delle componenti di servizio, la necessità di aggiustamenti nella fornitura di prodotti, ecc. Queste affinità e similitudini sembrano giustificare l’applicazione di concetti sviluppati nel campo dei beni industriali (Ford e McDowell, 1999; Gadde, Hjelmgren e Skarp, 2012), come la gestione delle relazioni, lo scambio di informazioni e la collaborazione. In sostanza la logica e gli strumenti di gestione non cambiano, sono semplicemente ridisegnati e articolati in modo diverso. In sintesi, si può affermare che le fasi del processo di marketing sono simili a prescindere dal mercato di riferimento. Comunque, devono essere adattate al contesto specifico, partendo dalla definizione degli obiettivi, attraverso l’elaborazione delle strategie (target di mercato, segmentazione e posizionamento) e delle azioni operative (politiche di prodotto, prezzo, comunicazione e altre) per identificare infine le procedure di controllo (Marcanti, 1989; Vicari e Castaldo, 2005). Anche se le due dimensioni del trade marketing sono entrambe fondamentali per il successo delle attività, molti autori si concentrano soprattutto sugli aspetti operativi. Gli strumenti di gestione sono strettamente interdipendenti e usati insieme anche se con combinazioni variabili tra imprese diverse o per la stessa impresa in situazioni differenti. Per sottolineare l’uso coordinato delle varie leve 125 da parte delle imprese industriali, si utilizza l’espressione trade marketing mix, dove mix sta proprio ad indicare le diverse combinazioni delle azioni che possono essere intraprese. Esistono diversi modi per classificare le leve del trade marketing. Molti autori (Mauri, 1987; Fornari 1990; Pellegrini 1993; Beltramini e Gaeta, 1998, Vicari e Castaldo, 2005) sono concordi sulla classificazione che comprende i seguenti elementi: le politiche di prodotto, le condizioni di vendita, le promozioni, la logistica e il merchandising. Esempi di politiche di prodotto sono lo stabilire con quale posizionamento di qualità e di prezzo collocarsi negli assortimenti dei clienti, se produrre articoli con il marchio dei distributori, ecc.. Le decisioni sono molto importanti in quanto richiedono risorse e competenze produttive, di marketing e di vendita assai diverse. I prodotti, infatti, devono essere adeguati alle richieste dei partner commerciali e a quelle dei loro clienti. L’obiettivo è che il prodotto sia remunerativo per l’impresa industriale, e il migliore possibile sia come brand che come caratteristiche fisiche, tecniche, di prestazione, di qualità, di affidabilità, di differenziazione, ecc (Foglio, 2014). Riguardo alle condizioni di vendita, l’impresa industriale si propone di confrontarsi con la distribuzione per ottenere vantaggi nelle politiche di pricing, nei modi ed i tempi di pagamento, negli sconti e nelle altre forme di riduzione di prezzo. Ovviamente gli obiettivi non sono gli stessi in caso di produttori con marche leader e produttori con marche minori. L’obiettivo dei primi è il sell out, 126 cioè le vendite nel punto vendita, dato che la notorietà del brand garantisce la presenza nell’assortimento commerciale. Il sell out si ottiene tramite un coordinamento con le politiche di marketing del distributore. L’obiettivo dei secondi, invece, è il sell in poiché devono assicurarsi la presenza dei loro articoli nell’assortimento del distributore (Burresi et al., 2006). Le politiche promozionali sono un’altra area di azione del trade marketing; si tratta di interventi di marketing che offrono per un tempo limitato condizioni favorevoli a specifici target di destinatari, al fine di spingerli a prendere decisioni impulsive (Fornari, 1999). L’impresa industriale ricerca la collaborazione dei distributori per evitare la perdita di efficacia delle proprie politiche di pricing ed infine un peggioramento della propria immagine di brand. Un’altra area di intervento riguarda la logistica, che riguarda il flusso fisico dei beni dai fornitori ai distributori. Un maggior coordinamento tra i due soggetti consente di ridurre i costi di gestione dei prodotti e di evitare rotture di stock con un miglioramento del servizio commerciale. Infine vi è il merchandising, una componente fondamentale del marketing all’interno dei punti vendita. Esso riguarda la gestione dello spazio espositivo e quindi le dimensioni del layout delle attrezzature oltre alle decisioni di display merceologico con il posizionamento a scaffale dei prodotti (Lugli, 1998). Nel merchandising si può anche includere la predisposizione di materiale volto a 127 comunicare con il cliente finale nel momento in cui si trova all’interno del negozio: il cosiddetto materiale POP (point of purchase). L’importanza di questa leva è sottolineata, dal momento che si è evoluta in visual merchandising, definito come il marketing del punto vendita nel punto vendita (Zaghi, 2013). Oggi, infatti, l’82% delle decisioni di acquisto avvengono direttamente nei punti vendita (Popai, 2014). Proprio questa è la motivazione che ha orientato l’indagine empirica ad approfondire in particolare modo questa leva del trade marketing. L’in-store marketing, infatti, favorisce una migliore collaborazione tra i fornitori e i distributori (Sciarelli, 1994) al fine di soddisfare i consumatori finali. Ciò determina anche uno spostamento del loro rapporto verso una migliore partnership. Dall’analisi delle esperienze aziendali emerge la complessità della funzione di trade marketing, configurabile come un mix di attività di marketing e di vendite. Come l’analisi descritta nel paragrafo precedente ha mostrato in alcuni casi l’esistenza nella pratica aziendale di modelli organizzativi alternativi, in questa sezione si presentano le principali attività e leve adottate dalle aziende oggetto d’indagine per soddisfare al meglio le loro esigenze. Riguardo a questa tematica, emergono dal un lato alcuni elementi comuni a tutti i casi analizzati e dall’altro differenze legate soprattutto al diverso livello di sviluppo della funzione e alla collocazione organizzativa. 128 In Galbusera, la funzione di trade marketing svolge sia attività analitiche che operative. Le prime, come la definizione degli investimenti e dei piani strategici e promozionali, in precedenza erano svolte dalla funzione marketing. Le seconde, invece, sono attività nuove e riguardano principalmente azioni nei punti vendita, come il merchandising o il posizionamento del prodotto sugli scaffali. In CocaCola HBC Italia e in Beiesdorf, invece, la funzione di trade marketing si occupa principalmente della definizione degli investimenti in ogni canale/cliente, della comunicazione nei punti vendita, oltre all’analisi del portafoglio prodotti per ogni tipologia di canale. Danone, invece, azienda più strutturata in prospettiva di trade marketing, attribuisce molta importanza alle attività di in-store. Ha, infatti, investito una grande quantità di denaro in software per definire planogrammi, materiali POP e in-store promotion. Sviluppa, inoltre, progetti di category management o progetti ad hoc per i singoli clienti. Figura III.6.-1. Le principali attività del trade marketing nelle aziende studiate Fonte: Elaborazione propria 129 In riferimento alle attività a punto vendita è necessaria una precisazione. L’implementazione non è una responsabilità del trade marketing. Nelle aziende più strutturate, come Coca-Cola HBC Italia e Danone, ci sono field teams, mentre nelle altre è presente il supporto di agenzie esterne. L’indagine ha confermato l’importanza di molte attività evidenziate in letteratura, in particolare in riferimento a quelle di in-store (Lawrence, 1983; Mauri, 1987; Fornari, 2009). A questa tematica è, inoltre, strettamente correlata la fase di controllo che ha il compito di valutare i risultati ottenuti, in termini di raggiungimento degli obiettivi e degli effetti delle azioni di trade marketing. Poiché le attività di controllo non sono solo economiche, non ci sono KPI specifici per il trade marketing. I managers utilizzano di solito indicatori tipici di vendita, come il ROI, i volumi, i ricavi, i profitti e le quote di mercato. Figura III.6.-2. I principali KPI utilizzati dal trade marketing nelle aziende studiate Fonte: Elaborazione propria A questo punto è necessaria una riflessione: è presente una sovrapposizione di analisi tra la fase di controllo e la dimensione analitica del trade marketing. 130 Entrambe, infatti, possono utilizzare gli stessi strumenti: la prima ex ante per pianificare e la seconda ex post per verificare. Il trade marketing, quindi, può essere interpretato come un processo circolare: l’analisi condotta nella fase di controllo è utile successivamente per impostare strategie e politiche con eventuali adeguamenti (Vicari e Castaldo, 2005). III.6.1. Le attività nei punti vendita All’interno della dimensione operativa di trade marketing rientrano gli interventi nei punti vendita. Per un’azienda industriale, infatti, svolgere attività di marketing a punto vendita è molto importante in quanto: fa percepire l’esistenza della propria offerta al consumatore al momento dell’acquisto; permette di mantenere coerenza nella qualità della propria offerta e di rinforzare il valore della marca; permette di prolungare l’attività di comunicazione all’interno del punto vendita; permette di raccogliere informazioni sui clienti. Inoltre, intercettare il consumatore nel punto vendita diviene una condizione necessaria per avviare un dialogo volto ad inserire l’offerta aziendale nella valutazione delle sue alternative, in quanto la sola presenza in assortimento non è più in grado di garantire il risultato commerciale. 131 Compreso ciò, molte aziende hanno incominciato a definire degli specifici budget di spesa per le attività a punto vendita e a realizzare specifiche attività di merchandising che Collesei nel 1989 definisce come un “insieme di tecniche utilizzate, separatamente o congiuntamente dalle imprese commerciali e industriali, con il duplice obiettivo di migliorare la redditività del punto di vendita e di adeguare la presentazione dei prodotti sugli scaffali ai bisogni degli acquirenti”. Il contenuto dell’attività di merchandising consiste, dunque, nella programmazione ed esecuzione di tutte le operazioni indirizzate a ottimizzare l’esposizione e lo stato di conservazione e di presentazione dei prodotti. Pur svolgendo un ruolo primario nella gestione redditizia del punto vendita, il merchandising è incapace di valorizzare appieno le potenzialità insite nella comunicazione visiva (Provenzano, 2012). Proprio per ovviare a questo limite, si tende sempre più frequentemente ad ampliare il suo campo di azione fino ad includere l’architettura commerciale, il design e tutta la comunicazione POP riguardante la segnaletica, la cartellonistica e la cartellinistica. Si giunge, in tal modo a definire il visual merchandising che rappresenta “il marketing del punto vendita nel punto vendita: una disciplina multifunzionale che grazie all’interazione sinergica di marketing, semiotica, design e psicologia sociale rappresenta uno strumento attivo di comunicazione dell’immagine del punto 132 vendita e dei prodotti ivi contenuti, ma anche di informazione, suggestione, persuasione e promozione delle vendite” (Zaghi, 2013). L’industria, nel processo di pianificazione e gestione dell’attività di visual merchandising, assume un ruolo cruciale. In particolare, l’esigenza di sviluppare attività di visual merchandising nasce dalla finalità di garantire alle proprie marche e ai propri prodotti un’adeguata quantità e qualità di spazio in termini di visibilità e accessibilità. Tutto ciò però non è sufficiente. Le vendite, infatti, sono fortemente influenzate dalla comunicazione visiva, per cui le aziende sono sempre più impegnate nell’ottenere maggiore e migliore esposizione per sedurre il potenziale cliente, diventandone oggetto di desiderio. Infatti, il visual merchandising dell’industria ha due filoni principali. Il primo si occupa dell’organizzazione dello spazio e può quindi espandersi nel miglioramento della produttività. Il secondo è più emotivo, dato che vuole coniugare le informazioni e le sensazioni che il prodotto e la marca evocano nel consumatore. Quindi attraverso gli investimenti che vengono effettuati nell’attività di visual merchandising l’impresa si propone di perseguire tre diversi orientamenti strategici (Zaghi, 2014): 1. la produttività dello spazio; 2. la comunicazione del prodotto; 3. il valore della marca. 133 La produttività dello spazio è l’orientamento tecnico-formale ed ha come fine aumentare il numero di facing, rendere più elevata possibile la produttività del lineare, promuovere le diverse linee di prodotto, ecc. In base a questa interpretazione diventa molto importante decidere come esporre i prodotti sui ripiani. Alle diverse altezze a cui possono essere collocati i prodotti corrispondono, infatti, diverse potenzialità di vendita. Gli scaffali possono essere ripartiti in senso verticale in cinque livelli: suolo, mani, occhi, cappello e sopra cappello. Gli articoli collocati a livello mani o a livello occhi sono quelli che hanno più probabilità di vendita, in quanto il livello mani favorisce l’accessibilità al prodotto mentre il livello occhi è quello che assicura maggiore visibilità. Figura III.6.1.-1. Rappresentazione dei livelli di uno scaffale Fonte: Elaborazione propria Quanto appena descritto, cioè la posizione che le referenze possono assumere all’interno delle attrezzature di vendita, rappresenta la qualità dello spazio espositivo. Considerando lo spazio espositivo nella dimensione orizzontale, si usa 134 misurare il numero di facing, cioè il numero di pezzi di cui si vede la stessa facciata espositiva nella prima fila dello scaffale. L’orientamento strategico della comunicazione di prodotto intende, invece, migliorare l’interazione tra cliente e prodotto ed ha tra gli altri obiettivi l’attrarre il cliente e l’aumentare la visibilità della marca. Il terzo ed ultimo orientamento, cioè il valore della marca, vuole migliorare l’identità della marca tramite azioni come il supportare il lancio di nuovi prodotti, il migliorare l’esperienza d’acquisto, l’esaltare la dimensione simbolica della marca stessa. Facendo un bilancio riguardo i lati positivi e negativi del visual merchandising, emergono molte potenzialità, ma anche molti limiti, riconducibili in particolare alla diversa finalità di industria e distribuzione, infatti mentre la prima vuole valorizzare solo la sua marca, la seconda intende promuovere l’intero assortimento. Per superare questa diversità, l’industria si propone nei confronti della distribuzione come un partner capace di fornire supporto e valore, ad esempio attraverso l’implementazione di progetti di category management, in cui vi è una gestione della categoria e non del singolo prodotto o marca. Nella letteratura e nella prassi aziendale sono state proposte diverse definizioni di category management. Quelle che reputo più appropriate sono quelle che 135 riconoscono le categorie di prodotti come aree strategiche d’affari ed hanno un’ottica customer centric. Nel 1992 Nielsen definisce il category management come “un processo di gestione delle categorie merceologiche come aree strategiche d’affari e si propone di soddisfare i bisogni del consumatore, punto vendita per punto vendita”. Nel 2000 Castaldo e Bertozzi, invece, lo definiscono come “una modalità di reingegnerizzazione del processo di marketing adottabile da imprese di produzione e distribuzione finalizzata a migliorare il livello di soddisfazione del consumatore attraverso il trasferimento di maggiore valore in un ottica customerbased” mentre Fornari nel 2009 come “un processo interattivo e funzionale tra industria e distribuzione che punta a organizzare, pianificare e gestire gli assortimenti come un insieme di Strategic Business Unit (SBU) con l’obiettivo di massimizzare il livello di efficacia ed efficienza delle politiche di marketing delle imprese industriali e commerciali migliorando sia la profittabilità aziendale sia la soddisfazione dei consumatori”. Da analisi empiriche emerge che la realizzazione di progetti di category management favorisce l’instaurazione di una partnership produttore-distributore in quanto solo attraverso la condivisione di risorse, di fiducia e di conoscenze è possibile creare un surplus di valore. 136 La logica su cui si basa il category management non è molto distante da quella del trade marketing, dall’attività di pianificazione, alla definizione delle strategie e delle leve da utilizzare. Queste ultime, sono addirittura le stesse, ma gestite in ottica aziendale nel trade marketing e in ottica shopper nel category management. Figura III.6.1.-2. Dal trade marketing al category management Fonte: Elaborazione propria III.7. Risultati e prime considerazioni Come già trattato nelle pagine precedenti, si può affermare che negli ultimi anni i rapporti tra produttori e distributori sono cambiati radicalmente. Attualmente il potere è nelle mani delle imprese distributive a causa del processo di concentrazione che si è verificato (Sicca e Andreassi, 1988). In questo contesto competitivo i fornitori devono sviluppare alleanze strategiche con i retailers al 137 fine di rafforzare le loro relazioni (Santesmases, 1999; Domènech, 2000). Per fare questo, devono prestare attenzione alle loro esigenze e cercare di soddisfarle meglio dei competitors. I fornitori, quindi, dovrebbero considerare i retailers come clienti e non come meri intermediari del canale di distribuzione (Davies, 1993; Randal, 1994) e indirizzare loro strategie di marketing: questo è il trade marketing. La mancanza di una definizione unanime ha comportato che il concetto potesse essere interpretato in modo differente: come un’alleanza strategica tra fornitore e distributore, come un insieme di attività o come un approccio generico per fare business. Nonostante ciò, parlare di trade marketing nelle aziende è ormai indispensabile. Queste affermazioni trovano conferma nell’analisi del caso di studio multiplo, da cui emergono aspetti e profili differenti a causa di alcuni fattori come il contesto di riferimento, la grandezza delle aziende o il grado di sviluppo. Nelle aziende più strutturate, la collocazione organizzativa della funzione di trade marketing è all’interno della divisione commerciale, pari livello con il marketing e vendite e le attività principali sono sia strategiche che operative. L’indagine empirica, inoltre, conferma l’importanza del coinvolgimento del top management nello sponsorizzare la nuova funzione e nel definire la giusta posizione all’interno dell'organizzazione aziendale (Predeval, 1983). 138 Figura III.7.-1. Il trade marketing nelle aziende studiate Fonte: Elaborazione propria Sulla base dell’analisi effettuata, il fattore principale per il successo di una strategia di trade marketing è sempre la relazione (Giacomazzi, 2002), internamente tra le divisioni marketing e vendite ed esternamente con i diversi distributori. Nonostante la grande importanza del trade marketing, le imprese industriali devono essere consapevoli che la mera esistenza della funzione non è sufficiente per assicurare la cooperazione tra le divisioni marketing e vendite e soprattutto per assicurare collaborazione con i retailers. 139 Proprio per questo motivo, sempre più spesso i fornitori stanno ricorrendo all’utilizzo di strumenti e sistemi che permettano di raccogliere informazioni che facilitino la creazione di conoscenza utile per soddisfare i bisogni dei distributori. Esempi significativi sono rappresentati dai sistemi di customer relationship management (CRM), utilizzati sia in contesti B2C che B2B su cui sia in letteratura che nella pratica aziendale si è molto discusso. A seguito dell’indagine empirica e delle relative considerazioni riguardanti la condivisione delle informazioni, volte a realizzare una buona relazione con la distribuzione per ottenere vantaggio competitivo, è emersa l’importanza di un nuovo modello di CRM, in cui l’oggetto d’analisi non è il cliente, ma il buyer, l’attore chiave che collega le due realtà. Il CRM di cui il buyer è il protagonista può definirsi buyer relationship management (BRM). L’implementazione di sistemi di CRM nel contesto business to business è già stata affrontata sia in ambito accademico che nella pratica aziendale. L’aspetto innovativo della mia ricerca è rappresentato dall’attenzione indirizzata a questa specifica figura della distribuzione, il buyer, che ne viene posizionato al centro. Nel capitolo successivo, oltre ai background teorici di riferimento, si presenta attraverso un caso di studio l’implementazione del ruolo del trade marketing e, tra le sue metodologie, la formalizzazione del modello del BRM. 140 Capitolo IV UN APPROCCIO INNOVATIVO: LO SVILUPPO DEL BRM NEL GRUPPO FILENI IV.1. Dal trade marketing al buyer relationship management L’impresa di produzione, di fronte all’evoluzione dei consumi, dei comportamenti dei consumatori e delle richieste della grande distribuzione, se non dispone di una strategia di marketing ben chiara che le permetta di riscontrare questa situazione, può trovarsi in una posizione di disorientamento. L’impresa produttiva ha assolutamente bisogno di una reazione di ordine produttivo, e quindi commerciale, ricorrendo appunto al trade marketing, da un lato per impostare al meglio il necessario riscontro di marketing nei confronti della distribuzione e dall’altro per mettere in atto un’efficace politica di vendita nei suoi confronti. Come mostrato nell’analisi empirica del capitolo precedente, la presenza del trade marketing è quindi fondamentale per le imprese industriali ed è un imperativo categorico per ottenere successo. Le imprese industriali che si rapportano con la distribuzione non possono più prescindere dalla presenza di questa funzione. Detto ciò è necessaria la consapevolezza che la sola creazione del ruolo di trade marketing all’interno degli organigrammi aziendali non è sufficiente. L’interconnessione, che svolge internamente tra le divisioni marketing e vendite ed esternamente con i retailers, non si improvvisa ma va impostata con criterio e 141 gradualmente, dal marketing al trade marketing, “passando” per il marketing relazionale. Seguendo questa prospettiva l’impresa industriale ha la possibilità di attuare una gestione strategica delle relazioni con la distribuzione, oggi quanto mai, importante ai fini della costruzione di vantaggio competitivo. Il governo delle due tipologie di imprese è infatti diventato notevolmente più complesso nel corso degli ultimi due decenni. Per le imprese industriali sviluppare relazioni di qualità è quindi indispensabile e un elemento che ha favorito questa capacità è rappresentato sicuramente dall’Information Technology (IT), vale a dire un insieme di strumenti hardware e software che permettono la distribuzione di conoscenza, la sua scoperta, generazione e successivo utilizzo. A tal proposito nel corso di questo capitolo, nell’ottica dell’impresa industriale, verrà approfondita la creazione di valore nella supply chain. A tal fine sarà mostrato, attraverso un caso di studio, il percorso evolutivo che sta attuando il gruppo Fileni, a partire dall’inserimento della funzione di trade marketing per arrivare allo sviluppo un particolare sistema CRM in ambito business-to-business, il buyer relationship management (BRM), in cui l’oggetto d’analisi è il buyer, cioè il principale touchpoint con la distribuzione. Il BRM ha l’obiettivo di favorire da un lato la raccolta di dati e informazioni e dall’altro la diffusione di conoscenza utile per la definizione delle strategie aziendali. I clienti, infatti, non sono tutti uguali (Altavilla e Bolwijn, 2007). In questo modo si può stabilire ed investire 142 nella relazione. E’ possibile conoscere le potenzialità e le esigenze dei clienti, vale a dire sapere chiaramente “con chi fare cosa”. Il buyer può diventare, quindi, la base su cui costruire una relazione stabile e duratura con la distribuzione. All’interno del capitolo, prima di presentare l’indagine empirica, si affronta brevemente il tema del customer relationship management (CRM), rappresentando le fondamenta per lo sviluppo di un progetto così innovativo. IV.2. Customer relationship management: diverse prospettive Il termine “customer relationship management” è stato utilizzato per la prima volta tra le comunità dei venditori di IT (Information Technology) nella metà degli anni ’90, per descrivere le soluzioni di base tecnologica per i clienti. Negli stessi anni, tra gli accademici, si inizia ad utilizzare lo stesso termine, spesso associato al concetto di relationship marketing, anche se quest’ultimo, che ha provocato un grande cambiamento nel mondo del business, ne è considerato il predecessore. La letteratura riguardante il CRM è molto vasta e discussa ampiamente altrove; l’obiettivo di questa sezione non è presentare una completa revisione della tematica, ma piuttosto evidenziare alcuni aspetti del CRM, per comprenderne il significato, la struttura e soprattutto l’utilità per un’impresa. 143 I contributi che in letteratura sono emersi per definire cosa rappresenti il CRM sono veramente molteplici e frammentati. Ciò dipende dalla mancanza di una comune concettualizzazione del fenomeno. Persino tra i marketers ci sono ambivalenze sulla sua natura; alcuni lo considerano come un insieme di strumenti tecnologici specializzati, altri come un insieme di processi di business che si focalizza sulla gestione della customer experience, altri ancora come una strategia per la customer retention. Per avanzare la conoscenza su questo concetto di crescente interesse ed importanza, Zablah et al. nel 2004 revisionano ed analizzano le numerose opere che caratterizzano la letteratura e giungono a definire 5 prospettive: CRM come processo (Swift, 2000; Lambert, 2009; Finnegan e Currie, 2010), CRM come strategia (Anderson e Stang, 2000; Dikbaş e Ercoşkun, 2006; Garrido-Moreno e Padilla-Meléndez, 2011), CRM come filosofia (Fairhurst, 2000; Bueren et al., 2004; Greenberg, 2010), CRM come potenzialità (Peppers et al., 1999; Boulding et al., 2005) e CRM come strumento tecnologico (Gefen e Ridings, 2002; Agarwal et al., 2004; Yang e Rhee, 2009). La prima dimensione è quella che intende il CRM come una successione di attività o di processi che permette di ottenere determinati risultati. La seconda dimensione, quella che vede il CRM come strategia, per essere compresa necessita di una premessa: i clienti sono classificati in base al valore che potrebbero apportare all’impresa. In quest’ottica il CRM permette di definire i 144 clienti a cui dare priorità. La terza dimensione si riferisce all’accostamento tra il CRM e la filosofia aziendale, nel senso che il customer relationship management condiziona e permea l’impresa per la costruzione di relazioni di lungo periodo con i clienti. La quarta dimensione, il CRM come potenzialità, sta invece ad indicare come l’acquisizione e lo sviluppo di un mix adeguato di risorse permetta di raggiungere le performance volute e quindi come l’impresa abbia la capacità di gestire i clienti. L’ultima dimensione, vale a dire il CRM visto come strumento tecnologico, indica come si possono individuare nel CRM un insieme di strumenti e sistemi che permettono alle imprese di costruire relazioni con i clienti. Figura IV.2.-1. Alcune definizioni di CRM delle prospettive dominanti DIMENSIONE PROCESSO STRATEGIA DEFINIZIONE CRM is an enterprise approach to understanding and influencing customer behavior through meaningful communication to improve customer acquisition, customer retention, customer loyalty and customer profitability. CRM is described as a macro-business process. CRM is an ongoing evolutionary process that aims to bring together diverse pieces of information about customers, sales, marketing effectiveness and responsiveness and market trends. CRM is a business strategy designed to help an enterprise understand and anticipate the needs of its potential and current customers. CRM is a knowledge driven strategy for Total Quality Management, to enable sustainability of enterprises in contemporary marketing arena with the extensive support of ICT available. CRM is a business strategy that aims to establish and develop value-creating relationships with customers based on knowledge. 145 AUTORE Swift (2000) Lambert (2009) Finnegan e Currie (2010) Anderson e Stang (2000) Dibkaş e Ercoşkun (2006) Garrido-Moreno e Padilla-Meléndez (2011) CRM is a way to run the business that, in some cases, technology can make easier. With the CRM philosophy aiming at creating an integrated view of the customer across the enterprise, these systems were connected and today from the FILOSOFIA building blocks of comprehensive integrated CRM systems. CRM is a philosophy and a business strategy supported by a system and a technology designed to improve human interaction in a business environment. CRM means being willing and able to change your behavior toward an individual customer based on what the customer tells you and what else you know about POTENZIALITÀ the customer. CRM is the outcome of the continuing evolution and integration of marketing ideas and newly available data, technologies, and organizational forms. CRMS are ERP modules that specialize in capturing, integrating, managing, and analyzing customer data, such as who, what, when, and how a customer did what with the organization. STRUMENTO CRM as product or service targeted at internal TECNOLOGICO customers. CRM is an analytical tool by which marketing strategies are established according to the results of collecting and evaluating customer information via chosen channels. Fonte: elaborazione propria Fairhurst (2000) Bueren et al. (2004) Greenberg (2010) Peppers et al. (1999) Boulding et al. (2005) Gefen e Ridings (2002) Agarwal et al. (2004) Yang e Rhee (2008) Sebbene le dimensioni individuate tendano a sostenere uno specifico punto di vista, non è strano rintracciare concettualizzazioni che marcano più prospettive contemporaneamente; ancor oggi tra i vari studiosi è in corso un dibattito riguardo cosa il CRM rappresenti. Nonostante le molte visioni che non considerano il CRM come strumento tecnologico, emerge che gli avanzamenti in IT hanno significativamente influenzato e favorito l’utilizzo del CRM (Bueren et al., 2004). Bose (2000), ad esempio, definisce il CRM come “an integration of technologies and business process used to satisfy the needs of a customer during any given interaction”. 146 Anche tra gli autori che considerano il CRM come una strategia, un processo, una filosofia o che hanno una visione che integra più prospettive emerge chiaramente che la tecnologia costituisce uno degli elementi abilitanti e fondamentali per l’implementazione del CRM (Kotler et al., 2012), ma anche che la sola applicazione per la gestione della relazione con i clienti, non garantisce alcun risultato. Per avere successo, un progetto di CRM necessita di cambiamenti interni alle aziende, soprattutto nel gestire le informazioni dei clienti (Campbell, 2003). La maggior parte degli studi sul customer relationship management riguarda contesti business-to-customer, ma molti autori hanno scritto in merito all’adozione del sistema anche nel business-to-business (Gummesson, 2004; Ata e Toker, 2012; Johnson et al., 2012; Stein et al., 2013). Il processo di CRM è, quindi, in continua evoluzione; da un sistema di PRM (Partner Relationship Management) orientato ai partner, a un sistema di gestione della relazione più generico, l’XRM, realizzato da fabbricanti di software e concettualizzato da Radjou et al. (2001). Il primo, considerato come un’applicazione specifica del CRM nel contesto business-to-business, è orientato ai fornitori e ai distributori più importanti, cioè agli intermediari presenti nel canale distributivo, da un lato per ridurre i costi di transazione e per attenuare i comportamenti opportunistici (Storey e Kocabasoglu-Hillmer, 2013), dall’altro per alimentare la creazione di valore per i clienti finali (Suh et al., 2005). Il secondo, l’XRM, invece, è considerato da un lato come termine generico per 147 applicazioni specifiche e dall’altro come un’integrazione del CRM. Nel 2008, comunque, ottiene grande attenzione quando viene presentato come Anything Relationship Management, indicato con la sigla xRM e offerto da Microsoft come nuovo software per la gestione di svariate relazioni con i clienti, i fornitori, gli impiegati o i partner (Britsch et al., 2012). Per concludere, si riportano le due definizioni che mostrano la prospettiva di CRM che sarà seguita nel lavoro. “CRM is an enterprise approach to understanding and influencing customer behavior through meaningful communication to improve customer acquisition, customer retention, customer loyalty, and customer profitability” (Swift, 2000). “Il CRM è un processo integrato e strutturato per la gestione delle relazioni con la clientela, il cui scopo è la costruzione di relazioni personalizzate di lungo periodo con il cliente, in grado di aumentare la soddisfazione dei clienti e, in ultima analisi, il valore per il cliente e per l’impresa” (Farinet e Ploncher, 2002). IV.3. Le caratteristiche strutturali del CRM Per effettuare un esame di CRM è necessario indagare le caratteristiche fondamentali della sua struttura. 148 Con il termine CRM si usa considerare tutti i processi aziendali realizzati dalle aziende al fine di gestire i propri clienti, attraverso un’adeguata selezione, un opportuno sviluppo e uno strutturato metodo di conservazione che permetta nel lungo periodo una maggiore profittabilità. Questo obiettivo può essere perseguito per mezzo di un progressivo miglioramento della conoscenza ottenuta nell’impresa riguardo alle necessità, ai comportamenti e ai valori dei clienti. Per porre in essere un modello di CRM sono necessarie tre componenti fondamentali (Farinet e Ploncher, 2002): l’architettura tecnologica, i contenuti e i servizi e le relazioni. IV.3.1. L’architettura tecnologica Al centro di un modello di CRM c’è la scelta dei dati più opportuni che elaborati possano tracciare il profilo dei clienti, è quindi, necessaria l’implementazione di un’infrastruttura tecnologica. Le infrastrutture dell’Information Technology sono una delle caratteristiche che favoriscono lo sviluppo di un modello di customer loyalty, permettendo l’elaborazione di un’enormità di dati e informazioni che provengono da molteplici fonti. 149 Per architettura tecnologica si intendono quindi gli strumenti hardware, software e i servizi che aumentano l’efficienza e l’efficacia del processo per mezzo del quale l’azienda crea valore definendo conoscenza sui clienti. L’infrastruttura tecnologica, invece, si compone di: database e datawarehouse, che raccolgono le informazioni sui clienti da diverse fonti; sistemi di Business Intelligence, che a partire dai dati raccolti, elaborano informazioni e conoscenza; strumenti di Customer Interaction System, che collegano l’impresa con i clienti. Figura IV.3.1.-1. L’infrastruttura tecnologica di una strategia di CRM Fonte: Farinet e Ploncher (2002) 150 Il cuore del CRM è il Customer Warehouse, una piattaforma sulla quale vengono archiviati i dati provenienti dalle diverse aree dell’organizzazione. Tali dati devono essere aggiornati e integrati continuamente per supportare tutte le operazioni di tipo decisionale. Dal modello proposto emerge con chiarezza la possibilità di individuare due principali dimensioni di CRM, il CRM operativo e il CRM analitico, anche se nelle classificazioni di vari autori (Greenberg, 2001; Farinet e Ploncher, 2002; Gebert et al., 2003; Khodakarami e Chan, 2014) è menzionato anche il CRM collaborativo che rispetto agli altri svolge principalmente una funzione di supporto. Il CRM operativo ha l’obiettivo di favorire la comunicazione tra l’azienda e il cliente, quindi, riguarda tutte le aree aziendali che si interfacciano con esso. Appartengono a questa categoria sistemi di customer service, sistemi di vendita e sistemi di marketing operativo. Le tecnologie utilizzate sono definite di frontoffice (Greenberg, 2001; Jayachandran et al., 2005; Josiassen et al., 2014) e sono i call centers, i sistemi di personalizzazione dei siti e le tecnologie di sales force management. Il CRM analitico, invece, deve fornire una migliore comprensione dei comportamenti, dei bisogni e delle preferenze dei clienti, analizzando e interpretando i dati che provengono da sistemi ERP o da altri database aziendali. Le applicazioni utilizzate nel CRM analitico sono definite di back-office 151 (Greenberg, 2001; Jayachandran et al., 2005; Josiassen et al., 2014) e sono costituite da database e data warehouse, nei quali le informazioni sono archiviate, e da sistemi di Business Intelligence, come il Data Mining o gli On Line Analytical Program (OLAP) che, invece, interpretano le informazioni e le trasformano in conoscenza. IV.3.2. Il ruolo dei contenuti e dei servizi I contenuti e i servizi posti in essere dall’impresa incarnano il concetto di valore offerto ai clienti. Partendo delle informazioni archiviate nei datawarehouse e datamining aziendali, opportunamente elaborate ed interpretate, l’azienda può rendere l’offerta di contenuti e servizi adeguata ai vari target di clientela individuati. Infatti, si fa percepire dal cliente come di maggior valore, adeguando i prodotti e i servizi alla soddisfazione delle sue esigenze. L’attività che conduce alla teorizzazione di valore per il cliente è molto varia e si conclude con lo sviluppo di conoscenza sui bisogni espressi e latenti che i clienti descrivono più o meno direttamente all’impresa. Per accrescere la relazione di fiducia con i clienti è necessario conoscerne i bisogni e le abitudini. Per ottenere tale scopo è indispensabile una relazione stabile per realizzare valore, e al tempo stesso fidelizzare il cliente con un legame che porta vantaggi ad entrambi. 152 La customizzazione può essere a diversi stadi, con un livello di complessità progressiva e un risvolto sulla supply chain crescente. Può interessare prodotti, servizi e canali. Per sviluppare nelle imprese le nuove tecnologie, non si può prescindere dai contenuti che si possono categorizzare in (Farinet e Ploncher, 2002): contenuti per attivare le relazioni; contenuti per fidelizzare le relazioni; contenuti per personalizzare le relazioni. Da questa spiegazione emerge la complementarietà tra contenuti e obiettivi relazionali. IV.3.3. La centralità delle relazioni La relazione con il cliente rappresenta il fulcro di una strategia di CRM. Il fine da raggiungere è quello di aumentare il più possibile la durata del ciclo di vita del cliente e quella del periodo in cui il rapporto con la clientela è proficuo cercando di allargare i possibili servizi e prodotti offerti con attività di cross-selling e upselling. L’intera organizzazione deve essere quindi mirata a rapporti di lungo periodo con il cliente e non solo alla massimizzazione della redditività delle singole transazioni nel breve periodo, sulla base di un’interazione bidirezionale con il cliente stesso. 153 Lo strumento da utilizzare per la relazione con il cliente è quindi il marketing relazionale, realizzato dall’intera struttura aziendale, utilizzando i numerosi strumenti a disposizione dell’azienda in modo integrato. Il marketing relazionale fornisce gli strumenti per disegnare e attuare l’interazione (Ferrero, 1992). La gestione della relazione si baserà sulle caratteristiche del cliente già acquisito, di quello ad esso correlato e di quelli prospettici. Affinché la relazione sia efficace è importante che il cliente possa autopersonalizzare il servizio. Le fasi della gestione di una relazione di valore con il cliente sono le seguenti (Farinet e Ploncher, 2002): si identifica il cliente, attraverso la descrizione del suo essere, dei suoi comportamenti e dei suoi desideri; si classifica il cliente in base al valore che produrrà per l’impresa; si associa al cliente una strategia relazionale; si identificano tutti i canali che permettono una relazione con il singolo cliente; si teorizza la gestione di un insieme di tecniche di apprendimento-adattamento per aumentare la soddisfazione del cliente. Ogni politica volta alla gestione delle relazioni con il cliente si caratterizza per tre fondamentali principi: 154 1. segmentazione e profilazione della clientela: bisogna comprendere il valore di ogni singolo cliente per l’impresa; 2. integrazione dei punti di contatto: tutti i canali attraverso i quali è possibile contattare il cliente devono essere tra loro integrati; 3. integrazione dei processi: condividere le informazioni che derivano dai processi di front-office e back-office affinché la visione globale sia diffusa all’intero sistema azienda. L’impresa può costruire relazioni di lungo periodo solo conoscendo le abitudini e le preferenze d’acquisto dei consumatori. Quindi, per instaurare una relazione personale con il singolo cliente, l’impresa deve avere il maggior il numero di informazioni possibile. IV.4. I risultati di una ricerca empirica La presente ricerca, che percorre tutto il fil rouge dai rapporti nella supply chain, dal marketing al marketing relazionale e dal trade marketing al CRM, ha lo scopo di evidenziare come l’industria abbia la possibilità di gestire al meglio la relazione con la distribuzione, condizione ormai indispensabile per ottenere buone performance. A tal fine si presenta l’approccio evolutivo ed innovativo attuato dal gruppo Fileni, operante nel settore agroalimentare, che nel corso di tre anni è passato dall’inserire la funzione di trade marketing all’interno dell’organigramma aziendale, allo sviluppare un progetto di buyer relationship management (BRM). I 155 distributori, infatti, non sono più dei meri intermediari, ma dei veri e propri soggetti attivi del canale di distribuzione da considerare come clienti a tutti gli effetti, verso i quali indirizzare vere e proprie strategie. E’ proprio in quest’ottica che si inserisce il trade marketing. Strettamente connesso a questo, nell’ottica di avere a disposizione più informazioni possibili per sviluppare conoscenza e per impostare corrette attività, prende forma il progetto BRM che, oltre a migliorare e rafforzare i legami con i clienti, favorisce il raggiungimento di performance migliori. Nei paragrafi seguenti sarà presentata la descrizione del caso empirico, suddiviso in due parti principali: nella prima sarà affrontata la tematica riguardante lo studio, l’analisi e l’implementazione della funzione di trade marketing, mentre nella seconda sarà presentato l’iter seguito per lo sviluppo del progetto di BRM. Il processo d’implementazione della funzione di trade marketing si compone di due steps principali. Nel primo si è indagata la situazione attuale del gruppo Fileni, raccogliendo informazioni dalle divisioni che presentano maggiori similarità con il trade marketing, vale a dire il marketing e le vendite. Quest’ultima, come emerso dall’analisi della letteratura e dai casi affrontati nel capitolo precedente, essendo la più adatta per l’inserimento della funzione, è stata oggetto di maggiori approfondimenti. Nella seconda fase, invece, si presenta il vero e proprio inserimento della funzione nel gruppo in termini di posizionamento nella struttura organizzativa e di definizione delle prime funzioni e attività. 156 Il progetto di BRM, che sarà affrontato nell’ultima sezione del capitolo, è utile per le imprese industriali, in quanto, favorisce la creazione di una conoscenza approfondita, non solo dei dati meramente commerciali, ma anche di informazioni qualitative riguardanti i comportamenti e i bisogni dei clienti. Ciò permette di istaurare relazioni più salde e durature e al tempo stesso di soddisfare i clienti in maniera più efficace della concorrenza. Il percorso che porta all’implementazione del sistema di BRM è rappresentato da un modello circolare al cui centro è posizionato il buyer e attorno al quale si sviluppano le diverse fasi strategiche, raggruppate in due macro fasi, quella di raccolta e analisi dei dati e quella strategico-operativa. Questo modello, oltre ad essere utile nella priatica aziendale in quanto favorisce una migliore gestione dei clienti, permette, nella realtà accademica, di avanzare gli studi in materia di CRM. L’elemento di novità è rappresentato dal focalizzare l’attenzione su una specifica figura della distribuzione, il buyer. L’intera ricerca è stata condotta avvalendosi del metodo del caso di studio (Yin, 1994; Eisenhaedt, 1989). Sono stati utilizzati strumenti di ricerca quali i questionari, le interviste e le osservazioni indirette. Un’importante considerazione riguarda il fatto che per condurre il presente lavoro si è agito in una logica di action research (Vignali, 1988), considerando, quindi il coinvolgimento diretto durante la realizzazione del progetto del gruppo Fileni. 157 IV.4.1. Il profilo del Gruppo Fileni Fondato da Giovanni Fileni nel 1970, il gruppo Fileni è il primo produttore italiano di carni avicole da allevamento biologico e il terzo player nel settore avicunicolo nazionale. I prodotti Fileni, a marchio Fileni, Fileni BIO, Club dei Galli, Almaverde BIO, Sempre Domenica, Magic e I Maestri delle Carni sono presenti in tutte le insegne della grande distribuzione moderna e nei canali della ristorazione e del normal trade. Fileni fornisce, inoltre, carni bianche a grandi gruppi industriali di trasformazione alimentare. Ad oggi il Gruppo fattura 330 milioni di € (dato 2014), offre lavoro a più di 2.900 persone (1.749 dipendenti diretti, 1.200 facenti parte dell’indotto aziendale) e produce oltre 100.000 tonnellate di carne ogni anno. Alla base del successo, si pone la scelta strategica di combinare tradizione e innovazione, nel segno della qualità, allineando modelli di business e offerta produttiva ai nuovi trend di consumo. La mission aziendale è diventare la marca delle carni bianche predominante nel segmento del benessere e dell’alta gastronomia. Per raggiungere questo obiettivo, il gruppo Fileni metterà in atto una strategia organizzata per creare valore verso il trade. 158 IV.5. Il percorso del cambiamento: l’implementazione del trade marketing La complessità dell’ambiente competitivo e il crescente potere della distribuzione sono stati alcuni degli aspetti che hanno indotto il gruppo Fileni ad iniziare un percorso di cambiamento, nell’ottica di creare maggiore valore verso il trade. La scelta di adottare una strategia di trade marketing risulta ormai una necessità indispensabile. Nelle grandi aziende, la presenza del trade marketing rappresenta ormai la normalità. Il problema è però che spesso il concetto viene utilizzato in contesti diversi, per indicare cose molto diverse, così come è diverso il lavoro del trade marketing manager, o trade marketing specialist. Per alcuni, ad esempio, trade marketing significa organizzare in-store promotions negli ipermercati, per altri, invece, è sinonimo di pubblicità rivolte al trade mentre per altri ancora vuol dire piazzare materiali promozionali all’interno dei negozi. Ogni singola realtà, quindi, ha la sua visione di trade marketing, ma c’è coerenza nel ritenere che è un processo che ha l’obiettivo di migliorare le probabilità di successo dell’azienda nei confronti del trade. Approcciare il mercato in ottica di trade marketing, significa capire di cosa hanno bisogno i clienti, per organizzare di conseguenza la produzione e non produrre per poi vendere. Il mercato, quindi, non deve essere più affrontato nell’ottica tipica di vendita. Consapevole dell’importanza di quanto appena affermato, la divisione marketing del gruppo Fileni, nello specifico le figure di direttore e di responsabile, ha deciso di valutare l’inserimento di una definita e stabile funzione di trade marketing in 159 azienda, in quanto allo stato attuale le attività che rientrano nelle sue competenze, in alcuni casi sono gestite dal marketing, in altri dalle vendite e in altri ancora non sono neanche svolte. A partire dalla modifica della struttura organizzativa, passando per una chiara definizione dei compiti e delle mansioni, si può arrivare ad ottenere vantaggio competitivo e performance significative. Il valore riconosciuto all’implementazione di questa funzione è testimoniato dall’impegno dell’alta Direzione, che ha promosso lo sviluppo di questo progetto incaricando il responsabile marketing di costituire un team di ricerca composto da figure accademiche con competenze specifiche. Il team ha un’idea molto precisa delle linee guida che dovranno caratterizzare il progetto. In primo luogo si enfatizza l’importanza di una prima fase di analisi, in cui si verifica se il gruppo Fileni sta svolgendo attività di business che in letteratura sono identificate come competenza di trade marketing. La priorità è posta, dunque, sulla comprensione delle attività svolte principalmente dalla divisione vendite, in quanto la divisione marketing è orientata principalmente ad attività di consumo. Alla fine di questa fase di analisi si procede alla definizione della fase di startup, vale a dire la collocazione organizzativa e le prime attività di competenza. Analizziamo ora nel dettaglio la fase analitica. Inizialmente si è deciso di intervistare varie figure dell’area vendite per cercare di capire quali comportamenti e decisioni adottare per una successiva implementazione della 160 funzione di trade marketing. Lo strumento di rilevazione utilizzato è stato un questionario, con domande prevalentemente a risposta chiusa con scala valutativa di tipo numerico da 1 a 5, sottoposto a sette figure della divisione vendite, tre capi canale (GD, DO e Tradizionale), due responsabili di mestiere (Biologico e Carni Rosse), un Key Account Manager e un Coordinatore del Food Service. E’ stata somministrata, inoltre, un’intervista dalla durata di circa 30 minuti ai medesimi soggetti, in cui sono state analizzate e discusse le risposte del questionario, per arrivare ad affrontare questioni di tipo più qualitativo. Gli interrogativi a cui si è cercato di rispondere sono stati i seguenti: Quali sono le attività che svolge attualmente la divisione vendite? Quali sono le specifiche attività di trade marketing che svolge attualmente la divisione vendite? Quali altre attività potrebbe fare e perché? Per quanto riguarda la prima domanda, l’indagine conferma che la divisione vendite si occupa principalmente di attività tipiche di vendita, di cui contattare i clienti è la più frequente. Ci sono anche le attività di presa degli ordini e di definizione degli sconti. 161 Figura IV.5.-1. Attività svolte più di frequente dalla divisione vendite Visitare i punti vendita Definire l'inserimento dei prodotti nei volantini Definire i prezzi di listino Definire gli sconti da applicare Evadere gli ordini Prendere gli ordini Contattare i clienti 0 5 10 15 Giorni al mese 20 25 Le attività più strategiche sono: supportare il lancio di nuovi prodotti, proporre progetti di collaborazione ai clienti e invitare i clienti in azienda. Figura IV.5.-2. Grado d’importanza delle attività ritenute più strategiche 3,57 Partecipare a convegni/workshop di settore 3,86 Enfatizzare la presenza di promozioni di valore 4,29 Invitare i clienti in azienda 4,57 Proporre progetti di collaborazione 4,86 Supportare il lancio di nuovi prodotti 1 min 2 3 Grado d'importanza 4 5 max C’è la consapevolezza che il distributore debba essere considerato come un partner piuttosto che come un cliente (Fornari, 2009). In riferimento alle attività di trade marketing, l’attenzione è stata focalizzata sulle attività a punto vendita. Queste sono essenziali per le aziende non-leader, in quanto permettono di 162 catturare l’attenzione del consumatore finale durante il momento di acquisto. Nel corso delle trattative con la distribuzione, non vengono avanzate richieste di frequente. Occasionalmente si prova a definire il periodo di presenza dei prodotti all’interno dell’assortimento dei clienti o si richiede un’esposizione preferenziale all’interno del punto di vendita. Figura IV.5.-3. Frequenza delle richieste avanzate alla distribuzione in fase di contrattazione 2,2 Numero di facing per le singole referenze 2,4 Livelli espositivi su cui posizionare le referenze 2,6 Esposizione prodotti in strutture fuori scaffale 3,4 Periodo presenza referenze in assortimento 1 2 mai 3 Grado di frequenza 4 5 sempre Per quanto riguarda l’in store marketing, si nota che ci sono molte opportunità di miglioramento. Attualmente o si realizzano in store promotions con hostess o si cerca di posizionare i prodotti nelle aree promozionali dei punti di vendita. Le strategie fondamentali, come l’utilizzo di materiali POP o l’agire sul numero di facing o sul livello di esposizione, sono attuate raramente. 163 Figura IV.5.-4. Frequenza delle attività svolte nei punti vendita Avancassa 1 Livelli espositivi 2 Numero di facing 2 Fasce sottoprezzo 2,2 Basette 2,25 Crowner 2,6 Stopper 3,2 Testata di gondola 3,4 Hostess e promoter 3,6 Vasche in aree promo 3,8 1 mai 2 3 4 Grado di frequenza 5 sempre Questo può dipendere sia da fattori economici che di altra natura, quali la resistenza dei distributori o l’uso improprio del materiale POP. Un altro aspetto da migliorare riguarda i progetti di category management. Attualmente non sono in essere progetti di category management, nonostante l’azienda possieda le conoscenze e le competenze necessarie per svilupparli facilmente, dato che ne ha già implementati diversi con alcuni clienti in passato. Ancora una volta emerge come fattore chiave l’importanza delle relazioni (Costabile, 2001). Una partnership tra il fornitore e il distributore è essenziale per la gestione delle categorie, dall’analisi degli shopper, alla condivisione dei dati. Con i progetti di category management, entrambi gli attori del canale di distribuzione otterrebbero benefici, in termini di visibilità, rotazione e soprattutto marginalità. 164 L’ultimo aspetto riguarda il controllo delle attività nei punti di vendita, che rientra nelle competenze dei key account manager. Nel momento dell’analisi questi, però, non devono redigere relazioni scritte e visitano solamente il 25% dei punti di vendita dei clienti. Gli indicatori per misurare l’efficacia delle attività nei punti di vendita sono molteplici; i principali sono la presenza e la posizione dei prodotti, oltre alla rottura di stock. Figura IV.5.-5. Principali indicatori utilizzati per il monitoraggio delle attività nei punti vendita Facing Presenza materiale POP Corretta gestione attività promozionale Corretto utilizzo materiale POP Rotture di stock Corretta posizione dei prodotti Presenza prodotti 0% 20% 40% 60% 80% 100% Dall’analisi emerge che la divisione vendite occupa la maggior parte del tempo nello svolgere attività tipiche di vendita, mentre solo occasionalmente e in maniera poco strutturata, riesce a dedicarsi ad attività strategiche non prettamente commerciali. Anche se le attività di in-store marketing sono ancora nella fase iniziale, devono essere strutturate e gestite con più attenzione. Un prerequisito per raggiungere questo obiettivo è l’atteggiamento verso i distributori. Infine, il monitoraggio viene effettuato solo occasionalmente, sia attraverso analisi desk, che ispezioni nei punti di vendita. 165 Alla luce di tutte queste considerazioni, il gruppo Fileni ha deciso di iniziare una fase di test per sviluppare correttamente le attività di trade marketing. La decisione è molto importante perché richiede cambiamenti non solo dei sistemi operativi e di gestione, ma anche della struttura organizzativa. Questi non sono facili da attuare e il coinvolgimento del top management è essenziale, sia per sostenere questa nuova funzione, che per definirne la giusta posizione all’interno dell’organizzazione aziendale (Predeval, 1983). A livello organizzativo, il trade marketing è stato posizionato all’interno della divisione vendite, con un team composto da 6 figure: un trade marketing manager, un trade marketing analyst e 4 area visual merchandiser. Nel paragrafo successivo si presentano le principali attività e mansioni di competenza di questa nuova funzione aziendale. IV.5.1. La strategia di trade marketing La configurazione della funzione di trade marketing del gruppo Fileni ha assunto sin da subito un ruolo rilevante, svolgendo attività nuove e allo stesso tempo occupandosi di attività che in precedenza erano di competenza delle divisioni marketing e vendite. Prima di affrontarne la discussione, è importante sottolineare il ruolo di interconnessione che questa nuova funzione svolge all’interno dell’azienda tra il marketing e le vendite. Spesso, infatti, tra le due divisioni si instaura un rapporto conflittuale, a causa di posizioni e visioni differenti. Ad 166 esempio, nella definizione di strategie o attività da attuare, la divisione marketing è ambiziosa, mentre la divisione vendite, più analitica e cinica, non è ottimista sul possibile risultato. In queste circostanze, emerge l’importanza del ruolo di trade marketing, che è quello di tradurre la negatività delle vendite in previsioni. Laddove viene sollevato un rischio, viene esaminato con analisi approfondite con l’obiettivo di eliminarlo. Oltre a favorire l’interconnessione tra l’area marketing e l’area vendite, la funzione di trade marketing svolge alcuni compiti, identificati in letteratura all’interno della configurazione evoluta di trade marketing (Fornari, 2009): Fornisce supporto informativo per la progettazione dei piani commerciali attraverso l’analisi di conto economico e la definizione del calendario delle attività. Nello specifico, se da un lato si effettuano vere e proprie previsioni attraverso simulazioni su investimenti, costi e ricavi, dall’altro si definiscono le attività da realizzare in termini di prodotto, cliente, periodo, ecc. Supporta la divisione marketing per definire il posizionamento di prezzo dei prodotti e la pianificazione delle attività di marketing raccogliendo ed elaborando dati di provenienza sia interna che esterna. In particolare, definisce il listino prezzi e organizza la gestione dei clienti, in termini di priorità e di assortimenti. Supporta la divisione vendite nella fase di trattativa con i clienti, fornendo informazioni sia quantitative che qualitative. Queste ultime possono 167 riguardare, ad esempio, trend di mercato, soluzioni che possono migliorare la visibilità e l’accessibilità dei prodotti nei punti di vendita, ecc. Definisce test di merchandising con i clienti per valutare il posizionamento a scaffale dei prodotti. Questi compiti, in precedenza, erano svolti in maniera occasionale e non strutturata e di conseguenza procuravano vantaggi limitati. Con questa nuova organizzazione, invece, c’è maggiore chiarezza nella definizione e nell’esecuzione delle mansioni e, inoltre, sono aumentate le potenzialità per ottenere performance migliori. Il vero aspetto evolutivo per il gruppo Fileni a seguito dell’introduzione della funzione di trade marketing ha riguardato principalmente la ricerca di soluzioni per migliorare le attività nei punti di vendita con l’obiettivo di fornire supporto ai clienti, e di conseguenza cercare di avvicinare e soddisfare i consumatori finali. In quest’ottica, sono state intraprese due nuove attività, l’analisi dei volantini promozionali della distribuzione e il presidio dei punti di vendita i cui tratti salienti saranno affrontati nei paragrafi successivi. IV.5.2. L’analisi dei volantini promozionali Il gruppo Fileni ha acquistato un software, In-Store Flyer STAT, che permette di monitorare e analizzare i volantini promozionali. Questi, infatti, rappresentano oggi un importantissimo strumento di comunicazione e di vendita; ogni anno in 168 Italia si stampano, infatti, circa 12 miliardi di volantini per pubblicizzare le offerte della grande distribuzione. Se non vengono gestiti con la dovuta attenzione non sono efficaci né per l’impresa industriale né per quella di distribuzione e rappresentano solamente uno spreco di denaro. Il software fornisce in tempo reale il panorama completo delle offerte promozionali su volantino attive in Italia. Con l’accesso via web ad un portale online, In-Store Flyer STAT permette di effettuare ricerche ed analisi mirate a tutti i livelli di aggregazione, dal singolo prodotto su uno specifico punto vendita, fino alla totalità delle offerte su tutte le insegne, nel periodo o nella zona geografica definita. Lo strumento, quindi, si presta ad un utilizzo sia tattico che strategico. In riferimento al primo c’è la possibilità di effettuare un focus sul monitoraggio delle execution delle promozioni concordate con un orizzonte temporale di tipo giornaliero/settimanale con un’attenzione particolare a indicatori quali l’inserimento a volantino e la copertura territoriale. Caratteristiche fondamentali sono la tempestività e la freschezza dei dati: una visione real-time della presenza sui volantini e della relativa modalità di esecuzione è un fattore abilitante per reazioni e contromosse efficaci. Un’ulteriore possibilità è l’approfondire fenomeni, entrare nel dettaglio e rispondere a necessità ad hoc generate dal contesto di business. 169 Figura IV.5.2.-1. La sezione di ricerca di In-Store Flyer STAT L’utilizzo strategico dello strumento riguarda, invece, l’incrociare analisi per generare insights, individuare tendenze e monitorare l’andamento dei flyer con periodicità che vanno dal mese al trimestre. In questo caso, l’indicatore fondamentale è rappresentato dalla quota di penetrazione promozionale. Si tratta di un indicatore che riassume in un unico numero diverse informazioni, quali la numerica di volantini, il potenziale dei punti di vendita presidiati, la durata, il numero di referenze in promozione ed il potenziale di sell-out di ogni singolo punto vendita. La sezione di analisi, si 170 compone di due parti, un’analisi veloce e generale e un’altra più complessa ma personalizzabile in base alle specifiche esigenze. Figura IV.5.2.-2. Un esempio di analisi quick di In-Store Flyer STAT 171 Figura IV.5.2.-3. La sezione di analisi advanced di In-Store Flyer STAT Grazie a questo strumento, il gruppo Fileni ha potuto godere di una maggior consapevolezza del fenomeno volantini. L’utilizzo sempre più frequente dello strumento nell’operatività delle diverse divisioni ha fatto sì che si sia instaurato uno scambio di nuove esigenze e di nuovi spunti di riflessione che il trade marketing riporta di volta in volta. Queste danno luogo alla creazione di sempre nuove reportistiche interne. Grazie a questo strumento, inoltre, i key account manager (KAM) e gli area visual merchandiser (AVM) hanno la possibilità di 172 essere più consapevoli delle dinamiche delle attività promozionali in atto nel mercato, migliorando il loro operato e arricchendo il loro know-how. IV.5.3. Il presidio dei punti di vendita Negli ultimi anni le grandi imprese industriali stanno effettuando elevati investimenti di in-store marketing. Per un’impresa industriale la presenza sul territorio rappresenta sempre più spesso un aspetto fondamentale in quanto permette di: far percepire l’esistenza della propria offerta al consumatore al momento dell’acquisto; mantenere coerenza nella qualità della propria offerta e rinforzare il valore della marca; prolungare l’attività di comunicazione nei punti di vendita; raccogliere informazioni sui clienti e sui competitors. Per fare ciò, comunque, è necessario un requisito fondamentale: una buona relazione con la distribuzione. Infatti, per poter agire all’interno dei punti di vendita della distribuzione, o si è un’azienda leader con dei marchi molto noti che non possono mancare negli assortimenti o è necessario far comprendere alla distribuzione che si possiedono competenze, capacità di analisi e una visione non limitata ai propri prodotti ma all’intera categoria. L’obiettivo è quindi fornire 173 supporto al cliente non solo in termini di profittabilità ma anche di capacità di attirare i consumatori. La presenza nei punti vendita, oltre a favorire l’estensione delle attività di marketing, permette di ricavare dati e informazioni molto importanti sia di tipo quantitativo, come la presenza dei prodotti, che di tipo qualitativo, come anomalie riguardanti la qualità, l’etichettatura o il confezionamento dei prodotti. Tali informazioni quali-quantitative permettono di avere una visione sempre più chiara e realistica sia del cliente finale che intermedio, con il fine ultimo di ottenere migliori performance. Le imprese industriali, per avere una buona execution a scaffale, stanno effettuando investimenti sia economici che organizzativi. Se agli investimenti segue una corretta execution nei punti di vendita, le strategie di marketing sono destinate ad avere effetto sulle vendite e a contribuire al raggiungimento dei target prefissati. Se invece ciò non avviene, le industrie rischiano di perdere il controllo di ciò che succede a scaffale e di conseguenza di vanificare l’impegno e gli investimenti profusi a sostegno delle diverse attività in store. In quest’ottica, il gruppo Fileni ha attuato un progetto con l’obiettivo di assicurare una corretta relazione con i punti vendita, attraverso un presidio costante e piani visite mirati sulla base dell’importanza dei punti di vendita. 174 Nello specifico, è stata formata una squadra di visual merchandiser, composta da personale diretto e indiretto, che nell’arco temporale di cinque settimane visita oltre 600 punti di vendita. Rispondendo al trade marketing manager e funzionalmente al trade marketing analyst, la squadra di field assicura un corretto presidio del territorio su supermercati e ipermercati, monitorando le azioni commerciali del gruppo Fileni e dei competitors. Si interfaccia, inoltre, con i KAM sulla gestione di informazioni riguardanti la presenza degli assortimenti concordati, i prezzi, le promozioni, l’esposizione e il posizionamento dei competitors. Tutte queste informazioni sono rilevate attraverso l’utilizzo di un palmare e vengono inviate giornalmente ad un portale online con accesso via web. La conoscenza dettagliata dell’assortimento di ogni punto vendita, che può arrivare nel dettaglio fino alla tipologia di struttura espositiva, al numero di facing o alla presenza di materiale POP, è molto importante soprattutto nei confronti dei grandi clienti, nei i quali avviene una consegna alle centrali d’acquisto e non ai punti vendita. Con la presenza nel territorio, si riesce quindi ad avere una visione più chiara. E’ possibile, ad esempio, incrociare i dati interni con quelli provenienti dall’esterno e, effettuando i dovuti ragionamenti, definire strategie ed azioni. 175 Il presidio dei punti vendita permette, inoltre, di monitorare l’andamento dei progetti realizzati ad hoc con i clienti, con la possibilità di apportare, se necessari, aggiustamenti in itinere. Nella grande distribuzione, se non si è un’impresa leader con marchi affermati, è difficile convincere i clienti ad attuare progetti particolari, per cui qualsiasi attività si voglia realizzare deve essere ben strutturata, e prima di essere indirizzata alle realtà più grandi, necessita di essere sperimentata in quelle più piccole. Un esempio di successo, è rappresentato dal progetto Fileni Bio, che dopo essere stato testato in un cliente, è stato replicato in altri. Si tratta di un progetto di valore, che permette agli stessi clienti che lo condividono di ottenere buoni risultati. Il gruppo Fileni, infatti, mette a disposizione del cliente una conoscenza molto dettagliata riguardante i dati e le tendenze del mercato, ma anche la tipologia di esposizione e il materiale comunicazionale. La visibilità nei punti di vendita è, infatti, un elemento fondamentale. 176 Figura IV.5.3.-1. Esempio di display di un ipermercato ad alta visibilità e valore A questo punto emergono due riflessioni inerenti al presidio dei punti di vendita. La prima riguarda le attività di monitoraggio; la mera fase operativa di controllo è importante, in quanto da un lato permette di valutare l’efficacia delle misure implementate e dall’altro offre l’opportunità di studiare le azioni dei competitors. La seconda riguarda le attività di in-store marketing; il merchandising o l’utilizzo del materiale comunicazionale rappresenta la giusta conclusione, se la parte a monte, vale a dire la relazione con i clienti, è stata ben sviluppata. Ad esempio, se il fornitore non si è dimostrato competente, il cliente non gli concede l’autorizzazione per operare nei suoi punti di vendita. Detto ciò, le fasi da seguire per operare correttamente sono le seguenti: 1. analizzare i clienti; 177 2. definire chiaramente i progetti da realizzare; 3. co-creare i progetti con la distribuzione; 4. monitorare i risultati. Nell’ottica di realizzare al meglio la prima fase, indispensabile per costruire un percorso di valore, il gruppo Fileni, consapevole che non è possibile porre in essere le medesime attività con tutti i clienti, ha implementato un innovativo sistema di CRM, il buyer relationship management, che sarà presentato in dettaglio nel paragrafo seguente. IV.6. Il progetto di buyer relationship management Il gruppo Fileni, a seguito delle considerazioni emerse dopo l’introduzione della funzione di trade marketing, su spinta dell’area marketing, nello specifico delle figure di direttore e di responsabile, ha intrapreso un percorso per valutare lo sviluppo di un progetto di BRM, cioè un particolare sistema di CRM indirizzato ai buyers. L’area marketing sin dall’inizio ha assunto un ruolo primario nella gestione del progetto e al fine di coinvolgere e rendere partecipe l’intera organizzazione aziendale, ha organizzato un brainstorming a cui sono stati invitati il management aziendale, i rappresentanti principali delle aree marketing e vendite e due figure accademiche. L’obiettivo è di far emergere sia lo stato dell’arte che la necessità di migliorare la relazione con la distribuzione, attraverso l’applicazione di concetti 178 discussi ampiamente in letteratura (Gummesson, 2004; Ata e Toker, 2012; Johnson et al., 2012; Stein et al., 2013), come il CRM. Quello che si vuole dimostrare è che per creare conoscenza non è sufficiente limitarsi all’analisi di dati meramente commerciali, ma sono necessarie altre informazioni, generate anche da comunicazioni dirette o da rapporti interpersonali. L’obiettivo del progetto di BRM è, quindi, da un lato la raccolta di dati e informazioni e dall’altro la diffusione di conoscenza per supportare le attività dell’area marketing e vendite. L’aspetto innovativo sta nel focalizzare l’attenzione su un particolare attore della distribuzione, il buyer, che permette di iniziare qualsiasi trattativa con i clienti; per l’impresa industriale è ormai indispensabile ragionare in ottica buyer centrica. A partire dall’analisi dei buyer, si è cercato di creare una visione unitaria dei clienti, in quanto allo stato dell’analisi sono contemporaneamente approcciati da più figure aziendali senza una chiara e mirata azione condivisa. Tutte queste considerazioni e riflessioni hanno creato i presupposti per intraprendere il progetto di BRM. Dopo la fase di studio preliminare, le fasi che distinguono il percorso di implementazione del processo possono essere così sintetizzate: acquisizione di dati e informazioni; trasformazione dei dati e delle informazioni in conoscenza; 179 segmentazione e profilazione; definizione di strategie e azioni; valutazione delle performance. Figura IV.6.-1. Le fasi del processo di BRM Fonte: adattamento da Farinet e Ploncher (2002) IV.6.1. Acquisizione di dati e informazioni In questa prima fase viene raccolto il maggior numero di informazioni e di dati disponibili sui buyer. Ciò che si intende acquisire, non riguarda esclusivamente l’aspetto contabile, ma anche alcune caratteristiche specifiche, poiché attraverso queste l’impresa può individuare con più chiarezza le strategie da mettere in atto. Infatti, attraverso un’approfondita e chiara descrizione, ha la possibilità di 180 identificare i profili dei buyers che possono essere accomunati, in quanto caratterizzati da comportamenti e caratteristiche simili. L’acquisizione delle informazioni avviene attraverso la creazione di una scheda tecnica, suddivisa in quattro sezioni: dati personali, ruolo e livello di competenze, dati di acquisti e strategie e dati riguardanti la soddisfazione nella relazione. Figura IV.6.1.-1. Scheda tecnica del buyer Fonte: elaborazione propria Nella fase di test è stata realizzata l’analisi su un campione di 30 buyers appartenenti a vari canali/settori. Inizialmente, le informazioni sono state acquisite 181 somministrando questionari face-to-face a risposta chiusa a scelta multipla a 3 responsabili di canale (responsabile GD, responsabile DO e responsabile Gastronomia) del gruppo Fileni che settimanalmente si interfacciano con i buyers oggetto d’analisi. Successivamente, per verificare se le percezioni emerse dall’analisi autoreferenziale fossero corrette, sono stati somministrati questionari a risposta chiusa a scelta multipla tramite posta elettronica direttamente ai buyers. Infine, per avere una visione a 360° sul buyer, sono stati integrati i dati provenienti dai database interni. Tutte queste informazioni, provenienti da diverse fonti, sono state raggruppate in un unico database al fine di produrre un efficace sistema per successive fasi di analisi e di clusterizzazione. IV.6.2. Trasformazione dei dati e delle informazioni in conoscenza L’azienda che intende porre al centro della propria attenzione il buyer, non si deve limitare all’acquisizione di una molteplicità di dati, ma deve anche saperli gestire, affinché da essi possa trarne il massimo beneficio. L’obiettivo diviene pertanto quello di trasformare dati e informazioni in conoscenza, strategicamente utile per prendere decisioni aziendali ed operative. Le varie informazioni raccolte vengono analizzate al fine di individuare quali sono i bisogni espliciti che i buyers e di conseguenza i clienti vogliono soddisfare. Da tutte queste considerazioni prende forma il buyer relationship management (BRM), un sistema che crea nuova 182 conoscenza e che supporta le attività delle aree vendite, marketing e trade marketing. Figura IV.6.2.-1. Schema del BRM Fonte: elaborazione propria Le vendite traggono vantaggio nella gestione della trattativa, le altre, il marketing e il trade marketing, invece, nel definire le attività da attuare, in quanto si può già ipotizzare a chi potrebbero interessare e a chi non (Altavilla e Bolwijn, 2007). Infatti, osservando i dati contenuti nel database, l’impresa può cercare di prevedere quali saranno i desideri futuri dei buyers, le loro richieste e i comportamenti d’acquisto. Adottando questo comportamento proattivo, l’impresa ha la possibilità di muoversi in anticipo rispetto alla concorrenza, ottenendo un forte vantaggio competitivo. 183 IV.6.3. Segmentazione e profilazione Una volta raccolti i dati e opportunamente trasformati in conoscenza, l’impresa deve cercare di capire quali sono i clienti in grado di apportare maggiore valore, ovvero, deve identificare quelli che le consentiranno di ottenere i maggiori profitti e che le permetteranno di instaurare e mantenere solide relazioni. Dopo aver effettuato un’analisi complessiva delle grandezze principali, sono state costruite diverse linee del valore e mappe di posizionamento, che hanno permesso di individuare le variabili per realizzare la segmentazione dei buyers. Dalla letteratura, infatti, emerge spesso che le scelte di posizionamento e di segmentazione sono tra loro interdipendenti e adottate in maniera congiunta (Burresi et al., 2006). La segmentazione dei buyers rappresenta il cuore del BRM ed è, inoltre, una fase ad elevato contenuto strategico, in quanto dalla modalità di segmentazione derivano implicazioni importanti, come l’individuazione dei clienti chiave sui quali focalizzare le iniziative e gli investimenti, la comprensione delle loro aspettative attuali e potenziali e, in base a ciò, la conseguente declinazione di offerte personalizzate (Altavilla e Bolwijn, 2007). In questo case study, i 30 buyers oggetto d’analisi sono stati raggruppati in 4 cluster, omogenei internamente e eterogenei esternamente, e le variabili per definirli sono state la marginalità, il grado di collaborazione, il grado di fedeltà e il grado di innovazione, perché più significative. Ogni segmento si caratterizza per 184 particolari aspetti, quindi i buyers appartenenti a profili diversi richiedono una gestione differente. Inoltre, i profili emersi sono rappresentativi dell’intero universo dei buyers, per cui quando si estenderà l’analisi, sicuramente le caratteristiche che emergeranno faranno collocare le varie figure in uno dei segmenti già individuati. Il profilo con le caratteristiche più vantaggiose è rappresentato dal collaborativo; l’estremo opposto, invece, è occupato dal promotion sensitive, mentre nelle situazioni intermedie sono posizionati il duro negoziatore e il buyer fantasma. Di seguito si descrivono in breve le caratteristiche di ogni singolo profilo. 1) Il collaborativo è caratterizzato da un’elevata flessibilità, apertura alle innovazioni, fedeltà e marginalità. E’ il profilo migliore. Con i buyers che hanno queste caratteristiche si può istaurare un rapporto che permetta di ottenere benefici, creando valore e realizzando progetti in comune; rappresenta, quindi, il partner del futuro. 2) Il promotion sensitive non è collaborativo, fedele, aperto alle innovazioni e non permette di ottenere un’elevata marginalità. E’ il profilo peggiore e i buyers che rientrano in questo cluster hanno molto spesso comportamenti opportunistici. 3) Il duro negoziatore non è collaborativo, fedele ed è inflessibile nella contrattazione. Nonostante ciò, ha un elevato grado di apertura alle innovazioni e permette di ottenere un’elevata marginalità. Appartengono a questo profilo abili negoziatori che in fase di trattativa non accettano compromessi. 185 4) Il buyer fantasma è collaborativo e fedele, non aperto all’innovazione e non permette di ottenere un’elevata marginalità. I buyers che appartengono a questo segmento ancora non hanno un’identità ben delineata, per cui devono essere analizzati e monitorati continuamente per valutarne la possibilità di sviluppo e di passaggio ad un profilo migliore. Figura IV.6.3.-1. I profili dei buyers Fonte: elaborazione propria IV.6.4. Definizione di strategie e azioni A questo punto si possiede quanto necessario per fare in modo che il progetto diventi operativo. In ottica aziendale, il BRM, attraverso la conoscenza che mette 186 a disposizione, può favorire la migliore gestione dei buyers e di conseguenza dei clienti. Questa, non è fine a se stessa, ma ha lo scopo di aumentare le performance dei clienti. L’obiettivo è, quindi, cercare di definire ed attuare strategie e azioni tali, da permettere uno spostamento del maggior numero di clienti nei quadranti di destra della matrice utilizzata per la segmentazione, vale a dire quelli ad alta marginalità. In questa prospettiva, il gruppo Fileni può iniziare a ragionare in termini di definizione di azioni “a cascata” da rivolgere ai buyers; a partire da azioni generali da rivolgere a tutti, passando per azioni da indirizzare a coloro che hanno caratteristiche e comportamenti simili, per arrivare ad azioni personalizzate per i singoli. Alcuni esempi pratici sono: dall’organizzazione di convegni e seminari su argomenti e tematiche emergenti e di settore per tutti i clienti, all’attuazione di progetti specifici, come il Fileni Bio, per i clienti che rientrano in un definito profilo, per giungere al testare nuovi prodotti da lanciare sul mercato o alla realizzazione di prodotti a marchio commerciale per singoli clienti. Con il supporto della funzione di trade marketing, la divisione marketing può sfruttare l’implementazione del BRM per la creazione dei piani di marketing, per la gestione del budget o per la definizione di programmi di fidelizzazione. La divisione vendite, invece, oltre a gestire la relazione in modo migliore, può avere una visione chiara sulle azioni prioritarie da intraprendere e sugli scopi da raggiungere, come accrescere i ricavi, i margini, la fidelizzazione, la customer satisfation, ecc. 187 IV.6.5. Valutazione delle performance A seguito dell’attuazione delle azioni e delle strategie, è necessaria un’attività di monitoraggio per accertarsi se gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti. Ciò permette di interrompere determinate azioni se non si riscontrano risultati positivi o di incentivarne altre se comportano il raggiungimento di esiti ben migliori di quelli sperati. Questi controlli possono essere a priori, nel mentre o a posteriori. Nel primo si controlla fin dall’inizio il perseguimento delle iniziative e ai primi risultati non conformi alle proprie aspettative, si attua un’azione correttiva. Nel secondo, invece, dopo un periodo stabilito, si ricorre ad un attento controllo e, se necessario, si interviene immediatamente per permettere il raggiungimento degli obiettivi. Nell’ultimo, quello a posteriori, il controllo avviene a risultati ottenuti. In questo caso non è possibile attuare azioni correttive, ma si mettono in atto iniziative alternative che permettono di evitare gli errori precedentemente commessi. Oltre all’attività di controllo è necessario continuare ad implementare il processo di sviluppo di nuova conoscenza sui clienti, in quanto i loro bisogni sono in continua evoluzione. Solo in questo modo l’impresa sarà in grado di modificare l’offerta per soddisfare adeguatamente le necessità dei clienti. Si ritorna dunque alla fase iniziale del percorso, il quale sarà ripreso generando un ciclo continuo. 188 IV.7. Le implicazioni organizzative Per lo sviluppo del progetto di BRM è stato necessario il coinvolgimento di diverse aree dell’organizzazione, in particolare il marketing e le vendite, richiedendo nelle fasi iniziali un notevole sforzo sia organizzativo che culturale. Nonostante la consapevolezza dell’importanza della figura del buyer, sviluppare una visione buyer centrica, traslando la visione cliente centrica proposta da Levitt (1960), non è stato semplice ed immediato. In quest’ottica, il buyer, infatti, è da intendere come il punto di partenza per poter definire e sviluppare qualsiasi strategia o attività. Nel gruppo Fileni, fondamentale è stato il supporto del vertice aziendale per rendere attuativo questo nuovo orientamento. Questo percorso di cambiamento, iniziato con l’introduzione del trade marketing, è infatti indispensabile per riuscire ad affrontare nella maniera più appropriata possibile un mercato in continua evoluzione. Un elemento che ha comportato un primo cambiamento è rappresentato dalla costituzione di un team dedicato a seguire il progetto. Importante è stata l’interazione tra l’area marketing e figure accademiche per lo sviluppo del progetto. La definizione di un team dedicato ha rappresentato un importante passaggio, per sancire la volontà di investire in un’iniziativa di lungo periodo. Inoltre, il team ha rappresentato un punto di riferimento all’interno dell’organizzazione, in quanto ha svolto una funzione di raccordo tra il top management e le altre funzioni aziendali. 189 In questa fase di startup, si è cercato di valutare quali effetti possa creare un sistema di BRM, nel senso di definire quale utilizzo possa essere fatto della conoscenza generata nell’ottica di migliorare la relazione e la gestione dei clienti. Da un punto di vista operativo, è stato necessario un cambiamento delle routine aziendali per far convergere tutte le informazioni disponibili sui buyers in un unico database. E’ necessario ricercare, quindi, una forte integrazione e, contemporaneamente, un’elevata flessibilità e dinamicità. In questo modo è stato possibile sviluppare conoscenza che le aree aziendali, marketing e vendite in primis, hanno potuto utilizzare per creare valore ai clienti, producendo contenuti o servizi specifici. Nel caso empirico, si è deciso di sviluppare inizialmente il progetto in termini di valutazione e di ricerca dei possibili vantaggi e soluzioni da adottare, per considerare solamente in una fase successiva l’investimento e l’introduzione di specifiche tecnologie di CRM, analizzando le soluzioni proposte dai vari venditori di software. Dall’analisi della letteratura emerge, infatti, che la tecnologia è una componente fondamentale per implementare una strategia di CRM (Farinet e Ploncher, 2002), ma anche che ci sono elevati casi di insuccesso, per i quali difficilmente viene giustificato il costo dell’investimento (Lindgreen et al., 2006). Nonostante la spiegazione delle finalità del progetto di BRM e dei possibili vantaggi pratici per l’impresa, si è riscontrato un certo scetticismo da parte di alcune figure dell’area vendite, in quanto non sono riuscite a comprenderne le 190 elevate potenzialità e l’effettiva utilità. Una problematica rilevante è legata quindi all’aspetto culturale. Mentre alcuni considerano il BRM come uno strumento di marketing utile per azioni future, altri ritengono d’utilità solamente una limitata parte delle informazioni presenti nel sistema, soprattutto per la gestione delle relazioni. Altri ancora, invece, considerano il BRM come un semplice database in cui non ci sono informazioni strategiche, dunque non ne vedono l’utilità per il miglioramento della relazione con i clienti. Ad esempio, ritengono che il sistema, oltre a generare mansioni aggiuntive come l’inserimento dei dati, non apporti vantaggi nella gestione delle relazioni. Piuttosto, pensano che i fattori che la influenzano e la migliorano sono l’esperienza maturata, le informazioni scambiate informalmente e il rapporto costruito nel tempo. Per affrontare proattivamente questa tipologia di contrasti di stampo culturale, è stato investito del tempo in attività formative riguardanti principalmente i concetti di marketing relazionale e di trade marketing durante le fasi di sviluppo del progetto, per far in modo che all’interno del gruppo Fileni si crei un orientamento e una mentalità buyer centrica. La presenza di quest’ostacolo, comunque, non deve sorprendere; è infatti necessario del tempo per far sì che il BRM sia assimilato dall’intera organizzazione. Va comunque evidenziato che l’elemento fondamentale per rendere il BRM efficace è il fattore umano, nel senso di avere il supporto e il coinvolgimento del personale nelle varie iniziative e attività. Un’azienda, infatti, 191 non può sviluppare ed utilizzare un sistema buyer-focused senza l’appoggio di personale motivato (Payne e Frow, 2006), ma soprattutto che ha fiducia e che crede nelle decisioni aziendali. 192 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Il presente lavoro può risultare utile per comprendere il modo in cui le imprese industriali possano migliorare la relazione e, soprattutto, la gestione del rapporto con le imprese commerciali, che negli ultimi anni stanno occupando una posizione dominante all’interno della supply chain. Queste, infatti, non sono più considerate dei meri attori del canale distributivo, ma dei veri e propri clienti da soddisfare o con cui sviluppare strategie di collaborazione. La presente ricerca, che ha percorso tutto il fil rouge dei rapporti nella supply chain, passando prima per il marketing relazionale e poi per il trade marketing, è giunta a presentare e concettualizzare un particolare ed innovativo sistema di CRM, il buyer relationship management (BRM), capace di fornire il supporto necessario per migliorare la relazione con la distribuzione. Il concetto di relazione ha rappresentato, quindi, l’elemento cardine della ricerca, essendo un vero e proprio patrimonio (Costabile, 2001) e la chiave di successo per le imprese industriali (Giacomazzi, 2002). Collocandosi la teorizzazione della relazione all’interno di svariati ambiti di studio, l’analisi della letteratura ha permesso di identificare le tematiche con cui analizzarla e approfondirla. Il primo grande tema della ricerca è il trade marketing, molto importante nella pratica aziendale e discusso in ambito accademico soprattutto negli anni della sua introduzione, tra il 1990 e il 2000. Per le imprese industriali, la presenza del trade 193 marketing è ormai imprescindibile, anche se viene considerato, strutturato e definito in base a peculiari esigenze, livelli di sviluppo o contesti di riferimento, non esistendo una definizione e interpretazione unica. A mio avviso la più appropriata è la visione di Fornari, che usa il termine per identificare l’insieme di azioni eseguite dai fornitori per facilitare la relazione con i retailers. Il trade marketing rappresenta, quindi, un orientamento strategico e non una specifica funzione aziendale. L’indagine empirica, rivolta a quattro aziende ha permesso di verificare quanto riscontrato in letteratura riguardo al trade marketing, cioè la mancanza di una definizione comune e l’importanza per l’impresa (Predeval 1983; Beltramini e Gaeta, 1998; Vicari e Castaldo, 2005). Nelle aziende più strutturate, la collocazione organizzativa della funzione è all’interno della divisione commerciale, pari livello con le divisioni marketing e vendite. Le attività principali sono sia strategiche che operative, tra loro interdipendentemente legate: inizialmente le attività strategiche sono essenziali per supportare le decisioni operative e successivamente le attività di field possono proporre aggiustamenti per future implementazioni (Vicari e Castaldo, 2005). L’indagine empirica, inoltre, conferma l’importanza del coinvolgimento del top management nello sponsorizzare la funzione e nel definirne la giusta posizione all’interno dell’organizzazione aziendale (Predeval, 1983). I limiti di questa ricerca sono ricondotti principalmente alle scelte metodologiche effettuate. L’investigazione, infatti, si è focalizzata su imprese industriali che sono leader nei loro business e di 194 conseguenza hanno il potere per gestire efficacemente la relazione con la distribuzione. Al contrario, le piccole e medie imprese si trovano in una posizione differente, trovando maggiori difficoltà nell’impegnarsi con i grandi retailer, specialmente riguardo alle attività di in-store marketing. In quest’ottica, una prospettiva di sviluppo potrebbe essere l’analisi della funzione di trade marketing nelle aziende di piccole e medie dimensioni. Un’altra prospettiva di sviluppo potrebbe riguardare, invece, lo studio della percezione e dell’adeguatezza delle pratiche di trade marketing dalla prospettiva del distributore. Analizzato il trade marketing nella letteratura e avendone verificato l’applicazione pratica nei quattro casi empirici, ho affrontato l’analisi del gruppo Fileni. In tale contesto si è innanzitutto implementato un modello di trade marketing, per poi sviluppare un sistema che possa esserne di supporto, il BRM. L’obiettivo è, quindi, di individuare le implicazioni e i riflessi organizzativi, che le imprese potrebbero vivere implementando da un lato un progetto di trade marketing e dall’altro un innovativo sistema capace di creare e sviluppare conoscenza, il BRM. Un elemento di convergenza con la precedente indagine è rappresentato dall’importanza del coinvolgimento del top management, nel momento in cui si effettuano cambiamenti di rilievo. Infatti, l’analisi empirica dimostra che l’implementazione del trade marketing prima e del BRM poi non segue un percorso semplice e lineare. 195 L’analisi del caso è molto interessante, perché permette di rispondere alle domande di ricerca. Le imprese industriali, infatti, prestando attenzione alle esigenze e ai bisogni dei clienti, sono in grado di produrre beni, non per rispondere alle sole opportunità aziendali, ma alle necessità di questi e di conseguenza al mercato. Agendo seguendo questa logica, le imprese trade marketing oriented, oltre a rafforzare i legami con le imprese di distribuzione, hanno anche la possibilità di sviluppare alleanze strategiche o addirittura partnership. Delle riflessioni sul trade marketing, ha preso avvio lo sviluppo del modello di BRM, il cui scopo è integrare in modo strutturato tutte le informazioni sui clienti, a partire dai buyer, in modo da poterle analizzare e comprendere, per istaurare relazioni ben salde, che permettono di aumentare la soddisfazione e le performance di entrambe le parti, le aziende di produzione e di distribuzione. Il BRM e il trade marketing sono quindi strettamente connessi; il primo permette di immagazzinare informazioni che, trasformate in conoscenza, permettono al secondo di attuare specifiche azioni. Il caso empirico ha effettivamente dimostrato come siano individuabili vantaggi, in ordine al miglioramento della gestione della relazione. Un interessante risultato della ricerca ha evidenziato che la maggiore conoscenza ottenibile, mediante il BRM, può essere utilizzata per anticipare i bisogni e le attese dei clienti, oltre che per permettere di definire specifiche strategie o azioni da attuare. La gestione 196 della conoscenza e l’uso della stessa, al fine di migliorare la relazione con il cliente, è stata una tematica affrontata senza prendere in considerazione il ruolo che potrebbe svolgere la tecnologica. L’analisi ha voluto evidenziare come sia necessario, dapprima sviluppare il progetto in termini di ricerca delle soluzioni più adatte per rispondere alle richieste dell’area vendite, marketing e trade marketing, poi entrare in azione direttamente con l’area tecnica dei sistemi informativi. Le due aree, vendite e marketing, avendo a disposizione informazioni molto approfondite, da dati meramente commerciali a competenze e capacità personali, su ogni singolo buyer, traggono ciascuna i propri vantaggi: la prima nella gestione della trattativa e la seconda nel definire le attività, in quanto può già ipotizzare a chi potrebbero interessare e a chi non. Realizzare un corretto ed ampio database in cui far convogliare informazioni da più fonti è quindi il primo step. Centralizzate tutte le informazioni nel BRM, consegue che ogni singolo interessato ha la possibilità di estrapolare facilmente e velocemente i dati di cui necessita. Realizzando l’indagine empirica si è dimostrata la potenzialità che un sistema di BRM ha all’interno di un’impresa industriale. È ovvio che una corretta implementazione comporta un cambiamento nelle routine aziendali. Infatti, dopo aver inserito tutte le informazioni disponibili sui buyers in un database è necessario mantenerle aggiornate. 197 Un ostacolo rilevato in riferimento al BRM riguarda la percezione della sua effettiva utilità. Alcune figure dell’area vendite, infatti, ritengono che il sistema non apporti vantaggi nella gestione delle relazioni. Piuttosto, pensano che i fattori che la influenzano e la migliorano sono solo l’esperienza maturata, le informazioni scambiate informalmente e il rapporto costruito nel tempo. Ciò, comunque, non deve sorprendere; è infatti necessario del tempo per far sì che il BRM sia assimilato dall’intera organizzazione. I limiti della ricerca sono ricondotti principalmente alle scelte metodologiche effettuate. Infatti, è stata limitata l’osservazione ad un caso aziendale. Una prospettiva di sviluppo potrebbe essere quindi l’ampliamento del campione da analizzare, con l’obiettivo di verificare le conclusioni qui emerse in termini di profilazione dei buyers, sia dello stesso settore aziendale sia di altri. Un’altra prospettiva di sviluppo potrebbe riguardare lo studio del sistema di BRM, dopo un anno dalla sua introduzione, con l’obiettivo di verificarne l’effettiva utilità. La ricerca, infine, consiglia un insieme di avanzamenti che l’azienda può attuare se intende adottare il sistema di BRM. Inizialmente sarà necessario l’inserimento del database all’interno della intranet aziendale, in modo da poter testare operativamente la validità del progetto realizzato. Saranno creati per gli utenti diversi profili, ad esempio profilo marketing e profilo vendite, in modo che ogni utente avrà l’autorizzazione per accedere solamente alle informazioni di sua 198 competenza. In questo modo si cercherà anche di dimostrare agli scettici l’utilità dello strumento. Successivamente si dovrà ampliare il campione, estendendo l’analisi a tutti i buyers, con l’obiettivo di verificare la correttezza della profilazione e concretizzare definitivamente l’utilizzo del BRM. Un’interessante conclusione del lavoro si lega al contributo significativo offerto per la letteratura esistente. La prima parte infatti, quella relativa al trade marketing, permette di aggiornare ed avanzare gli studi di una tematica che, nonostante l’importanza nel contesto professionale, attualmente non è frequentemente affrontata nel contesto accademico (Scattolini e Gregori, 2015). La seconda parte, invece, quella relativa al BRM, permette di concettualizzare un nuovo modello di CRM, nel contesto business to business, centrato su una specifica figura della distribuzione, il buyer, che è proprio innovativo (Scattolini, 2014). 199 BIBLIOGRAFIA Agarwal A., Harding D. P., Schumacher J. 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