Economia e sistema politico italiano

Civitas
Rivista quadrimestrale di ricerca
storica e cultura politica
• Fondata e diretta da Filippo Meda
(1919-1925)
• Diretta da Guido Gonella (1947)
• Diretta da Paolo Emilio Taviani
(1950-1995)
Quarta serie, anno II - n. 3/2005
• Diretta da Gabriele De Rosa
«Civitas» “riprenderà il difficile impegno con la serietà
ed il rigore che la hanno contraddistinta nei momenti
più travagliati e complessi.
I temi riguarderanno problemi, eventi, prospettive
della politica internazionale con un particolare riguardo
alla vita italiana ed all’unità europea.
... Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia,
in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e,
per un certo verso, se non addirittura, da correggere,
da meglio interpretare.
Sarà anche questo un importante compito della nuova «Civitas»”. [Paolo Emilio Taviani, 18 febbraio 2000]
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Indice
• Economia e Democrazia
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Presentazione di Franco Nobili
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Editoriale
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Una lunga storia - di Giuseppe Sangiorgi
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La sessione di bilancio per il 2006 - di Piero Giarda
35
Il debito pubblico: un male da cui liberarsi? (e come?) Un’analisi per l’Italia d’oggi
(e di ieri) - di Mario Sarcinelli
47
La libertà economica unica regola del mercato globalizzato - di Giampiero Cantoni
53
Parametri di Maastricht e debito pubblico: il caso italiano - di Bruno Tabacci
65
Il futuro dell’impresa italiana: tra economia reale ed economia immateriale
di Innocenzo Cipolletta
77
Economia e sistema politico italiano: un rapporto corretto o c’è qualcosa da cambiare?
di Piero Barucci
83
Le imprese familiari: problemi di competitività e prospettive di sviluppo
di Giovanni Marseguerra
99
Debolezza dell’economia o crisi del suo governo? - di Andrea Bixio
111
La sfida della nuova economia e il tema della formazione manageriale
di Antonio Zurzolo
RUBRICHE
COLLOQUI Intervista al Prof. Emmanuele Emanuele
121
POLITICA INTERNA a cura di Nicola Graziani
130
POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro
136
RICERCHE a cura di Andrea Bixio
145
RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli
150
IL “CORSIVO” a cura di Giorgio Tupini
155
NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris
158
FUORI SCAFFALE a cura di Amos Ciabattoni
166
NOMI CITATI
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Economia
e
Democrazia
Presentazione
• La scelta, per questo numero di «Civitas», dell’argomento Economia
collegato al significato e alla pratica della Democrazia, è stata convenuta,
dopo ampia valutazione, dalla Direzione e Redazione.
• È vero che il tema presenta aspetti di intrinseca difficoltà quanto al
comune interesse, anche perché in generale non viene sempre spiegato con
la necessaria semplicità richiesta dalla buona comunicazione istituzionale,
ma è anche vero che gli effetti che nella pratica dei suoi sviluppi quotidiani
si producono, sono quelli più direttamente “sentiti”, o anche soltanto
“percepiti”, dalla gente. E ne determinano i comportamenti, sia in direzione della politica che di chi, al momento, ne detiene le leve del potere.
• Del resto, è innegabile che l’argomento Economia e la sua diretta
influenza sulla pratica della Democrazia, sono ormai di ordine e dimensione mondiali. Per cui ne deriva l’obbligo imprescindibile di ogni
Paese civile di adeguarsi alla sua mondializzazione e adeguare a sua volta
le proprie politiche.
È quello che viene richiesto all’Italia.
• «Civitas» si propone di “trasmettere” valutazioni e messaggi utili alla
necessaria riflessione, specialmente in un momento delicato come quello
che per alcuni mesi vivrà il nostro Paese per effetto di una lunga campagna
elettorale dal cui esito dipenderanno tanti aspetti della sua vita e della sua
ormai irrinunciabile “maturità” di Nazione e di classe dirigente.
• Siccome è innegabile che il successo in tali direzioni di un Paese, dipende da precisi fattori, come la capacità di produrre “ricchezza”, la idoneità a saperla distribuire e trasformarla in servizi e quindi nel “Bene” comune, ovvero in giustizia sociale; l’adeguatezza della classe di governo e
politica in generale, allora i contenuti di questo numero di «Civitas» si indirizzano sugli elementi più sostanziali di tale assunto. Dal modo di libeCivitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Presentazione
rarsi dell’enorme debito pubblico (male di fondo della nostra economia)
(Piero Giarda) al modo di intendere la libertà in economia (Giampiero
Cantoni); dall’effetto dei parametri di Maastricht (Bruno Tabacci); al futuro dell’impresa italiana (Innocenzo Cipolletta); da cosa va cambiato nel rapporto economia e politica in Italia (Piero Barucci); alla funzione delle imprese familiari, ai punti deboli del suo governo, alla sfida della formazione
manageriale (Giovanni Marseguerra, Andrea Bixio, Antonio Zurzolo).
• È ovvio che la trattazione dell’argomento Economia coinvolge altri
importanti aspetti della nostra vita di Nazione: quelli culturali (Emmanuele Emanuele) e quelli legati alla storia della nostra rinascita (Giuseppe Sangiorgi). Però l’attualità e la validità dello sforzo che «Civitas» intende compiere sono legate alla capacità dei nostri governi di saper dare, al pressante
tempo delle improcrastinabili e radicali riforme del nostro sistema Economico-Finanziario, solidità ed efficacia. È il nostro auspicio più vivo.
Franco Nobili
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Editoriale
• Quali sono le due o tre cose da fare in ogni caso, cioè chiunque esca vincitore dalle prossime elezioni poltiche? Questo numero di «Civitas» dedicato a
Economia e Democrazia ha preso forma e contenuti da questa domanda, certo
elementare e forse anche rozza ma inevitabile davanti allo spettacolo quotidiano di un Paese soffocato dalle chiacchiere della politica, dalla prepotenza degli
interessi e dall’ignoranza dei cittadini. Un Paese, questa Italia di fine 2005,
in piena recessione morale e intellettuale prima ancora che economica. Un
Paese senza rotta né bussola; che non sa più chiedersi «che cosa fare?» per il futuro ma solo «che cosa dire?» del passato, a cominciare da quello prossimo di ieri per finire a quello quasi remoto dell’altro ieri. Di fronte a uno spettacolo del
genere e con la sensazione diffusa di avere toccato il fondo, un contributo non
tanto alla discussione generale quanto alla definizione di un programma operativo per il Paese con la individuazione delle «due o tre cose» comunque da
fare; un contributo di questo tipo, così necessario eppure ormai così raro, era
sembrato un motivo più che valido per decidere di dedicarvi un intero quaderno di «Civitas». Salvo dover rispondere, fatta questa scelta editoriale, a una
prima domanda: da dove cominciare?
• A essere sinceri, la risposta non è stata difficile da trovare ed è stata: dal
bilancio pubblico. In tutte le sue componenti: da quella della spesa a quella
delle entrate (fisco in testa) per finire alla risultante delle prime due, vale a dire il deficit pubblico, e tornare infine all’origine di tutto, cioè al debito pubblico. L’analisi retrospettiva di Piero Giarda e soprattutto la sua proposta per l’oggi, assieme ai contributi di Mario Sarcinelli e Giampiero Cantoni, dimostrano ampiamente la necessità, per chiunque sarà scelto dagli Italiani a governarli nei prossimi cinque anni, di partire da qui, dai conti pubblici. Non solo in
tutte le loro componenti ma anche a tutti i livelli, da quello statale a quelli locali, e di qualsiasi tipo o motivazione. E soprattutto cominciando ad ammettere che la finanza pubblica, in questo Paese, non è più una specialità dell’econoCivitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Editoriale
mia ma è diventata una specie di culto nazionale, una categoria dello spirito
italico. Ossia, in altre parole, che oggi il vero debito dell’Italia, quello più pesante da sopportare e più difficile da smontare, siamo proprio noi. Noi Italiani. In che modo? Prendiamo appunto la spesa pubblica e immaginiamola come una grande, onnicomprensiva matrioska. Scoperchiata la quale si trova
una matrioska solo un po’ più piccola che è la spesa per la pubblica amministrazione, dentro la quale sono contenute in serie tante altre matrioske, da
quelle statali a quelle regionali, provinciali, comunali, territoriali, consortili,
di bacino, di area, di competenza e via scoperchiando e scoprendo. Ma non è
finita, perché ciascuna di queste matrioske, a sua volta, ne contiene e ne mantiene altre. E queste altre ancora. Fino a quella in cui, in qualche modo, troviamo uno di noi; un Italiano convinto di essere lì dentro, in quel posto, per
diritto; perché in credito di tutto e in debito di niente.
• L’obiezione più facile è che non tutti gli Italiani sono dentro la grande
matrioska nazionale ed è vero. Ma è vero anche questo: primo, che l’aspirazione autentica di chi si trova ancora fuori è quella di entrarvi comunque e dovunque; secondo, che chi è fuori per scelta o per necessità finisce per sopportarne il peso due volte. Cioè direttamente per quanto gli costa e indirettamente
per quanto non riceve, sia sotto forma di servizi sia come possibilità-libertà di
intraprendere, di lavorare, di creare, di studiare; insomma di contribuire a
produrre nuova ricchezza (per sé e per gli altri) invece che partecipare al consumo di quella disponibile e sempre più scarsa.
Ciò che ha di insopportabile un sistema come questo è non solo il suo costo
economico ma, peggio, il suo costo culturale perché non ha una cultura del futuro ma, a malapena, di un presente sempre più rissoso e di un passato sempre
meno trasparente. Non avere futuro ovvero comportarsi come non avendolo è
davvero peggio che dover affrontare un presente difficile, specie quando le difficoltà non sono soltanto nostre ma anche di un’intera area economica e addirittura (come va di moda dire adesso) di una «identità» e delle sue «radici».
• Trovato nei conti pubblici il punto di partenza obbligato per tutti, la domanda successiva diventa: riusciranno i vincitori delle prossime elezioni a scoperchiare la grande matrioska pubblica e tutte le medie, piccole e mini matrioske che la riempiono? Sempre per essere sinceri, la risposta questa volta non è
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Editoriale
facile. Non tanto perché si tratta di convincere gli Italiani della necessità di fare questa grande operazione-verità ma perché non si trovano (almeno fino a
ora) aspiranti vincitori disposti a convincerli, a parlar loro chiaro ovvero con
appelli non del tipo «prima vinciamo, poi vedremo» ma di un genere completamente diverso, del tipo per intenderci «cosa faremo e come governeremo se
vinceremo». Se ci è consentita una digressione nella cronaca, non si ha l’impressione che i concorrenti dei due poli si stiano preparando con questo spirito
all’appuntamento con gli elettori. È vero che c’è ancora qualche mese alla scadenza, che non si sa ancora con quali regole si svolgerà la gara, che nell’uno e
nell’altro campo sono più numerose le occasioni di scontro che quelle d’incontro. Tutto vero, ma anche solo per fermarsi al nostro tema, quello cioè dei conti
pubblici, la preoccupazione comune sembra più quella di rassicurare gli Italiani che la politica della matrioska non finirà mai invece di convincerli che finirà comunque, o per scelta ossia per lungimiranza politica o per forza ossia
per necessità economica.
• Purtroppo, sempre per restare alla cronaca e sperando di essere smentiti
dai fatti, è difficile trovare della lungimiranza politica nella scelta del premier
in carica di accontentare le lobby d’ogni genere sia dal lato della spesa (da fare
e da tagliare) sia da quello delle entrare (da prendere e da lasciare) concludendo i suoi cinque anni di governo con una Finanziaria tipicamente pre-elettorale. Se lo fa perché pensa così di rivincere, dimostra di non avere capito né valutato il reale stato d’animo collettivo degli Italiani, quotidianamente in bilico
tra paura del futuro e rivolta contro il presente con la sensazione di essere senza
prospettive, di vivere in una società appunto senza bussola né rotta, di non
avere più un bene comune per il quale fare anche sacrifici ma che ci siano solo
beni privati, sempre più grandi e sempre più ostentati. Non sarà insomma promettendo a tutti una piccola matrioska che il premier in carica rimarrà in
quella grande apprestata per sé e per la sua maggioranza.
• Quanto all’aspirante premier, i toni sono certamente diversissimi ma lo
spartito sembra lo stesso. In attesa che la «fabbrica» bolognese digerisca la massa di idee-forza, schede tecniche, contributi politici e materiale vario conferitole da tutte le parti dell’Unione; in attesa cioè di leggere il programma dell’aspirante maggioranza, l’impressione prevalente è di un diffuso déja vu. A cominCivitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Editoriale
ciare da quella «nuova concertazione» che, rimettendo attorno al tavolo parte
politica e parti sociali, ripropone un rito antico quanto superato. Superato nei
fatti, in quanto le strutture della produzione non sono più «concertabili» come
ai tempi delle grandi tavolate tri-partisan e superato nelle idee, in quanto le
sovrastrutture convocate (per usare un concetto caro alla sinistra) non rappresentano veramente i nuovi «concertandi» ma solo i vecchi «concertatori». Fuor
di metafora, se l’aspirante premier conta sulla «nuova concertazione» tra Confindustria e Sindacati per tagliare la spesa pubblica parassitaria, premiare
l’innovazione e il merito, rimettere in moto lo sviluppo; se questo è lo spartito
del suo programma, troverà certamente la maggioranza degli Italiani disposta
ad applaudirlo il giorno delle elezioni ma non altrettanto il giorno dopo,
quando i nodi della finanza pubblica verranno al pettine anche del suo Governo dimostrando che la politica della matrioska non è buona o cattiva a seconda di chi la pratica ma, chiunque pretenda di continuare a praticarla, è peggio
di un errore economico: è un delitto politico. Perché, appunto, uccide ogni opportunità di crescita, promettendo di distribuire tra tutti qualcosa che c’è sempre di meno invece di chiedere a ciascuno di fare di più e di meglio, mettendolo
nelle condizioni di farlo e non scoraggiandolo o, peggio ancora, impedendogli
di farlo. Quello che si chiede oggi alla politica è invece una capacità nuova di
ascoltare e capire il nuovo proprio cominciando a smantellare il vecchio che si è
impadronito del bilancio pubblico, che occupa le sue innumerevoli matrioske e
resiste al loro interno. Si chiamino corporazioni professionali, sindacato dei lavoratori o confederazioni degli imprenditori, la forza di resistere al cambiamento non gliela dà la loro rappresentanza ma la debolezza della politica che
fa proprie le loro regole. Il contrario cioè di quanto succede per i mercati delle
professioni, del lavoro e delle imprese, che hanno una forza propria e dalla politica si aspettano regole, che la politica non sa o non vuole dare.
• Per tornare alla domanda di partenza su bilancio e conti pubblici, riusciranno i vincitori delle prossime elezioni politiche a fare quello che serve e
non quello che piace? Se la lettura di questo numero di «Civitas» li aiuterà a
trovare la risposta giusta, mettendo nei loro programmi anche un solo impegno
concreto accanto a tante alate promesse, potremo dire tutti di non avere perso
tempo. Così come non avranno sprecato le loro raccomandazioni i molti, tra
studiosi di economia e praticanti della politica, che da qualche tempo si dedicano a scoperchiare matrioske e a documentare sprechi. Come anche «Civitas» ha
sottolineato, esisterebbero già le condizioni politiche e tecniche per una salutare
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Editoriale
inversione di rotta nella gestione della finanza pubblica, cominciando proprio
da dove l’aspirante maggioranza nazionale di centro-sinistra è già maggioranza
locale. Parliamo di 16 regioni su 20, di 74 province su 108, di oltre cinquemila
comuni su ottomila: una quota di «governo» reale del Paese che in tempi di decentramento e di devoluzione equivale a una quota anche maggiore di «governo» dei conti pubblici. Prima di strillare indignati per i tagli della Finanziaria
ventura sarebbe certamente meglio se tutti questi amministratori si degnassero
di guardare nei loro bilanci: assieme a tanti consulenti inutili (a cominciare da
quelli per la comunicazione) vi troverebbero certamente una quantità di spese
futili (a cominciare da tante notti e da tanti eventi) che potrebbero essere tagliate senza togliere nulla di essenziale ai loro amministrati. Un consiglio: senza
perdere tempo a cercarle, si limitino a consultare l’elenco compilato nel libro Il
prezzo della politica da due che se ne intendono né possono essere sospettati di
partigianeria come i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone. Il consiglio vale
ovviamente anche per la restante parte d’Italia amministrata dal centro-destra
così come siamo impazienti di leggere i programmi di entrambi gli aspiranti al
governo nazionale.
Nell’attesa ci permettiamo un sogno ad occhi comunque aperti. Di leggere,
fra cinque anni, un articolo sull’Italia in cui si racconta di come questo Paese è
riuscito ancora una volta a risollevarsi e come questo miracolo sia cominciato
con una riorganizzazione della macchina pubblica. Come? Con il consenso dei
lavoratori, che hanno ritrovato il senso di responsabilità, e con il contributo
degli imprenditori, che hanno smesso di chiedere e ricominciato a rischiare, i
dipendenti della Pubblica amministrazione sono diminuiti di oltre 1 milione
rientrando in standard di numero e di produttività competitivi a livello internazionale; è stata approvata una norma costituzionale che rende impossibili i
condoni fiscali e le sanatorie previdenziali eliminando l’incentivo maggiore all’evasione dei singoli e delle imprese; le clientele politiche sono state cancellate
con la riduzione del numero di onorevoli, senatori, consiglieri e amministratori d’ogni livello nonché dei rispettivi compensi. La democrazia ha cessato così
di essere un lucro ed è tornata a essere un investimento sul futuro, sui giovani,
sulla unicità storica, culturale e ambientale dell’Italia.
Forse è solo un sogno. Ma forse no.
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Una lunga storia
La questione economica irrompe nella cultura civile
dei cattolici con la Rerum Novarum e diventa subito
questione economica e questione sociale: il profitto
non in sé ma collegato al bene comune. Il terreno di
coltura era fertilissimo. Vent’anni prima dell’enciclica
di Leone XIII, Giuseppe Toniolo conseguiva la libera
docenza in economia politica con una dissertazione
che aveva per titolo: “L’elemento etico quale fattore
intrinseco dell’economia”. L’impegno di Toniolo era
quello di fare uscire i cattolici italiani dalla marginalità
politica che derivava loro dalla “questione romana”.
Nel 1892, per i 400 anni della scoperta dell’America,
ci sono buone agevolazioni ferroviarie per chi si reca a
Genova dove si svolgono grandi celebrazioni in onore
di Cristoforo Colombo. Ne approfittano i socialisti
per celebrare lì il loro congresso fondativo, ma ne approfitta anche Toniolo per organizzare a Genova il primo congresso dell’Unione cattolica di studi sociali che
su suo impulso era sorta nel 1890.
Toniolo e la “Democrazia Cristiana”
• Sono gli anni nei quali Toniolo elabora la sua concezione di un movimento politico da chiamare “Democrazia
Cristiana”, concepisce le “unioni professionali di soli lavoratori”, anima la sezione di economia sociale dell’Opera dei
Congressi, è l’instancabile promotore di iniziative di risveglio del mondo cattolico in tutta Italia fino al punto di venir
denunciato alla polizia come “agitatore socialista cristiano” e
minacciato d’arresto. Non se ne cura: sull’esempio francese
istituisce le settimane sociali cattoliche (la prima sarà a Pistoia nel 1907), dà vita alla Fuci, fonda l’Unione donne cat-
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GIUSEPPE SANGIORGI
Giornalista e scrittore
≈
“… guidare
e indirizzare i
processi economici
nella direzione del
bene comune, vale
a dire la cultura
del popolarismo.
… È questa
la necessità che
resta e alla quale
in ogni modo sono
chiamati i cattolici
impegnai
in politica,
coniugando così il
rapporto
tra economia
e democrazia”
≈
15
Giuseppe Sangiorgi
toliche d’Italia, è in definitiva il grande campione cattolico di una visione della società alternativa a quella socialista. “Proletari di tutto il mondo, unitevi in Cristo”
esclamerà parafrasando Carlo Marx.
Giuseppe Toniolo è l’Abramo del cattolicesimo democratico italiano nelle diverse forme che esso ha assunto nel tempo. Lo è per esserne il capostipite, lo è per
la sua assoluta obbedienza alla gerarchia ecclesiale. È sull’autonomia della sfera politica che paradossalmente lui, laico, rompe con Romolo Murri, sacerdote, che
questa autonomia rivendicava. Non solo per motivi anagrafici – Toniolo è del
1845, mentre Filippo Meda è del 1869, Luigi Sturzo è del 1871, Alcide De Gasperi è del 1881 – egli anticipa e non segue la Rerum Novarum, la grande scossa elettrica che scuote il corpo dei cattolici trovando un consenso entusiasta e immediato.
All’inizio del Novecento un giovane studente universitario, Alcide De Gasperi, su
incarico del presidente della Federazione delle società operaie cattoliche in pieno
inverno va a predicare i principi dell’enciclica tra gli emigrati italiani in Austria:
“ciò che eseguii – racconta lui stesso – tra difficoltà di ogni specie, battendomi con
socialisti ed anarchici, mietendo applausi e fischi, sorrisi di compassione, molte
busse e una bronchite di tre settimane”.
Meda e le Riforme Economiche Sociali
• Filippo Meda, il fondatore di «Civitas», leader del cattolicesimo lombardo,
negli stessi anni, pur non riuscendo a dare vita al suo “Centro politico”, elabora il
programma di un partito dei cattolici impegnato sulla frontiera delle riforme economiche e sociali. Nel 1902 Luigi Sturzo – a proposito di quello che viene definito
l’“eccesso di individualismo” siciliano che impedirebbe il diffondersi di tali pratiche associative e imprenditoriali nell’Isola – organizza nella sua Caltagirone le cooperative di braccianti agricoli che acquisiscono i latifondi della zona innovando le
tecniche produttive, introducendo la rotazione delle colture e umanizzando i sistemi di lavoro. Il discorso di Caltagirone del 24 dicembre 1905 si innesta su queste
esperienze concrete, oltreché sui fermenti del cattolicesimo italiano a cavallo tra i
due secoli.
È lungo il cammino da questo primo manifesto programmatico all’Appello ai
Liberi e Forti del 18 gennaio 1919. È lungo, ma è anche una maturazione di idee,
di obiettivi, di consapevolezza, di capacità organizzativa che proietta definitivamente i cattolici sulla scena politica del Paese. Se entrando nel governo Boselli del
1917, Meda era stato il primo esponente cattolico a diventare ministro dall’Unità
d’Italia, è col Partito popolare che il cattolicesimo politico italiano può esprimere
con pienezza i propri ideali di giustizia e libertà. I dodici punti programmatici dell’Appello di Sturzo sono improntati a un deciso riformismo in campo economico,
finanziario, fiscale, previdenziale, sindacale. È una grande proposta di modernizza-
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Giuseppe Sangiorgi
zione e di democratizzazione del Paese, la promessa di una nuova stagione che sarà
gelata sul nascere dal fascismo.
Quella stagione rifiorisce alla fine del regime. Agli occhi della storia non può
essere considerata più solo un’occasionale coincidenza lo svolgersi, nel luglio del
1943, della riunione conclusiva per l’elaborazione del Codice di Camaldoli mentre Roma viene bombardata e pochi giorni dopo Benito Mussolini viene detronizzato dal Gran Consiglio. In questo drammatico susseguirsi di avvenimenti il
Codice è davvero l’annuncio dei tempi nuovi, e non un annuncio estemporaneo,
poiché la sua preparazione durava almeno da un decennio all’interno del Movimento dei laureati cattolici. Se quello di Malines del 1927 era stato la sistemazione del pensiero cattolico espresso in Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio
del Novecento, il Codice di Camaldoli si proietta nel futuro rappresentando, secondo la felice formula di Gabriele De Rosa, “quel complesso di indirizzi programmatici ispirati dalla dottrina sociale della Chiesa, che furono elaborati in vista della ricostruzione”.
De Gasperi e le idee ricostruttive
• Il Codice di Camaldoli viene diffuso pubblicamente nel 1945, ma esso si intreccia subito con i fermenti e le aspirazioni della lotta di Liberazione. Ne sono un
paradigma gli articoli di De Gasperi sul «Popolo» clandestino che delineano gli impegni programmatici della nascente formazione politica dei cattolici. Il primo, a
firma Demofilo, è quello del 28 novembre 1943 intitolato: “La nostra Democrazia
cristiana e le sue tradizioni”, il secondo è quello del 12 dicembre 1943, intitolato
“La parola dei democratici cristiani”, il terzo è quello del 23 gennaio 1944 intitolato “Il nostro movimento e la sua ideologia”. Sono questi tre scritti, e in particolare
“La parola dei democratici cristiani” – non “Le idee ricostruttive della Dc”, un testo che gli è stato erroneamente attribuito e nel quale invece lo statista non si ritrovava – a rappresentare l’impronta personale di De Gasperi sulla Democrazia Cristiana. Al punto che dopo la pubblicazione della “Parola”, fa precisare nel numero
successivo del «Popolo» clandestino che uno dei sottotitoli del testo, “l’essenza del
regime repubblicano”, era errato e doveva leggersi invece “l’essenza del regime democratico”.
Attraverso questi documenti, e i tanti altri che se ne devono citare di quegli anni, dal “Programma di Milano” del Movimento guelfo agli scritti di Teresio Olivelli, di Paolo Emilio Taviani, di Luigi Gui, di Achille Pellizzari, di Giuseppe Dossetti,
i cattolici avanzano le loro proposte in materia economica e sociale, proposte che
ispireranno i principi della prima parte della Costituzione, e si tradurranno nelle
politiche più innovative dei primi governi della Repubblica: la riforma agraria di
Amintore Fanfani, l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, il Piano casa, la
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Giuseppe Sangiorgi
riforma fiscale di Ezio Vanoni. Tutto ciò nelle condizioni dell’epoca: di un Paese allo stremo nel quale, secondo Pasquale Saraceno, il fascismo e la guerra erano costati un prezzo pari a un quinto o un sesto della ricchezza nazionale.
L’evoluzione industriale dell’Italia
• La ricostruzione, e con essa il “miracolo economico” e il boom degli anni
Sessanta traghettano a tappe forzate il Paese dalla condizione rurale a quella industriale; producono un benessere mai conosciuto prima, ma anche nuovi squilibri e
disuguaglianze. La Democrazia cristiana, nel mutare dei processi politici che dal
centrismo passano al centro sinistra, a una breve ripresa del centrismo, di nuovo al
centro sinistra, fino alla solidarietà nazionale e al pentapartito, ricerca nuove vie di
sviluppo del Paese. Lo fa nei suoi congressi, ma anche con altre iniziative: i convegni di San Pellegrino degli anni Sessanta, quello di Perugia del 1972, l’assemblea
degli “esterni” del 1981, segretario del partito Flaminio Piccoli, rappresentano alcuni dei tentativi compiuti nel tempo per rilanciare la capacità progettuale dei cattolici sui diversi problemi dello sviluppo e dell’organizzazione dello Stato.
Il convegno di Perugia, durante il governo Andreotti-Malagodi, ebbe tra i suoi
protagonisti personalità come Nino Andreatta, Siro Lombardini, Roberto Mazzotta, Romano Prodi, e con loro tutta una schiera di giovani economisti e giovani politici, all’indomani della “svolta generazionale” dentro la Democrazia cristiana prodotta dal convegno di San Ginesio del 1969 che aveva segnato il definitivo affermarsi, accanto a quelli storici, di nuovi leader nazionali come Ciriaco De Mita e
Arnaldo Forlani. Se Aldo Moro al congresso di Napoli del 1962 poteva dire che la
DC riconosceva allo Stato, in vista degli interessi generali, “la funzione di orientare
e condizionare le scelte economiche dei privati oltreché un consistente potere diretto d’iniziativa e d’intervento”, a San Pellegrino Lombardini e Andreatta puntavano decisamente sulla imprenditorialità pubblica e sulla spesa pubblica come leve
di una nuova fase di espansione del Paese.
La continuità del rapporto Economia e Democrazia
• Era rispetto a oggi un’altra Italia, come diversi erano i contesti europeo e
mondiale. Quelle linee di politica economica non hanno più, oggi, le condizioni
per realizzarsi. Resta la suggestione della indicazione di fondo che a Perugia dava
Lombardini, simile alle visioni di Giorgio La Pira: “… La società potrà muoversi
verso le strutture auspicate da Papa Giovanni nella Mater et Magistra; nelle nuove
forme di socializzazione la persona umana troverà nuove potenzialità di sviluppo…”. Indicazione che era il tentativo della politica democristiana di guidare e in-
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Giuseppe Sangiorgi
dirizzare i processi economici nella direzione del bene comune, vale a dire la cultura del popolarismo.
È questa la necessità che resta e alla quale in ogni modo sono chiamati i cattolici impegnati in politica, coniugando così il rapporto tra economia e democrazia. A
Camaldoli, nel 1998, al primo degli attuali convegni annuali organizzati dalla rivista «Il Regno», Giovanni Bazoli ha tenuto una relazione dal titolo: “Ispirazione cristiana e valori in un’economia libera e solidale”. La esigente proposizione che egli
formulava era la seguente: “In definitiva si tratta di stabilire se le ragioni della solidarietà possono trovare collocazione e soddisfazione all’interno del processo economico, in quanto ad esso connaturate, ovvero costituiscano valori da considerare
solo in una fase successiva, al fine di imporre necessarie condizioni del sistema…”.
Come Toniolo, quando nel 1873 poneva il tema dell’elemento etico quale fattore
intrinseco dell’economia.
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La sessione di bilancio per il 2006
Come spesso è avvenuto nel passato, anche quest’anno
la sessione di bilancio che regolerà entrate, spese e debito per il 2006 è stata comunicata al Parlamento e al
pubblico in modo equivoco. È stata infatti indicata
una manovra di 22 milioni di euro che, se fosse vera, si
collocherebbe, nella classifica delle manovre di finanza
pubblica italiana di tutti i tempi, al secondo posto preceduta solo da quella definita nell’estate-autunno del
1992 dopo lo shock dell’ultima svalutazione della lira.
L’evento sarebbe di particolare rilievo in connessione anche al fatto che si tratta della impostazione della legge di bilancio relativa ad un anno, il 2006, che sarà di elezioni politiche, una circostanza che genera tentazioni nelle quali è di
frequente caduto il legislatore italiano. La realtà è un po’ diversa. Gli interventi sulle entrate tributarie sono molto modesti (un po’ di aumenti e un po’ di riduzioni con un effetto
netto sul deficit inferiore a 1 milione di euro). Gli interventi
sulla spesa sono previsti di importo pari a circa 10 milioni di
euro.
Si tratta quindi di una manovra correttiva del deficit pari
a circa lo 0,8% del PIL, il che indicherebbe una sostanziale
adeguatezza delle politiche di bilancio in corso che richiedono solo piccole correzioni e aggiustamenti.
È difficile dall’esterno valutare come stanno esattamente
le cose. Per la formulazione di un giudizio occorrerebbe con-
PIERO GIARDA
Università Cattolica
di Milano
Ringrazio la prof. Maria Flavia Ambrosanio per l’analisi dei provvedimenti finanziari contenuti nel disegno di legge finanziaria. È da
segnalare che una parte dei provvedimenti descritti nel testo sarà soggetta a variazioni anche rilevanti per effetto degli emendamenti introdotti dal Governo stesso in sede di discussione al Senato.
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
≈
“… Ci sono segnali
che l’economia
possa iniziare
a crescere nel
2006 …, ma non
è nulla che possa
essere ricondotto
alle misure per lo
sviluppo contenute
nella manovra
di bilancio per il
2006”
≈
21
Piero Giarda
siderare il realismo delle stime dei risparmi di spesa associati alla manovra. Ciò non
sarebbe però sufficiente. Occorrerebbe anche valutare (a) se le previsioni a legislazione vigente – rispetto alle quali sono misurati gli effetti della manovra proposta –
sono state fatte correttamente e, (b) cosa succederà effettivamente nel 2005, stante
che le previsioni per il 2006 si basano sul pre-consuntivo per il 2005. Se le previsioni a legislazione vigente sono fatte correttamente – sulla base di appropriate previsioni macro-economiche e di corrette valutazioni della legislazione in essere – allora si potrebbe dire che, se il 2005 si chiude con un deficit pari al 4,7%, la manovra proposta farebbe scendere il deficit del 2006 al 3,8%. Se tutte le condizioni indicate non sono rispettate, il deficit per il 2006 sarà maggiore del valore indicato.
Nelle pagine che seguono viene presentata una descrizione semplificata del
processo di bilancio italiano e, successivamente, una sintesi della manovra di bilancio proposta dal governo.
Struttura della sessione di bilancio in Italia
• Dal 1979, dopo la riforma delle regole per la formazione del bilancio attuata
con la legge n. 468 del 1978, l’autunno politico è normalmente dedicato alla formazione della legge di bilancio per l’anno successivo.
L’avvio della sessione di bilancio è preceduto dal documento (una circolare del
Ministro dell’economia emanata nel mese di marzo di ciascun anno) che fissa le regole per la formazione del disegno di legge di bilancio dello Stato cosiddetto a legislazione vigente. Tale circolare viene impostata sulla base delle indicazioni programmatiche contenute nei prospetti del bilancio pluriennale che accompagnano la legge
di bilancio dell’anno precedente. Il Ministro dell’economia traduce (o dovrebbe tradurre) in regole pratiche, diverse per le diverse voci del bilancio dello stato, le indicazioni generali di tali prospetti, limitatamente a quelle spese che non sono predeterminate legislativamente in termini monetari o per le quali sono definite regole legislative di sviluppo nel tempo. Così è avvenuto anche quest’anno. Tuttavia è prassi
corrente che le regole pratiche definite dal Ministero dell’economia siano spesso
ignorate nella formazione del bilancio a legislazione vigente. Il disegno di legge del
Bilancio dello Stato presentato al Parlamento nel periodo luglio-settembre, riflette si
le indicazioni del Ministro dell’economia, ma è anche il risultato di un processo di
negoziazione con i Ministeri di spesa che cercano di affermare le esigenze delle singole amministrazioni in relazione ai compiti istituzionali loro assegnati.
È da segnalare che un Governo che volesse evitare di presentarsi con manovre
correttive di importo rilevante potrebbe predisporre bilanci a legislazione vigente
che sottostimano l’effettivo andamento delle spese.
Il passo successivo è (o dovrebbe essere) la formazione del documento di programmazione economica e finanziaria nel quale le previsioni a legislazione vigente,
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Piero Giarda
estese all’intero settore pubblico, vengono integrate con le conseguenze finanziarie
della attuazione di obiettivi programmatici. Il DPEF quindi prevede di aggiungere
(a) le variazioni in aumento della spesa, per quegli interventi ritenuti necessari per
l’attuazione di un qualche programma di governo e, (b) le riduzioni del prelievo
tributario (nel desiderio o nella speranza che ciò possa avere effetti benefici sull’andamento dell’economia italiana).
La somma delle tre componenti (legislazione vigente + gli effetti di aumenti
della spesa e delle riduzioni delle imposte) determinano livelli di spesa, livelli del
prelievo tributario e livelli del deficit complessivo del settore pubblico che devono
essere messi a confronto con l’andamento dell’economia italiana, con gli obiettivi
della politica del governo, con i vincoli internazionali, con gli scenari di sviluppo
dell’economia mondiale.
Spesso (quasi sempre) succede che il deficit risultante da questa prima fase della
programmazione finanziaria produca un deficit superiore al deficit ritenuto ammissibile. Da questi esiti originano le manovre correttive che sono il bread and butter della sessione di bilancio.
Mentre gli interventi che determinano variazioni in aumento del deficit sono
quasi sempre ben identificate (un bonus per i figlio o una riduzione dei contributi
sociali) le manovre dirette alla riduzione del deficit spesso si presentano con caratteri (assai strani) che toccano l’immaginazione di un lettore non specializzato nelle
questioni di finanza pubblica. Tre casi tipici.
Una manovra frequentemente annunciata riguarda il recupero dell’evasione fiscale. Cosa si vuole esattamente intendere con questa espressione non è mai chiaro.
Forse vuol dire che le previsioni di gettito a legislazione vigente sono fatte nell’ipotesi che l’evasione sia un elemento endemico e caratteristico del nostro costume sociale o della nostra legislazione, come se esistesse un qualche livello o una qualche
percentuale standard di violazione degli obblighi di adempimento delle leggi tributarie che non può essere recuperata normalmente al gettito (l’evasione esiste in tutti i paesi e sistemi tributari). Forse che i comportamenti normali della pubblica
amministrazione, dei suoi ministri e direttori generali, delle strutture periferiche
dell’amministrazione delle finanze hanno fino ad allora tollerato che cittadini o
contribuenti non onorassero i loro obblighi tributari. Quindi gli amministratori
della cosa pubblica che sono stati fino ad oggi lenient o tolleranti, da oggi in avanti
non lo saranno più; ovvero che trasmettendo nuovi ordini alle amministrazioni periferiche queste riusciranno ad indurre comportamenti più virtuosi ed onorabili.
Altre volte le manovre correttive riguardano la correzione delle spese cosiddette
di funzionamento della pubblica amministrazione, quelle stesse spese non sostenute da esplicite norme di legge che avrebbero dovuto (ma non sono state) regolate
con la legge di bilancio a causa del fatto che le amministrazioni di spesa dello Stato
centrale non hanno obbedito agli ordini che il Ministro dell’economia ha impartito con la circolare del mese di marzo di cui abbiamo già parlato.
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Piero Giarda
Altre volte ancora viene creato ex-ante un bilancio a legislazione vigente che invece include elementi programmatici (incrementi di spesa superiori a quelli che sarebbero portati dalla legislazione vigente) e quindi la manovra correttiva tende a riportare più vicini alla legislazione vigente poste di spesa che erano state ipotizzate
molto più elevate.
Le manovre correttive di finanza pubblica si presentano quindi con volti di verità molto articolati e complessi. Le situazioni, i prospetti contabili, l’intersezione
tra le diverse regole contabili che presiedono al bilancio dello Stato e ai conti del
settore pubblico sono oggettivamente non sempre di immediata comprensione.
Non è però necessario che sia così. La responsabilità nella trasparenza dei conti è
tutta dei governi. Poco può fare il Parlamento; anzi è esso stesso vittima della mancanza di trasparenza. Non è sempre così e non è sempre stato così.
Il pre-consuntivo 2005
• Nel 2005 nessuno degli originari obiettivi di finanza pubblica è stato realizzato. L’anno non sarà quindi ricordato come un anno felice per la finanza pubblica.
Le spese sono aumentate più del previsto, le entrate sono cresciute meno del previsto. Sono quindi peggiorati i saldi (il deficit di bilancio è aumentato) ed è pure aumentato il rapporto debito/PIL.
Si mostrano nei consuntivi per il 2005 le questioni sollevate nel precedente
paragrafo. Le previsioni a legislazione vigente erano state fatte sulla base di previsioni troppo ottimistiche sull’andamento dell’economia: come conseguenza le entrate complessive (tributarie e non) sono risultate inferiori al previsto. La pressione tributaria (il rapporto entrate tributarie/PIL) resta invariato rispetto al 2004
ma, per la bassa crescita dell’economia, il livello delle entrate risulta inferiore alle
previsioni.
Le previsioni a legislazione vigente delle spese sono risultate errate per difetto,
mentre la misura degli effetti degli interventi correttivi della loro dinamica è risultata stimata per eccesso. Come conseguenza le spese correnti al netto degli interessi sono aumentate di circa il 3,8% in misura ben superiore al tasso d’inflazione,
sulla cui misura erano stati definiti gli obiettivi della legge finanziaria dello scorso
anno. Le spese per investimenti sono rimaste sui livelli dell’anno precedente, valore inferiore alle previsioni e anche la spesa per interessi è risultata inferiore alle
previsioni.
Nel complesso gli esiti di finanza pubblica per il 2005 confermano alcune tendenze che si erano già manifestata in anni precedenti. Le spese crescono più del
previsto, le entrate sono sostenute solo dai proventi di entrate straordinarie quali
i condoni. Come conseguenza tutti i saldi finanza pubblica peggiorano con il
passare degli anni. In particolare è peggiorato l’avanzo primario (la differenza tra
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Piero Giarda
entrate e spese al netto degli interessi passivi). Il peggioramento è stato molto rilevante e non è stato compensato dalla forte caduta degli oneri per il servizio del
debito pubblico. È da rilevare che in tutti gli ultimi 4 anni è diminuita, grazie
anche alla moneta unica, l’incidenza e il peso degli interessi passivi. Il peggioramento del saldo primario è stato però superiore alla riduzione della spesa per interessi. Il deficit complessivo di bilancio è andato quindi progressivamente aumentando.
Di fronte a previsioni di consuntivo così negative, nel corso dei mesi di settembre-ottobre sono state proposte dal Governo misure dirette a ridurre il peggioramento dei conti pubblici del 2005: misure tampone quali una riduzione del 30%
della spesa pubblica per beni e servizi (impossibile da attuare di qui a fine anno),
aumenti del prelievo tributario sulle imprese (attraverso la modifica delle regole di
ammortamento) e una accelerazione delle procedure per le dismissioni immobiliari. Altri interventi sono in corso di preparazione quando questo articolo viene
scritto.
Non è solo una questione sull’andamento dei conti nel 2005. Il peggioramento
ha riguardato l’intero periodo degli ultimi quattro anni. A fronte del “bonus” della
riduzione della spesa per interessi che avrebbe potuto compensare gli effetti negativi del rallentamento della crescita dell’economia, le spese correnti sono aumentate
in modo significativo e la pressione tributaria si è leggermente ridotta.
La manovra finanziaria per il 2006
• Risultando lo scenario tendenziale per il 2006 incompatibile con gli impegni assunti in sede europea, la manovra finanziaria per il 2006 propone una correzione del deficit dell’ordine di 11,5 miliardi di euro. Sono previste riduzioni
nette di spesa rispetto alla legislazione vigente per 10,5 miliardi (risultanti da riduzioni per 14,9 miliardi e aumenti per 4,4 miliardi) e aumenti nette di entrate
per 1,0 miliardi (risultanti da aumenti per 4,3 miliardi e riduzioni per 3,3 miliardi).
Le previsioni tendenziali. Le previsioni tendenziali per il 2006 sono illustrate
nel DPEF 2006-2009 (poi confermate nella Relazione previsionale e programmatica per il 2006) e sono riportate nella Tabella 1.
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Piero Giarda
TAB. 1. Previsioni tendenziali, P.A. 2006
(miliardi di euro)
2006
Var. %
prev.
su ’05
Entrate tributarie
393,1
1,1
imposte una tantum
0,2
-89,4
Contributi sociali
185,1
1,6
Altre entrate
49,3
–
Entrate totali
627,5
1,2
Spese correnti netto interessi
personale
consumi intermedi
pensioni
altre
Interessi passivi
Spese correnti totali
– sanità
568,9
154,4
111,0
208,6
94,9
68,0
636,9
95,6
2,4
-2,1
3,7
4,6
3,7
–
2,1
2,7
Spese in conto capitale
Spese totali netto interessi
Spese totali
Pressione fiscale (% PIL)
Avanzo primario (% PIL)
Risparmio pubblico (% PIL)
Indebitamento netto (% PIL)
57,9
626,8
694,7
40,3
0,1
-1,0
4,7
3,8
2,5
2,2
Le entrate sono previste in crescita del 2,2% e le entrate dell’1,1%. Con queste
previsioni si determinerebbe una riduzione dell’avanzo primario e un aumento dell’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche. Il primo scenderebbe allo
0,1% del PIL, il secondo aumenterebbe al 4,7% del PIL. Queste previsioni confermano la situazione critica della finanza pubblica italiana e quindi la necessità di
una manovra correttiva che consenta di rispettare gli impegni assunti con il Patto
di stabilità e crescita.
Gli obiettivi. Il DPEF 2006-2009 illustra gli obiettivi della politica di bilancio,
che si inseriscono nel contesto più ampio degli obiettivi di politica economica, da
raggiungere mediante linee di intervento così individuate dal Governo: maggiori
investimenti nelle infrastrutture, liberalizzazione dei mercati, alleggerimento del
carico tributario, tutela del potere d’acquisto delle famiglie, aggiustamento strutturale dei conti pubblici.
Ignorando la consueta retorica espressiva dei documenti programmatici e limitandoci a considerare i flussi di finanza pubblica, gli obiettivi per il 2006 indicano,
rispetto al pre-consuntivo del 2005, l’aumento dell’avanzo primario allo 0,8% del
PIL, la riduzione dell’indebitamento netto al 3,8% del PIL e la riduzione del rapporto debito/PIL al 107,4% (vedi la Tab. 2).
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Piero Giarda
TAB. 2. Il quadro programmatico 2006-2008
(% del PIL)
2005 2006 2007 2008
Saldo primario
0,1
0,9
1,8
2,5
Indebitamento netto
4,7
3,8
2,8
2,1
Rapporto debito/PIL
108,1 107,4 105,2 103,6
Gli obiettivi per il 2006 richiedono una riduzione del deficit tendenziale di circa 11,5 miliardi di euro. Questa è l’entità della manovra correttiva. La legge finanziaria dispone riduzioni ma anche aumenti di spesa, aumenti ed anche riduzioni
delle entrate.
Gli interventi sulle spese
• I risparmi di spesa sono stimati dal Governo in 10,5 miliardi di euro. Il contributo più rilevante alla riduzione del deficit proverrebbe dagli interventi nel comparto degli enti territoriali e nel comparto della sanità (per un totale di 5,6 miliardi
di euro). Risparmi significativi si otterrebbero dalla riduzione dei trasferimenti
correnti e dei contributi in conto capitale alle imprese (2,35 miliardi). Altri risparmi deriverebbero dalla compressione dei consumi intermedi e delle spese per consulenze e di rappresentanza e dalla riduzione degli investimenti dello Stato.
TAB. 3. Gli interventi sulle spese
(miliardi di euro)
Minori spese
– pubblico impiego
– consumi intermedi, consulenze
– contributi alla produzione
– contributi c/capitale alle imprese
– Patto di stabilità interno Regioni
– Patto di stabilità interno Comuni
– sanità
– riduzione investimenti Stato
– limiti spese investimento
– limiti tiraggi contabilità speciali
– altre
12,34
0,98
1,55
1,15
1,20
1,10
2,02
2,50
0,36
0,34
0,40
0,74
Maggiori spese
– pubblico impiego
– eccedenze di spesa
– fondo famiglia e sviluppo
– altre
Minori spese nette ex articolato L.F.
Minori spese nette ex Tabelle L.F.
Totale minori spese nette
2,74
0,53
0,59
1,14
0,48
9,60
0,90
10,50
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Piero Giarda
Patto di stabilità interno e spesa sanitaria. Per quanto riguarda gli enti territoriali, il disegno di Legge Finanziaria apporta ulteriori modifiche al Patto di stabilità
interno, al fine di rendere coerenti i flussi di spesa delle autonomie territoriali con gli
obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2006-2008 in relazione agli obblighi assunti dalla repubblica in sede comunitaria. La Legge Finanziaria per il 2005 aveva
introdotto un vincolo alla crescita della spesa complessiva (corrente e in conto capitale) degli enti decentrati (Regioni, Province autonome, Province, Comuni con
più di 3.000 abitanti e Comunità montane con più di 50.000 abitanti). Per il
2006, i vincoli agirebbero separatamente sulle due componenti. Per le Regioni, la
spesa corrente, al netto delle spese per la sanità e per il personale e dei trasferimenti
ad altri enti della P.A., dovrebbe al massimo essere pari alla spesa effettuata nel
2004 ridotta del 3,8%; le spese in conto capitale non potrebbero superare quelle
sostenute nel 2004 aumentate del 6,9%. Per gli enti locali, la spesa corrente, al netto delle spese a carattere sociale, per il personale e dei trasferimenti ad altri enti della P.A., dovrebbe al massimo essere pari alla spesa effettuata nel 2004 ridotta del
6,7%; le spese in conto capitale non potrebbero superare quelle sostenute nel 2004
aumentate del 10%.
Per ciò che concerne il settore della sanità, la Relazione tecnica al disegno di
Legge Finanziaria individua uno scostamento di 3,5 miliardi di euro tra il livello di
finanziamento del SSN assicurato da Stato e Regioni, pari a 92,6 miliardi, e la spesa stimata, pari 96,1 miliardi Su queste basi, si richiederebbe alle Regioni una manovra da 2,5 miliardi (lo Stato metterebbe a disposizione del SSN finanziamenti
aggiuntivi per un miliardo).
Pubblico impiego. L’effetto netto atteso dalle disposizioni in materia di personale è pari a circa 450 milioni di euro. Le maggiori spese derivano: (a) dagli aumenti conseguenti al rinnovo dei contratti; (b) dalle nuove assunzioni (2.500
unità) per compiti di sicurezza e ordine pubblico; (c) dalla proroga dei contratti a
tempo determinato, per alcune categorie; (d) dall’istituzione dell’area separata della vice-dirigenza da parte della contrattazione collettiva del comparto ministeri.
Queste maggiori spese sarebbero compensate dai risparmi derivanti dall’introduzione di limiti all’utilizzo di personale a tempo determinato (la spesa per il 2006
non dovrebbe superare il 60% della spesa sostenuta nel 2003) e dalla riduzione
delle spese di personale degli enti territoriali.
Altre disposizioni. Ulteriori misure di contenimento della spesa concernono i
consumi intermedi e le spese di consulenza e rappresentanza, con risparmi stimati
in circa 1,6 miliardi di euro; la riduzione dei trasferimenti correnti e i contributi in
conto capitale alle imprese, per 2,3 miliardi di euro; gli investimento dello Stato
per 360 milioni di euro. Infine, altri risparmi proverrebbero dalla limitazione dei
pagamenti di ANAS Spa (300 milioni di euro) per spese d’investimento e dei tiraggi dalle contabilità speciali (400 milioni di euro).
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Piero Giarda
Gli interventi straordinari. Il disegno di Legge Finanziaria contiene anche disposizioni presentate come misure dirette a “favorire lo sviluppo e l’occupazione” e
“per il sostegno dei redditi delle famiglie meno abbienti”. Si propone la creazione
per il solo 2006 del Fondo famiglia e solidarietà, con una dotazione di 1,14 miliardi
di euro. Si propone altresì, sempre per il solo 2006, ed in via sperimentale, la istituzione di un Fondo, alimentato da una quota pari al 5 per mille dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche, da destinare a scopi di sostegno al volontariato, alla
ricerca ed università e per le attività sociali svolte dai comuni di residenza dei contribuenti. L’operatività del Fondo verrebbe comunque rinviata al 2007, primo anno utile per analizzare le scelte dei contribuenti.
Gli effetti delle Tabelle della Legge Finanziaria. Parte integrante della manovra
per il 2006, come per ogni manovra finanziaria, sono anche gli interventi che si attuano attraverso le tabelle della Legge Finanziaria (Tab. 4), i cui effetti si manifestano prima sul bilancio dello Stato e poi sui conti della P.A.
La Tabella A contiene le voci da includere nel Fondo speciale di parte corrente, per il finanziamento di nuove leggi nel corso del 2006. La Tabella C contiene
gli stanziamenti relativi a leggi la cui quantificazione annua è demandata alla
Legge Finanziaria. Per il 2006 la Tabella A introduce maggiori spese correnti per
452 milioni; la Tabella C riduce le autorizzazioni di spesa per il 2006 fissate dalla
Legge Finanziaria per il 2005 (che costituiscono la legislazione vigente 2006) per
2.756 milioni, con un effetto netto sul bilancio dello Stato pari a – 2.304 milioni di euro.
Le Tabelle B, D ed E riguardano le spese in conto capitale. La Tabella B indica le voci da includere nel Fondo speciale di conto capitale, la Tabella D contiene nuove spese per il finanziamento di programmi di sostegno dell’economia,
la Tabella E indica invece il definanziamento di programmi di spesa, riducendo
le autorizzazioni definite da precedenti leggi. Per il 2006, l’effetto netto sul bilancio dello Stato è un aumento della spesa in conto capitale pari a 3.022 milioni di euro.
Infine, la Tabella F contiene gli importi da iscrivere in bilancio per le autorizzazioni di spesa di leggi pluriennali. Non reca né riduzioni né aumenti di spesa,
in quanto è costruita sulla base della legislazione vigente, ma mostra gli effetti
delle cosiddette rimodulazioni, ovvero lo spostamento al futuro di autorizzazioni
di spesa.
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Piero Giarda
TAB. 4. Gli interventi sulla spesa nelle tabelle
della Legge Finanziaria (milioni di euro)
2006
2007
2008
Finanziaria 2006
Finanziaria 2005
Finanziaria 2006
Effetti su spesa corrente
Finanziaria 2006
Finanziaria 2006
Finanziaria 2006
Effetti su spesa c/capitale
Finanziaria 2005
Finanziaria 2006
Rimodulazioni
Tabella A
452
Tabella C
19.452
16.786
- 2.756
-2.304
Tabella B
474
Tabella D
4.757
Tabella E
- 2.209
+3.022
Tabella F
22.640
15.997
-6.643
489
505
19.450
15.583
-3.957
-3.468
19.450
15.577
-3.873
-3.368
385
356
1.220
9.480
-1.040
+565
- 646
+9.190
17.336
10.642
-6.694
33.664
60.467
+26.803
P.A.
2006
-1.800
+900
Gli importi delle variazioni in aumento o riduzione delle spese rispetto agli
importi risultanti dalla legislazione vigente (registrati nel bilancio dello Stato in
base al criterio finanziario e autorizzativo) devono essere tradotti in importi rilevanti per i conti delle Amministrazioni Pubbliche, rilevanti per il calcolo del deficit. Per il 2006, si dovrebbe avere (vedi l’ultima colonna della tabella 4) un effetto netto di riduzione della spesa pari a circa 900 milioni di euro, derivanti da
minori spese correnti per 1.800 milioni e maggiori spese in conto capitale per
900 milioni.
Gli interventi sulle entrate
• Alla manovra sulle spese è affiancata una manovra sulle entrate che dovrebbe
portare maggiori introiti netti per poco meno di 1 miliardo di euro (Tab. 3.6). Le
maggiori entrate deriverebbero per lo più dalle misure predisposte dal D.L.
203/2005, in corso di conversione in legge.
30
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Piero Giarda
TAB. 5. Gli interventi sulle entrate
(miliardi di euro)
Maggiori entrate
– tassa sulle reti (?)
– rivalutazione beni d’impresa
– giochi
– effetti D.L. 203/2005
4,26
0,80
0,92
0,70
1,84
Minori entrate
– proroga agevolazioni fiscali
– eliminazione tassa brevetti
– riduzione cuneo contributivo
3,30
1,20
0,10
2,00
Maggiori entrate nette
0,96
Lotta all’evasione e interventi sulle procedure di riscossione. Il D.L. 203/2005
introduce nuove norme per la lotta all’evasione fiscale e modifica il sistema di riscossione dei tributi. Per quanto riguarda il recupero di imponibili, vengono innanzitutto coinvolti i Comuni, attraverso la previsione a loro favore di una quota
di partecipazione all’accertamento fiscale, pari al 30% delle somme riscosse a titolo
definitivo relative ai tributi erariali. Verrebbe poi potenziata l’attività dell’Agenzia
delle Entrate e dell’Agenzia delle Dogane, attraverso l’assunzione di nuovo personale, sia a tempo indeterminato sia con contratti di formazione-lavoro, per un totale di 1.800 unità, da destinare principalmente alle aree del Centro-Nord, che sarebbero particolarmente carenti di organico. Il recupero di gettito atteso per il
2006 è indicato in 325 milioni di euro. Altri 300 milioni di euro dovrebbero derivare dall’attuazione del nuovo sistema di riscossione dei tributi, il quale prevede
l’eliminazione delle società concessionarie del servizio nazionale della riscossione.
Questa decisione discende, come è argomentato nella Relazione al disegno di legge
di conversione del decreto, dalla constatazione dei risultati estremamente deludenti dell’attività delle concessionarie, con capacità di riscossione delle somme iscritte
a ruolo pari al massimo al 5-6% del carico riscuotibile. “… il valore aggiunto derivante dall’attività esecutiva svolta dai concessionari è praticamente inesistente…”. Il
servizio di riscossione coattiva verrebbe affidato ad una società per azioni di proprietà pubblica, costituita dall’Agenzia delle entrate e dall’INPS, denominata Riscossione Spa (il decreto contiene norme molto dettagliate per regolare il passaggio
dal vecchio al nuovo sistema).
Ampliamento delle basi imponibili. Queste misure, che dovrebbero portare 1,5
miliardi di euro nelle casse del fisco, riguardano prevalentemente i redditi d’impresa, del settore bancario e del settore assicurativo: limitazione dell’applicazione della
cosiddetta participation exemption; introduzione di norme anti-elusive, per contrastare le cessioni di partecipazioni che consentono la percezione di dividendi esenti
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Piero Giarda
e la deduzione di minusvalenze da realizzo; modifica della base imponibile dell’IRAP, dovuta dalle imprese di assicurazione, rendendo irrilevanti, come per il settore bancario, gli accantonamenti, le rettifiche di valore e le riprese di valore su crediti verso la clientela; riduzione, per le imprese di assicurazione, della deducibilità
della variazione della riserva sinistri relativa ai contratti dei rami danni; riduzione
per le banche della deducibilità delle svalutazioni dei crediti.
Tassa sulle reti e altre misure di aumento delle entrate. L’art. 42 del disegno di
Legge Finanziaria propone l’istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2006, di una
addizionale erariale al canone e alla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche con grandi reti di trasmissione dell’energia, quali energia elettrica e gas, con un
gettito di 800 milioni di euro nel 2006. In realtà, l’ipotesi di questa nuova imposta
è già caduta: il maggiore gettito sarà recuperato estendendo al 2006 la riduzione
degli ammortamenti già prevista nel Decreto 203 del 15 ottobre scorso. Infine,
maggiori introiti dovrebbero derivare dall’estensione delle disposizioni sulla rivalutazione volontaria dei beni posseduti dalle imprese (circa 602 milioni di euro) e
delle aree fabbricabili (circa 311 milioni di euro). Altri 700 milioni di euro proverrebbero dal settore giochi e scommesse.
Sgravi fiscali. Come di consuetudine, il disegno di Legge Finanziaria proroga
tutta una serie di agevolazioni fiscali in alcuni settori (accise sulle emulsioni stabilizzate e sul metano per usi industriali e civili, benefici fiscali per interventi di recupero del patrimonio edilizio, aliquota IRAP all’1,9% nei settori dell’agricoltura e
della pesca, ecc.). Ad esse si accompagna l’estensione della clausola di salvaguardia,
che permetterebbe ai contribuenti di scegliere tra l’IRPEF attuale, quella del 2002
e quella del 2004, a seconda di quale risulti più favorevole. Altre disposizioni riguardano l’abolizione della tassa sui brevetti, la deducibilità integrale dall’IRES di
erogazioni liberali in favore di università ed enti di ricerca pubblici, la non imponibilità dei proventi conseguiti da università ed enti di ricerca pubblici nello svolgimento di attività commerciali conformi agli scopi istituzionali. Infine, l’intervento
più cospicuo in materia di agevolazioni fiscali concerne la riduzione di un punto
dei contributi sociali, con una perdita di gettito stimata in 2 miliardi di euro (cosiddetta riduzione del cuneo contributivo).
Qualche valutazione
• Come valutare la manovra per il 2006 rispetto ai suoi due obiettivi del sostegno allo sviluppo e della correzione strutturale dei conti pubblici?
Per quanto riguarda il primo obiettivo, il sostegno allo sviluppo, non si può
non sottolineare la modestia degli interventi proposti. Si consideri anzitutto la par-
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Piero Giarda
te straordinaria della manovra. Gli interventi per lo sviluppo e l’occupazione ammonterebbero a 2 miliardi di euro di riduzione del cuneo contributivo. Ma dal
punto di vista delle imprese, al taglio dei contributi sociali si accompagnerebbe comunque una riduzione dei trasferimenti correnti per 1,2 miliardi di euro, con un
saldo a loro favore per 800 milioni di euro.
Il disegno di Legge Finanziaria propone poi la creazione del Fondo innovazione, di entità cospicua, 3 miliardi di euro, che dovrebbe finanziare i progetti individuati dal Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione, elaborato nel quadro
del rilancio della strategia di Lisbona, a seguito del Consiglio Europeo del giugno
2005. L’effettiva istituzione del Fondo innovazione è però esplicitamente subordinata all’acquisizione di 3 miliardi di euro da dismissione o alienazione di beni dello
Stato. Si tratta di entrate molto aleatorie (quanta parte delle dismissioni previste
per il 2005 è andata a buon fine?) e ciò mette seriamente in dubbio l’effettiva attuazione delle politiche per lo sviluppo, a meno poi di finanziarle in parte in disavanzo.
Infine, restano 1,2 miliardi di euro per il Fondo famiglia e sviluppo, del quale
si può dire che esso rappresenta solo una temporanea e modesta misura di soluzione di un problema molto serio di giustizia distributiva ma che poco ha a che fare
con questioni di sviluppo e crescita del sistema economico. Ci sono segnali che l’economia possa iniziare a crescere nel 2006 a tassi un po’ superiori a quelli del 2004
e 2005, ma non è nulla che possa essere ricondotto alle misure per lo sviluppo contenute nella manovra di bilancio per il 2006.
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la riduzione del deficit, si osserva che
le maggiori entrate nette previste dalla manovra ammontano a poco meno di un
miliardo di euro e che la riduzione del deficit è affidata soprattutto alle misure di
contenimento della spesa. Anche su questo fronte non c’è nulla di diverso e di più
incisivo di quanto sia stato fatto con le ultime leggi finanziarie. Le misure che riducono il deficit sono pari a 19,2 miliardi, quelle che lo aumentano sono pari a 7,7
miliardi. L’effetto netto è di 11,5 miliardi. Alcune di queste misure, come i tagli
proposti per i Ministeri o altre riduzioni di spesa avranno un effetto di rimbalzo
(aumenterebbero le spese) sul disavanzo del 2007 e del 2008; certamente non si
tratta di misure strutturali. Le disposizioni sul pubblico impiego avranno un effetto netto quasi nullo, al blocco delle assunzioni in alcuni comparti, si affiancherebbero le nuove assunzioni nei settori della pubblica sicurezza e della lotta all’evasione. Come avvenuto per il 2005, lo sforzo maggiore per il risanamento viene richiesto al sistema di finanza decentrata, regioni ed enti locali, ai quali si impone una riduzione della spesa (esclusa la spesa sociale, il personale e la sanità) rispetto ai livelli del 2004. Alle Regioni viene anche richiesto di reperire risorse per 2,5 miliardi di
euro per finanziare la maggiore spesa sanitaria.
La manovra finanziaria per il 2006 appare quindi poco efficace ex ante. La modestia degli interventi si somma ai dubbi sul realismo delle previsioni tendenziali.
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Piero Giarda
Il Ministro dell’economia è intervenuto per correggere alcuni (ma solo alcuni) degli aspetti più critici dei valori inizialmente presentati. È quindi molto probabile
che i conti pubblici continuino a peggiorare nonostante il miglioramento previsto
per il 2006 dell’andamento dell’economia italiana.
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Il debito pubblico:
un male da cui liberarsi? (e come?)
Un’analisi per l’Italia d’oggi (e di ieri)
MARIO SARCINELLI
Alexander Hamilton, uno dei padri della Costituzione americana, autore con Madison e Jay di saggi raccolti sotto il titolo di The Federalist e fondatore del
Tesoro degli Stati Uniti, ha scritto che “A national
debt, if it is not excessive, will be to us a national
blessing”; egli infatti unificò i debiti pubblici della
nascente federazione e degli stati, operazione che non
fu esente da critiche. Se si fa fede a chi, oltre due secoli or sono, contribuì a seminare libertà e democrazia,
il debito pubblico non è certamente un male in sé.
Basti pensare che esso permette il finanziamento delle
opere pubbliche, soprattutto di quelle che hanno una
vita attesa molto lunga e un periodo spesso non breve
prima che maturino i suoi benefici; che costituisce
una rendita per i piccoli risparmiatori avversi al rischio di controparte e, limitatamente, a quello di
mercato; che offre ai fondi pensione e alle compagnie
di assicurazione strumenti di accumulazione che permettono il bilanciamento con le passività a lungo termine che essi offrono ai sottoscrittori di polizze; ecc.
Inutile dire che quando è molto elevato, esso costituisce un grosso fardello che vincola la politica economica, crea una classe di rentier che vive sui trasferimenti
di reddito che le classi produttive operano a favore di
chi fornì risorse alla collettività in epoche passate,
presumibilmente riduce per i detentori di capitali liquidi l’incentivo ad assumere rischi nel settore reale
dell’economia e, forse, compromette il tasso di crescita di lungo periodo. Sorge, quindi, la necessità di liberarsi da un debito pubblico divenuto particolarmente vincolante.
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Università
La Sapienza di Roma
≈
“… anche
svendendo
il patrimonio
pubblico, è difficile
giungere ad una
drastica
e strutturale
riduzione
del debito
pubblico.
… meno
si realizza dalla
vendita di attività,
meno debito
si redime,
più danno
la collettività
subisce, più se ne
avvantaggia
il compratore”
≈
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Mario Sarcinelli
Come liberarsi da un debito pubblico
• Per raggiungere questo obiettivo, la scienza e la pratica delle pubbliche finanze annoverano quattro strumenti. Il primo, il più radicale e il meno accettabile
è il disconoscimento totale o parziale; lungi dall’essere un reperto storico (chi non
ricorda dai banchi di scuola che i banchieri fiorentini Bardi e Peruzzi furono vittime del ripudio del debito da parte di Edoardo III, re d’Inghilterra, nel 1343?), esso
è diventato lo strumento per riequilibrare gli oneri debitori dei paesi in via di sviluppo con le potenzialità delle loro economie negli ultimi venticinque anni o poco
più. Di recente, il risparmiatore italiano è stato colpito dalle decisioni inappellabili
del governo argentino che attraverso moratorie e offerte non negoziabili ha portato
a termine la più grande ristrutturazione di debito sovrano che si sia mai avuta e
dalla quale i portatori italiani di carta argentina si sono in gran parte volontariamente esclusi, sperando in condizioni meno penalizzanti in futuro... In passato, le
cannoniere dei paesi creditori venivano impiegate per ridurre a più miti consigli i
governi proni a non onorare il proprio debito, ma quei tempi sono fortunatamente
tramontati.
Un altro strumento, anch’esso rifiutato dalla coscienza civica, è l’inflazione che
erode il valore della moneta e di tutte le obbligazioni che comportano debito di valuta; dopo le esperienze inflazionistiche degli anni ’70 del secolo scorso si sono diffusi i titoli indicizzati, che comportano debiti di valore. Questa opzione è oggi di
fatto preclusa per chi è membro dell’Unione monetaria europea, poiché la sua banca centrale ha come compito prioritario quello di mantenere la stabilità dei prezzi.
Tuttavia, l’inflazione del 1946 distrusse il debito accumulato dal Regno d’Italia sino alla fine della seconda guerra mondiale; secondo le memorie di Guido Carli,
l’allora governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi lasciò che la spinta inflazionistica acquistasse forza distruttiva prima di intervenire con il nuovo strumento
della riserva obbligatoria; dopo l’annuncio delle misure volte a frenare la concessione dei crediti, le aspettative inflazionistiche si invertirono rapidamente.
I manuali di scienza delle finanze elencano anche l’imposta straordinaria sul
patrimonio, spettro che di solito la sinistra radicale agita quando la barca della
pubblica finanza comincia a fare acqua e le imposte ordinarie sono già molto elevate. Tuttavia, a questo riguardo bisogna distinguere tra le imposte sul patrimonio
che sono pagate trasferendo allo stato quote del medesimo e quelle che, pur ad esso
commisurate, sono pagate col reddito, anche se con grande sacrificio dei contribuenti. Nel primo caso, lo stato viene di norma in possesso di beni diversi dalla
moneta e quindi non utilizzabili per redimere il debito; se lo stato realizzasse in
breve tempo quei beni sul mercato, presumibilmente l’offerta supererebbe di gran
lunga la domanda e le quotazioni cadrebbero a livelli bassissimi, con danno per il
venditore e per tutti i detentori di quelle attività. Se le operazioni di vendita dei beni patrimoniali sono fatte dai singoli proprietari-contribuenti, il risultato non sarà
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Mario Sarcinelli
molto diverso, salvo che intervenga il credito bancario, con il rischio, però, che le
banche si trovino a fronteggiare una serie di insolvenze nel tempo se vi è un’ulteriore caduta dei valori cauzionali. Lo stato, perciò, se ottiene in pagamento dell’imposta patrimoniale beni diversi dalla moneta, si induce a distribuire nel tempo le vendite, a rateizzarne il pagamento e ad ottenere da intermediari finanziari prestiti garantiti dai beni in corso di liquidazione. Tuttavia, per non turbare troppo i mercati
delle attività, lo stato può indursi a trasformare l’imposta straordinaria patrimoniale in una ordinaria per un certo numero di anni. È questo appunto il caso dell’imposta commisurata al patrimonio, ma pagata col reddito.
Infine, resta la via maestra, quella del rimborso o – per essere più precisi – quella
del mantenimento o della riacquisizione della capacità di rimborso del debito. Nessun debitore privato, né alcun debitore pubblico ha bisogno di liberarsi delle proprie
obbligazioni, ma soltanto di mantenersi in una zona di affidabilità che gli permetta di
espandere il proprio indebitamento senza difficoltà e a costi non penalizzanti. Per un
debitore privato il flusso di cassa non impegnato permette di valutare se il livello di
indebitamento è sostenibile, date la sua struttura, la capacità di ricorso agli azionisti,
la previsione sull’andamento dei tassi d’interesse, le prospettive dell’impresa sia congiunturali sia strutturali, ecc. Per lo stato l’avanzo primario, o saldo tra entrate e spese
eccettuati gli oneri per gli interessi sul debito, rapportato al prodotto interno lordo
(pil), sembra un buon indicatore della sostenibilità del debito, come convenzionalmente definito, alla luce del prevedibile andamento della crescita, dei tassi d’interesse,
della pressione fiscale e della struttura delle spese, della loro probabile evoluzione nel
tempo, della reputazione del paese nel mantenere fede ai propri impegni, ecc.
Il vincolo forte del debito pubblico
• Il debito pubblico diventa un vincolo molto forte, talvolta insopportabile,
allorché rispetto al pil supera un livello ritenuto critico. Il trattato di Maastricht lo
ha fissato al 60%, che deriva dalla media dei debiti pubblici rispetto al pil degli stati della Comunità europea all’epoca della preparazione del suddetto trattato. Soprattutto le autorità comunitarie, ma anche quelle nazionali danno segni di impazienza e di crescente preoccupazione quanto più grande è la distanza dalla soglia
critica e, in particolare, quanto più essa tende a crescere verso l’alto. Al contempo,
le società di rating e gli analisti finanziari assumono un atteggiamento di più occhiuta vigilanza, poiché scontano nelle proprie valutazioni una maggiore probabilità di inadempienza. I mercati, a loro volta, fanno scendere le quotazioni sul secondario e possono aumentare anche di molto il margine rispetto al titolo di riferimento sul primario, se i risparmiatori e gli intermediari finanziari alleggeriscono il
proprio portafoglio vendendo titoli e rendono il ricorso a nuove emissioni più oneroso e talvolta impossibile per il paese emittente.
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Mario Sarcinelli
Se si prescinde da una serie di elementi, già sommariamente elencati, che sono
“idiosincratici”, cioè riferibili al singolo paese, la sostenibilità del debito pubblico
dipende dalla dinamica del rapporto debito/pil. Infatti, l’indicazione di uno squilibrio massimo tra entrate e spese del 3% nel trattato di Maastricht deriva dalla necessità di mantenere inalterato quel rapporto al 60%, nell’ipotesi che il pil cresca al
massimo del 5% nominale l’anno (3% in termini reali e 2% per effetto dei prezzi)
e che il costo medio del debito sia anch’esso del 5%. Sempre considerando soltanto
il rapporto debito/pil, il debito è matematicamente sostenibile nel lungo periodo,
quale che ne sia il livello, se è stabile, cioè quando il numeratore e il denominatore
crescono allo stesso tasso; ne consegue che il grado di sostenibilità aumenta se il debito cresce meno del pil e peggiora nel caso contrario, a parità di ogni altra condizione.
Pertanto, un livello del rapporto debito/pil molto elevato, ad es., superiore al
100% come oggi è vero per il Giappone (170%), per la Grecia (110%) e per l’Italia
(108%), non è di per sé instabile, ma ha molte probabilità di aumentare rapidamente a causa di shock dovuti al mercato (ad es., per innalzamento dei tassi d’interesse e/o dei premi al rischio), alla congiuntura negativa (ad es., per caduta della
domanda, per riduzione dell’offerta di lavoro o per mancata crescita della produttività totale dei fattori) e alla politica economica (ad es., per insofferenza dei vincoli
che il debito pone alla finanza pubblica nelle sue funzioni fondamentali di allocazione delle risorse, di distribuzione delle stesse tra i gruppi sociali e di stabilizzazione del ciclo). Anche da livelli molto elevati del rapporto debito/pil si può rientrare,
come dimostra l’esperienza recente del Belgio che si trova oggi al 95%; per il lontano passato si può citare il caso del Regno Unito che dalle guerre napoleoniche
emerse con un rapporto che si stima intorno al 200%.
È ovvio che, economicamente, il giudizio dei mercati sulla sostenibilità dipende
anche dagli altri fattori “idiosincratici”; se per i paesi sviluppati un rapporto superiore a 100 può essere considerato sostenibile, per i paesi latino-americani, inadempienti abituali, si scende al 20-30%.
Le componenti variabili del debito
• Scendendo all’esame delle singole componenti che fanno variare il debito, va
detto che alcune partite, come gli scarti di emissione e la regolazione di debiti pregressi, non influenzano il saldo primario, ma incrementano direttamente il debito.
Prescindendo da queste poste, la dinamica del rapporto debito/pil dipende dal saldo primario (a), cioè dalla differenza tra le entrate e le spese al netto degli oneri sul
debito, dalle vendite di attività patrimoniali (v), dal divario, più volte richiamato,
tra onere medio sul debito (r) e tasso di crescita del pil (g). Se quest’ultimo è nullo,
gli interessi sul debito possono essere tranquillamente pagati con altro debito senza
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Mario Sarcinelli
alterare il rapporto debito/pil. Se r diventa maggiore di g, quel rapporto aumenta, a
parità di ogni altra condizione, o perché si abbassa il tasso di crescita, come è accaduto in Italia dove dal 2,1% per il quadriennio 1998-2001 si è scesi allo 0,6 del
successivo triennio o perché si innalza il tasso di interesse di mercato che si trasmette allo stock dei titoli a mano a mano che maturano o che vengono adeguati i
tassi variabili. È ciò che si teme possa accadere tra breve; secondo il Governatore
Fazio, un aumento di un punto percentuale su tutte le scadenze, data l’attuale
struttura del nostro debito, aumenta la spesa per interessi di 0,2 punti percentuali
rispetto al pil nel primo anno e di ulteriori 0,3 e 0,1 rispettivamente nel secondo e
nel terzo. Dal 1995 al 2004 le tre componenti a, v e (r-g) hanno dato congiuntamente un contributo al miglioramento del rapporto debito/pil, che ha toccato il
massimo di 4,22 punti percentuali nel 2000 e il minimo di 0,20 nel 2004. Nel
2005 si avrà un peggioramento di 1,60 punti (da 106,6 a 108,2), poiché l’avanzo
primario, ancora previsto pari a 0,6%, e le dismissioni patrimoniali non sono sufficienti a compensare la divaricazione tra r e g. Il rapporto debito/pil torna a crescere
dopo un decennio di riduzioni e si riporta al livello del 2002.
Accogliendo una periodizzazione proposta da Daniele Franco della Banca d’Italia, si può così sintetizzare la recente evoluzione del debito pubblico italiano, in relazione al pil. Dal 1970 al 1994 si ebbe una forte accumulazione di debito per il perseguimento di una politica di bilancio insostenibile; il rapporto debito/pil si innalzò
dal 40 al 125% nell’intervallo (tra il 1991 e il 1994 salì di 24 punti percentuali).
Dal 1985 al 1991 una prima fase di rinsavimento diede priorità al contenimento
del debito; il saldo primario migliorò del 4,7%, quasi del tutto neutralizzato dalla
maggiore spesa per interessi pari al 4%; gli oneri per il servizio del debito risultarono
pari al 12,5%. Una fase di effettivo riequilibrio finanziario si produsse tra il 1992 e
il 1997, con caduta del deficit (saldo primario più oneri sul debito) dal 12 al 3%,
con aumento dell’avanzo primario pari a 6,5 punti percentuali, con discesa al 121%
del rapporto debito/pil. Tra il 1998 e il 2001 l’avanzo primario si ridusse dal 6,7 al
3,4%, in particolare a causa di manovre fiscali espansive per il 2000 e il 2001, nonostante l’ampio ricorso a misure temporanee. Dal 2002 al 2004 si sono avute nuove
difficoltà e nuove manovre di contenimento del disavanzo, con ulteriore discesa dell’avanzo primario all’1,8% nel 2004, mentre l’onere medio del debito era pari nello
stesso anno al 4,7%. Nel 2005 si è dovuto ricorrere a tre manovre correttive per
mantenere sotto controllo la pubblica finanza; nell’ultima si è dovuta compensare
con misure fiscali la mancata vendita di attività immobiliari per € 5 miliardi.
Nello scenario di medio termine delineato nel Documento di programmazione
economica e finanziaria, r è posto uguale a 4,5% e g a 3,5%, cosicché l’avanzo primario e le dismissioni patrimoniali devono ragguagliarsi all’1% per poter mantenere costante il rapporto debito/pil; se poi quest’ultimo deve scendere in misura significativa, come gli impegni con l’Unione Europea richiederebbero, l’avanzo primario dovrebbe essere di almeno 3 punti percentuali.
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Una mega dismissione patrimoniale
• Già si incontrano difficoltà nella dismissione del patrimonio immobiliare
pubblico con operazioni che richiedono un tempo notevole per il loro montaggio e
che vieppiù aumenteranno a mano a mano che si cercherà di vendere attività meno
appetibili e che si affievolirà il boom immobiliare che negli Stati Uniti ha assunto il
carattere di bolla. Il prof. Giuseppe Guarino, illustre giurista e geniale proponente
di soluzioni wholesale come Ministro dell’industria, ha avanzato l’idea che bisogna
affrontare il problema, non con una serie di “piccole” vendite, ma con una megaoperazione di dismissione (Il debito pubblico è un problema risolubile?, relazione al
convegno Nexus del 26 ottobre 2005) le cui finalità, pienamente condivisibili, sono abbattere il debito pubblico per un ammontare auspicabilmente di € 630 miliardi, abbassare il rapporto debito/pil al livello fissato a Maastricht del 60%, tagliare la spesa per interessi dal 5,3% del pil (2003) al 2,7 circa, allineandoci così a
Francia, Germania e Regno Unito, riguadagnare gradi di libertà nella gestione della finanza pubblica.
La stima che il prof. Guarino fa dei beni alienabili lo induce a ridurre le ambizioni nell’abbattimento del debito a € 430 miliardi, ottenibili vendendo: a) per €
40 miliardi partecipazioni nelle società quotate in borsa (Enel, Eni, ecc.); b) per altri € 60 miliardi partecipazioni in società non quotate (CDP, Poste, ecc.); c) per €
100 miliardi beni immobili strumentali delle pubbliche amministrazioni; d) per €
50 miliardi beni immobili di interesse storico, archeologico e artistico; e) per € 40
miliardi beni immobili scarsamente utili, poco utilizzati e difficilmente vendibili
con trattative individuali; f ) per € 90 miliardi immobili privi o quasi di reddito,
ma suscettibili di valorizzazione (soprattutto case degli ex IACP); g) per € 50 miliardi crediti fiscali e di altra natura.
La tecnica di dismissione suggerita è la parte veramente innovativa della proposta e prevede la concentrazione iniziale in un’unica società per azioni dei beni sopra
elencati; il suo capitale iniziale sarebbe pari ai valori di conferimento, sicché in attesa che i periti facciano una valutazione tecnicamente più soddisfacente esso sarebbe di € 430 miliardi. Il reddito iniziale della società sarebbe pari a € 6,5 miliardi, provenienti per € 2 miliardi da dividendi su partecipazioni e € 4,5 miliardi da
canoni corrisposti dallo stato sugli immobili alienati e ripresi in locazione (3% su
€ 150 miliardi). Obiettivo dell’operazione dovrebbe essere la massimizzazione degli introiti per redimere la maggior quantità possibile di debito pubblico in circolazione, da conseguire con la cessione auspicabilmente rapida e totalitaria delle azioni della mega-s.p.a., il che presuppone inevitabilmente, anche per motivi di trasparenza nelle cessioni, la sua quotazione in borsa. A tal fine, gli amministratori avrebbero piena libertà di gestione e soprattutto di organizzazione dei vari compendi in
sub-holding, società operative, ecc. al fine di valorizzare pienamente i beni trasferiti alle loro cure.
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Mario Sarcinelli
L’incognita delle valutazioni
• L’ingegnosità dei meccanismi e la fantasia nella loro progettazione non possono esimere da un’analisi delle problematiche cui una simile costruzione andrebbe incontro. In primo luogo, vi sono quelle economico-valutative. In mancanza di
un riscontro di mercato, è difficile dire se le stime avanzate sono realistiche, ma esse sono senz’altro accettabili come ipotesi di studio, da confrontare con altre di cui
si dirà in seguito. Il punto cruciale è la valutazione che gli esperti dovranno fare per
asseverare o correggere gli iniziali valori attribuiti ai beni conferiti; essa non potrà
essere minimamente di tipo analitico, poiché i tempi ed i costi per realizzarla sarebbero eccessivi. Necessariamente si dovrà fare ricorso a valutazioni per categorie di
beni, a prezzi medi non facilmente riscontrabili nella pratica, a giudizi soggettivi
sulle probabilità di riscossione, a flussi di cassa che appaiono certi solo per gli immobili ceduti e riaffittati dallo stato. A questo riguardo, va notato che il 3% rivalutabile, al netto di ogni onere fiscale e per manutenzione ordinaria e straordinaria, è
superiore al tasso marginale, ponderato per le varie forme di ricorso al debito, al
quale lo stato si finanzia oggi. Costituendo il canone del 3% un tasso fisso per un
lungo periodo, se le aspettative d’inflazione restano intorno al 2% il tasso reale è
pari all’1% circa; se superiori, quest’ultimo si azzera o diventa negativo. Probabilmente, qualche clausola di revisione, come accade nella pratica privata degli affitti,
sarebbe opportuna, purché i parametri di riferimento e le circostanze che fanno
scattare la revisione siano chiaramente specificati.
La sostenibilità del mercato
• Le obiezioni di carattere finanziario appaiono ancora più gravi. La concentrazione in un’unica società di tutti i beni della cui proprietà lo stato vuol disfarsi
dà luogo ad un mega-conglomerato, che il mercato non è in grado di apprezzare
convenientemente. Se la mega-s.p.a. viene quotata, è molto probabile che mantenga una forte sottovalutazione rispetto ai valori intrinseci o a quelli di libro. La capacità di valutazione del mercato sarebbe facilitata dalla creazione di partecipate specializzate per comparto, per categorie di immobili, ecc. Significherebbe ciò un ritorno all’IRI che, nato per liquidare, nel tempo si trasformò in ente di gestione delle proprietà bancarie e industriali di cui lo stato con i salvataggi era venuto in possesso? Ovviamente, non v’è nessuna predestinazione, ma il rischio di ripetere esperienze già vissute non può essere ignorato. Ancora più seria appare un’altra obiezione di carattere finanziario; per sostituire nei portafogli di privati investitori, di fondi comuni e di altri intermediari finanziari attività altamente liquide come i titoli
del debito pubblico, con azioni della mega-s.p.a. o di sue partecipate, con obbligazioni che hanno a garanzia immobili ceduti dallo stato e con reddito basso o incer-
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Mario Sarcinelli
to (ad es., case ex IACP) oppure direttamente con immobili già di pertinenza dello
stato può avvenire solo lentamente e concedendo sconti che rappresentano opportuni premi al rischio, oltre che incentivi per mutare la composizione del portafoglio. Ciò è perfettamente naturale, ma è agli antipodi del mandato della megas.p.a. che dovrebbe estrarre il massimo valore dalle vendite, dirette o indirette, del
patrimonio ad essa conferito.
Le critiche maggiori sono sul piano del mandato e del governamento societario. La costituzione della mega-s.p.a. trasforma una proprietà, soprattutto immobiliare, dispersa sul territorio e dalle molteplici destinazioni d’uso, in azioni di un’unica società che lo stato immette nel proprio portafoglio. Il management della mega-s.p.a. deve promuovere la valorizzazione delle attività che le sono state conferite
attraverso un’appropriata organizzazione del gruppo societario e un’adeguata spinta imprenditoriale, ma non potrà dedicarsi, se non incidentalmente, alla vendita
delle azioni di propria emissione che sono in mano allo stato. È il Ministero dell’economia e delle finanze che deve operare, come ha fatto sinora, per la vendita delle
azioni a sue mani e col ricavato estinguere titoli del debito pubblico. In ciò sarà facilitato dal trasferimento sulla valutazione di borsa del potenziale di valorizzazione
che il management della mega-s.p.a. sarà stato in grado di attivare, nonché dall’afflusso di dividendi straordinari per le dismissioni di sotto-insiemi compiute dalla
medesima. Ove, per la specialità del caso, si attribuisse alla mega-s.p.a. il compito
di vendere le azioni di pertinenza del MEF si andrebbe incontro a un conflitto di
interessi, poiché il mandato della società a valorizzare, che richiede tempo, potrebbe essere pretermesso a quello di vendere il più rapidamente possibile le azioni del
MEF per ridurre il debito pubblico.
Un mega-conglomerato con un patrimonio enorme, pari a due volte e mezzo
quello di tutte le banche italiane, con una varietà ed una complessità di interessi assolutamente inedita e con un potere, in senso sostanziale, che nessuna amministrazione pubblica ha mai avuto in Italia susciterebbe appetiti formidabili in partiti
politici, rappresentanti delle amministrazioni espropriate e interessi costituiti; difficilmente potrebbe operare senza avere i costanti riflettori dei media sul proprio
operato o, peggio, sulle supposte intenzioni ad operare, anche perché il settore immobiliare non ha mai goduto in Italia di una grande considerazione sotto il profilo
della trasparenza… Una volta che il controllo fosse passato in mani private, se le
quotazioni fossero alte è difficile immaginare che vi siano tentativi di scalata, ma i
problemi di governamento non si semplificherebbero di molto; ove i prezzi di borsa fossero bassi, vi sarebbero scalate per ottenere guadagni dall’asset stripping. In
questo caso, i profitti andrebbero ai privati, non allo stato che presumibilmente ha
venduto a prezzi molto scontati.
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Mario Sarcinelli
I precedenti nella storia passata
• Non sarebbe corretto respingere la soluzione proposta dal prof. Guarino senza investigare se essa ha avuto qualche forma di applicazione nella travagliata storia
finanziaria del nostro Paese. Sin dalla nascita il Regno d’Italia ebbe l’assillo di trovare sufficienti risorse per finanziare le esigenze dello stato unitario e delle sue forze
armate e cercò di mobilizzare tutte le risorse a disposizione. Nel 1862, il Sella ordinò che la Cassa ecclesiastica, organo dello stato creato nel 1855, passasse tutti i
suoi beni al demanio affinché fossero venduti insieme con le altre attività di pertinenza demaniale; per assicurare il pagamento delle pensioni ai religiosi, a favore
della Cassa venne iscritta rendita 5% in misura uguale alla rendita assicurata dai
beni passati al demanio. Il trasferimento aveva appena avuto inizio che le pressanti
esigenze del Tesoro spinsero il Sella ad affidare la liquidazione dei beni demaniali
ad una società privata, la Società anonima per la vendita dei beni del Regno d’Italia
partecipata dalla Società generale di credito mobiliare italiana, con la prescrizione
di seguire, di massima, le procedure previste per le vendite pubbliche. L’appalto
venne concesso dal 1865, con obbligo di versare allo stato degli anticipi, di cui 40
milioni già nel 1864 (sintetiche notizie su questo argomento sono in Giannino
Parravicini, La politica fiscale e le entrate effettive del Regno d’Italia – 1860-1890,
ILTE, Torino 1958). In questo caso, non si trattò di un’operazione volta a ridurre il
debito pubblico, che invece aumentò per l’emissione della rendita a favore della
Cassa ecclesiastica, ma di fornire mezzi finanziari allo stato attraverso le anticipazioni della società appaltatrice del servizio di vendita.
La terza guerra d’indipendenza pose gravi problemi finanziari al neonato Regno d’Italia; sul piano monetario si giunse alla dichiarazione del corso forzoso, su
quello fiscale all’emanazione di una legge eversiva che nel 1866 trasferì in proprietà
al demanio dello stato i beni di qualsiasi specie appartenenti agli enti ecclesiastici
soppressi, contro iscrizione di rendita a favore del fondo per il culto, di nuova istituzione, per il pagamento delle pensioni ai religiosi. L’operazione di conversione
della proprietà ecclesiastica non fornì prontamente allo stato i mezzi straordinari di
cui era alla ricerca, anzi determinò un immediato aggravio per effetto dell’iniziale
accreditamento di titoli del debito pubblico a fronte delle proprietà trasferite. Nella ricerca di meccanismi per accelerare gli introiti attraverso l’alienazione del patrimonio ecclesiastico, un disegno di legge dello Scialoja, che non ebbe seguito, intendeva attribuire ai vescovi l’obbligo di alienazione, da effettuare in un decennio
con rate semestrali di 50 milioni, mentre la riscossione e il pagamento venivano assicurati dal conte Langrand-Dumonceau, sia in nome proprio sia per conto della
Banca di credito fondiario e industriale di Bruxelles, dietro corresponsione di un’esorbitante provvigione: il 10% dei 600 milioni che lo stato intendeva ricavare!
Francesco Ferrara scrisse su La Nuova Antologia che si trattava di “un baratto di parole e carta contro 60 milioni di lire metalliche”.
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Mario Sarcinelli
Una successiva legge del 1867 dispose la soppressione di ulteriori categorie di
enti, la devoluzione al demanio di tutti i loro beni e l’iscrizione a favore del fondo
per il culto di rendita 5% per le pensioni ai religiosi degli enti soppressi. Le due
leggi del 1866 e del 1867 vennero applicate ad oltre 52.000 enti, compresi quelli
conservati e assoggettati alla conversione dei beni immobili. La vendita poteva avvenire solo ai pubblici incanti, per lotti piccoli nella misura del possibile, con pagamento di un decimo del valore di aggiudicazione in contanti e per nove decimi in
18 anni, a rate uguali e con interesse scalare del 6%. Era previsto uno sconto del
7% sui nove decimi se si saldava tutto il prezzo e del 3% se si pagava entro due anni. Per fronteggiare le impellenti necessità dello stato, venne introdotta un’imposta
straordinaria del 30% sul patrimonio degli enti che non erano stati soppressi, eccettuati soltanto le confraternite e i benefici parrocchiali, nonché su quello dello
stesso fondo per il culto, da assolvere con varie modalità; inoltre, fu autorizzato un
prestito per un introito massimo di 400 milioni di lire da redimere con i proventi
della vendita dell’asse ecclesiastico. Queste obbligazioni, collocate dal Tesoro sotto
la pari a prezzi variabili da 77 a 85, potevano essere utilizzate al valore nominale di
100 per pagare le rate da parte degli acquirenti dei beni ecclesiastici. (Su tutta questa materia sono preziose le notizie e le osservazioni di Giulio Cesare Bertozzi negli
Annali di statistica – 1879 del Ministero di agricoltura, industria e commercio).
Pur tenendo conto della diversità dei tempi e dello sviluppo delle tecniche finanziarie per la mobilizzazione delle attività reali, da questi precedenti storici si
evince che le dismissioni immobiliari furono operazioni necessariamente lente, che
i tentativi di accelerazione attraverso l’intermediazione finanziaria o non andarono
in porto o si rivelarono più costose, come accadde con l’emissione delle obbligazioni ecclesiastiche, che l’entità degli sconti fu piuttosto modesta, ma non per questo
meno criticata per la disparità che creava tra chi aveva disponibilità da investire e
chi no (Relazione della Commissione centrale di sindacato sull’amministrazione
dell’asse ecclesiastico nel 1878 al Parlamento). Per provvedere alle necessità della
pubblica finanza si dovette battere la strada maestra della tassazione e del ricorso al
mercato.
I tentativi più recenti
• L’opportunità di procedere alla valorizzazione/alienazione del patrimonio
immobiliare pubblico fu avvertita sin dalla fine degli anni ’80 del ’900. Nel 1991
venne costituita la Immobiliare Italia, società mista con la partecipazione dell’IMI
e disciolta dopo alcuni anni per l’impossibilità di raggiungere l’oggetto sociale a
causa, pare, dell’opposizione o almeno della non collaborazione della Direzione generale del demanio. Nel 1996 venne annunciata la mobilizzazione del patrimonio
reale attraverso un modello di cartolarizzazione basato su fondi immobiliari, ma il
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Mario Sarcinelli
progetto non decollò. Le prime cartolarizzazione di immobili pubblici si ebbero
nel 2001-02; contemporaneamente vi fu la costituzione per legge della società per
azioni “Patrimonio dello stato” che si è dedicata alla preparazione del Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche, alla promozione del “Fondo patrimonio
uno”, fondo immobiliare ad apporto pubblico, all’assistenza nella preparazione del
“Fondo immobili pubblici” e nella cartolarizzazione SCIP 3 di immobili e terreni
pubblici, al monitoraggio di SCIP 2, nonché alla vendita all’asta di immobili pubblici. Nel periodo 2001-04 le privatizzazioni immobiliari sono ammontate a €
15,2 miliardi.
Nel 2004 è stata completata e inviata al Parlamento una relazione sul Conto
patrimoniale delle amministrazioni pubbliche con stime per gli anni 2001, 2002 e
2003; è questa un’operazione meritoria, poiché non è possibile gestire la valorizzazione/alienazione del patrimonio pubblico senza conoscere la sua composizione e
soprattutto la sua dimensione; ciò non significa che tutti i beni inclusi nell’esercizio fossero da considerare (perché inserire nella stima i ghiacciai che non sono certamente alienabili?) e che il metodo del fair value non lasci perplessi in alcuni casi.
Tuttavia, una stima ha sempre margini di opinabilità e di errore ed è comunque
preferibile all’assenza di informazioni. L’attivo delle amministrazioni pubbliche nel
2003 a valori di libro ammontava a € 1.246,4 miliardi e a quelli di stima a €
1.771,4; al passivo, i debiti risultavano pari a € 1.381,4 miliardi. Prescindendo da
una piccola posta relativa ai fondi per rischi ed oneri futuri (€ 2,8 miliardi), emerge un disavanzo patrimoniale ai valori di libro di € 137,8 miliardi, che diventa un
avanzo di € 387,2 miliardi ai valori stimati. Se si considerano le sole amministrazioni centrali, l’attivo stimato è pari a € 977,5 miliardi, che si riduce del 46% a €
448,7 miliardi applicando un indice di alienabilità (pudicamente denominato disposability…). Per ottenere questa stima del patrimonio alienabile di pertinenza
delle amministrazioni centrali si sono dovuti includere il 70 per cento degli immobili destinati ad usi governativi e collettivi e il 30% dei beni di valore culturale, bibliotecario ed archivistico… A questo punto, va riconosciuto non solo che le ipotesi avanzate dal prof. Guarino sul valore dei beni mobilizzabili non sono molto
lontane dalle stime effettuate da una squadra di tecnici, ma anche che i timori di
chi teme un nuovo sacco del patrimonio culturale non sono infondati; di già in
America i curatori di importanti musei considerano alcuni “pezzi” come investimenti passibili di realizzazione sul mercato e li vendono attraverso Sotheby’s...
Sulla tela di fondo che si è sopra delineata è stato redatto il piano strategico delle privatizzazioni per il 2006-2009. Su un totale di attività per le amministrazioni
centrali e per gli enti previdenziali al 2004 di € 1.063,9 miliardi, il piano prevede
dismissioni per € 44,5 miliardi, relative ai comparti dei fondi di rotazione per €
5,5 miliardi, delle partecipazioni per € 20 miliardi, delle immobilizzazioni materiali (fabbricati e terreni, infrastrutture e attività atipiche) per € 14 miliardi, dei
crediti e di altri averi degli enti previdenziali per € 5 miliardi. Dal piano sono
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45
Mario Sarcinelli
esclusi gli enti locali, anche se essi posseggono un 40% del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, i quali sinora si sono mostrati restii ad alienare i propri beni,
anche per l’insufficienza degli incentivi. L’inclusione delle infrastrutture (ad es.,
quelle portuali) è un chiaro indicatore dell’esaurirsi dello stock di beni facilmente
alienabili, come le attività finanziarie e gli immobili residenziali; tuttavia, per procedere su questa strada si richiede non solo un’apposita legislazione, ma anche
un’attenta riflessione da parte dei responsabili politici e della società civile sui regimi giuridici che potranno sostituire quello della tradizionale concessione al fine di
garantire l’interesse pubblico non solo ad una buona gestione e alla non discriminazione, ma anche all’espansione della capacità e al miglioramento della qualità. È
sufficiente ricordare che nell’Ottocento le ferrovie di proprietà pubblica vennero
date in concessione per l’esercizio, ma nel 1905 si arrivò alla gestione diretta da
parte dello stato…
Concludendo, è possibile affermare che anche svendendo il patrimonio pubblico, è difficile giungere ad una drastica e strutturale riduzione del debito pubblico.
La tesi che è sufficiente concedere forti sconti per conseguire l’obiettivo omette di
considerare che meno si realizza dalla vendita di attività, meno debito si redime, più
danno la collettività subisce, più se ne avvantaggia il compratore. Secondo notizie di
stampa, l’operazione SCIP 1 ha comportato veri e propri regali, poiché la sottovalutazione del 50 per cento nella cessione delle attività al veicolo speciale per la cartolarizzazione al fine di assicurare al medesimo il massimo rating è stata recuperata solo
in parte quando gli immobili sono stati venduti. Perciò, solo la ricostituzione di un
sufficiente avanzo primario potrà permettere al rapporto debito/pil di scendere in
modo apprezzabile; in attesa che ciò avvenga attraverso una ripresa della crescita
economica e un contenimento del tasso di aumento delle spese, le dismissioni patrimoniali andrebbero manovrate in modo da non fare aumentare il rapporto debito/pil rispetto all’anno precedente, evitando così le reprimende di Bruxelles e le minacce di revisione verso il basso del rating da parte delle agenzie. Le dismissioni patrimoniali dovrebbero continuare anche dopo che l’avanzo primario sarà stato riportato ad un livello di sicurezza, dando così un proprio apporto alla riduzione del
rapporto debito/pil. Nell’ansia di privatizzare, però, bisogna evitare che l’interesse di
breve periodo, come l’incasso di una somma capitale per ridurre marginalmente il
debito, comprometta quello di lungo periodo attraverso una deficiente architettura
e un’insufficiente regolamentazione dei campi che il settore pubblico trasferisce a
quello privato acriticamente fidando nella mano invisibile…
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La libertà economica
unica regola del mercato globalizzato
Gli studiosi sono concordi. La globalizzazione che pareva obbedire a una legge fisica, si è inceppata. Rallenta l’integrazione mondiale, si accentua la propensione
a rapporti e scambi tra aree con una cultura simile.
Questo accade perdurando una stagnazione economica che genera sfiducia verso la capacità taumaturgica
del mercato. L’Europa si è bloccata, la Germania è in
stagnazione e ci avviamo verso la rassegnazione dell’Europa senza Costituzione basata solo sulla moneta.
La Banca Centrale Europea amministra la moneta e i
tassi con la mentalità di Euroburocrati senza futuro,
mentre il dollaro e la FED condizionano il mercato
mondiale.
GIAMPIERO CANTONI
Senatore
della Repubblica
Università S. Pio V
di Roma
I tentativi più recenti
• Risparmio considerazioni sul fatto che la realtà stia
dando ragione alle tesi di Huntington sul mondo ineluttabilmente diviso tra sette civiltà. Credo che questa diminuzione di slancio globale obbligatorio, possa essere positiva.
Mi spiego. Il mercato è il regno della libertà individuale governata da alcune (poche) regole. Non è il suo meccanismo a
garantire la prosperità. Se così fosse l’uomo sarebbe, come
volevano gli stoici, una formichina condannata a subire la
necessità. Invece il liberalismo è la scoperta del primato della
qualità umana. La legge del mercato non è un Moloc divoratore dei singoli: nel mercato pesa di più l’energia di libertà di
chi va al mercato. Dunque sarebbe una contraddizione, una
specie di controvalore, se la globalizzazione fosse imposta
dalla necessità storica: la libertà economica si esercita nelle
condizioni date e il suo sviluppo non è sottomesso a bronzee
leggi. Conta la libertà.
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
≈
“… la libertà
economica
si esercita nelle
condizioni date
ed il loro sviluppo
non è sottomesso
a bronzee leggi.
conta la libertà”
≈
47
Giampiero Cantoni
Ed allora che si fa? Qui viene la politica. Infatti questo passaggio dalla globalizzazione all’integrazione per “arcipelaghi omogenei” rende quanto mai decisiva la
questione della competitività del sistema. La libertà individuale cerca il terreno più
consono a sviluppare i propri talenti. Si va dove il lavoro e il capitale possono dare
meglio i loro frutti. Ecco: il compito del governo è dissodare il terreno, renderlo
idoneo ad una crescita rigogliosa. Senza dogmi (in questo senso Tremonti, con il
suo colbertismo, ha capito tutto per primo). Ci vuole l’erpice delle riforme.
Il ruolo fondamentale della competitività
• La competitività deve diventare un punto fondamentale per il rilancio non
solo delle economie, ma per un processo di modernizzazione necessaria per uscire
dalle ingessature di un Paese con un’architettura burocratica troppo farraginosa e
complessa e un capitalismo eccessivamente concentrato e protetto.
Certo, sulla strada della modernizzazione del Paese, non è derogabile il metter
mano alla previdenza. Senza rivedere le pensioni siamo condannati, stante l’alto
tasso di invecchiamento. Non è questione di tagli, ma di nuovo disegno del Welfare. Oggi lo stato sociale non obbedisce al suo scopo: finisce per gravare sulle fasce
deboli e sugli esclusi dal lavoro. Bisogna ripartire dalla valorizzazione della società,
spostare l’asse dal Welfare State alla Welfare Society, dove si dia più peso alle libere
aggregazioni.
Il Paese invece perde tempo. Si dissangua in dibattiti e litigi che ignorano questo stato congiunturale del mondo. Invece occorre fare le riforme in grande.
L’assestamento dei rapporti tra i partner suppone che Francia e Germania la
smettano di pretendere il dominio. Non possiamo permetterci né a livello italiano
né a livello continentale di avere una democrazia bloccata dai contrasti tra istituzioni. Se vogliamo sopravvivere, il buon senso impone: riformare e investire di più
per aumentare la competitività e la produzione.
Difendere la nostra civiltà è buona cosa per tutte le civiltà, nel rispetto delle
differenze. Qui vorrei sottolineare un punto, che io ritengo niente affatto “solo”
occidentale, una specie di optional: la democrazia economica. Anch’essa va non dico esportata (non è una merce), ma aiutata a fiorire nei paesi a democrazia limitata.
Il mercato strumento di pace
• Altro importante elemento è il mercato quale strumento essenziale di costruzione di una pace duratura. Creare legami economici solidi e stabili rende le ostilità
più costose per le rispettive popolazioni. Fare scattare la leva dello sviluppo economico è essenziale per pacificare territori ancora in balia di una violenza folle e sca-
48
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Giampiero Cantoni
tenata. Perché, secondo voi, un adolescente palestinese ha più probabilità di diventare un terrorista di quante ne abbia un ragazzino della Milano bene? Semplicemente, perché le opzioni a sua disposizione sono infinitamente inferiori. Nella miseria, esplodono tutti i nostri istinti aggressivi, che il capitalismo in qualche modo
attutisce. L’intuizione è antica, e risale almeno a Schumpeter: per cui l’imperialismo militarista era un “atavismo”, un ritorno a un precedente stadio di civilizzazione, e nemico giurato del capitalismo autentico.
Il libero mercato crea legami di solidarietà ed amicizia. Funziona come veicolo
della comprensione. Costringe a cooperare anche individui riottosi e mal disposti.
“Non dalla benevolenza del macellaio”, insegna Adam Smith, ci aspettiamo che la
carne ci venga servita in tavola: ma anzi dalla sua avidità, della sua egoistica propensione al guadagno. È così che il mercato spezza il male terribile dell’egoismo,
che degenererebbe altrimenti in ingordigia predatoria e nella tentazione, sempre
fortissima, del furto.
Il mercato è quel sistema nel quale gli individui depongono la spada, si stringono le mani, e vivono di scambio, non di violenza.
Per questo, esportare un sistema di autentico libero mercato è essenziale, soprattutto per spezzare la spirale dello “scontro tra civiltà”, che poi è solo un sinonimo elaborato e pomposo per l’atavica incomprensione tra i popoli, il naturale desiderio di non parlarsi se non ad armi spianate.
Il mercato ha tenuto unito l’Occidente, anche in anni di differenze buie e
profonde. I popoli in guerra erano nemici, nel ’39-’45. Eppure, deposte le armi,
sono stati riuniti in fratellanza dall’amicizia cementata dal libero commercio. Si sono messi gli uni a disposizione degli altri: gli americani hanno comprato automobili tedesche, i tedeschi hanno mangiato panini americani, gli italiani hanno esportato il loro genio, la moda e la loro cultura, e hanno imparato a fare i conti con le
abitudini e le attitudini degli amici ritrovati.
Le istituzioni fondamentali della democrazia economica – il rispetto dei diritti
di proprietà e la libertà di entrata nei mercati – vanno esportate nei paesi islamici
con convinzione pari a quella con cui stiamo esportando il diritto di voto. Sono
realtà complementari, e vanno tenute insieme per costruire relazioni pacifiche con
quei Paesi e dentro quei territori.
Globalizzazione e governabilità
• E infine la globalizzazione – fenomeno dominante è ancora più incalzante
nel terzo millennio.
La globalizzazione deve però essere compatibile con i processi di crescita e progresso democratico, anche perché un fenomeno fuori controllo significa correre
grandissimi rischi, insiti e conseguenti nelle grandi rivoluzioni epocali.
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Giampiero Cantoni
È vero anche che la globalizzazione è un processo di cambiamento epocale che
deve essere sviluppato nella governabilità tenendo conto anche della fragilità degli
attuali equilibri.
Globalizzare significa anche grandi eventi quali gli enormi spostamenti di masse di uomini che arrancano ormai quotidianamente verso i Paesi più ricchi o ritenuti tali.
È vero anche, che la globalizzazione deve essere accompagnata da un processo
evolutivo e democratico della politica, migliorando la trasparenza dei sistemi economici, con la finalità di modernizzare le regole pluralistiche di mercato e la conseguente armonizzazione di tutti i paesi verso i principi dello sviluppo, della flessibilità e nell’efficienza dei meccanismi di crescita, per conseguire un risultato che incide nella creazione di nuova occupazione, soprattutto ai giovani che entrano per la
prima volta nel circuito produttivo.
L’Europa deve aprirsi, togliere l’ingessatura dei protezionismi indotti e spingere
i governi verso le riforme strutturali permanenti istituzionali e del Welfare State.
Creare nuovi “Fondi Pensione Europei” per omogeneizzare questo fondamentale
diritto per la dignitosa futura sicurezza.
Il fenomeno della globalizzazione rende opportuno e urgente definire il coordinamento e la responsabilità sovranazionale per il governo della globalizzazione.
La classe politica europea e tutti coloro che hanno le leve del potere per lo sviluppo della globalizzazione e la sua governabilità hanno però grandi responsabilità
politiche, sociali e morali verso la collettività.
Il processo di evoluzione mondiale non è però in contraddizione con il Welfare
State, ma è in netta opposizione allo stato sociale che spreca risorse, capitali improduttivi e spese assistenziali.
Le basi di una nuova etica sociale
• Gli effetti positivi della globalizzazione porranno la base per una nuova etica
sociale verso la trasparenza delle decisioni politiche che influenzano le scelte a carico della collettività.
Un elemento essenziale sarà la scuola e la formazione perché nelle società più
avanzate l’innovazione tecnologica sarà un fattore di confronto, dove si determineranno ancora di più che in passato le disuguaglianze tra individui e nazioni.
Gli aspetti immateriali della conoscenza e dell’istruzione hanno ormai preso il
sopravvento rispetto alle ricchezze materiali.
Infatti la conoscenza e la capacità di innovazione tecnologica, saranno l’asse
portante delle società più evolute e concorrenziali.
Solo un esempio: l’Unione Europea possiede un numero di personal computer
inferiore ai paesi emergenti.
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Giampiero Cantoni
Per il nostro Paese la globalizzazione deve essere vista come una leva per scardinare l’ingessatura di regole arcaiche, per accelerare la modernizzazione e la ristrutturazione di un sistema burocratico e imprenditoriale sempre più concorrenziale e
adatto allo sviluppo della competizione internazionale.
Con la globalizzazione le prerogative degli Stati nazionali e degli apparati politici e istituzionali vengono indeboliti, mentre si rinforzano le istituzioni sovranazionali. Diventano irreversibili i processi di destatalizzazione.
Le privatizzazioni dovranno essere accelerate con coraggio per un sistema produttivo dove l’imperativo sarà: “meno stato più mercato”.
Inoltre, si affacceranno nuovi problemi che investono direttamente il rapporto
tra politica e economia facendo emergere le differenze fra le diverse velocità di sviluppo che inevitabilmente si delineeranno nell’integrazione dei vari mercati, dove
però il sistema politico lento e farraginoso non riuscirà a tenere il passo nell’evoluzione dei processi di mondializzazione.
La globalizzazione però farà crescere le disuguaglianze sociali, i risentimenti e le
chiusure localistiche e corporative.
Questi fattori indeboliranno l’Europa dal punto di vista economico e sociale.
Infine governare la globalizzazione significa anche governare i mercati e le politiche di protezione ambientale.
Economia ed ecologia diventeranno derivati di comune interesse sociale.
E infine la globalizzazione in Europa non deve chiudersi in difesa, ma gestire
nuove opportunità in aiuto ai più deboli, quasi che “la globalizzazione «dal volto
umano» significa rendere più compatibili su scala globale l’impatto sulle persone,
ambiente, salute e la pace.”
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
51
Parametri di Maastricht e debito pubblico:
il caso italiano
In tutti i paesi europei e, in particolare, in Italia, la difficile congiuntura economica ha indotto, recentemente, ad avviare un intenso dibattito circa l’opportunità
di ammodernare i criteri di base che presiedono il
coordinamento delle politiche economiche dei paesi
dell’Unione, ovvero i c.d. parametri di Maastricht e il
successivo Patto di stabilità e di crescita.
Sul punto è opportuno, in via preliminare, fare alcune precisazioni. Anzitutto, va ricordato, sul piano “storico”, che i
criteri del Trattato di Maastricht – 3% del PIL per il deficit,
60% per il debito – furono previsti per l’ingresso nell’Unione
Economica e Monetaria: il parametro del 60% era non solo
vicino al dato medio per i paesi europei all’epoca del Trattato,
ma era – ed è – anche il valore che stabilizza tale rapporto per
un Pil nominale che cresce al 5% in presenza di un deficit
pubblico (indebitamento netto della P.A.) pari al 3% del Pil.
A sua volta, il limite del 3% posto al rapporto deficit/pil era
di fatto simile alla quota destinata in molti paesi alle spese in
conto capitale, che oltre agli investimenti fissi includono anche i trasferimenti in conto capitale della P.A.
La proposta di un Patto di stabilità per l’Europa fu invece avanzata successivamente e, segnatamente, nel novembre
del 1995 dall’allora Ministro delle finanze tedesco Theo
Waigel.
L’intento da questi perseguito era evidente: il governo tedesco dell’epoca temeva che una volta entrati nell’euro, i
paesi tradizionalmente indisciplinati sul fronte della finanza
pubblica – e in primis l’Italia – tornassero alle vecchie pratiche, con le invitabili conseguenze per la stabilità dell’UEM e
le altrettanto invitabili ripercussioni sul tasso di cambio della nuova moneta.
BRUNO TABACCI
Deputato, Presidente
della X Commissione
Attività produttive,
commercio e turismo
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
≈
“… senza uno
sforzo corale
per abbattere
sensibilmente il
fardello del nostro
debito qualsiasi
tentativo di rilancio
dell’economia…
non potrà che
essere velleitario e,
in quanto tale,
persino
controproducente”
≈
53
Bruno Tabacci
L’idea del Patto era dunque quella di trasformare i criteri di ingresso nella UE in
regole che garantissero definitivamente la disciplina di bilancio nell’area dell’euro.
Dopo un periodo di defatiganti trattative, il Patto di stabilità e crescita nacque
nel giugno del 1997 al Consiglio Europeo di Amsterdam.
Il Patto fu adottato, in vista della terza fase dell’Unione economica e monetaria, in conseguenza della valutazione politica, da parte di alcuni Stati membri (in
particolare la Germania), circa l’insufficienza della procedura sui disavanzi eccessivi prevista dal Trattato istitutivo della Comunità europea e dal relativo Protocollo
allegato al Trattato.
In particolare, era stata evidenziata da parte di alcuni Paesi la necessità, da un lato, di assicurare che il valore di riferimento del 3% del rapporto disavanzo/PIL costituisse effettivamente un tetto massimo, non valicabile se non in circostanze eccezionali, e, dall’altro, di introdurre in caso di disavanzi eccessivi un meccanismo sanzionatorio semi-automatico che evitasse di demandare la decisione di comminare eventuali sanzioni integralmente alla discrezionalità del Consiglio dell’Unione Europea.
Sono state così introdotte disposizioni intese a meglio precisare sia i parametri
e i criteri per l’applicazione dei valori di riferimento indicati nel Trattato CE e nel
Protocollo, sia le procedure e gli strumenti per constatare l’esistenza di un disavanzo eccessivo, prevenirne il verificarsi e raccomandarne la riduzione al di sotto dei
medesimi valori.
In base al Patto i membri dell’UEM si sono impegnati a presentare dei programmi pluriennali di stabilità, funzionali al mantenimento di un saldo di bilancio
a medio termine prossimo all’equilibrio ovvero in surplus.
Tale ultima condizione era diretta a consentire di affrontare i periodi di recessione con un margine di manovra sufficiente per lasciar agire pienamente i cosiddetti stabilizzatori automatici, senza eccedere il tetto del 3% del PIL per il deficit.
Il superamento, anche limitato, del tetto massimo del 3%, veniva consentito,
senza incorrere in sanzioni, solo “circostanze eccezionali e temporanee”, cioè connesse ad eventi che non sono soggetti al controllo dello Stato interessato o che sono
determinate da una grave recessione economica (diminuzione del PIL, in termini
reali, pari almeno al 2%); peraltro, se il rapporto deficit/PIL avesse superato il 3%
in presenza di una diminuzione del PIL inferiore al 2%, lo Stato interessato poteva
comunque cercare di dimostrare che il disavanzo era connesso a circostanze eccezionali e il Consiglio, valutate tali osservazioni, avrebbe potuto derogare alla dichiarazione di disavanzo eccessivo.
Va inoltre ricordato, come i vincoli del Patto di stabilità e crescita si riferiscano
al complesso di tutte le amministrazioni pubbliche, dal momento che le grandezze
su cui valutare il disavanzo e il debito sono state individuate rispettivamente nell’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche e nel debito pubblico. Gli
Stati membri risultano pertanto responsabili degli andamenti del complesso della
finanza pubblica, che solo per una parte è gestita attraverso il bilancio statale.
54
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Bruno Tabacci
Nel caso dell’Italia, in considerazione delle notevoli dimensioni del disavanzo e
del debito, ne è derivata l’esigenza di introdurre procedure volte a monitorare e
contenere gli andamenti finanziari di enti, quali in primo luogo quelli territoriali,
che godono di una ampia autonomia finanziaria.
In risposta a questa esigenza si è provveduto a definire il cosiddetto Patto di stabilità interno, con il quale regioni ed enti locali sono investiti della responsabilità
di concorrere al rispetto degli obiettivi e dei vincoli finanziari assunti dallo Stato in
sede comunitaria.
Vincoli di bilancio e rilancio della crescita: il bivio della politica economica
• Date queste premesse, utili al corretto inquadramento della questione, prima di addentrarsi nello spinoso tema di come i vincoli europei e, in particolare,
quello inerente il rapporto debito/Pil, incida sulla politica economica nazionale, è
opportuno svolgere alcune riflessioni di carattere generale in ordine alla permanenza della validità degli attuali vincoli di bilancio comunitari, ciò al fine di rispondere
ad una domanda cruciale: le regole europee sono troppo rigide e tali da ingessare in
modo esiziale le politiche di bilancio nazionali soprattutto nelle fasi di ciclo negativo, oppure è vero il contrario, ossia che è proprio mantenendo una situazione di
bilancio equilibrata in tempi di vacche grasse che si può utilizzare poi la politica fiscale a fini espansivi in periodi di recessione?
Dalla riposta a tale quesito, dipende la risposta che vogliamo dare sul piano
delle politiche economiche nazionali per il rilancio della crescita e dello sviluppo.
In altre parole, se si opta per una risposta affermativa alla prima domanda, ne
discende che in periodi di difficile congiuntura è meglio allentare le regole e magari fare un po’ di deficit spending ovvero ridurre le imposte anche a scapito del disavanzo per la rilanciare domanda e investimenti.
Viceversa, in una visione più ortodossa, anche in periodo di vacche magre è
preferibile puntare comunque sulla riduzione del debito, al fine semmai di destinare a politiche espansive o a più costose riforme strutturali i risparmi di spesa derivanti dai minori interessi da pagare per il servizio del debito.
È questo lo snodo centrale della questione che abbiamo dinanzi.
E sul punto non esito ad affermare che per un paese come l’Italia, con un debito pubblico che nel 2005, dopo anni di ininterrotta discesa, ha ricominciato a crescere, attestandosi al 108,2% del Pil, la vera priorità è e rimane la riduzione dello
stock di debito.
Senza questa riduzione non c’è futuro e non c’è libertà.
E senza libertà non c’è sviluppo.
E la libertà, oggi, nella nuova dimensione internazionale dei mercati finanziari, si conquista con il rigore finanziario, senza il quale siamo destinati ad essere
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trascinati nella spirale senza ritorno del rialzo dei tassi di interesse sul nostro debito.
Un rialzo che dipende dalle valutazioni del mercato, delle operatori e delle
agenzie di rating, che guardano l’Italia come un osservato speciale.
Nonostante l’ossessiva attenzione dei media sullo scostamento del nostro disavanzo dal rapporto magico del 3% per cento del Pil, la vera questione della nostra
finanza pubblica risiede nella dinamica del rapporto debito/prodotto; se il livello
di tale rapporto resta elevato, i tassi d’interesse sono più alti e i conti pubblici sono
più esposti al rischio di una loro variazione, senza peraltro considerare che una rilevante parte delle entrate deve essere destinata al pagamento di interessi ai possessori di titoli anziché alla provvista di beni e servizi.
Assicurare una continua, anche se graduale, diminuzione del rapporto fra debito e prodotto è dunque l’obiettivo più importante che dovrebbe prefiggersi qualsiasi governo, di qualunque colore esso sia, fermo restando, ovviamente, che la riduzione del deficit è a sua volta funzionale a tale diminuzione.
Non si può fingere di ignorare questa realtà.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che i vincoli comunitari non siano perfettibili e
che il Patto di stabilità non possa essere reso più “intelligente”.
Bene ha fatto, pertanto, il Governo italiano a spingere in questa.
La riforma del Patto di stabilità: quando la flessibilità non sacrifica il rigore
• La riforma, approvata il 27 giugno scorso, dal Consiglio UE, del Patto di stabilità è assolutamente condivisibile e rappresenta una feconda evoluzione della governance economica europea, posto che è riuscita nell’intento di lasciare maggiore
margine ai governi europei per le loro politiche economiche, senza tuttavia modificare i presidi del 3% per cento per il deficit e del 60% per il debito.
Sul punto, ricordo che le principali modifiche relative al rafforzamento della
sorveglianza delle posizioni di bilancio e al coordinamento delle politiche economiche, hanno riguardato anzitutto l’obiettivo a medio termine di bilancio: quest’ultimo, correttamente, può ora essere differenziato per ciascuno Stato membro e
può divergere dal requisito di un saldo prossimo al pareggio o in attivo.
Tale obiettivo specifico, riveduto in caso di importanti riforme strutturali e –
in ogni caso – ogni quattro anni, deve offrire un margine di sicurezza rispetto al
rapporto tra disavanzo pubblico e PIL del 3% ed assicurare rapidi progressi verso la
sostenibilità, consentendo, di conseguenza, rilevanti margini di manovra nel bilancio, segnatamente per gli investimenti pubblici.
Di particolare rilievo è, inoltre, la peculiare considerazione attribuita alle riforme
strutturali che abbiano un impatto sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze
pubbliche nell’ambito dell’esame dei programmi di stabilità degli Stati membri.
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A tale riguardo, nel valutare la situazione di uno Stato membro, il Consiglio
dovrà tener conto delle eventuali riforme delle pensioni che introducono un sistema multipilastro, comprendente un pilastro obbligatorio, finanziato a capitalizzazione.
Agli Stati membri che attuano simili riforme viene dunque consentito di deviare dal percorso di aggiustamento verso il loro obiettivo di bilancio a medio termine
o dall’obiettivo stesso, con una deviazione che rispecchi il costo netto della riforma
del pilastro a gestione pubblica ( a condizione che tale deviazione resti temporanea
e che sia mantenuto un opportuno margine di sicurezza rispetto al valore di riferimento del disavanzo). Tali regole non potranno che incentivare quelle riforme
strutturali dalle quali dipende la solidità della finanza pubblica.
Ancor più rilevanti , soprattutto per l’Italia, sono inoltre le modifiche alle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi.
Sono stato infatti ampliati i casi in cui il superamento del valore del 3% può essere considerato eccezionale e temporaneo e può quindi (se resta vicino a detto valore) essere giustificato: si è stabilito, infatti, che può essere considerato eccezionale
un superamento del valore di riferimento risultante da un tasso di crescita negativo
o dalla diminuzione cumulata della produzione durante un periodo prolungato di
crescita molto bassa in relazione alla crescita potenziale; in secondo luogo, si è disposto che la Commissione, nel preparare la relazione sulla situazione di disavanzo
eccessivo, tenga presenti tutti gli altri fattori rilevanti; la relazione deve in particolare riflettere in maniera appropriata gli sviluppi relativi alla posizione economica a
medio termine (in particolare la crescita potenziale, le condizioni congiunturali
prevalenti, l’attuazione delle politiche nel contesto dell’agenda di Lisbona e delle
politiche intese a promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione) e l’evoluzione
della posizione di bilancio di medio termine (in particolare l’impegno per il risanamento del bilancio nei periodi di congiuntura favorevole, la sostenibilità del debito, gli investimenti pubblici e la qualità complessiva delle finanze pubbliche).
Inoltre, la Commissione deve tenere nella debita considerazione tutti gli altri
fattori significativi, con particolare attenzione agli sforzi di bilancio intesi ad aumentare o a mantenere a un livello elevato i contributi finanziari a sostegno della
solidarietà internazionale e della realizzazione degli obiettivi delle politiche europee, segnatamente l’unificazione dell’Europa.
Infine, anche in tal caso, in tutte le valutazioni finanziarie nel quadro della procedura medesima, la Commissione e il Consiglio devono tenere nella debita considerazione l’attuazione di riforme delle pensioni che introducono un sistema multipilastro comprendente un pilastro obbligatorio, finanziato a capitalizzazione.
A tal fine, nel caso di Stati membri il cui disavanzo superi il valore di riferimento, pur rimanendo prossimo ad esso, e qualora tale superamento rispecchi l’attuazione di riforme delle pensioni, si tiene conto del costo netto della riforma in maniera linearmente decrescente per un periodo transitorio di cinque anni.
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Da ultimo, ma non certo per importanza, vanno ricordate le nuove norme relative al termine per la correzione del disavanzo eccessivo, pari di norma ad un anno dalla sua constatazione, ma che in caso di circostanze particolari può essere aumentato di 1 anno (2 anni dopo la sua constatazione, come previsto dalla raccomandazione adottata il 12 luglio nei confronti dell’Italia).
I termini fissati per la correzione possono dunque essere riveduti e prorogati
qualora durante una procedura per i disavanzi eccessivi si verifichino eventi economici sfavorevoli imprevisti con importanti conseguenze negative sul bilancio, mentre il termine entro il quale il Consiglio può decidere di irrogare sanzioni per inadempimento delle proprie raccomandazioni viene esteso da 10 a 16 mesi.
Il combinato disposto delle suddette modifiche ai vincoli di bilancio comunitari, che assegna un ruolo specifico alla congiuntura economica, non può che essere visto con favore da un Paese come l’Italia che è invischiato ormai da alcuni anni,
com’è noto, in una trappola di bassa crescita, che a sua volta aggrava una situazione
atavica di difficoltà sul versante dei conti pubblici.
La maggiore attenzione alle condizioni cicliche anche nella procedura di deficit
eccessivo consente dunque di conservare quel rigore indispensabile in una economia di mercato, garantito dalle norme del Trattato che rimangono pienamente valide, assicurando nel contempo una maggiore razionalità economica dello stesso
Patto di stabilità e creando degli incentivi per politiche fiscali sane in periodi di alta
crescita.
I nuovi impegni assunti dall’Italia in sede UE
• Se la revisione del Patto di stabilità ha evitato all’Italia l’irrogazione di pesanti sanzioni pecuniarie per disavanzi eccessivi, rimane intatto il problema del risanamento strutturale dei nostri conti pubblici, comunque impostoci dall’Unione europea.
Al riguardo, occorre ricordare che l’Italia, anche a seguito delle riclassificazioni
contabili operate da Eurostat, ha fatto registrare un disavanzo pari al 3,2% del PIL
nel 2003 e nel 2004 e destinato a mantenersi, nell’ipotesi di politiche invariate,
nettamente al di sopra del 3% nel 2005 e nel 2006.
Quanto al debito, il rapporto debito/PIL, pari al 106-107% nel 2003 e nel
2004, è tornato nuovamente a crescere nel 2005, risultando nettamente superiore
al valore di riferimento (del 60%).
Il debito, inoltre, non sembra destinato a scendere significativamente nel prossimo futuro, posto che il livello dell’avanzo primario, inferiore al 2% nel 2004, risulta pressoché nullo nei prossimi anni.
Rispetto al decennio scorso, in cui il rapporto debito/PIL si è progressivamente
ridotto dal 124,3% del 1995 al 106,6% nel 2004, l’ultimo DPEF prospetta nel
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2005 una inversione di tendenza, con una crescita del debito rispetto al PIL di 1,6
punti percentuali, passando dal 106,6% al 108,2%.
Sulla base di tale scenario, il 12 luglio scorso, il Consiglio ECOFIN, nell’ambito della procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia, ha adottato una
serie di raccomandazioni, dirette ad impegnare il nostro Paese a:
a) attuare con rigore il bilancio 2005, in particolare mediante la riduzione delle misure una tantum dall’1,4% allo 0,4% del PIL;
b) prendere le misure necessarie per riportare il deficit al di sotto del 3%, in
modo durevole, entro il 2007. Ipotizzando una crescita del PIL dell’1,5%
nel 2006 e nel 2007, il Consiglio ha raccomandato una riduzione cumulativa del disavanzo strutturale di almeno l’1,6% del PIL nel periodo 20062007, di cui la metà (0,8%) da conseguire nel 2006;
c) assicurare che il rapporto debito/PIL si riduca ad un ritmo soddisfacente,
conseguendo un avanzo primario di livello adeguato e prestando particolare
attenzione anche ai fattori diversi dal disavanzo netto, come le operazioni
registrate “sotto la linea” (vale a dire operazioni che non incidono sull’indebitamento netto ma soltanto sul debito);
d) proseguire il risanamento delle finanze pubbliche negli anni successivi al
2007 per poter raggiungere una posizione di bilancio prossima al pareggio o
positiva. In particolare, in linea con la nuova disciplina del Patto di stabilità
e crescita, il Consiglio ha raccomandato alle autorità italiane una riduzione
del deficit, in termini corretti per il ciclo, al netto delle misure temporanee e
una tantum, pari allo 0,5% del PIL.
A seguito dell’attivazione da parte della UE della procedura per disavanzo
eccessivo nei confronti dell’Italia, che ha richiesto l’attuazione di “misure di aggiustamento permanenti al netto delle una tantum che assicurino un aggiustamento cumulato pari all’1,6% nel biennio 2006-2007, rispetto al 2005”, l’aggiustamento strutturale cumulato indicato dal DPEF 2006-2009 risulta pari allo 0,8% del PIL nel 2006, dell’1,8% nel 2007, al 2,4% nel 2008 e al 2,9% nel
2009.
Rispetto all’andamento tendenziale, che prospetterebbe per il 2006 e per il
triennio successivo un indebitamento netto pari al 4,7% del PIL, il DPEF 20062009 ha fissato per il 2006 un obiettivo programmatico di indebitamento netto
pari al 3,8% del PIL, con un recupero dell’ordine dello 0,9% del PIL rispetto al valore tendenziale.
L’indebitamento netto programmatico risulta da un avanzo primario dello
0,9% (+0,8 punti di PIL rispetto al valore tendenziale) e da una spesa per interessi
del 4,7% (-0,2 punti di PIL rispetto al tendenziale).
Per il 2007, l’obiettivo di indebitamento netto è stato fissato dal DPEF del luglio scorso al 2,8% del PIL, in modo da scendere al di sotto della soglia del 3%, come concordato in sede europea.
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Nel biennio successivo la riduzione dell’indebitamento netto proseguirà fino a
raggiungere l’1,5% del PIL nel 2009.
In corrispondenza con la riduzione dell’indebitamento netto, dovrebbe registrarsi, a livello programmatico, un avanzo primario dell’1,8% nel 2007, del 2,5%
nel 2008 e del 3% del 2009.
Per quanto concerne il rapporto debito pubblico/PIL, il quadro programmatico presentato dal Governo prevede che nel 2006 il rapporto torni a scendere, rispetto al valore raggiunto nel 2005 (108,2%), al 107,4%; per quanto concerne gli
anni successivi, il rapporto debito/PIL dovrebbe ridursi al 105,2% nel 2007, al
103,6% nel 2008 e al 100,9% nel 2009.
Gli obiettivi fissati dal DPEF del luglio scorso sono stati confermati dalla Relazione revisionale e programmatica presentata il 30 settembre scorso.
Quali politiche per la riduzione del debito ?
• La matematica elementare del debito ci dice che la sua dinamica rispetto al
prodotto dipende da tre variabili: costo medio del debito, tasso di crescita nominale dell’economia, saldo primario fra entrate e spese al netto degli interessi: una differenza positiva fra costo del debito e tasso di crescita fa aumentare il rapporto fra
debito e prodotto nazionale; un avanzo primario lo fa diminuire.
Da tali semplici considerazioni si evince che, tra i diversi fattori in gioco, per
ottenere una riduzione significativa del rapporto debito/Pil occorre, in primo luogo, un avanzo primario stabile, ove stabile significa di natura strutturale, ossia in
primo luogo depurato da eventuali misure una tantum e da effetti ciclici.
Per raggiungere un tale obiettivo, funzionale al rispetto degli impegni stipulati
in sede Ue, va chiarito subito che, data la congiuntura attuale, la via dell’aumento
della pressione fiscale non è assolutamente percorribile, posto che così facendo si
deprimerebbero ancor di più la propensione al consumo e gli investimenti, ossia
gli stessi presupposti alla base di un possibile rilancio dell’economia.
L’eccesso della spesa corrente
• È evidente pertanto che il risanamento dei conti pubblici dovrà essere strutturale sul versante della spesa – che, nonostante decreti taglia spese e golden rule, è
cresciuta sensibilmente negli ultimi anni – ma non dovrà incidere né sulle tasche
dei cittadini e sulla qualità dei servizi loro offerti, né sui bilanci delle imprese che
vogliono crescere, rischiare e internazionalizzarsi.
Alla radice dei problemi di finanza pubblica in Europa e in Italia vi è, infatti,
un eccesso della spesa corrente.
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In troppi settori e in troppi ambiti, sussistono privilegi troppo ampi e generosi
in confronto alla capacità delle nostre economie di produrre gettito fiscale senza
imporre aliquote che disincentivino l’offerta di lavoro e gli investimenti.
Per ricondurre davvero la finanza pubblica in equilibrio è dunque indispensabile controllare la spesa corrente, eliminando inutili sprechi e ingiustificati privilegi, razionalizzando le spese dello Stato centrale e degli enti decentrati, secondo una
logica aderente al principio di sussidiarietà.
Considerati i vincoli di bilancio e la difficile comprimibilità della spesa corrente nel breve periodo, deve essere tuttavia altresì chiaro che, nel breve periodo, se
non si intende lasciare dov’è (108,2%) il rapporto debito/Pil, non sono nemmeno
immaginabili ulteriori tagli della pressione fiscale, benché posti in essere ai fini del
rilancio della domanda interna.
Obiettivi indifferibili del prossimo governo
• Il primo e indifferibile obiettivo di politica economica di qualunque Governo si insedierà nella prossima legislatura dovrà essere pertanto l’abbattimento dello
stock di debito e della relativa spesa per interessi.
Ma come? Principalmente attraverso due linee direttrici. La prima è quella della dismissione degli ancora cospicui assets pubblici di beni e valori mobiliari e immobiliari e, soprattutto, della loro “valorizzazione”. Quest’ultima è una parola
spesso abusata e che va riempita di significanti concreti, tra i quali ritengo debba
esservi in primis il maggiore coinvolgimento dei privati nella gestione di quell’immenso patrimonio pubblico di beni paesaggistici, storici, artistici e culturali di cui
l’Italia dispone. L’affidamento ai privati di tale patrimonio, anche mediante un
maggiore utilizzo dello strumento concessorio, oltre ad assicurare cumulativamente risparmi di spesa e maggiori e significativi introiti alle casse erariali, garantisce,
in definitiva, una migliore e più efficiente salvaguardia dei beni pubblici, ne estende in modo virtuoso la fruibilità collettiva e contribuisce nel contempo ad implementare quell’offerta turistica tanto importante ai fini del rilancio della crescita
dell’economia. Peraltro nei giorni scorsi l’ex ministro dell’Industria Giuseppe Guarino ha rilanciato una proposta di drastica aggressione del debito pubblico che merita quantomeno di essere vagliata con la massima attenzione prima di essere eventualmente respinta: attraverso la costituzione di una nuova società per azioni in cui
andrebbe a confluire una fetta rilevantissima del patrimonio dello Stato (partecipazioni nelle società quotate come Eni, Enel e Finmeccanica, e nelle società non quotate, immobili anche di valore storico, crediti, beni non utilizzati a fini pubblici ed
altro) stimabile in 430 miliardi di euro circa. La collocazione sul mercato di tale
holding, attraverso la quotazione in Borsa, secondo la proposta di Guarino, consentirebbe di abbattere in un solo colpo il debito pubblico al 70% del Pil.
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La seconda linea direttrice è rinvenibile nella lotta all’evasione e all’elusione fiscale e a quel 16,5% di Pil di economia sommersa – un dato che per molti analisti
e osservatori è sottostimato e che in realtà si attesterebbe tra il 25 ed il 30%, il doppio dunque della media dei paesi Ocse – che costituisce il vero ostacolo alla realizzazione di una equa ed efficiente politica fiscale. Le dimensioni del sommerso sono
tali da inquinare e condizionare negativamente qualunque intervento di politica
economica e, a mio avviso, il contrasto di questa propensione all’evasione che riguarda da vicino quasi tutte le fasce sociali, non può non costituire la priorità assoluta di qualunque governo.
A tal fine, andrà ulteriormente migliorata la disciplina vigente sull’immigrazione, soprattutto al fine di combattere l’evasione contributiva ; andranno introdotti nuovi incentivi per l’emersione del lavoro irregolare; sul piano tributario, oltre
al rafforzamento organizzativo dell’Amministrazione finanziaria e al coinvolgimento dei comuni nelle attività di accertamento (come peraltro previsto dalla
manovra finanziaria per il 2006) andranno introdotti – parallelamente alla ulteriore estensione degli studi di settore – nuovi meccanismi fondati sul c.d. “contrasto fiscale d’interessi” (in base al quale la lotta all’evasione si realizza anche con
l’ampliamento del novero dei beni e soprattutto dei servizi deducibili dal reddito
imponibile).
In questa direzione, testè molto sinteticamente tracciata, le risorse che via via si
libereranno dalla graduale riduzione della spesa per interessi potranno, in prospettiva, anche essere destinate ad una ulteriore riduzione della pressione fiscale e, in
tale ambito, ad una riduzione del cuneo d’imposta sul lavoro che, com’è noto, è tra
i più alti dei paesi avanzati.
Indispensabile uno sforzo corale
• Ma senza un sforzo corale per abbattere sensibilmente il fardello del nostro
debito qualsiasi tentativo di rilancio dell’economia condotto con una deviazione,
benché temporanea, dall’equilibrio strutturale dei conti pubblici, non potrà che essere velleitario e, in quanto tale, persino controproducente.
E aggiungo, da ultimo, che anche nell’ipotesi, verosimile, di una imminente
sostanziale ripresa dell’economia reale, quale che sia il Governo futuro, non dovrà
cedere alla tentazione, come invece ha fatto il centrosinistra nella scorsa legislatura,
di adottare politiche fiscali espansive pro cicliche; queste ultime, in periodi di crescita sostenuta, dovrebbero infatti essere generalmente evitate, proprio al fine di
consentirne il ricorso in periodo di bassa crescita.
Tra le ragioni delle attuali difficoltà di bilancio, anche in altri paesi Europei, vi
è infatti l’allentamento del processo di consolidamento fiscale negli ultimi anni del
secolo scorso (1999-2000), quando la crescita economica è stata relativamente so-
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Bruno Tabacci
stenuta e proprio per questo lo sforzo per il risanamento avrebbe potuto e dovuto
essere più consistente.
Così come, in questa Legislatura, sarebbe stato forse meglio non “impiccarsi”
all’iniziale programma elettorale, prendendo invece atto, con realismo ed onestà
intellettuale, di come le condizioni oggettive dell’economia avrebbero dovuto esigere maggiore rigore nelle previsioni di bilancio e maggiore lungimiranza e selettività nelle politiche di sostegno, troppo sbilanciate sulla domanda e sui consumi
privati, a discapito dell’esigenza di sostenere l’offerta – e dunque l’innovazione, la
ricerca e la qualità – delle nostre imprese nel nuovo scenario ipercompetitivo dell’economia globalizzata.
L’auspicio è che dunque non si ripetano, nel futuro, i medesimi errori, e che
chiunque assuma la responsabilità del Governo la eserciti con prudenza e senso
dello Stato, ma anche con il coraggio dell’impopolarità ed il senso della concretezza, per il bene del Paese e, soprattutto, delle giovani generazioni, sulle quali troppo
spesso ricadono gli errori del nostro passato.
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Il futuro dell’impresa italiana:
tra economia reale ed economia immateriale
Il cambiamento è caratteristica precipua dei sistemi economici: non ci può essere sviluppo economico senza un
continuo cambiamento dei modi di produrre, dei prodotti utilizzati, dei consumi e delle preferenze dei consumatori. La molla del cambiamento è la concorrenza, ossia la ricerca continua di fare meglio e di più, per riuscire
a vincere la competizione. Per questo i paesi che più sono immersi in un clima concorrenziale sono anche quelli che meglio e prima riescono ad adattarsi a nuovi assetti e finiscono pertanto per avere maggiori redditi e maggiore occupazione, pur se nel breve termine appaiono
più stressati e più “a rischio”, per i continui cambiamenti che si rendono necessari. Al contrario, i Paesi ove imprese e lavoratori sono al riparo dalla concorrenza, sembrano vivere nel breve termine in modo più disteso, ma
in realtà perdono posizioni e si impoveriscono in modo
irreversibile: questo ha dimostrato, tra le altre cose, l’esperienza dei paesi ad economia pianificata dell’area comunista, che si erano messi al riparo della concorrenza e
che hanno accumulato ritardi incolmabili.
Dal reale all’immateriale
• Se la concorrenza è lo stimolo del cambiamento e della crescita, l’innovazione tecnologica ne è lo strumento. L’innovazione non nasce per caso, ma è guidata dai bisogni
espressi dal mercato. E quindi, un mercato dove è forte la
concorrenza, esprime continuamente nuovi bisogni e premia le soluzioni in termini di profitti e successi. Per questo,
concorrenza ed innovazione tecnologica vanno di pari passo
e contribuiscono a modificare continuamente l’assetto delle
imprese di un Paese.
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
INNOCENZO
CIPOLLETTA
Presidente della UBS
Corporate Finance
(Italia) S.p.a.
e Presidente del CdA
dell’Universtà
di Trento
≈
“… una maggiore
competitività di
costo per sostenere
le nostre
esportazioni deve
essere una
costante della
politica e delle
imprese italiane …
(per) conseguire
più elevati livelli
di crescita in un
contesto
internazionale
profondamente
cambiato e
caratterizzato da
una nuova
divisione mondiale
del lavoro”
≈
65
Innocenzo Cipolletta
Lo sanno bene le imprese immerse nella concorrenza: le ragioni del loro successo sono anche le cause del loro possibile declino, se non sapranno innovare per
tempo, perché altre imprese le imiteranno con costi e innovazioni tali da metterle
fuori mercato. Sicché è normale che il tessuto produttivo di un Paese industriale si
modifichi di continuo e che tali modifiche siano più forti nei periodi di accelerazione dell’innovazione tecnologica, com’è l’attuale che fa emergere nuovi prodotti,
nuove modi di produrre e nuovi concorrenti che accedono per la prima volta alle
soglie del mercato.
L’Italia è in pieno in questa fase di trasformazione e, mentre si stanno esaurendo i fattori di successo che hanno contribuito a disegnare la struttura produttiva
del nostro Paese, stanno emergendo nuove tendenze e nuovi sviluppi che contribuiranno all’emersione di una nuova specializzazione.
Poiché ciò che tende a scomparire è ben noto e visibile e quindi genera preoccupazioni, mentre ciò che sta per emergere è ancora poco noto, meno visibile ed in
cerca di soluzioni ancora da definire, ne deriva che, nelle fasi di cambiamento sostanziale, nel Paese emergano più gli svantaggi delle perdite subite e dalle proteste
di chi perde posizioni, che i vantaggi del nuovo che verrà. È anche per questo che
ne deriva spesso l’immagine di un Paese in difficoltà, che sta abbandonando una
posizione nota, senza ancora sapere bene dove approderà. E questo spiega perché
in Italia ci sia molta più preoccupazione per le perdite di alcune posizioni, mentre
c’è poco interesse a quanto di nuovo sta emergendo.
Ma la tendenza che si sta materializzando per l’economia del nostro Paese, segue anche tracce già sperimentate da chi ci ha proceduto, pur se la via di uscita sarà
tipica delle nostre competenze. L’economia si sta spostando dal reale all’immateriale e questo caratterizza tutte le imprese, siano esse di beni che di servizi. La prossima specializzazione dell’economia italiana ricalcherà, verosimilmente, la specializzazione esistente oggi. E questo non è necessariamente un male o un limite, perché
la nuova specializzazione riguarderà più il modo di fare impresa che il settore o il
mercato di riferimento, che rimarrà, presumibilmente, quello tradizionale del nostro Paese.
Più servizi, dunque, ma non attraverso un processo di banale terziarizzazione
dell’economia, quanto in una evoluzione che sposta l’impresa dal reale all’immateriale, pur rimanendo saldamente ancorata nel campo industriale. L’Italia, a mio avviso, salverà la sua forte anima industriale, ma l’industria che sta emergendo non
sarà simile a quella, fin qui conosciuta, del miracolo economico o dei distretti dove
“piccolo è bello”. Sarà l’Italia dell’impresa densa di servizio e dell’organizzazione
della produzione personalizzata su scala industriale che sta emergendo dalla concorrenza internazionale. Un’Italia che saprà conservare le sue quote di commercio
mondiale, anche se porterà molta produzione fuori dai nostri confini. Un’Italia dove la cultura industriale, così radicata a livello locale, farà emergere nuovi modi di
produrre e di servire il mercato, più che nuovi prodotti.
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Innocemzo Cipolletta
Un nuovo modello di specializzazione
• L’Italia ristagna da alcuni anni, malgrado il sistema economico internazionale sia caratterizzato da una espansione relativamente forte, ma non tale da trascinare anche il nostro Paese. La crescita mondiale sembra aver lasciato ai margini dello
sviluppo il Vecchio Continente Europeo e le imprese italiane appaiono le più stanche. Certo, la crescita mondiale si è spostata ad Oriente ed il centro del Mondo –
che un tempo era il Mediterraneo e che poi si è spostato sull’Atlantico – ora sembra sempre più situarsi sul Pacifico. L’Europa appare distante, tanto che si parla di
vero malessere europeo.
Ma non tutti i Paesi europei si comportano allo stesso modo. Alcuni Paesi continuano un forte trend di crescita, come la Spagna ed alcuni dei Paesi scandinavi.
Altri, come il Regno Unito e l’Irlanda, appaiono più legati al mondo americano
che a quello europeo. La Germania e la Francia stanno recuperando terreno sul
commercio mondiale e tentano alcuni rilanci di domanda interna. L’Italia appare
più fragile in questo scenario: ancora alle prese con vecchi problemi irrisolti (debito pubblico, ritardo del Mezzogiorno, insicurezza interna, ecc.), mentre deve affrontare l’urgenza dei nuovi problemi a cui non può sottrarsi (immigrazione, tecnologie, invecchiamento della popolazione, ecc.).
Le cause del disagio italiano sono molte e molto si è discusso su di esse, fino a
teorizzare una sorta di declino industriale per il nostro Paese. Non sono così pessimista, ma è certo che l’Italia sta assistendo all’esaurirsi del modello di crescita che
l’aveva caratterizzata fino ad oggi e deve quindi adattarsi ad un nuovo modello.
Per molti anni la crescita del nostro Paese è stata assicurata dalle esportazioni e
la politica economica del Paese è stata coerente con questo obiettivo. Durante il
periodo del Miracolo Economico (anni ’50 e ’60) le esportazioni sono cresciute
grazie ai bassi costi di produzione del nostro Paese ed alla compressione della domanda interna, con il risultato di accrescere reddito e benessere di tutti. Ma con
l’aumento del reddito, sono cresciuti anche i costi di produzione, sicché per mantenere il nostro modello di sviluppo abbiamo fatto ricorso alle svalutazioni della lira (anni ’70, ’80 ed in parte ’90): il risultato è stato quello di mantenere una certa
capacità di crescita, ma a scapito di un impoverimento interno, generato dalla forte
inflazione derivante dalle svalutazioni e dall’aumento dei tassi di interesse e dell’indebitamento pubblico.
L’aver posto fine al circuito perverso “svalutazione – inflazione – impoverimento”
con l’ingresso dell’Italia nell’euro a metà degli anni ’90, ha migliorato nettamente il
livello di vita interno, ma ha peggiorato la capacità di crescita, per il venir meno del
traino delle esportazioni, che continuano a sostenere molte aziende italiane ma non
rappresentano più la componente più dinamica dell’economia. Di fatto oggi l’Italia
“sta meglio” perché ha un tasso di disoccupazione più basso di dieci anni fa, maggiore occupazione e da lavoro a molti immigrati, ma non riesce a crescere.
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Innocenzo Cipolletta
Se la ricerca di una maggiore competitività di costo per sostenere le nostre esportazioni deve essere una costante della politica e delle imprese italiane, tuttavia occorre
anche che esse si posizionino su segmenti di mercato che consentano, a loro ed al Paese, di conseguire più elevati livelli di crescita in un contesto internazionale profondamente cambiato e caratterizzato da una nuova divisione mondiale del lavoro.
La competizione massiccia a livello mondiale
• Siamo in una fase di eccesso di offerta di capacità produttiva a livello mondiale. L’ingresso sul mercato di produttori come la Cina e l’India in una fase di rapida diffusione dell’innovazione tecnologica ha comportato una competizione
massiccia sui settori tradizionali dell’industria con una forte riduzione dei prezzi e
dei margini di profitto delle imprese. Questo fenomeno era ed è inevitabile. Anzi
esso è auspicabile, dato che comporta il progressivo sviluppo di paesi ed aree finora
caratterizzati da una povertà assoluta. Nel medio termine, esso significa la crescita
di un mercato mondiale a dimensioni tali da consentire a tutti i paesi spazi significativi di crescita e di benessere. D’altra parte, ai suoi tempi, anche il nostro Paese si
è sviluppato grazie a comportamenti analoghi, guadagnando quote di mercato a
discapito di altri paesi, imitando ed innovando i prodotti che altri avevano immesso nel mercato e sfruttando i più bassi costi di produzione.
Ma, se nel medio termine l’evoluzione sarà positiva, nel breve termine questo
fenomeno sta determinando difficoltà a molti produttori. In realtà si sta osservando un processo di specializzazione produttiva a livello mondiale. Tale processo,
sempre presente sulla base dei vantaggi comparati, subisce accelerazioni nelle fasi
di eccesso di capacità produttiva, perché le imprese meno solide tendono a scomparire più rapidamente proprio perché la scarsa domanda rispetto all’offerta penalizza in modo più forte chi non ha capacità competitive di costo e/o di qualità.
La specializzazione produttiva tende a concentrare le attività produttive di una
regione o Stato in quelle che sono più vantaggiose ed in quelle che sono più protette in modo naturale: le prime hanno una protezione implicita nei vantaggi competitivi assunti grazie ad una tradizione di conoscenze e di abilità che difficilmente si
riesce a sostituire. Le seconde sono protette naturalmente perché si tratta di attività
che hanno scarsa competizione (commercio e distribuzione, servizi alle persone,
distribuzione di energia, editoria e comunicazioni, costruzioni, logistica, ecc.).
Il ritmo lento dell’Italia
• Per l’Italia questa evoluzione si sta traducendo, quasi paradossalmente, in
una sorta di cristallizzazione della nostra struttura produttiva sui settori tradiziona-
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Innocemzo Cipolletta
li. Infatti, perdiamo capacità produttiva ed imprese in settori in cui non c’è una
forte tradizione (in particolare nei settori tecnologicamente avanzati dove la presenza del Paese era già scarsa), mentre cresce la specializzazione in alcuni settori o
imprese tradizionali in cui abbiamo specifiche competenze e siamo tradizionalmente forti, malgrado essi siano in diretta competizione con i nuovi produttori
(alta moda, elettrodomestici di consumo, componentistica dell’auto, macchine
utensili, legno e mobilio di alta gamma, ecc.). Inoltre aumenta il peso e l’interesse degli imprenditori per i comparti “protetti”, ossia quelli in concessione (autostrade, energia, comunicazioni, attività locali, servizi, ecc.), dove la pressione
della concorrenza internazionale è inferiore o si manifesta più in termini di controllo che di presenza di attività produttiva. Ne sono esempi l’investimento forte
di capitali privati nelle telecomunicazioni, nelle autostrade, nell’energia, nelle
banche, ecc..
Una simile evoluzione avviene in molti dei Paesi europei, ognuno con le sue
specialità e con le sue protezioni. Non si tratta di rammaricarsi o di contrastarla per
perseguire ipotetiche altre vie. La cosa migliore da fare, a mio avviso, è quella di investire in questa tendenza per trarne il maggior vantaggi e posizionarsi meglio per
quando anche paesi come la Cina e l’India saranno grandi mercati di sbocco, oltre
che competitori temibili per le produzioni a basso costo.
L’industria dei servizi
• Seguire e favorire la tendenza in atto significa capire che l’economia si sta
spostando dalla parte dei servizi: l’industria dei prossimi anni sarà un’industria di
servizi, intesa nel senso che la componente di servizio nei prodotti industriali aumenterà notevolmente e che il consumatore finale – sia esso impresa o famiglia –
acquisterà sempre più prodotti industriali sofisticati, non già direttamente, ma attraverso un servizio. Questa è la rivoluzione che stiamo osservando e che consentirà alle industrie italiane di competere con paesi a più bassi costi di produzione e
di allargare la domanda interna che rappresenterà la componente dinamica della
crescita dei paesi di vecchia industrializzazione.
Il servizio è sempre stato una componente del prodotto industriale: basti pensare alla ricerca, al design, al marketing, alla commercializzazione, all’assistenza post vendita e così via. Ma finora questa componente è stata vissuta essenzialmente
come funzionale alla produzione manifatturiera, la cui logica era prevalente. Questo è il mondo delle commodities, ossia il mondo dei prodotti standard pur se con
diverse opzioni. La crescita dei servizi si è così manifestata essenzialmente attraverso l’outsourcing di funzioni di servizio che hanno generato molte imprese del cosiddetto “terziario avanzato”: dalle imprese di informatica a quelle di amministrazione, di engeneering, di marketing, di design, di progettazione, ecc.
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Innocenzo Cipolletta
Ma una nuova fase si sta presentando: quella dei beni industriali personalizzati,
pur se prodotti in quantità relativamente elevata. Si tratta di prodotti con un forte
contenuto di servizio inglobato dentro, perché studiati per le esigenze specifiche
del cliente: al punto che la manifattura del prodotto può essere anche delocata,
mentre prendono sempre maggiore consistenza e restano nel nostro Paese, tutte le
funzioni a più elevato valore aggiunto.
Questa “nicchia” di produzioni è sempre esistita, e in Italia è ben nota perché
rappresenta un comparto dove le qualità della nostra manifattura possono eccellere. Si tratta di imprese ove è presente, al tempo stesso, una forte componente artigianale, industriale e di servizio. Ma questo comparto è destinato a crescere in misura rilevante e ad assumere connotati industriali, grazie sia alla tecnologia che all’ampliarsi del mercato.
Innovazione tecnologica e flessibilità
• L’innovazione tecnologica sta rendendo flessibili i sistemi di produzione e
consente di adattare i prodotti a specifiche esigenze: basti pensare alla moda, con il
ritorno di vestiti “sartoriali” in produzione di serie, nel senso che il prodotto standard può essere adattato alle misure specifiche del cliente trasmesse per via informatica ai macchinari industriali che li producono. Ma il campo dove questa forma
di personalizzazione è più evidente è quello delle macchine utensili e degli impianti, che devono adattarsi alle esigenze dei clienti ed essere sempre diverse l’una dall’altra, pur avendo basi di ricerca e di soluzioni tecnologiche comuni. E questo è un
settore dove l’Italia eccelle e che sta allargando la sua quota.
Queste produzioni industriali nascono da una forte componente di servizio,
producono servizi (assistenza, adattamento, ecc.), occupano intelligenze e possono
essere montati vicino al cliente che spesso è localizzato in aree lontane. Basti pensare alle macchine a controllo numerico che sono vendute in tutto il mondo, essendo
l’Italia e l’Europa un mercato troppo ridotto.
Se queste produzioni sono sempre esistite e se l’innovazione tecnologica le sta
rilanciando, resta il fatto che il loro sviluppo è derivato soprattutto dall’ampliarsi
di una domanda che non è più locale. Posto che tali produzioni sono di gamma
elevata e, quindi, hanno un mercato relativamente ristretto, la loro crescita non
può avvenire che in caso di un forte allargamento del mercato. Questo è avvenuto
grazie alla globalizzazione che ha ampliato il mercato e fatto crescere la classe di
consumo (persone ed imprese) di fascia medio/alta che costituisce il mercato di riferimento di queste produzioni.
È così che, alta moda, macchine utensili, mobili, elettronica di consumo, ecc.,
sono comparti che sono cresciuti personalizzandosi e dotandosi di servizi impliciti,
tanto che meno rilevante appare oggi il sapere dove essi sono stati prodotti, mentre
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resta sempre più importante capire dove e chi li ha concepiti e chi assicura il servizio complessivo. Rientra in questa accezione il mondo dei marchi, il cui valore è
fatto da una somma di servizi che si sono consolidati nel tempo e consentono di
soddisfare esigenze sofisticate di una clientela di livello medio/alto, capace di remunerare costi elevati, che così coprono il valore del lavoro di paesi industriali che
non possono competere con i paesi di nuova industrializzazione presenti ornai sui
prodotti standard.
Rientra in questa accezione anche tutto il mondo della subfornitura di qualità,
per produzioni studiate assieme al committente e prodotte spesso in esclusiva per
lui. È la filiera delle competenze, dove una impresa concepisce e commercializza
un prodotto, la cui impostazione, produzione e assemblaggio è allocata presso una
serie di imprese italiane ed estere che hanno collaborato allo studio ed alla ricerca
delle soluzioni. Queste imprese operano con tempi di consegna predefiniti e certi,
in una ideale catena di montaggio estesa in tutto il mondo e che si materializza, di
volta in volta, con soluzioni diverse, a seconda delle opportunità e dei mercati da
servire. Impliciti o espliciti in tali filiere sono i servizi di logistica, di informatica, di
organizzazione e quanto altro renda effettivamente efficiente ed unica una simile
organizzazione.
Leader nei propri mercati di riferimento
• Questa tendenza all’immateriale nella produzione industriale si sposa bene
con la caratteristica di piccola impresa che continuerà a rappresentare una specificità italiana. Ma la piccola impresa di domani non sarà la piccola impresa che
abbiamo conosciuto fin qui. E questo perché la grandezza del mercato di riferimento influenza anche la grandezza delle imprese. Fin tanto che i mercati di riferimento sono stati locali, la dimensione delle imprese italiane era proporzionate
a tali mercati, nel senso che grandi, medie e piccole aziende erano riferite al mercato specifico. Si potevano così avere grandi imprese locali che invece risultavano
medie o piccole se confrontate con altre che operavano su mercati di dimensioni
diverse.
Partendo da questi presupposti, si può dire che, in epoca di globalizzazione,
con la estensione dei mercati ed il ridursi delle barriere locali, la dimensione media
delle aziende tende a crescere perché cresce il mercato di riferimento. Questo non è
sempre vero, ma può esserlo mediamente, se mercato globale significa la possibilità
di servire imprese e consumatori dislocati a distanza rilevante, con abitudini, comportamenti e regole diverse rispetto a quelle con le quali si è avuto a che fare fino a
ieri. In altre parole, nel mercato globale ci sarà sempre un posto importante per le
piccole e medie imprese, ma la piccola impresa del mercato globale dovrà essere
mediamente più grande della piccola impresa del mercato locale.
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Tuttavia questa affermazione merita un’ulteriore specificazione. In genere
quando si parla di dimensione aziendale si fa riferimento al numero degli addetti
o, meno frequentemente, al fatturato dell’impresa stessa. Questi riferimenti sono
senza dubbio utili, se non necessari, quando si fanno indagini statistiche per quantificare il fenomeno della piccola impresa e cercare di analizzarne i comportamenti
con riferimento a diverse variabili e situazioni. Tuttavia appare ben chiaro come
questa accezione della dimensione non sia sempre valida e risulti a volte incapace
di rendere a pieno il senso di dimensione aziendale.
In realtà il numero degli addetti di una impresa non pretende di delimitarne la
dimensione, ma sta ad indicare altre caratteristiche dell’impresa stessa: la quota di
mercato detenuta, la complessità della sua organizzazione interna, il capitale investito, l’esistenza di professionalità multiple, il numero e la qualità dei contatti con
l’esterno, la capacità o meno di ricorrere a servizi esterni, l’articolazione dei rapporti tra management e proprietà, gli investimenti in ricerca ed innovazione, la sua
proiezione sul mondo esterno, la capacità di influenzare il mercato di riferimento e
quella di prevederne le evoluzioni, il controllo esercitato da investitori istituzionali
e da autorità, e così via. Tutte queste caratteristiche possono concorrere a fare grandi o piccole le imprese. Da esse se ne deduce che anche imprese di dimensioni piccole, secondo l’accezione del numero degli addetti, possono essere considerate come imprese medie o grandi se riescono ad avere peculiarità specifiche come organizzazione, rapporto con il mercato, ricerca, ecc.
Le dimensioni delle imprese competitive
• Se è vero che la globalizzazione presuppone dimensioni maggiori delle
stesse piccole imprese, ecco allora che tale crescita non deve essere intesa solo come numero di addetti, o meglio essa non deve essere perseguita banalmente accrescendo addetti e fatturato, ma assumendo caratteristiche da grande impresa,
pur se si dovesse rimanere con lo stesso numero di dipendenti. Più in particolare,
le imprese piccole e medie di domani avranno a disposizione competenze, professionalità, organizzazione e contatti di livello non diverso da quello che oggi
caratterizzano una grande azienda. Ciò è possibile grazie alla specializzazione del
mercato che offre servizi che un tempo erano appannaggio della grande impresa,
perché essa era la sola che aveva la dimensione per produrli al suo interno. Oggi,
invece, è possibile acquistare sul mercato sistemi di organizzazione e servizi che
sono nati dall’outsourcing di funzioni interne di grandi imprese. Le piccole imprese, per crescere senza dover necessariamente aumentare di dipendenti, faranno ricorso a questi servizi, quindi dovranno avere una capacità di scelta e di valutazione che spesso è legata alla cultura ed alla esperienza. La globalizzazione in
atto presuppone un accrescimento delle competenze di tutti. Questo significa
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dover crescere per competere in un mercato globale, anche se si vuole, o si deve,
restare piccoli.
Ma la grandezza di una impresa è funzione anche del mercato di riferimento.
In altre parole, la quota di mercato detenuta e la capacità di influenzare il mercato
di riferimento sono fattori che hanno un ruolo non secondario nel determinare la
dimensione di una azienda, o meglio nel sapere se essa deve solo difendersi o può
attuare anche una strategia di attacco sul mercato.
La dimensione del mercato di riferimento non è un dato assoluto imposto dalle circostanze, ma può essere, entro certi limiti, una scelta dell’impresa stessa. Sempre più le imprese tendono a focalizzare la propria attività su ciò che sanno fare in
maniera eccellente, mentre si ricorre a committenti esterni per acquisire ciò che
non si sa fare o ciò che non conviene produrre in proprio. La scelta tra il make o il
buy per le imprese di tutte le dimensioni rappresenta una scelta fondamentale al fine di poter perseguire un’alta qualità.
Questa tendenza, che spinge sempre più verso una frammentazione del modello produttivo, implica anche la creazione di mercati tanto segmentati quanto lo sono le diverse parti o funzioni in cui si riesce ad articolare il processo produttivo.
Sono queste le “nicchie” produttive dove le piccole imprese cercano riparo dalla
concorrenza generalista delle grandi imprese: riuscire ad essere leader mondiale di
una piccola fase produttiva o di una specifico bene o servizio, consente alle piccole
imprese di poter dominare il proprio mercato di riferimento, di poterne influenzare l’evoluzione governando la tecnologia, di potersi imporre malgrado una dimensione ridotta. Certo, il vantaggio non sarà mai eterno perché altri concorrenti vorranno entrare in quel mercato, mentre non si potrà mai imporre la proprio volontà
all’acquirente, specie se è un a grande impresa, a rischio che questa ultima favorisca
la nascita di un concorrente o decida di internalizzare la funzione se le pretese del
fornitore appaiono troppo onerose. Ma, se si riesce a governare il mercato, seguendo le esigenze del committente, collaborando con esso, investendo in innovazione
e mantenendo una certa articolazione della clientela, allora si può essere una grande impresa pur rimanendo piccoli, perché si avranno ruoli e funzioni da grande
impresa, fino a poter essere dei veri monopolisti del proprio segmento di mercato.
Questa ricerca di nicchie produttive e di focalizzazione della produzione presuppone una organizzazione di impresa orientata al mercato, pronta al cambiamento e capace di mantenere elevate professionalità al suo interno. In altre parole,
presuppone una crescita dell’impresa che gli consenta di rimanere leader sul mercato di riferimento, ciò che costituisce una chance in più per operare sul mercato globale. E questa è una tendenza già visibile per le imprese italiane che si accentuerà
nel futuro. Già oggi siamo leader in specifici settori (freni per auto, macchine per
la stampa dei giornali, macchine per imballaggi, ecc.) dove imprese di media se
non piccola dimensione di fatto controllano quote significative del loro mercato di
riferimento e sono determinanti nel guidare le tendenze della tecnologia, dei prez-
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Innocenzo Cipolletta
zi. Molto più di quanto non lo siano le poche “grandi” imprese italiane che operano in mercati così vasti dove loro non controllano che quote marginali. Questo è il
caso, ad esempio, dell’automobile o dell’energia.
La domanda di servizi quale motore dell’industria moderna
• Ma anche la domanda interna giocherà un ruolo determinante nella nuova specializzazione dell’economia italiana. Infatti la crescita della domanda interna privilegerà sempre più i servizi, i cui contenuti di innovazione e di consumi industriali sarà una molla potente per la crescita qualitativa e quantitativa
del Paese. Come in altri Paesi industriali, l’Italia vedrà crescere una domanda di
servizi che impiegano e “consumano” consistenti volumi di prodotti industriali
moderni e sofisticati, la cui produzione presuppone imprese industriali capaci
di interpretare i nuovi bisogni: ossia imprese industriali di servizi come prima
descritte.
I consumi delle famiglie e delle imprese sono in misura crescente orientati verso i servizi moderni. Questo non significa che consumeremo sempre più servizi e
sempre meno beni. Significa invece che consumeremo molti beni non più in via
diretta, ma attraverso il ricorso ai servizi. Ed i beni che consumeremo attraverso i
servizi saranno spesso ben più sofisticati e moderni di quelli che consumeremo acquistandoli direttamente. Ecco perché una società con una crescente domanda interna di servizi è una società fortemente industriale, dove l’industria è moderna e
vicina ad i nuovi bisogni dei consumatori. Una industria che è anche tecnologicamente più avanzata e basata sulla ricerca, con contenuti di servizio superiori all’industria tradizionale dei beni di massa.
Di fatto, la struttura dei consumi delle famiglie si sta spostando verso i servizi,
sia per i nuovi bisogni, sia per quelli tradizionali. Basti pensare all’alimentazione,
che si sta spostando verso la ristorazione, sia nei momenti di lavoro che in quelli
del tempo libero. Lo stesso vale per i divertimenti, lo sport, il turismo, dove si tende sempre più, a non consumare direttamente i beni, ma si transita attraverso un
servizio. In questi casi, si usano beni industriali più moderni, più sofisticati e rinnovati in continuità, rispetto al caso di un uso diretto di tali beni.
Alcuni esempi possono aiutare a capire meglio. Mangiare a casa implica l’uso
di macchinari e tecnologie decisamente meno avanzati di quelli a cui si ricorre indirettamente quando si mangia in un ristorante o in una mensa, dove l’approccio
industriale della produzione impone macchine efficienti e tecnologie moderne.
Andare in una palestra per fare esercizi ginnici, oggi implica l’uso di macchinari
complessi ed una assistenza specialistica, mentre la ginnastica a casa propria comporta pochi acquisti di materiali e nessun servizio. Curarsi presso un ospedale, una
clinica o ricorrere ad un laboratorio medico, ci porta ad utilizzare macchinari sofi-
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sticati che mai potremmo avvicinare ricorrendo al medico di famiglia o curandoci
da soli con l’acquisto di medicine e macchine specifiche.
In tutti questi esempi – e facendo astrazione dalla soddisfazione personale – il
ricorso al servizio rispetto al “fai da te” implica un consumo indiretto di beni industriali sofisticato e basato spesso su ricerca ed uso di moderne tecnologie. Implica
quindi anche l’esistenza di imprese industriali che sanno rispondere alle esigenze
dei nuovi consumatori e che sanno servire il loro mercato di riferimento, direttamente connesse con le imprese che erogano il servizio, in una filiera di competenze
che fa crescere le imprese e fa sviluppare il Paese nella direzione dell’innovazione e
della ricerca.
Poiché questi servizi hanno spesso anche una certa protezione nei confronti
della concorrenza estera, posto che devono essere forniti in prossimità ed a contatto con il consumatore finale, questo orientamento della domanda verso i servizi è
un modo per mantenere quote di reddito e di lavoro nei Paesi industriali in fasi di
forte concorrenza estera da parte di Paesi di nuova industrializzazione. Se accanto a
questi servizi nasce poi la filiera industriale, allora anche questa filiera riceve una
sorta di protezione, almeno temporanea, che gli garantisce di potersi sviluppare per
competere poi nel mondo. Questa appare essere la tendenza di mercati come quello italiano, che potranno sviluppare segmenti di servizi densi di industria, così come l’industria si sta continuamente vestendo di servizio.
Liberare i servizi
• Le possibilità di sviluppo dell’economia italiana riposano dunque sulla capacità che avrà il Paese di rafforzare la specializzazione produttiva in atto, allargandola anche ad altri comparti, di far crescere le proprie imprese che devono orientarsi
sempre più sul contenuto di servizio della loro produzione, di far crescere un comparto di servizi professionali moderni, capaci di interagire con le imprese industriali e di far emergere una nuova domanda interna che privilegerà i servizi i cui contenuti di innovazione e di consumi industriali sarà una molla potente per la crescita
qualitativa e quantitativa del Paese.
Questa tendenza è comune a molte economie industriali, ma il nostro Paese
può accelerarla, beneficiandone dei vantaggi, o ritardarla finendo per stare più a
lungo nella fase del disagio. La via per accelerarla sta nell’ampliamento della concorrenza. Occorre eliminare molte delle protezioni esistenti che impediscono l’emergere di nuove imprese e di nuovi modi di consumo, ritardando gli adeguamenti necessari: ciò che non impedisce al paese di perdere le vecchie strutture produttive, ma rallenta e diminuisce la crescita delle nuove.
È necessario un processo di liberalizzazioni e di aumento della competizione
che acceleri le tendenze in atto: tutto il contrario di quanto spesso si chiede in fasi
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difficili, ossia protezioni per difendersi e prendere tempo. L’aumento di concorrenza favorisce la concentrazione delle attività in operatori più grandi, capaci di competere sul mercato interno ed internazionale. Di questo ha bisogno l’Italia per
competere nel mondo: operatori più grandi e più professionali, come è stato detto
in precedenza.
Liberalizzazione e competizione mondiale
• Le liberalizzazioni e la competizione sono essenziali se si vuole che i settori
naturalmente protetti crescano come dimensione, sviluppino una domanda di innovazione e ricerca e siano domani dei competitori mondiali, quando le loro protezioni verranno meno in seguito ai progressi della scienza e della tecnologia. Un
caso è emblematico: le professioni, che sono protette da legislazioni rigide, sono il
settore di maggior creazione imprenditoriale in molti paesi moderni. Avvocati, architetti, ingegneri, medici, giornalisti, ecc., stanno creando nel mondo imprese di
dimensioni grandi, capaci di essere presenti con loro filiali ed affiliati in tutto il
mondo. È così che si internazionalizzano attività che, per la loro natura, erano tipicamente locali e protette (consulenza giuridica, logistica, gestione di aeroporti, ingegnerizzazione di processi, progettazione di edifici e di complessi, ecc.). L’Italia,
invece, ha preso dei ritardi in questi settori perché la legislazione protettiva esistente e il sistema di corporazioni che si è costituito rendono ardua la trasformazione in
imprese di queste attività, ne impedisce la pubblicità, ne frenano la concorrenza
stabilendo prezzi e tariffe e così via.
È tutto il comparto dei servizi che necessita di maggiore competizione: professioni, commercio, comunicazioni, trasporti, finanza, distribuzione dell’energia,
ecc., sono i settori per i quali è opportuno accelerare la concorrenza, così come prevede la direttiva europea sui servizi (la cosiddetta direttiva Bolkestein), oggi boicottata in molti paesi europei. Un analogo processo di concorrenza e liberalizzazione
deve poi riguardare alcuni servizi collettivi, come l’educazione e la sanità che rappresentano i consumi privilegiati di domani.
Per mantenere le sue posizioni sui mercati mondiali, per crescere di dimensioni
e di capacità produttiva, per svilupparsi ed aumentare il livello del reddito, il nostro Paese ha bisogno di maggiore competizione e di maggiori liberalizzazioni.
Queste sono anche le chiavi per una ripresa economica, che non può più dipendere solo da capacità competitiva di prezzo, ma che deve riposare sulla qualità dei nostri prodotti e servizi e sulla capacità delle nostre imprese.
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Economia e sistema politico italiano:
un rapporto corretto o c’è qualcosa da
cambiare?
L’argomento che mi è stato assegnato può essere affrontato riflettendo sull’intera storia economia dell’Italia repubblicana e può dar luogo a tre tipi diversi di
risposte.
Il primo. Non vi è stato alcun rapporto fra il sistema
politico italiano e lo sviluppo economico dell’Italia. La
questione non si pone in quanto la crescita dell’economia italiana sarebbe avvenuta più o meno negli stessi
termini sotto un qualunque assetto politico, naturalmente di ordine democratico ed inserito nella economia occidentale.
Il secondo. Il sistema politico italiano ha dato un apporto positivo allo sviluppo della nostra economia. E
questo può essere assunto misurandone gli effetti sulla
base di qualche parametro quantitativo (livello di occupazione o divario Nord-Sud). Oppure sulla base di
qualche valutazione politica di aspetti socio-economici (divari sociali, livello e qualità del Welfare, tenuta
della famiglia, etc.).
Il terzo. La crescita dell’economia italiana è stata così
sostenuta nonostante il ruolo negativo che ha svolto il
sistema politico. Se quest’ultimo fosse stato più prossimo a quello di altri paesi europei, la crescita avrebbe
potuto essere più sostenuta, o più equilibrata, oppure
meno ciclica.
Le caratteristiche del nostro sistema economico
PIERO BARUCCI
Economista
≈
“L’Italia ha
bisogno di una
vera e propria
rifondazione che
è sì di norme e di
assetti produttivi
ma che è in primo
luogo di cultura,
di atteggiamenti,
di mentalità”
≈
• Avendoci convissuto, come cittadino di questa repubblica, so che si è trattato di un sistema fondato su un forte
potere di parecchi partiti di diversa dimensione, su un sistema parlamentare molto forte e governi tendenzialmente de-
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Piero Barucci
boli, con un partito comunista organizzato e continuamente alla soglia di un impegno governativo, con un sindacato dei lavoratori molto presente, attivo e forte,
con una rappresentanza imprenditoriale notevole.
Governi tendenzialmente deboli e di breve durata, hanno garantito una buona
costanza nell’indirizzo fondamentale della politica economica, una notevole stabilità nella alleanze internazionali, una radicata fedeltà all’impegno per la costituzione dell’unità europea.
Le cose sono un po’ cambiate dopo il 1994, con governi con una più lunga durata media, ma il condizionamento dovuto dai partiti “marginali” è sempre stato
assai marcato.
Nei quasi sessanta anni della vita repubblicana, la crescita economica è stata
notevole; nei quarantacinque anni fra il 1947 ed il 1992 è stata imponente. Sono
però mutate non tanto e non soltanto il ritmo, ma, e più che altro, le ragioni che
l’anno favorita. Gli anni del cosiddetto “miracolo economico” fanno storia a sé: la
crescita fu particolarmente elevata, con una inflazione assai bassa, i conti pubblici
in equilibrio e quelli esteri quasi.
L’economia italiana trasse gran vantaggio dalla favorevole congiuntura internazionale e dal recupero tecnologico conseguente la fine della seconda guerra mondiale. Una prima liberalizzazione degli scambi internazionali, resi ordinati dall’ancoraggio ad un dollaro moneta di indiscusso riferimento, favorì l’inizio della costituzione del mercato comune europeo, e permise all’Italia di trarre pieno vantaggio
da un andamento salariale inferiore a quello della produttività.
Si ebbe, per un lungo periodo di tempo, una saggia politica economica che,
utilizzando al meglio una congiuntura economia e politica assai favorevole, riuscì a
conciliare l’espansione insieme a significative misure di tipo riformatore. In breve,
e sia pure in modo troppo sbrigativo, può dirsi che in quel periodo il ciclo economico italiano era nelle cose; fu merito del sistema politico italiano non contrastarlo
anche se non si ebbero scelte storiche – esclusa la opzione europea – per assecondarlo esplicitamente.
È negli anni a seguire che l’indirizzo politico italiano diviene nettamente attivo, tanto da lasciare il segno della peculiarità sulle scelte generali di politica economica.
Tali scelte sono individuabili in: 1) una forte politica attiva della presenza pubblica nella economia italiana; 2) una politica di welfare diffusa e generosa nei suoi
diversi aspetti; 3) il ricorso ad una politica del cambio funzionale al recupero di
competitività per le nostre esportazioni.
Il fatto che queste scelte si siano mostrate al culmine in fasi diverse del periodo
che va fra il 1962 ed il 1992 non va trascurato; ma una trattazione più accurata richiederebbe spazi non disponibili in questa occasione.
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Piero Barucci
Le scelte di percorso
• Solo in punta di penna si può ricordare che la scelta del primo tipo era di
vecchia data nella esperienza storica italiana. Ma è indubitabile che tale presenza si
fece nel periodo particolarmente ampia sia per la nazionalizzazione della energia
elettrica, sia per il salvataggio “pubblico” di parecchie realtà industriali condotte da
privati, sia per l’acquisizione del controllo di banche “private” da parte di quelle
pubbliche.
Agli inizi degli anni ’90 le imprese pubbliche in Italia presentavano una copertura molto vasta, con punte di eccellenza, come si è poi visto, casi che necessitavano una profonda ristrutturazione, casi di palese decozione. Il numero degli occupati ad esse interessate era molto elevato. In non pochi casi, erano state soggetti attivi nella politica industriale italiana. Per loro la stagione delle privatizzazioni giunse alcuni anni dopo rispetto alle esperienze estere.
La scelta del secondo tipo era anch’essa nella storia dell’Italia, nel senso che, per
una ragione o per l’altra, l’Italia ha convissuto con una condizione del bilancio
pubblico in significativo squilibrio. Eppure, ancora agli inizi degli anni ’70, il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo era in Italia entro il famoso parametro di Maastricht. È negli anni successivi che inizia un profondo deterioramento
dei nostri conti pubblici; per qualche anno ciò accadde anche in altri paesi europei
i quali però, fino dai primi anni ’80, iniziano politiche di correzione fiscale. Il fatto
è che agli inizia degli anni ’90 l’Italia si presenta con queste caratteristiche: un saggio di inflazione che è il doppio di quello della Germania, un rapporto deficit-Pil
intorno al 10%, un rapporto debito-Pil intorno al 120% e con tassi di interesse
reali positivi (ed in qualche anno largamente positivi).
Vedremo fra breve, e conclusivamente, se questa fu una scelta consapevolmente
compiuta oppure subita a parte dal nostro sistema politico.
La scelta del terzo tipo fu invece lucidamente ed abilmente perseguita. Attraverso una politica internazionale in cui servivano abilità diplomatica e disegno di
più lungo respiro (non va dimenticato il ruolo avuto dall’Italia nel rilancio europeo
degli anni ’80), l’Italia fu in grado di utilizzare il cambio a favore della nostra industria e del nostro turismo. In pochi anni la lira fu ripetutamente svalutata rispetto
al marco tedesco, almeno fino a quando il processo di integrazione europea si fece
più stringente.
Gli effetti del trattato di Maastricht
• La conclusione è che durante questo lungo periodo, che giunge fino al 1995,
data dell’ultimo aggiustamento del cambio, l’Italia resse sì il ritmo di alcuni aggregati macroeconomici rispetto a quelli di altri paesi europei, ma non sulla base di
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Piero Barucci
vantaggi competitivi conseguito con politiche produttive e distributive di tipo europeo,
ma sulla base di una combinazione di abili adattamenti che non potevano durare nel
tempo.
Il resto è storia recente, quella di cui si parla tutti i giorni su tutti i giornali e
che, purtroppo, è scritta nelle serie statistiche che ci riguardano.
Nel momento in cui gli effetti del Trattato di Maastricht e sue successive modifiche si fanno sentire, fino all’avvento della moneta unica, l’economia italiana,
non potendo più utilizzare politiche di astuto adattamento di accorgimenti occasionali rispetto a disegni di più lungo andare, non riesce più a trovare nel suo interno vantaggi competitivi adeguati a fronteggiare una concorrenza divenuta
globale.
Per cui oggi, per la prima volta nella sua breve storia di paese unito, l’Italia è costretta a confrontarsi con la concorrenza internazionale solo utilizzando al meglio le
forze di cui dispone all’interno di un quadro composto di regole uguali per tutti in
un’epoca di completa globalizzazione del movimento internazionale dei capitali.
Una rifondazione di norme e di assetti
• Siamo ad un passaggio di ordine storico, del quale non mi sembra che il dibattito in corso tenga adeguatamente conto. Esso oscilla fra l’appello salvifico a
rendere d’incanto l’Italia un paese come gli Usa o la Gran Bretagna, ed il suggerimento ripetitivo di introdurre questa o quella misura. È utile il richiamo al quadro
d’assieme che dobbiamo raggiungere; e sono utili le discussioni su le misure che si
possono prendere.
Il punto da affrontare è però, purtroppo, diverso. L’Italia ha bisogno di una vera e propria rifondazione che è si di norme e di assetti produttivi ma che è in primo
luogo di cultura, di atteggiamenti, di mentalità. Ciò che ancora prevale è parte di
un mondo post-agricolo, di assistenza pubblica, di isola protetta da muraglie di vario ordine, in un momento in cui non è possibile più sottrarsi al vento irrefrenabile
che ci deriva dall’essere parte della concorrenza internazionale, in particolare di
quella dei capitali.
Questa vera e propria rifondazione non può che avvenire per via politica. Mi auguro che nella prossima campagna elettorale tutto questo possa fare almeno capolino.
Il ruolo della politica
• Torniamo alla domanda iniziale: che ruolo ha avuto in questo lunga, e per
molti versi gloriosa vicenda, il sistema politico italiano? Ed è tuttora in grado di
svolgere un ruolo, e, se affermativamente, in qual modo?
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Piero Barucci
Qui il giudizio è assai arduo, perché per gran parte ha natura storica. Il che
comporta di tener conto di molti fattori, il primo dei quali riguarda la geografia
partitica italiana e la presenza di un fortissimo partito comunista sia pure con un
rapporto del tutto particolare con la Unione sovietica.
Per cui, tutto compreso, mi sentirei di dire che per una cinquantina di anni il
nostro complicato sistema politico accompagnò la crescita della nostra economia, attenuando i conflitti sociali, ma non rendendo esplicito che ognuno di noi
stava utilizzando artatamente delle condizioni non solo irripetibili ma anche tali
che scaricare sulle generazioni future gli oneri che erano per noi dei vantaggi non meritati.
In questa sottaciuta verità, stanno probabilmente le difficoltà che ora si incontrano a dare una svolta profonda alla nostra politica economica. Per tutti noi ciò
che si è conseguito diviene una soglia dalla quale è difficile retrocedere; anche se lo
si è ottenuto per una casuale vicenda ereditaria.
Il punto in discussione diviene allora un altro, ed è questo. Se l’Italia (e non solo la sua economia) ha bisogno di una vera e propria rifondazione di cultura, di atteggiamenti, di mentalità (non parlo di valori per non scomodare parole che mettono paura), quale sistema politico e, perché no, elettorale può facilitarla?
Da non esperto di così ardue questioni, mi permetto di avanzare l’ipotesi che il
sistema politico attuale (e quello elettorale appena varato) è inadeguato.
Saranno anni, i prossimi, durante i quali il sistema politico italiano non potrà
limitarsi ad assecondare ciò che è di per sé in atto nella nostra economia, ma dovrà
cercare di indirizzarlo, orientarlo, piegarlo nel senso dovuto perché l’Italia possa
continuare ad essere un importante paese industrializzato, nel quale crescita, giustizia sociale, qualità della vita delle generazioni attuali e future possano essere congiuntamente conseguite.
C’è un severo lavoro da svolgere; inconsueto, che potrebbe comportare un rischio di impopolarità simile a quello che si guadagnarono sul campo i responsabili
governativi dell’estate del 1992.
Ma qualche lettura storica, oltre che una conoscenza critica diretta del mio
paese, mi dicono che la politica è divenire continuo i cui movimenti significativi si
scoprono molto spesso con qualche ritardo.
C’è tanto movimento oggi nella vita politica italiana, e mi pare di poter dire
che c’è anche del buono.
Nelle occasionali opportunità di incontro, nelle più diverse località italiane,
per motivi di ordine culturale, politico, economico, religioso, si incontrano tante
persone di tutte le età che manifestano la volontà per un forte sentire civile. Così
come, incontrando gli imprenditori, capita di scorgere una insospettata voglia di
reagire, di rischiare, di mettersi in gioco.
Il sistema politico italiano sarà quello che saprà essere dopo questa lunga fase di
disvalore della politica o di stanca ripetizione di riti del passato. Vedremo cosa av-
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Piero Barucci
verrà! Intanto i politologi potranno esercitarsi a disegnare il vestito ideale per l’Italia che verrà; la quale sarà ciò che tutti noi vorremo che sia.
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Le imprese familiari:
problemi di competitività
e prospettive di sviluppo
Il tema dei problemi e delle prospettive delle nostre
imprese familiari è oggi non solo di estrema attualità
ma anche di enorme rilevanza per il futuro del nostro
Paese. Prima di scendere nel dettaglio della nostra
analisi, che sarà di natura prettamente economica, è
però opportuno precisare le premesse fondanti da cui
intendiamo muovere. Alla base della nostra riflessione
vi è la convinzione che le innumerevoli piccole e piccolissime imprese che costituiscono il nucleo del sistema produttivo italiano ed europeo sono caratterizzate
da uno straordinario spirito di intrapresa, ovvero da
una cultura d’impresa, che significa non solo imprenditorialità, ma anche capacità di assunzione del rischio
non disgiunto però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa.
• Per quanto attiene poi all’idea di impresa che sottende
tutta la nostra elaborazione, vogliamo citare due passi assai
incisivi dell’Enciclica Centesimus Annus. Nel primo Giovanni Paolo II, richiamando l’attenzione sulle finalità dell’impresa e sui suoi costituenti essenziali, scrive: “Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto,
bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini
che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro
fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al
servizio dell’intera società.” (Centesimus Annus, n. 35). Il concetto è poi ulteriormente rafforzato allorché si mette in chiaro come al centro dello schema interpretativo di ogni realtà
imprenditoriale debba necessariamente sempre esservi l’uomo e il suo sviluppo integrale: “L’azienda non può esser considerata solo come una «società di capitali»; essa, al tempo stesso è
una «società di persone», di cui entrano a far parte in modo di-
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GIOVANNI
MARSEGUERRA
Università Cattolica
di Milano
≈
“In Italia
il fenomeno del
capitalismo
familiare è
probabilmente
ancor più rilevante
che negli altri
Paesi sviluppati…
Ed è dunque
ragionevole, in un
tale contesto,
che la capacità
manageriale
di una famiglia
sia adeguata alle
circostante e che
gli investimenti
possano essere
affrontati
rimanendo nel
nucleo familiare”
≈
83
Giovanni Marseguerra
verso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la
sua attività, sia coloro che vi collaborano con il loro lavoro” (Centesimus Annus, n. 43).
Nella nostra riflessione di natura economica, dunque, quando si parlerà di impresa, si intenderà sempre e comunque riferirsi ad una comunità di uomini al servizio
della società, al di là delle specifiche definizioni via via adottate e facenti riferimento alla dimensione o alla struttura proprietaria o alla tipologia di gestione.
Le piccole imprese del capitalismo familiare
• Se si volesse individuare un elemento di reale continuità nel contesto di rapida evoluzione che ha segnato il capitalismo italiano degli ultimi due decenni, lo si
potrebbe probabilmente rintracciare nella massiccia presenza di imprese possedute
e gestite da famiglie. Quando si voglia guardare in prospettiva al problema della
competitività e dello sviluppo industriale complessivo del nostro Paese, il naturale
punto di partenza dell’analisi è dunque costituito dal tema del capitalismo familiare, dei suoi problemi e delle sue prospettive. In effetti il tessuto produttivo dell’Italia, e per molti versi anche dell’Europa, è costituito in massima parte da piccole e
piccolissime imprese, le quali costituiscono una forma di imprenditorialità al contempo molto diffusa e di grande valore economico e culturale e possono a ben ragione essere considerate la principale forza propulsiva dell’innovazione imprenditoriale, dell’occupazione ed anche dell’integrazione sociale. La maggior parte di
queste piccole attività imprenditoriali è poi caratterizzata dalla sostanziale coincidenza che in esse si realizza tra proprietà e controllo, nel senso che una medesima
famiglia è al contempo coinvolta direttamente in maniera significativa nella gestione e detentrice di una rilevante quota di proprietà. I dati confermano che questa
peculiare tipologia di gestione, controllo e proprietà delle attività di produzione
rappresenta un fenomeno con una diffusione assolutamente rilevante a livello
mondiale e ancor più marcata nel nostro Paese. Sebbene in linea di principio non
sia del tutto esatto identificare la ridotta dimensione con la caratteristica familiare
(perché è ben vero che esistono piccole imprese che non sono a carattere familiare
e, d’altra parte, non tutte le imprese a carattere familiare sono di ridotte dimensioni), tuttavia è però certamente vero che la quasi totalità delle imprese piccole e delle micro-imprese ha un carattere fortemente familiare sia per quanto concerne la
proprietà sia per quanto attiene la gestione delle attività.
Il quadro europeo
• Vediamo alcuni dati. Per quanto attiene all’Europa intera, secondo i dati
EUROSTAT 2002 (si veda anche la Fig. 1), le micro-imprese (quelle con meno di
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Giovanni Marseguerra
Figura 1 - Indicatori imprese UE-15, Anno 2000 (Fonte: Eurostat, 2002)
10 dipendenti) rappresentano l’89,1% del totale delle imprese dell’Unione europea, forniscono il 27,8% dell’occupazione totale ed il 20,8% del valore aggiunto,
mentre gli analoghi dati per le piccole imprese (quelle con meno di 50 dipendenti)
sono il 9,1% (del totale delle imprese), 21,9% (dell’occupazione totale) ed il
19,9% (del valore aggiunto). Dunque, in aggregato, le micro e piccole imprese costituiscono a livello europeo quasi il 100% (esattamente il 98,2%) delle imprese,
quasi il 50% (esattamente il 49,7%) dell’occupazione totale e più del 40% (esattamente il 40,7%) del valore aggiunto totale. Questi dati da soli sono sufficienti a dimostrare la validità delle precedenti affermazioni sulla rilevanza, a livello europeo,
delle imprese a dimensione più ridotta.
Il quadro italiano
• Per quanto attiene poi più specificatamente all’Italia, i dati ISTAT 2004
confermano come nel nostro Paese, nel 2002, delle oltre 4,2 milioni di imprese attive nell’industria e dei servizi (con una occupazione totale di quasi 16 milioni di
addetti), ben il 95 per cento abbia meno di dieci addetti e come questa classe dimensionale abbia un peso in termini di occupazione pari al 47 per cento (si veda la
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Giovanni Marseguerra
Fig. 2), contro, ad esempio, il 21 per cento in Germania, il 22 per cento in Francia
e il 27 per cento nel Regno Unito. A conferma del fatto che il sistema produttivo
del nostro Paese resta caratterizzato dalla prevalenza della micro e piccola impresa,
il numero di addetti per impresa è pari circa a 3,8, un numero di gran lunga inferiore a quello delle altri grandi economie industriali. In termini di confronto con
gli altri Paesi europei, la dimensione delle imprese italiane dell’industria e dei servizi è in media pari a circa il 60 per cento di quella degli altri Paesi dell’Unione.
Sembra lecito nutrire qualche perplessità su una siffatta struttura del sistema
produttivo se è vero, come sembrano indicare gli ormai numerosi studi in materia,
che lo sviluppo della produttività dipende in maniera critica dalla dimensione dell’impresa: il punto è che, da un lato, l’innovazione richiede investimenti cospicui a
cui difficilmente possono far fronte imprese di ridotta dimensione (e questo è vero
specialmente nei settori a più alto contenuto tecnologico, dove la grande dimensione assume un rilievo spesso determinante), e dall’altro in taluni settori industriali sono presenti rendimenti di scala crescenti che comportano una perdita di
efficienza là dove la dimensione dell’impresa è troppo ridotta .
Figura 2 - Distribuzione dell’occupazione per classi di addetti - Italia, Anno 2002
(Fonte: ISTAT, 2004)
Il ruolo della politica
• Ma quale è l’esatta diffusione del capitalismo familiare, nel mondo in generale e in Italia in particolare? Non esiste invero una definizione di impresa familiare
che sia al contempo sufficientemente precisa da poter essere utilizzata nell’analisi
empirica e universalmente accettata così da permettere confronti tra diversi campioni di imprese. Ad esempio, in Corbetta (1995) si definisce familiare quell’im-
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Giovanni Marseguerra
presa in cui una o poche famiglie, collegate da vincoli di parentela, di affinità o da
solide alleanze, detengano una quota di capitale di rischio sufficiente ad assicurare
il controllo dell’impresa stessa, anche quando tale controllo venga esercitato in presenza di amministratori e/o manager esterni alla famiglia (ma di loro fiducia), fino
ad includere il caso in cui nessun membro delle famiglie controllanti sia impegnato
nella gestione dell’impresa (Corbetta, 1995, pp. 20-21).
È evidente come, anche attenendosi a questa definizione, in cui non viene specificata la misura del coinvolgimento della famiglia nella gestione né viene indicata la
consistenza della quota di possesso, non sia facile, senza ulteriori specificazioni, valutare con precisione la dimensione della diffusione del capitalismo familiare. D’altro
canto ogni ulteriore indicazione sui limiti da imporre alla proprietà e/o alla gestione
di una famiglia per classificare un’impresa come appartenente al capitalismo familiare rischia di essere, se non altro, arbitraria e dunque più difficilmente condivisibile.
Quello che si può certamente dire è che il mondo delle imprese familiari comprende
una ampia varietà di aziende con modelli di struttura proprietaria, di governance e di
gestione tra loro assai diversi e, qualunque sia il criterio adottato per definirlo, il capitalismo familiare rappresenta un fenomeno con una diffusione assolutamente rimarchevole a livello mondiale. Secondo le cifre fornite dall’organizzazione internazionale
Family Firm Institute (FFI), appartengono al capitalismo familiare tra l’80 ed il 90
per cento delle attività imprenditoriali del Nord America e circa il 75 per cento di
quelle del Regno Unito. Secondo i dati riportati da alcuni autori (Caselli e Gennaioli,
2003), due terzi delle imprese piccolo e medio piccole tedesche sarebbero gestite dai
proprietari mentre la proporzione di imprese possedute o gestite da famiglie nel
mondo sarebbe tra il 65 e l’80 per cento circa. Il capitalismo familiare inoltre sarebbe
responsabile di circa il 70 per cento delle vendite totali e dei profitti complessivi delle
250 più grandi imprese private Indiane e le 15 più importanti e facoltose famiglie
controllerebbero più del 60 per cento delle attività corporate quotate in Indonesia, tra
il 50 e il 60 per cento nelle Filippine e in Tailandia, più del 30 per cento in Sud Korea
e Hong Kong, e più del 20 per cento a Singapore, nella Malesia e a Taiwan.
In Italia il fenomeno del capitalismo familiare è probabilmente ancor più rilevante che negli altri Paesi sviluppati, e questo non sorprende anche perché, come
abbiamo visto, da noi la percentuale di micro e piccole imprese è particolarmente
elevata ed è dunque ragionevole, in un tale contesto, che la capacità manageriale di
una famiglia sia adeguata alle circostanze e che gli investimenti (necessariamente limitati) possano essere affrontati rimanendo nel nucleo familiare.
Alcuni profili economici del capitalismo familiare
• Esaminiamo ora quali siano, dal punto di vista della teoria economica, le
principali caratteristiche, e di conseguenza i principali punti di forza e di debolez-
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Giovanni Marseguerra
za, del capitalismo familiare (Marseguerra, 2004). Nelle piccole imprese di famiglia coesistono la forma dimensionale ridotta e il carattere familiare della proprietà
e del controllo, e se evidentemente ciascuna di queste due caratteristiche comporta
vantaggi e svantaggi specifici, è tuttavia l’interazione delle due a creare una specificità economica del tutto peculiare. I vantaggi e gli svantaggi della piccola dimensione sono ben noti: da un lato abbiamo la flessibilità organizzativa (con scambi
interpersonali diretti, frequenti e informali), la flessibilità produttiva (possibilità di
offrire prodotti personalizzati e di adeguare rapidamente l’offerta alla domanda), lo
stretto legame con il tessuto locale (che comporta la conoscenza approfondita del
mercato di riferimento e la possibilità di uno stretto contatto con i clienti); dall’altro vi è però la scarsità di risorse umane qualificate (che comporta una generale debolezza degli aspetti gestionali), la debolezza finanziaria (che comporta una generale difficoltà nel reperire risorse per gli investimenti e dunque, ad esempio, una scarsa propensione ad avviare attività di ricerca e sviluppo). Per quanto poi attiene al
carattere familiare dell’attività, come appare evidente, il principale punto di forza
del capitalismo familiare è costituito dalla sostanziale coincidenza che in esso si
realizza tra la proprietà e la gestione, tra il proprietario ed il manager. Non essendoci una situazione di delega da parte di chi detiene i diritti di proprietà nei confronti
di chi deve gestire gli asset societari, si evita che la gestione possa non essere in linea
con gli interessi della proprietà e vengono così fondamentalmente a mancare tutte
quelle situazioni di conflitto di interesse che si verificano invece nella grande impresa a proprietà diffusa e che comportano, per l’impresa stessa, la sopportazione
di alti costi.
A dire il vero, che un’impresa funzioni meglio se chi ha il compito di gestirla ne
detiene anche la proprietà può sembrare fin troppo ovvio. Tuttavia, quello che è sicuramente un vantaggio per lo sviluppo dell’impresa nella prima fase della sua crescita può invece rivelarsi un grosso limite nelle fasi successive. Il punto è che per
competere sui mercati globali le imprese devono poter trattare la dimensione come
una variabile strategica, e dunque essere in grado, all’occorrenza, di espandere l’azienda in risposta alle mutate circostanze esterne. Devono cioè poter aggiustare la
dimensione alle mutevoli circostanze in cui si trovano ad operare, scegliendo periodicamente la dimensione più appropriata alla situazione competitiva corrente.
Tuttavia, per poter crescere, è necessario saperlo fare. Vi sono, a questo riguardo, essenzialmente tre problemi che le piccole imprese a carattere familiare si trovano a dover affrontare nel loro processo di crescita. In tutti e tre i casi si tratta di
problemi di scarsità. Vi è innanzitutto la scarsità di risorse umane, da intendersi
non solo in riferimento al limitato numero di addetti ed alla loro generalmente limitata qualificazione, ma anche per quanto attiene alla difficoltà ad attrarre personale qualificato da inserire in azienda. Vi è poi la scarsità di risorse finanziarie, anche qui in riferimento sia alle limitate disponibilità interne per gli investimenti sia
per quanto attiene alla difficoltà a raccoglier capitale esterno, di debito o di rischio.
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Giovanni Marseguerra
Vi è infine probabilmente la scarsità più importante, vale a dire quella di cultura di
impresa, in riferimento sia pure in diversa misura, all’imprenditore, al dirigente e
all’operaio. Esaminiamo brevemente in successione queste tre grandi scarsità della
piccola impresa familiare.
La scarsità di risorse umane è una conseguenza diretta dello scarso sviluppo
della struttura organizzativa interna che da un lato conduce ad una ridotta capacità
di attrazione delle figure professionalmente più qualificate e dall’altro porta ad una
forte difficoltà a mantenere nell’impresa queste stesse figure, quando queste siano
presenti, in conseguenza delle ridotte possibilità di crescita personale offerte da un
ambiente ristretto anche culturalmente. La scarsità di capacità gestionali si manifesta tipicamente al momento della successione nella conduzione aziendale. In questa fase della vita di un’azienda, infatti, non solo la proprietà dell’asset passa da una
generazione alla successiva ma anche la gestione dello stesso passa da una generazione alla successiva, e si ha dunque quello che possiamo chiamare il fenomeno
della trasmissione intergenerazionale delle responsabilità manageriali. Ma l’identificazione tra proprietà e management implica necessariamente una forma di inefficienza (Caselli e Gennaioli, 2003), a meno che la distribuzione delle capacità gestionali non coincida esattamente con quella delle proprietà (il che appare abbastanza inverosimile). In presenza di eredi con scarsa attitudine imprenditoriale oppure in contrasto tra loro, si corre il rischio concreto che quanto è stato realizzato
dal fondatore sia rapidamente dissipato da successori non all’altezza del compito.
Potrebbe in questo soccorrerci la saggezza, molto pragmatica, degli americani in
forza della quale se è vero che agli eredi del fondatore va assicurato il patrimonio finanziario e la possibilità di gestirlo, è però anche vero che non può esistere un diritto ereditario alla successione manageriale (l’esempio spesso citato è quello del figlio di un chirurgo che, soltanto per diritto di nascita, dovrebbe essere in grado di
operare).
Risorse umane e sviluppo dell’impresa
• La scarsità di risorse umane è però una difficoltà strutturale del piccolo capitalismo familiare che è poi strettamente connesso alla terza scarsità sopra menzionata, quella culturale. L’accentramento delle funzioni di direzione e controllo in
una stessa persona, l’imprenditore fondatore, o in un ridotto nucleo di persone (i
familiari del fondatore), conseguenza del carattere familiare dell’impresa, comporta quasi inevitabilmente una forte de-responsabilizzazione delle altre figure presenti in azienda, in primo luogo quelle dirigenziali. Il problema culturale, consiste, in
estrema sintesi, nella difficoltà che incontra l’imprenditore nel separare l’azienda
da se stesso e dalla propria famiglia: questa difficoltà si manifesta sia nella riluttanza a perdere porzioni di controllo e di gestione, sia nella poca disponibilità a far
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Giovanni Marseguerra
crescere i propri dipendenti. Si può allora ragionevolmente sostenere che, in conseguenza della scarsità di cultura imprenditoriale che spesso caratterizza la piccola
impresa familiare, la forma organizzativa caratteristica del capitalismo familiare
comporta che il dirigente-manager esterno alla famiglia tenda tipicamente a diventare più un esecutore della volontà del fondatore-proprietario (o dei suoi eredi) che
un soggetto dotato di propria autonomia e responsabilità. Si genera così un circolo
vizioso in cui, da un lato, l’impresa non riesce a cogliere le opportunità di crescita
per insufficienza di competenze, professionalità e motivazioni e, dall’altro, non
crescendo, comprime sempre più le professionalità che sono invece presenti, demotivando al contempo i più intraprendenti. E allora si vede bene come il fenomeno tristemente noto della fortissima mortalità delle piccole imprese può essere
spiegato anche facendo ricorso a questo perverso meccanismo di selezione avversa.
Le nuove figure dell’impresa familiare
• Alla luce delle precedenti osservazioni si pone per la piccola impresa familiare il problema di riuscire a costruire una nuova figura (di dirigente, di quadro o anche solo di operaio) che abbia le capacità e le competenze adeguate alle nuove sfide
competitive della rivoluzione tecnologica. Vi è una crescente esigenza di nuove
competenze manageriali e professionali che, come abbiamo visto, spesso non esistono rimanendo all’interno del nucleo familiare. Questo sta comportando l’attivazione di un processo non semplice, ancora in una fase preliminare, di cooptazione dall’esterno di dirigenti, responsabili, e collaboratori i quali, per poter operare
efficacemente, richiedono discrezionalità ed autonomia. Comincia così ad avviarsi
un processo graduale di separazione tra proprietà e management e di nuova “divisione del lavoro manageriale” anche nelle piccole e piccolissime imprese che presenta specificità e peculiarità proprie. Ad esempio, in forza di questo processo di
apertura dell’impresa familiare, la legittimazione a ricoprire cariche direttive dovrebbe sempre più tendere a basarsi sul possesso effettivo di capacità e competenze
(i soli legami familiari non devono più, da soli, essere sufficienti). Un fenomeno
analogo sta interessando il cosiddetto “middle management” (cioè i quadri intermedi, i tecnici, ecc.) manifestandosi nella domanda, da parte di queste figure professionali, di una crescente autonomia e di un più marcato riconoscimento di ruolo.
Man mano che l’impresa si espande, e da piccola cerca di acquisire una dimensione più appropriata al contesto competitivo, non sono solo le ridotte capacità gestionali a mettere seriamente in difficoltà un processo di crescita comunque non
facile. Vi sono anche i ridotti mezzi finanziari. Se il patrimonio della famiglia non
è più sufficiente a finanziare la crescita, le strade che si presentano sono essenzialmente due. Gli investimenti necessari che non possono essere più finanziati con i
mezzi propri, lo potranno essere ricorrendo al capitale di debito oppure al capitale
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Giovanni Marseguerra
di rischio. E tuttavia, ricorrere al finanziamento esterno non è senza conseguenze
per l’attività dell’impresa: qualunque sia la soluzione adottata infatti, la separazione
tra la figura del finanziatore e quella del finanziato genera un conflitto di interesse
(tra manager ed azionisti oppure tra manager, creditori ed azionisti). Poiché i conflitti di interesse generano sempre dei costi per l’impresa nel suo complesso, con il
ricorso al finanziamento esterno si viene a perdere uno dei principali vantaggi dell’impresa familiare.
La specificità italiana
• Quale è, in questo quadro, la specificità italiana? Anche nel nostro Paese, la
difficoltà a reperire risorse finanziarie ha rappresentato (e tuttora rappresenta) uno
degli ostacoli maggiori alla crescita delle imprese. Il punto è che il finanziamento
degli investimenti continua a basarsi quasi esclusivamente sulle risorse generate internamente oppure sui prestiti bancari, e le imprese si sono sempre avvalse in misura alquanto ridotta della possibilità di reperire autonomamente sul mercato i capitali necessari a finanziare gli investimenti. Questa caratteristica delle fonti di finanziamento in Italia ha rappresentato, e in parte ancora rappresenta, una significativa
differenza rispetto a quanto avviene in molti altri Paesi e, in particolare, in quelli
del sistema anglo-sassone (Marseguerra, 2000).
Questo stato di cose ha effetti perversi sullo sviluppo delle attività imprenditoriali. Infatti le imprese, da un lato, si trovano a dover fronteggiare (per una pluralità di motivi) una grave erosione della loro capacità di autofinanziamento e, dall’altro, sono le prime vittime della scarsa cultura imprenditoriale degli intermediari
finanziari che tendono a valutare l’affidabilità di un’azienda quasi esclusivamente
in funzione delle sue disponibilità patrimoniali (con assai poca considerazione delle reali opportunità imprenditoriali). Un maggiore indebitamento inoltre comporta accresciuti oneri finanziari, riducendo così il livello degli utili e imponendo forti
limiti alle attività di ricerca. Tutto ciò rischia di impedire alle nostre imprese di cogliere importanti opportunità di crescita e di sviluppo.
Le fonti finanziarie
• Se poi si considera la difficoltà nel reperimento delle fonti finanziarie non
nell’ottica della singola impresa ma in quella più generale dell’insieme delle piccole
imprese, allora è il sistema economico intero che può incontrare gravi difficoltà
nella crescita e nello sviluppo. In altri termini, i tratti essenziali di un modello vincente possono trasformarsi in un ostacolo alla crescita per il Paese intero. La situazione attuale dell’Italia, con un forte rallentamento della crescita negli ultimi de-
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Giovanni Marseguerra
cenni, può forse essere spiegata, tra le altre cose, anche dalla particolare fase evolutiva
in cui si trovano le imprese del suo capitalismo familiare, incapaci di superare quella
che può essere definita una soglia critica dello sviluppo, determinata dalle limitate
capacità gestionali e dalle ridotte risorse finanziarie delle famiglie proprietarie.
Bisogna comunque ricordare, anche alla luce del recente sviluppo del mercato
dei capitali che si è avuto nel nostro Paese, in parte in conseguenza della maggiore
attenzione ai diritti degli azionisti di minoranza, che le possibilità di crescita per le
piccole imprese sono oggi di molto aumentate. E tuttavia il fenomeno della sottocapitalizzazione è ancora un problema rilevante e non risolto del sistema produttivo italiano.
Congiuntura e PIL
• Dal punto di vista congiunturale poi, l’Italia si trova certamente in una situazione molto difficile. Tutti i dati, per quanto imprecisi e indicativi possano essere, lo confermano. Prendiamo soltanto i dati sul PIL degli ultimi due anni: nel
2003 il nostro Paese è cresciuto appena dello 0,3% a fronte di una media europea
dello 0,5% (e del 2,5% della Spagna), di una crescita americana del 3,5% e cinese
del 9,3%. Gli stessi dati riferiti al 2004 ci dicono che l’Italia è cresciuta de 1,2% a
fronte di una media europea dello 2% (e del 2,7% della Spagna), di una crescita
degli Usa del 4,4% e della Cina del 9,5%. Le recenti stime e previsioni del Fondo
Monetario Internazionale per il 2005 e il 2006 non fanno poi ben sperare per il futuro, visto che si prevede che la nostra crescita resterà significativamente sotto la
media europea e ben sotto la crescita americana. Dunque se è vero che tutta l’area
UE ha avuto (e probabilmente continuerà ad avere anche nei prossimi anni) un ritmo di crescita assai rallentato rispetto a quello Usa ed internazionale, è però anche
vero che noi siamo andati (e probabilmente continueremo ad andare anche nei
prossimi anni) meno bene della media europea. A preoccupare ci sono poi i dati
sulla finanza pubblica, la perdita di competitività espressa dalla bilancia commerciale, le difficoltà della FIAT, la crisi dell’Alitalia, e si potrebbe continuare. Un quadro dunque poco incoraggiante.
I problemi della competitività
• Si pongono per l’Italia due problemi di competitività: quello della competitività del sistema-Paese, e quello della competitività delle nostre imprese. Secondo
il recente Global Competitiveness Report 2003-2004 elaborato dal World Economic
Forum, l’Italia ha subito nel 2002 un deciso calo di competitività rispetto ai 74
Paesi considerati dalla ricerca, scendendo nella graduatoria in un solo anno dal
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Giovanni Marseguerra
ventiseiesimo al trentanovesimo posto. Se si guardano i dati in maggior dettaglio si
scopre che, mentre siamo scesi al trentanovesimo posto per quanto riguarda il livello
di competitività come sistema Paese, occupiamo invece il ventiquattresimo posto come sistema delle imprese (rispetto al ventitreesimo del 2001) e il diciottesimo (rispetto al diciannovesimo del 2001) quando si prendano in considerazione in via ancora
più specifica direttamente le strategie e le prassi operative delle imprese. Questi dati
segnalano come esista in Italia un forte divario tra il sistema Paese nel suo complesso
e il sistema delle imprese. Prima di esaminare più diffusamente il problema della
competitività delle nostre aziende, consideriamo brevemente i nostri problemi strutturali. Per quanto attiene a questi, le nostre debolezze vanno ricercate nelle infrastrutture (materiali e immateriali), nell’energia (ricordiamo l’abbandono del nucleare, che
fu un errore gravissimo visto anche che importiamo energia nucleare da Paesi a noi
confinanti), nella Pubblica Amministrazione, nella distribuzione, nella formazione,
nel deficit di ricerca scientifica e tecnologica, nell’incapacità ad attrarre capitali esteri,
nel ritardo del Mezzogiorno, nel fisco oneroso e iniquo; e si potrebbe proseguire a
lungo. Tutte queste debolezze comportano aumenti nei costi di produzione, fanno
crescere l’inflazione, alimentano rendite. Una volta queste inefficienze venivano superate dalle svalutazioni impropriamente definite competitive, che adesso sono fortunatamente finite con grande vantaggio per il nostro debito pubblico e per l’abbassamento dei tassi di interesse. Ma alle stesse non è stata sostituita una politica di innovazione sistemica, i governi si susseguono ed i problemi rimangono (e le graduatorie internazionali sono lì a confermarlo). La questione è dunque quella di comprendere se il calo di competitività che stiamo vivendo rientra in un generale declino del
nostro sistema industriale (o prelude ad un prossimo declino) a favore di altri paesi
oppure se questi ranking internazionali di competitività, così negativi per noi, non
possono invece costituire lo stimolo per modificare in positivo la situazione.
Le prospettive di sviluppo
• La situazione di difficoltà in cui si trova il nostro sistema produttivo che, come abbiamo visto, configura una specifica emergenza italiana in una più generale
difficoltà europea, impone una riflessione più approfondita con un riferimento
specifico al problema dello sviluppo delle nostre imprese. Questo nella convinzione che, se è vero che dalle difficoltà dovute all’inefficienza infrastrutturale del nostro Paese, acuite dall’aggressività competitiva dei Paesi emergenti, si potrà uscire
solamente con accordi economico-finanziari di lungo respiro tra le parti sociali per
progettare ed agire in modo innovativo, è però anche vero che potremo avere successo solo se ognuno degli attori farà la sua parte. Imprese per prime.
In base all’analisi economica svolta, si è visto come nel medio-lungo periodo
sia necessaria una crescita dimensionale delle nostre imprese che permetta di po-
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tenziare gli indiscutibili fattori di qualità che esse oggi, nonostante tutto, esprimono
con straordinaria vitalità. Nell’attuale contesto fortemente competitivo l’espansione
dell’impresa, da intendersi in termini di crescita del fatturato, del capitale investito ed
anche del numero di addetti, è ormai una necessità ineludibile. Si pensi solo alla necessità di sfruttare le economie di scala e di scopo in conseguenza della forte competizione sui costi, oppure all’esigenza di competere su mercati sempre più internazionalizzati. Ebbene, coerentemente con l’impostazione di metodo e di valore del nostro
approccio e facendo riferimento all’impresa come comunità di uomini, il principio
che a nostro avviso, se correttamente applicato, può rappresentare la giusta bussola
per affrontare una situazione non facile, è quello della sussidiarietà (Quadrio Curzio,
2002), di cui sono ben conosciute le linee fondamentali e che è un principio cardine
della Dottrina Sociale della Chiesa in riferimento al modo di essere delle istituzioni
della società civile. In estrema sintesi, il nucleo centrale della sussidiarietà è costituito
dalla valorizzazione della persona, in particolare della sua dignità, autonomia, libertà
e responsabilità. Se si considerano le diverse sfere di autonomia costruttiva, cioè quella personale, quella familiare e quella associativa, potremmo dire che la caratteristica
principale della sussidiarietà è che la libertà e la responsabilità individuale devono
esplicarsi al massimo entro ciascuna di questa diverse sfere. Dunque la corretta applicazione del principio di sussidiarietà porta alla costruzione di capacità individuali e
collettive, favorendo la maturazione e l’accrescimento delle potenzialità dei singoli e
delle comunità di gestire in maniera attiva la propria vita sociale, lavorativa, familiare
e politica. La sussidiarietà può poi essere intesa, in un’accezione più generale ma anche con precisi contenuti operativi, come un principio metodologico di fondamentale importanza ed utilità pratica nella gestione della complessità: se si pensa infatti al
problema enorme delle interazioni che si realizzano tra le varie componenti di ogni
sistema complesso, nel principio di sussidiarietà si possono trovare le più corrette
chiavi di interpretazione di queste reciproche relazioni, vale a dire quelle che garantiscono autonomia e coesione tra le parti attraverso flessibilità e responsabilità.
La spinta della sussidiarietà
• Ma in che modo la sussidiarietà può concretamente aiutare le piccole imprese del capitalismo familiare nel loro indispensabile percorso di crescita? In un contesto come quello attuale, caratterizzato da una competizione aggressiva e da una
dinamica di rapidi cambiamenti, far crescere un’impresa significa permetterle di
avere continuità, ovvero permettere che l’impresa stessa si sviluppi “come comunità di uomini”. Ciascuna delle tre grandi scarsità che caratterizzano la piccola impresa familiare (di risorse umane, di risorse finanziarie e di quella particolare risorsa che abbiamo chiamato cultura di impresa) può essere efficacemente affrontata
facendo ricorso al principio di sussidiarietà.
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Per quanto attiene alle risorse umane, l’analisi svolta ha mostrato come si
ponga per la piccola impresa familiare il problema di riuscire a costruire una
nuova figura (di dirigente, di quadro o anche solo di operaio) che abbia le capacità e le competenze adeguate alle nuove sfide competitive della rivoluzione tecnologica. Le economie in generale esprimono un fabbisogno crescente di capitale umano, e le piccole imprese familiari in particolare richiedono risorse umane
sempre più qualificate e più formate. Se infatti è importante che sia elevato il livello complessivo delle conoscenze e delle competenze, è però fondamentale che
queste siano in grado di evolversi adattandosi alle continue trasformazioni in atto. In un’ottica di lungo periodo, risulta indispensabile innalzare il livello medio
dell’istruzione attraverso una opportuna valorizzazione del sistema scolastico ed
universitario. Tutto ciò richiede però tempo perché i vantaggi di queste politiche
si vedono con il passaggio di generazioni successive di giovani sempre più formati. Accanto dunque a queste iniziative di ampio respiro, è necessario procedere
anche in un’ottica di più breve periodo e, a questo riguardo, si impone la necessità che l’apprendimento accompagni tutta la vita delle persone, e non si esaurisca con la fase che è tipicamente dedicata all’istruzione. In questa ottica, assume
assoluto rilievo la formazione continua dei lavoratori già occupati ed anzi, idealmente, l’istruzione e la formazione professionale degli adulti non dovrebbero
presentare soluzioni di continuità, così da permettere di soddisfare in modo integrato le richieste del sistema economico e della società in generale. Dunque per
valorizzare le risorse umane e le professionalità, e per responsabilizzare le figure
dirigenziali, diventa essenziale l’investimento in formazione, che è lo strumento
principe per la gestione delle risorse umane, ma che è anche il mezzo essenziale
per promuovere la vera sussidiarietà. Questa impostazione metodologica ha inoltre il merito di porre al centro dell’analisi l’individuo, la persona, con i suoi diritti ed i suoi doveri (nel caso specifico, di apprendimento). In altri termini, quando si esamini in modo organico il processo di istruzione e formazione, ovvero di
apprendimento, è la responsabilità personale che viene ad assumere il ruolo principale, ed emerge allora chiaramente come solo attraverso il principio di sussidiarietà si possa ottenere una vera valorizzazione dell’individuo. Inoltre, questo tipo
di approccio, in cui la formazione degli adulti non è più residuale ma centrale,
accanto all’accrescimento personale ed al perfezionamento professionale, conduce anche, a livello macro, ad una maggiore coesione sociale ed ad una più sentita
partecipazione alla vita sociale.
La cultura imprenditoriale
• Vediamo infine brevemente come anche le altre due grandi scarsità della
piccola impresa familiare, quella delle risorse finanziarie e quella della cultura
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imprenditoriale, possano essere affrontate facendo ricorso agli strumenti della
sussidiarietà. Per quanto attiene alla finanza, osserviamo solamente come il problema consista essenzialmente nella accentuata prudenza, se non diffidenza, del
sistema bancario e creditizio, soprattutto delle banche più grandi, nello spirito di
intrapresa dei piccoli imprenditori del capitalismo familiare. Se per la scarsità
delle risorse umane lo strumento essenziale della sussidiarietà è quello della formazione, nel caso della scarsità di risorse finanziarie lo strumento essenziale è
quello del modello cooperativo per l’attività bancaria. La conoscenza del territorio, la vicinanza agli operatori economici, il radicamento nei mercati locali, l’inclinazione ad instaurare relazioni di lungo periodo, sono tutti tratti caratteristici
del modello cooperativo dell’attività creditizia che costituiscono un fattore di
vantaggio competitivo e che consentono di ridurre drasticamente i costi derivanti dalla valutazione del merito di credito permettendo in tal modo l’accesso ai finanziamenti bancari da parte di categorie di clientela che altrimenti ne resterebbero escluse.
Per quanto attiene infine alla scarsità di cultura imprenditoriale, lo strumento
essenziale della sussidiarietà è rappresentato dall’associazionismo che, nelle sue varie forme, rappresenta la strada per consentire alle piccole imprese di esprimere
tutte le loro potenzialità. Attraverso le associazioni imprenditoriali, ad esempio, le
imprese imparano a ragionare in un’ottica di sistema per sfruttare al meglio le economie di agglomerazione. Per mezzo di politiche orizzontali dirette ai sistemi locali, si possono ottenere miglioramenti di competitività, non della singola impresa,
ma di tutto il sistema. Una micro-impresa inserita in un sistema di imprese ha
maggiori possibilità di innovare, esportare e consolidare i propri risultati imprenditoriali.
Conclusioni
• La nostra analisi si propone come un primo passo verso lo sviluppo di una
teoria delle piccole imprese del capitalismo familiare basata sulla sussidiarietà ed ha
portato alla individuazione dei precisi strumenti di policy attraverso i quali questo
principio può trovare concreta attuazione. Che poi sulla sussidiarietà possa essere
costruita buona parte della teoria economica, non è opinione nuova. Basti qui ricordare cosa scriveva, quasi centocinquanta anni fa il grande economista John
Stuart Mill nel celeberrimo saggio On Liberty (1859): «Il male comincia, quando il
Governo, in cambio di incoraggiare l’azione degli individui e dei corpi collettivi, sostituisce la sua propria alla loro attività; quando invece di istruirli, di consigliarli o, all’occorrenza, di denunciarli davanti ai tribunali, li lascia in disparte, ne inceppa la libertà, o fa per essi i loro affari » (J.S. Mill, Della libertà, Sansoni, Firenze 1974, p.
156). Solo dunque se si saprà promuovere la vera sussidiarietà si potrà permettere
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al capitalismo familiare di continuare ad essere motore dello sviluppo e della crescita del nostro Paese e dell’Europa intera, consentendo altresì all’Italia di diventare
davvero europea.
Riferimenti bibliografici
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3767.
CORBETTA, G., 1995, Le imprese familiari: Caratteri originali, varietà e condizioni di sviluppo,
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MARSEGUERRA, G., 2000, “Governo delle Imprese e Mercati Finanziari: il Ruolo degli Investitori
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MARSEGUERRA, G., 2004, “Le sfide del capitalismo familiare”, «L’Impresa», n. 4, Giugno-Luglio,
2004, pp. 26-34.
QUADRIO CURZIO, A., 2002, Sussidiarietà e Sviluppo. Paradigmi per l’Europa e per l’Italia, Vita e
Pensiero, Milano.
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Debolezza dell’economia
o crisi del suo governo?
“Esiste una (…) serie di passioni le quali, nonostante
derivino dall’immaginazione, devono sempre essere
attenuate rispetto al livello a cui le innalzerebbe la natura indisciplinata, e questo prima che noi possiamo
prendervi parte o considerarle gentili o adeguate. Tali
passioni sono l’odio e il risentimento, con tutte le loro
diverse modificazioni. Riguardo a tutte queste passioni, la nostra simpatia si divide tra la persona che le
prova e quella che ne è oggetto. Gli interessi di queste
due persone sono direttamente opposti. Il nostro sentimento di partecipazione per l’una ci fa temere quel
che la nostra simpatia per l’altra ci porterebbe a desiderare”. (A. Smith, La teoria delle passioni, Parte I,
Cap. III, 1).
Le nostre passioni e la condizione dell’economia
• Si è voluto iniziare questa breve riflessione sulle vicende
economiche del nostro Paese con la citazione di un notissimo
passo di una delle più intelligenti opere di uno dei padri fondatori dell’economia moderna, perché involontariamente, ma
significativamente bene allude alla condizione sociale e subito
dopo politica della nostra Italia. Mentre tutti si dicono ossequiosi nei confronti degli autorevolissimi richiami all’unità e
alla solidarietà della massima magistratura dello Stato, altrettanti, subito dopo, sembrano dimenticare quei moniti, attribuendo all’altro una volontà negativa e promuovendo un desiderio di contrapposizione che sa molto di furbizia egoistica
pronta a strumentalizzare la inconsapevolezza dei più.
E in queste spesso fittizie contrapposizioni si finisce non
solo per perdere il senso dell’interesse generale, ma anche per
alimentare un disorientamento che retroagendo sulla situa-
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ANDREA BIXIO
Università
“La Sapienza”
di Roma
≈
“… si può ritenere
che oggi non si
possa più evitare
di dare priorità
direttamente alla
crescita. Cosa che
a ben vedere non
significa affatto
lassismo rispetto
alla spesa
pubblica; … vuol
dire operare
in modo molto
deciso sotto
l’aspetto della sua
riqualificazione”
≈
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zione contribuisce involontariamente a rafforzare il senso piuttosto di inimicizia
che quello, per usare di nuovo la terminologia di Smith, di simpatia.
Di modo che la convergenza indubitabile delle analisi sulla crisi italiana, che
pure provengono da settori ideologici spesso opposti, non riesce ad esercitare una
propria funzione virtuosa nell’individuare obbiettivi condivisibili, ma resta impotente, quando non attonita, di fronte all’emergere di un inconsapevole desiderio
del peggio, quando questo fosse imputabile all’altro.
Per reagire contro questo stato di cose, dunque, vale la pena richiamare l’attenzione su alcuni punti sui quali vi è un certo accordo e a partire dai quali sia possibile svolgere qualche riflessione problematica, utile per riprendere con animo sereno
il filo del discorso.
E per dare effetto a questa intenzione, bisogna subito ricordare che una certa
convergenza si verifica, quando si vada a guardare le ragioni della crisi partendo un
po’ da lontano; quando, cioè, ci si riferisca all’evoluzione dell’economia europea a
partire dal secondo conflitto mondiale.
Riflettendo su un non lontano passato
• Qualora ci si ponga in quest’ottica, non si può evitare di vedere che la crisi
viene da lontano e che quella italiana costituisce solo un segmento, con proprie
specificità, di un fenomeno più ampio.
Come è noto, infatti, i maggiori paesi europei hanno goduto di una crescita
ancora certamente alta negli anni sessanta (5,3%); ma questa crescita è venuta
sempre più diminuendo nei decenni successivi, fino a raggiungere il 2,2% negli
anni ottanta, il 2,1% negli anni novanta e un ulteriore deterioramento nell’ultimo
periodo. Il tasso di sviluppo ha seguito dappresso questo andamento anche se in
parte un suo indebolimento non doveva meravigliare, dal momento che si era partiti, dopo la seconda guerra mondiale, da condizioni che consentivano ampi margini di veloce espansione economica. Dunque un certo rallentamento della crescita
potrebbe anche essere ritenuto in parte fisiologico. Tuttavia è noto che il rallentamento è stata conseguenza anche di una specifica evoluzione della società, ivi compreso il compimento di quello stato sociale che, sorto alla fine dell’ottocento e sviluppato nel primo cinquantennio del secolo successivo, dopo la ricostruzione raggiungeva la propria massima realizzazione.
Processo, questo, che portò ad una espansione della spesa pubblica, in particolare della spesa corrente, ad un aumento progressivo della pressione fiscale e ad un
rallentamento della attività produttiva dovuto anche alle dinamiche salariali, nonché a cause esogene come la crisi petrolifera.
Il rallentamento dello sviluppo insieme all’espansione della spesa pubblica poneva i vari paesi europei di fronte ad una crisi di sistema, che si evidenziava già in
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tempi per così dire risalenti mediante la crisi fiscale dello Stato. Si ricorderà a tal
proposito che già nel 1977 Federico Caffè curò la pubblicazione del noto libro di
James O’Connor The Fiscal Crisis of the State del 1973, in cui l’autore riteneva doversi far fronte speditamente alla crisi fiscale, anche se questa di per sé non poteva
direttamente essere ascritta all’espansione della spesa sociale. Se si pensa che il volume di Milton Friedman Capitalism and Freedom è del 1962 e che The Affluent
Society di John Kennet Galbraith è del 1958, cioè che le posizioni ‘conservatrici’ e
quelle liberal erano già ben definite, si può facilmente comprendere di fronte a
quali ritardi sociali ci si trovi oggi, pur essendo stata la nostra cultura economica
ben consapevole dei termini dei problemi fin da tempi da considerarsi senz’altro
remoti.
Ma forse tutto ciò non può neppure tanto meravigliare, quando si voglia rileggere un breve passo sempre del libro di O’Connor: «Una miriade di ‘interessi speciali’ – grandi società per azioni, industrie, gruppi commerciali, regionali… – esercitano pressioni sul bilancio, affinché siano effettuati vari tipi di investimenti sociali. (Il sistema politico manipola queste pressioni in modi che devono essere o legittimati o nascosti all’opinione pubblica). Le organizzazioni sindacali e i lavoratori in generale avanzano svariate richieste, relative a consumi sociali di vario genere,
mentre i disoccupati e i poveri (insieme con gli uomini d’affari che versano in difficoltà finanziarie) esigono un aumento delle spese sociali. Ben poche di queste rivendicazioni sono coordinate dal mercato; quasi tutte sono manipolate dal sistema
politico, e in definitiva vengono accolte o respinte a seconda dell’esito di una lotta
politica. Proprio perché l’accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali avviene in una cornice politica, si hanno in grande quantità sprechi, duplicazioni e
sovrapposizioni nei progetti e nei servizi statali. Alcune richieste sono in conflitto e
si elidono l’una con l’altra; altre si contraddicono in una molteplicità di modi.
L’accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali è un processo altamente irrazionale sotto l’aspetto della coerenza amministrativa, della stabilità fiscale e di
una accumulazione privata potenzialmente redditizia». (Introduzione).
Questo stato di cose, come è noto, spinse gli Stati Uniti a mutare la propria politica economica diretta non più a sostenere e sviluppare la domanda, ma a rafforzare l’offerta, riducendo in parte la spesa pubblica e avviando un notevole indebolimento della pressione fiscale, facilitati in tutto ciò dalla possibilità di finanziare il
processo anche in deficit.
Così, mentre in Europa si proseguiva in una politica classica di sostegno della
domanda che inevitabilmente faceva crescere la spesa pubblica e il debito dello Stato, al di là dell’oceano grazie ad un riavvio della concorrenza ed alla modernizzazione dell’apparato produttivo, si recuperava in competitività e si tornava a rilevanti tassi di sviluppo. Per converso in Europa si passava nel breve volgere di sei anni
da un avanzo contenuto ad un notevole disavanzo che nel 1975 era già del 4,3%.
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Una divaricazione delle politiche economiche
• Come mai una tale divaricazione della politica economica dei due continenti? O più precisamente come mai una più decisa capacità reattiva degli Stati Uniti?
Vi sono certamente delle ragioni legate alla diversa struttura economica, al diverso
grado di organizzazione delle classi e di ceti sociali, al differente grado di ‘liberalismo’ presente nei due sistemi. È tuttavia da ricordare anche una diversa collocazione squisitamente politica con diverso grado di responsabilità globale.
Per gli Stati Uniti, a differenza che per l’Europa, era in gioco un proprio primato politico che si doveva fondare necessariamente su un primato economico. Se si
torna con la memoria a quegli anni, non si può evitare di ricordare che la grande
sfida geo-politica si era indirizzata verso la cosiddetta competizione pacifica con
una Unione Sovietica uscita da poco dal gelo staliniano. Ora, la base materiale su
cui tale competizione si veniva svolgendo era data, con piena consapevolezza degli
attori, dalla produttività. Non potendo scontrarsi con le armi, le due massime potenze non potevano affrontarsi che sulla base della competizione economica e alla
fine appunto su quella della produttività.
Ci si rammenterà anche che in quegli anni l’Unione Sovietica accettava la sfida
su un tale terreno, perché godeva ancora di buoni tassi di sviluppo, mentre nel
campo avverso si cominciava a parlare di declino americano. Le urgenze della storia e il maggior grado di responsabilità verso di esse, a parer di chi scrive spinsero
gli Stati Uniti a prendere coscienza dei propri problemi e ad impostare decise scelte
di politica economica per riportare la produttività del sistema a livelli che fossero
in grado di sopportare la competizione.
La storia degli anni subito seguenti ci mostra come la sfida lanciata dall’Unione
Sovietica sulla base della convinzione della superiorità della propria organizzazione
produttiva, effettivamente si svolgesse su un simile terreno; anche se il vincitore
non fu il sistema che in un certo momento aveva ritenuto di aver le armi migliori,
ma fu appunto gli Stati Uniti.
Al di sotto della illusoria cortina di ordine autocratico, per parafrasare O’Connor, i vari ceti sociali presenti nel paese del comunismo di Stato da un lato mantenevano alta la spesa pubblica (anche per la struttura giuridica stessa del sistema) accaparrando risorse sulla base di criteri politici e non di efficienza economica, dall’altro lato spingevano lo stesso Stato verso una condizione di crisi fiscale dissimulata appena dal tipo particolare di ordine politico. In fondo quello dell’Unione Sovietica, da questo punto di vista, può essere considerato come un caso limite di un
processo che investiva in quei tempi un po’ tutti i paesi. Un caso limite che si è risolto drammaticamente proprio a causa della radicalità e rigidità che caratterizzava
quella esperienza.
L’Europa, in particolare quella continentale, non aveva le responsabilità geopolitiche del suo partner; inoltre difficilmente avrebbe potuto rinunziare alla forte e
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rigida espansione dello Stato sociale e della spesa pubblica; perché, grazie a questa,
aveva nel secolo ventesimo arrestato l’espansione di una economia collettivista
(fondata su una radicale socializzazione e centralizzazione dei mezzi di produzione), legando a sé ceti e classi potenzialmente antagonisti. Dunque, per questi motivi (e naturalmente per molti altri ancora), da un lato non sentiva così urgente la
necessità di trasformare repentinamente la propria politica economica, dall’altro
lato, come in Italia, aveva difficoltà a farlo nel timore di alterare gli equilibri sociali
conseguiti pagando un altissimo prezzo.
Dunque, il nostro continente restò per molto tempo legato a politiche tradizionali, di sostegno della domanda, nella convinzione che l’ampliamento della spesa pubblica avrebbe dato un sostegno alla domanda e indirettamente alla attività
economica in maniera proporzionalmente maggiore dell’effetto restrittivo causato
inevitabilmente dall’aumento della pressione fiscale. Perciò, si proseguì sostanzialmente nella direzione consueta, ritenendo di poter mantenere non solo il livello,
ma in fondo la qualità stessa della spesa, e di poter pur tuttavia rilanciare l’attività
economica. Cosa che non è priva di senso, a patto, però, che la stessa spesa pubblica venga riqualificata fortemente depurandola delle diseconomie ed indirizzandola
in modo da costituire un elemento propulsivo del miglioramento della produttività totale dei fattori.
Ma tutto ciò significherebbe far corrispondere ad una prima fase di forte contenimento e riqualificazione della spesa sociale un rilancio di quella per investimenti altrettanto indirizzati all’aumento della produttività del sistema. Cosa più
facile da dirsi che da farsi, dal momento che, come si sa, in situazioni di crisi di bilancio la prima cosa che viene tagliata sono appunto gli investimenti.
E il nostro Paese?
• L’Italia si muove nel contesto europeo appena descritto, secondo politiche di
sostegno della domanda che hanno, come è noto, dato luogo ad aumenti notevolissimi della spesa pubblica e soprattutto dei disavanzi e del debito pubblico.
I dati sono notissimi, ma qui vanno richiamati sinteticamente al fine di rendere
più comprensibile la situazione. L’incidenza della spesa pubblica sul prodotto interno lordo a partire dagli anni settanta si è venuta espandendo, passando da circa
un terzo a circa il 58% nel 1993 e divenendo oggi maggiore di tre volte quella del
1970. A questa espansione tuttavia non ha corrisposto una adeguata copertura fiscale, dal momento che per molti anni la dinamica dello sviluppo delle entrate è
stata molto inferiore di quella relativa alla crescita delle spese. Nello stesso tempo a
causa dell’aumento della spesa in disavanzo (per molto tempo intorno al 10%), il
debito pubblico è passato in percentuale sul prodotto interno lordo dal 50% del
1972 al 125% del 1994; per poi ridiscendere, come è noto, lentamente anche a
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causa degli impegni di Maastricht, i quali in ogni caso con l’entrata nell’euro giovarono, consentendo una riduzione della spesa per interessi.
Tuttavia, all’espansione della spesa pubblica non corrispose affatto una sua virtuosa riqualificazione; cosicché essa non è mai apparsa dirigersi a migliorare la produttività del sistema; piuttosto a moltiplicare le diseconomie, a rilanciare i consumi,
nonché indirettamente l’inflazione (sempre superiore alla media europea). Cosicché
per molti anni la competitività del sistema è stata recuperata principalmente mediante le periodiche svalutazioni competitive; utili, perché hanno in parte contribuito a
rilanciare in particolare le esportazioni e la nostra quota nel commercio mondiale.
Questi i dati più grossolani della nostra situazione; rispetto alla quale è possibile condurre un discorso solo introduttivo, senza pretendere di voler chiarire nei
suoi molteplici aspetti la condizione di crisi del nostro paese.
Tuttavia, va ricordato, prima di passare a porci qualche interrogativo sul nostro
futuro, che se per certi versi la politica di sostegno della domanda è stata per molto
tempo analoga a quella degli altri grandi paesi dell’Europa continentale, le modalità e i contesti sono stati da noi profondamente differenti. A bassa inflazione, stabilità del valore della moneta, stabilità salariale e difesa del potere di acquisto,
performanti risultati della produttività totale e del settore industriale, nonché specializzazione in produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto, ha corrisposto
in Italia alta inflazione, instabilità monetaria, aumento nominale dei salari, indebolimento del potere di acquisto, specializzazione in settori tradizionali, declino
negli ultimi anni della produttività.
Le ragioni di questo diverso tipo di condizione vanno ricercate nella storia economica e nel percorso specifico attraverso il quale il nostro paese si è potuto sviluppare all’interno della divisione internazionale del lavoro; esse hanno condotto ad
uno sviluppo della spesa pubblica, l’aumento di valore nominale della quale, grazie
al processo inflativo in atto, per molto tempo è stato compensato dalla sua svalutazione. Cosicché l’espansione di quella stessa spesa ha potuto in una certa stagione
apparire non anomala, perché appunto compensata. Cosa che, però, paradossalmente ha facilitato di nuovo una espansione della stessa spesa pubblica.
Con tutte le sue carenze, tuttavia, il nostro modello, quello appena sopra descritto, ha svolto una funzione positiva; con esso si è riusciti ad un tempo a far
fronte a rapidissime e disordinate trasformazioni nella direzione di un mai visto
prima sviluppo sociale (che pur premeva sulla spesa pubblica) e a mantenere competitive le merci italiane sul piano nel commercio internazionale.
È noto che questo tipo di processo ad un certo punto si è dovuto arrestare per
vari motivi: il debito pubblico insostenibile, la riduzione mondiale dell’inflazione
che non poteva non essere perseguita anche da noi, pena la perdita di competitività, e che non consentiva più una riduzione del valore reale del debito, un nuovo
sistema internazionale fondato sulla stabilità monetaria, la istituzione dell’euro, i
limiti di Maastricht…
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Così si è passati da un risalente periodo in ci si cresceva più dell’Europa ad un
più recente momento in cui la tendenza si ritrovava completamente invertita, causata da problemi strutturali nostri, aggravati in parte dal rallentamento dei nostri
grandi partners commerciali.
E a tutto ciò si è aggiunta la globalizzazione economica dovuta non solo a ragioni economiche consistenti nella volontà di aumentare i volumi del commercio
mondiale e la crescita, ma anche politiche. Essendo la globalizzazione stessa per
certi versi un ampliamento di quella competizione pacifica fra occidente e oriente
che prendendo atto del carattere catastrofico della guerra globale, aveva indirizzato
i sistemi verso una competizione operata prevalentemente mediante l’esercizio delle politiche economiche.
Ora, in una tale situazione il nostro paese non poteva evitare di ritrovarsi di
fronte a gravi difficoltà. Così come l’Unione Sovietica non potendo risolvere come
già la Germania nazista i propri problemi mediante la guerra, aveva dovuto affrontare una rude ristrutturazione non solo economica, ma anche dolorosamente sociale, anche l’Italia non potendo esportare i propri problemi mediante l’inflazione e le
svalutazioni competitive a causa di vincoli esterni si è trovata ad un certo punto costretta ad una ristrutturazione economica che, se si vuole essere onesti, non ha potuto (e non può) evitare di dover far pagare dei prezzi di carattere sociale, o a danno di un ceto o in danno di un altro; e meglio sarebbe con danno distribuito secondo solidarietà collettiva.
In che modo tuttavia operare?
• Come è noto, all’inizio della ‘transizione’ italiana la priorità è stata data al risanamento delle finanze pubbliche; anche pagando qualcosa in termini di crescita.
Prima il debito pubblico, il disavanzo; poi lo sviluppo. Certo, se si va a vedere i
programmi politici, tutti dichiaravano di voler perseguire politiche ad un tempo di
risanamento e di sviluppo. Quando però si prende in considerazione il decennio
trascorso, si deve constatare che il contenimento del debito è stato in un primo periodo l’obbiettivo senz’altro primario. Obbiettivo centrato solo in parte e solo in
senso quantitativo, perché non si è operato a sufficienza nella direzione di una riqualificazione a fondo della spesa pubblica. Cosa che risulta con evidenza, quando
si vada a vedere il lento declino della produttività totale; declino accelerato dalla
globalizzazione economica.
Perciò oggi ci si trova in una situazione particolarmente complicata. Il disavanzo a causa della congiuntura è tornato a crescere, mentre il problema della crescita
si fa molto più assillante, non potendo attendere ulteriormente.
Dunque si può ritenere che oggi non si possa più evitare di dare priorità direttamente alla crescita. Cosa che a ben vedere non significa affatto lassismo rispetto
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alla spesa pubblica; al contrario vuol dire operare (che può essere di diverso segno)
in modo molto più deciso sotto l’aspetto della sua riqualificazione.
Così, sembra che le opzioni di massima presenti sul tappeto, per semplificare
siano due. Procedere speditamente verso politiche di rafforzamento dell’offerta, di
congrua riduzione della pressione fiscale (e qui ben vengano le proposte che in questo periodo vengono avanzate al fine di alleggerire l’economia del carico di una parte consistente del debito pubblico), di contenimento, riduzione e soprattutto riqualificazione della spesa pubblica, di liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei capitali, nonché del sistema bancario e del comparto dei servizi, non dimenticando tuttavia di evitare azioni provenienti anche dall’esterno, dirette a operazioni puramente
e semplicemente speculative anche nel settore industriale. Oppure continuare a sostenere la domanda con un carico fiscale inalterato, ma allora riqualificare ancora
più a fondo la spesa pubblica in modo che questa si dimostri idonea a incidere fortemente sulla produttività totale dei fattori; dunque mantenendo un ruolo attivo dello Stato in una condizione tuttavia che deve evitare le modalità di una lunga e non
sempre lusinghiera esperienza del passato. Politica che va comunque accompagnata
con le riforme (in parte già oggi avviate) in ordine agli aspetti già indicati a proposito della prima opzione. Politica difficile da portare avanti data l’inefficienza del
comparto pubblico e la resistenza di molti gruppi sociali, condizionanti le scelte
proprio di coloro che dovrebbero procedere speditamente nella direzione indicata.
Una via da intraprendere
• Quale di queste due opzioni è maggiormente percorribile dal nostro paese?
Questo è senz’altro l’interrogativo decisivo. Perché il problema italiano non è, come si è detto fin dall’inizio di queste considerazioni, quello di individuare i problemi o le politiche economiche da portare avanti, non è in altri termini culturale, ma
di altra natura. Il problema riguarda la decisione e la capacità di portarla ad effetto.
Subito sopra, esemplificando, sono state individuate due parzialmente differenti opzioni. Ambedue sono plausibili, perché, a ben vedere, costituiscono due
differenti modi per raggiungere un medesimo risultato. È possibile intraprendere
con decisione l’una o l’altra via?
Qui sorgono gravissime difficoltà. Infatti, il nostro paese, mentre in apparenza
è polarizzato in due schieramenti, la prevalenza di uno dei quali potrebbe produrre
la forza necessaria per poter decidere, nella realtà ha una struttura consociativa
profonda, per la quale a privilegi e protezioni di un ceto corrispondono altrettanti
privilegi di un altro; corrispondenze che possiamo rilevare anche all’interno di un
medesimo gruppo sociale.
In questa situazione le spinte all’innovazione sia di un segno che di segno opposto
finiscono per elidersi vicendevolmente, non riuscendo ad emergere e a sostanziare la
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Andrea Bixio
decisione di uno dei due schieramenti. Cosa che spiega le incertezze e le lentezze dei
governi sia di destra che di sinistra nell’imboccare una via che astrattamente potrebbe
anche essere quella più idonea dal punto di vista della propria ideologia politica.
Se è vero che il centrodestra riceve il suo consenso più caratterizzante, ad esempio, dal lavoro autonomo, mentre lo schieramento alternativo da quello dipendente, è anche vero che il secondo tipo di lavoro registra una sua rilevante presenza anche nella prima coalizione e viceversa. Così, quando si tenga presente che piccoli
scarti di voti possono ribaltare i risultati elettorali, risulta evidente che si è in ogni
caso politicamente condizionati da posizioni che in astratto potrebbero essere
estranee alle opzioni del singolo schieramento. Cosa che riguarda molti gruppi sociali fra cui non ultimo quello imprenditoriale.
Di qui il liberalismo più proclamato che reale del centro-destra; di qui il ‘socialismo’, di cui paradossalmente si deve parlare con qualche delicatezza nella sinistra
proprio a causa della egemonia culturale di gruppi ‘democratici’ non socialisti.
La ragione di tutto ciò la si può rinvenire nella storia stessa del nostro paese, il
quale per più di cento anni si è venuto sviluppando mediante una forte presenza
pubblica, una sorta di capitalismo di stato, con brevi momenti di politiche liberiste. Cosa che ha plasmato la crescita dei ceti sociali non mediante virtuosi rapporti
di netto confronto reciproco, ma attraverso forme consociative e corporative di tipo ora democratico, ora, purtroppo come si sa, di tipo autocratico e totalitario.
Così, ci si è trovati di fronte ad una società in cui ciascun gruppo era in grado
di condizionare l’altro e la totalità del paese.
Questo intreccio fra i vari ceti, da un lato ha sottratto la possibilità di istituire
una egemonia sociale capace di promuovere e affermare, pur democraticamente e
nel rispetto delle minoranze, specifiche scelte strategiche, dall’altro lato ha avuto
sempre più bisogno della spesa pubblica e di vari tipi di sostegno statale. Ha condotto, inoltre, ad indebolire la stessa azione dello stato dal momento che quest’ultimo da soggetto attivo e dominante è divenuto sempre più elemento servente le
mediazioni fra i ceti sociali.
Due contraddizioni
• Di qui una prima contraddizione: l’Italia è ancora strutturata in modo tale da
aver bisogno di una forte azione sul piano economico da parte dello stato, ma avendo indebolito la capacità propulsiva e innovativa di quest’ultimo, anche e soprattutto nella politica economica e nella riqualificazione della spesa, non trova soccorso
più in quell’architrave che ha fortemente contribuito alla modernizzazione del paese.
E poi ancora un’altra contraddizione: poiché alla rilevanza dell’azione statale
per oltre un secolo ha corrisposto una relativa debolezza del capitalismo privato,
nel momento in cui per ragioni geo-economiche e geo-politiche si è dovuto in par-
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107
Andrea Bixio
te abbandonare la leva statale, ci si è trovati di fronte ad un’ulteriore causa di debolezza; ad un esiziale indebolimento del capitale privato, il quale ha visto dissolversi
grandi gruppi industriali in settori decisivi come l’elettronica, la chimica, l’alimentare, l’informatica… in un momento in cui il sistema globale tornava ad assegnargli un ruolo centrale. Così, quando abbiamo avuto più bisogno dei privati, abbiamo assistito alla morte di molti grandi gruppi finanziari ed industriali potenzialmente idonei ad impostare azioni globali.
Cosa, dunque, fare in una tale situazione?
Prima di tutto sarebbe necessario che i gruppi sociali dominanti dei rispettivi
schieramenti premessero per spingere ad intraprendere azioni decisive tempestivamente; e perciò nella prima parte della legislatura.
E poi, direi che sono proprio le contraddizioni indicate che ci devono indicare
la via da seguire.
Per prima cosa bisogna dire che non si può rinunciare ad un ruolo forte dello
stato, intendendo, però, questo ruolo in modo affatto nuovo, che si fonda su due
capisaldi fondamentali.
Il primo consiste nel fatto che tale ruolo non significhi che lo stato debba interessarsi di produzione come ha fatto nel passato. Il secondo riguarda il capitale privato (naturalmente anche straniero a patto che non sia meramente speculativo). Lo
stato deve divenire il portatore di una domanda pubblica diretta a promuovere investimenti privati diretti all’innovazione. Perciò, veloce eliminazione di vecchie e
superate situazioni, trasformazione tecnologica degli apparati amministrativi in
senso allargato, ammodernamento o decisa sostituzione di sistemi di organizzazione e di comunicazione, altrettanto veloce sviluppo della ricerca e in generale azione
capace di orientare in collaborazione con le università, i centri di ricerca e i vari settori economici, lo stesso sviluppo tecnologico verso quelle tecnologie che contribuiscono al miglioramento della produttività totale.
Dunque, la spesa come spesa per investimenti e in particolar modo come volano per il rafforzamento del settore privato. Il rapporto con questo settore non come mera azione di sostegno dell’esistente, ma come ragione di sana concorrenza
delle aziende rispetto ad un mercato di origine pubblica orientato all’innovazione,
alla trasformazione e all’ammodernamento del cosiddetto sistema paese.
Questo l’aspetto più rilevante da sottolineare per far fronte ad una situazione
strutturalmente contraddittoria che finisce per spingere l’Italia verso un non tanto
poi lento declino.
Le riforme necessarie
• Il contenimento della spesa corrente, la riduzione della pressione fiscale, la
creazione di un nuovo e più flessibile sistema di garanzie sociali, un maggior tasso
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Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Andrea Bixio
di concorrenza soprattutto nei servizi… sono tutte cose necessarie, implicite nel
discorso che fin qui è stato sviluppato. Esse, come da più parti richiesto, riguardano riforme che si stanno tentando e che vanno compiute con maggiore consapevolezza e decisione. Tuttavia vanno inquadrate nello scenario che si è cercato di sinteticamente descrivere, perché altrimenti si potranno rivelare alla fine vane o insufficienti.
Se è difficile che noi possiamo diventare un paese anglosassone capace di trovare una Margareth Tatcher e di tenercela per lo meno per due legislature, meno impossibile è restare in qualche modo nel solco della nostra tradizione non abolendo
la tradizionale alleanza fra stato e capitalismo privato, ma all’opposto rivoluzionandola e rendendola virtuosamente capace di affrontare le nuove sfide.
E soprattutto fine di un processo di riforma rissoso e senza fine, nonché meno
produzione legislativa e più attenta implementazione e controllo dei processi di attuazione.
Per concludere
• Alla fine di questo ragionamento vorrei ricordare che essendo partiti da una
significativa citazione riguardante le passioni asociali, è opportuno chiudere su un
tema analogo e tuttavia speculare. Perché è senz’altro meglio concordare, pur soffrendo di qualcosa nell’immediato, di ripartirci i beni di un ritrovato sviluppo, che
accapigliarci per strapparci sempre più sottili porzioni di un reddito complessivo
declinante. Dunque, come ci ricorda il nostro moralista riprendendo il motivo
contenuto nella prima citazione, “Ciò che rende l’intera serie di passioni appena menzionate sgraziate, e, nella maggior parte dei casi, sgradevoli, è il fatto che la nostra simpatia è divisa di fronte a esse. All’opposto esiste un’altra serie di passioni che quasi sempre vengono rese particolarmente piacevoli e convenienti da una simpatia raddoppiata.
La generosità, l’umanità, la gentilezza, la compassione, la amicizia reciproca e la stima, tutte le affezioni sociali e benevole, quando vengono espresse nell’atteggiamento e
nel comportamento, anche nei riguardi di coloro che non sono particolarmente legati a
noi, compiacciono quasi sempre lo spettatore indifferente. La sua simpatia per la persona che prova quelle passioni coincide esattamente con la preoccupazione per la persona
che ne è oggetto”. (A. Smith, cit., Parte I, cap. IV, 1).
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109
La sfida della nuova economia e il tema
della formazione manageriale
Non da qualche anno, ma ormai da qualche secolo,
ogni nuova generazione di imprenditori si è trovata di
fronte mutamenti radicali che raramente è stato possibile affrontare con gli strumenti offerti dall’esperienza
precedente.
Economista
La sfida della nuova economia
• Non si è trattato soltanto di mutamenti ed innovazioni tecnologiche, anche se queste sono state clamorose e spesso travolgenti: basti pensare ai mezzi di trasporto, all’elettricità, all’elettronica, all’informatica, ai nuovi farmaci, e via
dicendo. Si è trattato anche, e forse in maggior misura, dei
profondi cambiamenti intervenuti nella società, nei comportamenti umani, nella continua alterazione delle aree economiche generata dalle vicende geopolitiche: basti pensare a
quanto avvenuto in Occidente con le guerre napoleoniche
nel secolo XIX, o con la prima e la seconda guerra mondiale,
con il crollo degli imperi multinazionali e la ridefinizione di
confini e mercati che ne è derivata. Non a caso Hobsbawm
ha definito il secolo appena passato “il secolo breve” per i
tanto rapidi e sconvolgenti avvenimenti politici ed economici che lo hanno caratterizzato. Ad ognuno di questi eventi
l’imprenditore ha dovuto reagire improvvisando nuovi strumenti, nuove tecniche, nuovi atteggiamenti e diverse strategie di penetrazione; quelli che ne sono stati capaci hanno
avuto successo; gli altri sono stati cancellati dal mercato.
ANTONIO ZURZOLO
≈
“La formazione
manageriale è un
compito complesso
e costoso,
ma irrinunciabile
se si vuole
progredire o,
addirittura, se non
si vuole regredire”
≈
Il “nuovo” della nuova economia
• Se questa è la realtà storica, ci si può chiedere cosa abbia di realmente nuovo la cosiddetta nuova economia. An-
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
111
Antonio Zurzolo
che oggi ci troviamo di fronte ad eventi inattesi che coinvolgono non solo la produzione e il mercato, ma il costume, la politica, intere nuove aree geografiche e popolazioni sino ad oggi ritenute al margine dello sviluppo economico mondiale. Ma
quello che è realmente nuovo, e che costituisce una sfida che non ha precedenti
storici, è l’ampiezza e la velocità dei mutamenti avvenuti negli ultimi anni. Le tecnologie hanno raggiunto livelli elevatissimi in ogni ambito e i processi innovativi si
susseguono senza sosta.
La rapidità delle comunicazioni e della diffusione dell’informazione non solo
economica, ma scientifica, sociale, culturale, favorita dall’introduzione e dallo sviluppo delle tecnologie informatiche al di là di ogni previsione, costituisce un possente fattore di accelerazione.
La combinazione di elettronica, computer, telecomunicazioni in un unico sistema integrato apre la porta a nuovi modi di gestire le attività economiche.
La globalizzazione dei mercati ha abbattuto le frontiere e aperto le porte alla
concorrenza mondiale. La dimensione nazionale per le imprese, salvo le piccolissime, non esiste più.
Questa constatazione si riferisce non solo al mercato di sbocco dei prodotti o di
approvvigionamento delle materie prime, ma anche a tutte le scelte e le opportunità di finanziamento, di localizzazione e persino di proprietà delle aziende stesse.
Queste affermazioni risultano immediatamente evidenti quando si tenga conto
dell’entità dei flussi commerciali e finanziari internazionali, di possibilità di quotazione delle aziende sulle borse internazionali, del merchant banking mondiale che
vede intermediari di un paese acquistare o vendere aziende di un altro paese per
conto di committenti di un terzo paese. Paesi emergenti crescono ad un ritmo impressionante e invadono i mercati anche dei Paesi industrializzati.
Fino all’inizio degli anni ’80, ad esempio, sarebbe stato impossibile immaginare che nell’arco di appena un decennio un Paese arretrato come la Cina potesse –
servendosi di un doppio dumping, sociale e valutario – occupare spazi sempre più
ampi di quelli che erano stati fino a quel momento i mercati tradizionali dell’industria manifatturiera occidentale (e che si tratti di un doppio dumping appare evidente quando si considerino le condizioni sociali dei lavoratori cinesi ed il fatto
che la Cina, a fine 2005, abbia accumulato riserve valutarie di oltre 700 miliardi di
dollari, pur con un reddito pro-capite di poco superiore ai 1.000 dollari).
La vera novità dunque non è rappresentata soltanto da eventi di questo genere,
ma dalla rapidità con la quale questi eventi si sono verificati, e dall’ampiezza che
questi fenomeni hanno raggiunto in tempi incredibilmente brevi. Da questo punto di vista, dunque, il secolo presente potrebbe già essere definito, parafrasando
Hobsbawm, “il secolo brevissimo”.
È chiaro che una situazione come quella adombrata presenta una serie di rischi
e di opportunità dei quali l’impresa non può non tener conto e non solo nelle strategie di medio e lungo termine, ma anche nell’operatività quotidiana.
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Antonio Zurzolo
La situazione dell’Italia
• Nel contesto globale sopra descritto, il nostro Paese si trova in una situazione
particolarmente difficile e delicata.
Secondo un recente rapporto di “Business International”, la competitività del
sistema Italia registra un arretramento di ben otto posizioni rispetto al 2002 e si
colloca al 31° posto nella classifica che prende in considerazione 60 Paesi, a notevole distanza quindi da quelli più avanzati (in Europa la Danimarca è al 5° posto, il
Regno Unito al 6°, i Paesi Bassi al 7°, la Francia al 14°, la Germania al 15°). Il nostro Paese è in fase di sostanziale stagnazione; produzione e produttività non crescono; le spese di ricerca sono tra le più basse tra i Paesi industrializzati; il problema
del Mezzogiorno è sempre grave.
Secondo un recente sondaggio congiunturale («Sole 24 ore» del 13 ottobre
2005) si stima che nel 2005 il Pil cresca solo dello 0,2% e il consumo delle famiglie
dello 0,7%; in flessione dello 0,3% gli investimenti. Modeste sono le attese di ripresa per il 2006: Pil + 1,1%; consumo delle famiglie + 1,2%; investimenti +
1,7%. Le motivazioni sono diverse.
Innanzitutto cause esterne all’impresa quali, oltre naturalmente la fase congiunturale sfavorevole, l’insufficienza di infrastrutture, l’eccessiva burocratizzazione della amministrazioni pubbliche, le distorsioni del sistema fiscale, le carenze del
sistema scolastico. Poi la peculiarità del tessuto produttivo costituito, in rilevante
misura, da imprese di piccole e medie dimensioni a conduzione familiare. Sono
poche le grandi imprese, in buona parte ex aziende pubbliche o a partecipazione
statale, e pochissime le società quotate in borsa.
Il sistema della piccola e media impresa italiana non sempre dispone della managerialità necessaria a garantire la competitività in un mercato globale e, soprattutto, risulta fragile la struttura dimensionale (patrimoniale e organizzativa) rispetto alla tipologia dello specifico settore.
Eppure anch’essa deve affrontare la concorrenza internazionale sempre più agguerrita sia sul lato della qualità e novità dei prodotti, sia su quello dei prezzi e, in
particolare, la concorrenza dei Paesi emergenti che non hanno tutti gli oneri e i
vincoli dei Paesi più avanzati.
Se questa è la realtà dalla quale non si può prescindere, ma vogliamo avere un
ruolo sul mercato globale (e in una situazione di mercato aperto alla concorrenza
internazionale non esistono possibilità di scelta: i rischi vanno affrontati e le opportunità subito colte, pena la progressiva emarginazione), è necessario scegliere
rapidamente linee strategiche lungo le quali muoversi e modelli organizzativi moderni ed efficienti.
Occorre perseguire in tempi brevi un vero e proprio riposizionamento strategico facendo emergere le potenzialità della dimensione (raggiungibile nelle diverse
forme e modalità di aggregazione) che deve essere adeguata al fine di conseguire
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Antonio Zurzolo
una migliore l’ammodernamento e il rafforzamento delle dotazioni tecnologiche,
la ricerca, l’innovazione (dei prodotti, dei processi, dell’organizzazione), subito avvertendo che le scelte non possono mai considerarsi definitive, ma soggette a continuo riscontro con le realtà operative e di mercato.
Sono operazioni che richiedono anche cospicui investimenti finanziari. Le trasformazioni dovranno essere affrontate non sotto spinte emotive, ma con analisi e
valutazioni adeguate alla rilevanza dei problemi che comportano. In questo processo di progressivo e incessante assestamento essenziale e determinante è l’azione del
management.
La formazione manageriale
• Ci si può dunque porre il problema del tipo di formazione manageriale più
idoneo ad affrontare temi di tanta ampiezza e di tanto peso, dai quali dipendono
non solo la sopravvivenza e lo sviluppo di imprese e di interi settori industriali, ma
addirittura la possibilità del mantenimento di adeguati livelli di occupazione e di
reddito nelle maggiori economie occidentali. Tuttavia quanto detto in precedenza
sulla crescente interrelazione dei mercati e delle economie porta inevitabilmente a
porre il problema in termini più ampi. Il contatto con strutture sociali, economiche e culturali diverse, per essere fruttuoso, presuppone un allargamento delle conoscenze non solo linguistiche, ma anche giuridiche, economiche e culturali nel
senso più ampio del termine.
Per tornare alla Cina, si può ricordare che i primi successi nella diffusione del
cristianesimo in quell’immenso Paese furono ottenuti dal p. Matteo Ricci soltanto
dopo averne assimilato a fondo la cultura, la filosofia e la religione, e che solo dopo
essere stato cooptato tra i saggi e gli scienziati del Celeste Impero gli fu possibile
svolgere la propria funzione missionaria e culturale.
La componente culturale
• Ora, appaiono evidenti due cose: la prima è che la formazione manageriale
deve poggiare su una solida base culturale in senso ampio, e ciò non può che avvenire nella scuola superiore: quindi inglese, informatica, economia, e imprenditorialità non possono essere condizioni sufficienti (pur essendo necessarie) al successo economico di un individuo o di un Paese. La seconda, che non è possibile accostarsi in modo serio a culture diverse dalla propria se prima non si conosce, appunto, la propria. E qui tocchiamo un tasto particolarmente dolente del nostro sistema
scolastico che, per eccessiva permissività e scarsa profondità di studio, porta i giovani a completare i propri cicli formativi – inclusa l’università – in condizioni di
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Antonio Zurzolo
deplorevole ignoranza della propria storia e perfino della propria lingua, per non
parlare di quelle altrui: condizioni sulle quali appare difficile impostare quella che
dovrebbe essere una formazione aggiuntiva e complementare e non esclusiva, quale
deve essere quella manageriale.
L’esperienza dell’IRI
• Il tema della formazione manageriale si è affacciato in ritardo nel nostro paese a causa della frammentata struttura del sistema produttivo, costituito in gran
parte, come già detto, da piccole e medie imprese a conduzione familiare.
Solo con il crescere delle dimensioni aziendali, la nascita della grande impresa,
la separazione tra proprietà e gestione, il problema è venuto alla luce.
Vale forse la pena ricordare come, in passato, questo problema sia stato affrontato con notevole pragmatismo, e con un discreto successo, dall’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), nato nel 1933 proprio per supplire alle carenze e ai
fallimenti della grande industria e della finanza privata con un apporto, oltre che
di fondi pubblici, di managerialità tecnicamente all’avanguardia e non connessa,
com’era stato per il passato, alla proprietà. L’IRI aveva creato istituti di formazione,
indirizzati sia ai dirigenti italiani che a giovani funzionari dei paesi in via di sviluppo nei quali, alle docenze accademiche che davano una pregevole base teorica agli
studi, si affiancavano testimonianze e corsi tenuti da tecnici e da managers sia interni che esterni al gruppo1. Iniziative analoghe sorsero poi nell’ambito di altri
gruppi pubblici e privati. Le dimensioni del fenomeno erano tuttavia piuttosto circoscritte. In generale la dirigenza si autoformava in ambito aziendale e, spesso, nel
ricoprire le posizioni di vertice si cercava di fronteggiare le difficoltà contingenti.
Così, nei decenni passati abbiamo assistito all’avvicendarsi nella conduzione manageriale di figure molto diverse: i tecnici, negli anni della ricostruzione postbellica, i
commerciali nei momenti di crisi del mercato; i controller nelle fasi di consolidamento, i finanziari, nel più recente processo di razionalizzazione e riaggregazione del sistema produttivo sia sul piano nazionale che su quello internazionale. Tutte le figure che
avevano ed hanno tuttora, un ruolo importante e insostituibile in azienda. Tuttavia
hanno anche dei limiti. Il tecnico perché è portato a concentrarsi sulla produzione e
sulle relative tecnologie a volte senza tenere sufficientemente conto – dei costi e dei
possibili vantaggi competitivi della concorrenza; il commerciale per la propensione ad
esaltare i volumi a scapito dei prezzi; il controller per le caratteristiche proprie delle sua
1 L’esperienza IRI vide la partecipazione ai corsi di management di oltre 3.200 stranieri e di un
numero ben più consistente di dirigenti del gruppo. Tra gli istituti di formazione dell’IRI vanno ricordati la scuola Reiss Romoli che ha formato una classe di dirigenti e tecnici nel campo delle telecomunicazioni, e le scuole di formazione delle BIN (Banche di interesse nazionale) nel settore bancario.
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Antonio Zurzolo
funzione il finanziario per la tendenza a privilegiare il capital gain di breve-medio termine rispetto allo sviluppo e alle strategie di lungo respiro.
Non è certo il caso di elencare quali imprese italiane rientrano nei citati raggruppamenti, ma gli esempi sono evidenti e le conseguenze sulla crisi dell’apparato
produttivo non possono sfuggire all’osservatore attento .
Non è dunque questo l’approccio giusto. Se si vuole affrontare con successo
l’attuale scenario competitivo occorre creare una solida cultura manageriale.
L’identikit del vero manager
• Il vero manager, almeno con riferimento alla grande industria2, non può essere
né un puro tecnico, né un puro venditore, né un puro controllore o un puro finanziario; deve invece possedere sufficienti conoscenze e abilità in tutti questi campi e altri ancora per poter gestire con cognizione di causa i suoi collaboratori; deve avere
grandi doti di sintesi e la capacità, dopo aver valutate le diverse opinioni, di decidere
sul da farsi, assumendosi le relative responsabilità; deve avere spiccate doti di leadership; e cioè la capacità di coinvolgere e valorizzare i suoi collaboratori, poiché l’uomo
rappresenta pur sempre il punto centrale dei processi economico-produttivi.
Se questo è vero, i corsi formativi del management devono approfondire le diverse tematiche (Finanza, Marketing, Produzione, Organizzazione, Personale, Amministrazione e Controllo, ecc.)oltre che nelle modalità tecniche operative caratteristiche della funzione, in un’ottica di dialettica interfunzionale
Lingue straniere, informatica, economia, diritto sociologia devono essere la base, non il fine.
I corsi formativi devono mettere i futuri dirigenti in grado di comprendere e
affrontare i concreti problemi della gestione aziendale.
Il ruolo della scuola
• Ma chi può fornire ai giovani la cultura occorrente a ricoprire efficacemente
posizioni ai vertici aziendali?
Come già accennato, il problema va visto in una prospettiva più ampia che comincia dalla scuola superiore, passa per l’università e solo alla fine approda al tema
specifico della formazione manageriale vera e propria.
2 È poi del tutto evidente che un’attenta e intelligente gestione della grande industria non può
che avere riflessi benefici sulla piccola e media industria, che in molti casi ne è fornitrice o cliente, e
che ne è quindi in generale fortemente condizionata non solo in termini di fatturato, ma anche di stili
manageriali.
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Si è già detto che alla cultura generale deve provvedere la scuola superiore che
deve prendere atto delle mutate esigenze e ad esse adeguare i propri programmi e la
loro attuazione.
Spetta all’Università fornire la base dottrinaria che apre alla conoscenza e comprensione dei fenomeni economico-aziendali.
Può infine attribuirsi a Corsi specifici, da attuarsi in stretta collaborazione tra
l’Università (pubbliche e private), mondo produttivo organizzazioni economiche,
la formazione manageriale.
Il mondo produttivo è direttamente interessato alla formazione manageriale e
deve quindi sostenerla con la disponibilità di uomini e mezzi3, ma occorre tenere
ben presente che il problema ha ripercussioni sull’intero sistema economico nazionale.
La formazione
• La richiesta di formazione manageriale attraversa oggi una fase di grande sviluppo: l’accesso ai corsi di Master of Business Administration (MBA) non è mai stato
tanto massiccio, e l’offerta di istruzioni italiane e straniere appare estremamente
ampia. E tuttavia cominciano a levarsi voci critiche che occorre ascoltare se non si
vuole che questo cospicuo impegno di risorse umane e finanziarie col disperdersi
in un’ennesima fabbrica di diplomi inutili o quasi inutili.
I corsi di MBA non devono essere una ripetizione delle lezioni universitarie
con qualche ulteriore approfondimento accademico. Il fine non è quello di mettere
i partecipanti in grado di svolgere eleganti disquisizioni teoriche, ma di allinearli
ad affrontare i concreti problemi della gestione aziendale. Il corpo insegnante deve
essere formato da docenti italiani e stranieri e da manager che hanno avuto responsabilità gestionali e operative. È infatti di tutta evidenza l’importanza di poter trasmettere ai giovani il patrimonio di esperienze di chi le ha direttamente vissute.
Passando dal generale al particolare, occorre sottolineare che del problema della formazione manageriale devono farsi carico anche le singole aziende o, almeno
quelle di maggior rilievo.
La sensibilità della dirigenza
• Le aziende devono sentire la necessità che la propria dirigenza segua corsi
formativi e devono curarne direttamente l’organizzazione o, quanto meno, favorire
3
Contributi finanziari potrebbero essere forniti anche dalle Fondazioni di origine industriale
(Agnelli, IRI, Olivetti) e bancarie (Cariplo, San Paolo, Monte dei Paschi, Casse di Risparmio)
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Antonio Zurzolo
la partecipazione a corsi esterni. Devono poi, per i giovani più promettenti, programmare il loro passaggio in posizioni operative nelle principali funzioni (Produzione, Commerciale, Finanza, Amministrazione e Controllo, ecc.) e aree di business, e successivamente l’inserimento nello staff dell’alta direzione.
Potranno così acquisire sul campo l’esperienza necessaria a comprendere meglio le problematiche delle diverse funzioni /aree che compongono la realtà aziendale e le loro interrelazioni e vivere da vicino il momento decisionale.
I manager a loro volta, devono sentire la responsabilità, anche sociale, del proprio ruolo e partecipare con convinzione e con il massimo impegno ai processi formativi.
Solo in tal modo si potrà formare una classe dirigente all’altezza delle sfide che
dovrà affrontare in un mercato globale sempre più vivace e agguerrito.
La formazione manageriale è un compito complesso e costoso, ma irrinunciabile se si vuole progredire o, addirittura , se non si vuole regredire.
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Rubriche
COLLOQUI Intervista al Prof. Emmanuele Emanuele
121
POLITICA INTERNA a cura di Nicola Graziani
140
POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro
136
RICERCHE a cura di Andrea Bixio
145
RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli
150
IL “CORSIVO“ a cura di Giorgio Tupini
155
NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris
158
FUORI SCAFFALE a cura di Amos Ciabattoni
166
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
119
Colloqui
intervista a cura di Amos Ciabattoni
L’Italia e il suo grande fabbisogno di cultura
di Emmanuele Emanuele
«Civitas» - Prof. Emanuele, ai Suoi impegni nel settore economico bancario,
a quelli di amministratore di aziende di grande importanza nel Paese e di Presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio di Roma, Lei affianca interessi
culturali di grande attualità e il “Forum” al quale si richiama il nostro “Colloquio” ne è la dimostrazione più recente. Quali sono gli scopi del Movimento
culturale di “Alleanza Popolare” da Lei fondato e come e per quali aspetti si affianca oppure si distingue dai numerosi analoghi movimenti che si propongono
di concorrere al fabbisogno culturale della società di oggi?
Emanuele - Definire “Alleanza Popolare” un movimento culturale non è appropriato. Essa è nata nel 1998 come movimento politico a seguito della nuova
stagione delle riforme elettorali nel nostro Paese e all’affermarsi di un sistema bipolare. “Alleanza Popolare” può dirsi più correttamente un movimento politico
per la politica. Essa, infatti, aveva come intendimento, fin dagli inizi, quello di radicare nell’agone della politica quelle forze culturali, professionali, imprenditoriali
esistenti nel nostro Paese ciclicamente chiamate alla partecipazione all’attività politica, ma successivamente espulse dal sistema partitico, poiché non omologhe agli
“apparati” burocratici. In altri termini, “Alleanza Popolare” voleva colmare un divario tra la società civile e quella politica, divario che si avverte ogni giorno di più
nel nostro Paese, dove una classe politica che ha una storia ed una formazione diversa, perché proviene, nella stragrande maggioranza dei casi, non da professionalità dimostrate, al di là di quelle della partecipazione all’attività partitica, e dal bisogno quindi di una società sempre più evoluta e scientificamente avanzata di ave-
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re persone atte a dare, con l’esperienza del loro cursus honorum professionale, un
contributo concreto alla proposta politica per la soluzione dei problemi del nostro
Paese.
Devo dire, per la verità, che questa proposta di “Alleanza Popolare”, che tra l’altro proponeva un grande accordo, come dice il nome, tra le principali componenti
sociali del Paese, non ha avuto il successo sperato, perché i partiti si sono chiusi a
riccio, rifiutando qualsiasi possibilità di dialogo e di penetrazione ad esponenti della società civile, percepiti come soggetti estranei alla dialettica interna dei partiti e
come tali, non graditi.
C - Il quadro del nostro Paese che emerge spesso nelle analisi politiche e culturali, mostra un’incompleta maturità di “Nazione” dell’Italia: fatti storici hanno concorso nei secoli passati a configurare e a far crescere uno “Stato”, un “governo” più che una “Nazione”, ed i “compromessi” politico-ideologici dai quali è
nata la nostra Unità geografico-politica (non a torto si ripete il concetto di un
“Risorgimento incompiuto”), non hanno prodotto effetti del tutto positivi. Se
condivide questa analisi, vuole argomentarla nel positivo e nel negativo?
E - È indubbio che l’Italia ha sentito in modo assai meno sacrale rispetto agli
altri Paesi europei il concetto di “Nazione” e questo per motivi storici essendo diventata Nazione molto tardi rispetto ad esempio alla Spagna, alla Francia, alla Germania, all’Austria, e ovviamente agli Stati Uniti ed all’Inghilterra. Noi abbiamo
avuto una storia nazionale diversa. Siamo stati per lunghi secoli divisi, abbiamo subito una grave frantumazione del nostro territorio sotto dominazioni straniere,
non abbiamo maturato dopo l’Unità una concezione di “Nazione-Patria” per un
periodo sufficientemente ampio, ed ovviamente l’identità fortemente maturata in
epoca risorgimentale si è finita per perdere. Durante la stagione monarchica, l’Italia ha tentato, infatti, con grande determinazione, di costruirsi quell’identità nazionale. Lo ha fatto con le guerre di indipendenza, con le campagne di espansione
coloniale, e con la sanguinosa prima guerra mondiale. Il dopoguerra della seconda
guerra mondiale ha nuovamente ributtato il nostro Paese, a causa di una damnatio
memoriae del passato, in un limbo dove la capacità di essere Nazione è stata vista
addirittura con sospetto e quasi demonizzata. La concezione della democrazia forte
che fa una Nazione, penso all’Inghilterra ed alla Francia, da noi non ha avuto maturazione; si è sempre cercato un profilo basso, in nome di una concezione democratica che è finita per diventare paralizzante per il ruolo internazionale del nostro
Paese. L’Italia non è mai diventata Nazione nel senso pieno del termine perché non
è riuscita a crescere in maniera autonoma, non è mai riuscita ad avere, nel lungo
periodo della prima Repubblica, il ruolo di Paese leader. Siamo stati più che altro
un Paese di frontiera, un territorio dove si incontravano e scontravano le realtà
confliggenti della vecchia guerra fredda, tra l’Occidente e l’Oriente, tra il mondo
comunista e quello della democrazia. Non abbiamo acquisito la capacità di cresce-
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re per levare una voce forte in questo dibattito, preferendo spesso essere una specie
di luogo di incontro, dove transitavano le realtà internazionali di cui ho fatto cenno, piuttosto che tentare di rappresentare l’elemento di cerniera tra i due mondi, o
ancor più avere un ruolo importante nella dialettica tra di essi. Questo è il limite
vero della nostra fragile democrazia, questo è il limite della nostra capacità di non
aver saputo realizzare la Nazione italiana. Indipendentemente dalla cultura e dal
grande ruolo che abbiamo rivestito e continuiamo a rivestire per le vestigia della
nostra storia e per le indubbie qualità artistiche del nostro popolo, non siamo riusciti ad essere quella Nazione unita e forte, al di là dell’iconografia classica del detto
“un popolo di guerrieri, poeti, santi e navigatori” inciso sul frontone del Palazzo
della Civiltà Italiana.
C - Il declino dei “partiti dei grandi ideali” è una realtà che l’Italia ha vissuto
negli ultimi decenni. Ad essi si è venuta sostituendo la proliferazione di partiti,
ex grandi e nuovi piccoli, che rendono per lo meno singolare il sistema politico
italiano. Il fenomeno merita, a nostro avviso, attenzione soprattutto dal punto di
vista della natura e della legittimazione culturale e storica delle infinite “sigle”
partitiche: il tutto – secondo i punti di osservazione – a vantaggio o a scapito
dell’efficienza del sistema. Qual è il suo punto di vista?
E - La crisi delle grandi ideologie ottocentesche che sono state l’humus culturale e politico su cui si è articolato il grande dibattito tra il liberismo ed il socialismo
è oggi indubbia. Queste ideologie hanno una matrice molto ben delineata e sono
conseguenti alle problematiche socio-economiche generate dalla prima grande rivoluzione industriale. Nella stagione del trapasso dalle economie che traevano origine dal latifondo, si innestò un meccanismo produttivo generato dal capitalismo
mercantile che mise in moto una grande stagione di progresso economico, sociale e
scientifico. In parallelo con la stagione in cui l’economia vedeva codificate le sue
regole dal liberismo, pur con le voci attente alle problematiche sociali, penso a
Stuart Mill, e soprattutto a Keynes, la politica era improntata da una concezione liberale a cui si frappose dapprima la protesta sindacale e successivamente l’ideologia
socialista nelle diverse accezioni riformista o rivoluzionaria. Un ruolo importantissimo, come noto lo ha avuto in questo contesto la dottrina sociale della Chiesa,
che si è posta anch’essa quale ulteriore punto di riferimento e cerniera tra le tematiche del mercato e quelle della solidarietà. È evidente che queste ideologie che hanno avuto una germinazione di più di duecento anni fa, hanno cominciato a mostrare chiari segni di logoramento, ed i partiti che ad esse si ispiravano hanno cominciato anch’essi a perdere il rapporto con la realtà, che si evolve continuamente
in virtù di fenomeni esterni conseguenti oggi anche alla seconda grande rivoluzione, quella informatica e tecnologica, da cui è scaturita la globalizzazione. In questo
contesto, stanno proliferando sigle nuove che non si richiamano alle passate ideologie, ma tendono a presentarsi come portatrici di proposte politico- sociali inno-
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vative, anche se i filoni essenziali sono più o meno gli stessi, ma in cui il fattore distintivo è proprio il rifiuto di identificarsi con le ideologie tradizionali.
Se infatti è vero che molte delle proposte avanzate da partiti come Rifondazione
comunista o i DS sono il portato, rispettivamente, del socialismo sovietico delle origini e del socialismo riformista, invero mal digerito, così come Forza Italia esprime in
maniera, a dire il vero, non troppo aderente le idee liberali, è altrettanto vero che alcune “proposte” nuove, frutto di una realtà profondamente diversa, (la Lega, il nuovo
corso di AN, la Margherita, i fermenti di una rinascita di un partito dei cattolici) si
stanno manifestando. Credo che ad esse bisogna prestare la massima attenzione, bisogna interpretarne in prospettiva le capacità di aggregazione, soprattutto occorre non
demonizzarle, e vederle come un contributo fecondo al dibattito politico generale.
C - Il bipolarismo è stato presentato – e ritenuto – a lungo come una soluzione ottimale per irrobustire democraticamente il Paese e facilitare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo in progresso della società italiana. Con il passare del
tempo, questa scelta, presentata, come ottimale e di qualità, ha però mostrato
notevoli aspetti negativi e prodotto altrettanti non positivi effetti. Qual è il Suo
punto di vista e quali sono gli aspetti ancora positivi e quali i negativi che influiscono sulla vita italiana e sulla capacità del nostro Paese di competere nella visione “globale” del mondo?
E - Nel nostro Paese, in realtà, non esiste una solida cultura del bipolarismo e
del bipartitismo, che invece ha attecchito nei Paesi anglosassoni dove mantiene un
preciso valore ed una chiara attualità. Tuttavia non v’è dubbio che anche da noi essa ha avuto una grande importanza. Penso alle battaglie referendarie ed alle conseguenti riforme che hanno giovato a semplificare il processo di trasformazione, proprio nel momento in cui si disfaceva il tessuto partitico che aveva connotato il nostro Paese dal 1946 fino agli anni Novanta. Oggi sicuramente il bipolarismo comincia a penetrare nella concezione collettiva in maniera sempre più evidente. Il
paradosso è che contestualmente si è assistito ad una proliferazione sproporzionata
di sigle partitiche, sicuramente estranea agli intendimenti dei fautori del bipolarismo, che miravano piuttosto alla semplificazione del quadro politico. Questo ha
prodotto il ritorno, nel dibattito politico, della opportunità di riproporre un sistema elettorale proporzionale. Infatti, l’attuale sistema non garantisce appieno la stabilità dell’azione di Governo. La Lega nel Centro Destra e i due partiti dichiaratamente comunisti nel Centro Sinistra provocano costanti fibrillazioni e lacerazioni
alle proposte degli schieramenti in cui militano. Questi partiti contribuiscono a far
vincere la coalizione ma rendono difficile governare.
Ciò che ci si chiede da più parti è di scomporre l’attuale sistema bipolare facendo emergere una forza più omogenea in cui far convergere partiti che oggi paradossalmente, pur avendo teorie e programmi molto simili, si trovano a militare in
schieramenti opposti a causa delle caratteristiche del sistema elettorale bipolare.
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Personalmente penso che sia da coltivare un’altra ipotesi. Ritengo, infatti, che il
sistema elettorale migliore dopo questa prima stagione bipolare in cui i differenti
partiti presenti nelle due coalizioni non sono riusciti ad omogeneizzare le loro idee
nei rispettivi programmi, potrebbe essere quello di introdurre un temperamento
del vigente sistema che ne rafforzi la stabilità mediante il rafforzamento della componente proporzionale con il quorum di sbarramento al di sotto del quale non vi
sia legittimazione ad essere rappresentati in Parlamento.
C - Due sono in particolare le grandi idee positive alle quali ha da secoli attinto linfa vitale la nostra cultura, e che sembrano oggi essere in ripresa: il Cristianesimo (con il suo immenso patrimonio di pensiero sociale) ed il Socialismo
umanistico progressista (con i suoi fermenti di giustizia sociale legati alle libertà
civili). I relativi ritorni, a distanza più ravvicinata fra loro, si fanno sempre più
invocati ed evidenti, oltre che indispensabili, a sostegno di un esistenzialismo,
singolo e comunitario divenuto immanente. Il tema lanciato dal Suo movimento
culturale “Alleanza Popolare” su “I valori del Cattolicesimo nei movimenti politici e nei partiti italiani” è su questa linea di interpretazione dei fabbisogni più
urgenti della società di oggi? E come intende contribuire a colmarli?
E - Sono completamente in sintonia con la sua impostazione. Durante il convegno cui Lei fa riferimento ho detto che proprio i due grandi filoni che si sono
più produttivamente contrapposti, in Italia, durante il periodo postbellico e che
con il loro confronto hanno consentito la crescita democratica, culturale e sociale
del nostro Paese sono stati il Cattolicesimo politico ed il Socialismo democratico.
Credo che questo trovi puntuale riscontro nel fatto che in Europa due sono i grandi schieramenti che si fronteggiano: il Partito Popolare Europeo, in cui trova rappresentanza il pensiero sociale della Chiesa, ed il Gruppo Socialista Democratico
che si ispira al Socialismo riformista.
Non occorre fare ricorso a complesse analisi per capire che quanto da Lei detto
e da me condiviso, e quanto costituisce l’obiettivo del mio movimento “Alleanza
Popolare” sono le strade maestre della tematica da Lei sollevata. “Alleanza Popolare” è un movimento che intende sollecitare la partecipazione del mondo del lavoro,
delle professioni, dell’imprenditoria, della cultura alla vita politica, mondi che non
intendono più essere rappresentati da apparati di partiti che sono esogeni alla vita
sociale ed economica del Paese. Noi riteniamo che la spinta dal basso della società
civile possa essere la soluzione. Penso all’associazionismo, al Terzo Settore, al variegato mondo del non profit e, in una parola, alla società civile di cui la politica non
è più interprete fedele.
E nella dialettica che Lei ha individuato e che noi riproponiamo con convinzione tra l’etica sociale cristiana e quella del socialismo democratico devono essere
individuate da “Alleanza Popolare” le maggiori propensioni alla partecipazione.
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C - L’Europa unita ha prodotto anzitutto un elevato grado di competizione
tra le Nazioni che ne fanno parte. Ciascuna offre di sé stessa il meglio che possiede in ogni campo delle collaborazioni e dei confronti. Quali sono a Suo avviso le
peculiarità delle “offerte”, o meglio degli strumenti di cui dispone l’Italia per il
sostegno della “nuova Civiltà europea” intesa come competizione positiva con il
resto del mondo?
E - L’Italia a mio modo di vedere ha due grandi peculiarità e specificità. La prima è la miriade di piccole e medie imprese che formano il tessuto connettivo del
nostro Paese e che sono una caratteristica unica in ambito europeo. La forza vera
della nostra economia è radicata nel reticolo delle migliaia di medie e piccole imprese, nelle centinaia di banche, penso alle popolari, a quelle del credito artigiano,
alle peculiarità delle Casse di Risparmio sopravvissute, e questa specificità giova
moltissimo, occorre riconoscerlo, al tessuto connettivo dell’economia europea,
proprio per la capacità di produrre quel made in Italy che in prospettiva sarà il made in Europe che ne faranno il competitore principale con i grandi colossi economici mondiali come l’America e con i Paesi emergenti dell’Asia.
Un’altra peculiarità italiana è il fatto che il nostro Paese è uno dei maggiori depositari del bello dell’Europa, con la miriade di musei, di monumenti ed opere
d’arte che non ha molti paragoni e che ne fanno il luogo deputato per un turismo
culturale che purtroppo alcune leggi dissennate, come l’abolizione del ministero
del turismo, finiscono per frustrare. Queste sono le peculiarità del nostro Paese e
questi sono i settori strategici che, a mio parere, andrebbero potenziati e su cui bisognerebbe puntare per favorire la crescita non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa, anche in rapporto alla competizione con gli altri sistemi economici.
C - Nella Chiesa e nel mondo culturale laico liberale si è aperta una fase molto interessante del dibattito sul concetto di “laicità”. Il cardinale di Venezia Angelo Scola parla addirittura di una “nuova laicità” da ricercare assieme: “I credenti e i non credenti devono lavorare assieme per una società civile pluriforme”
Praticamente la discussione aperta attualizza il mai risolto rapporto tra l’umanità e la religione che oggi diventa attualissimo nell’era post moderna della globalizzazione. Quali sviluppi vede e perora di questo fenomeno?
E - È una domanda molto complessa, cui mi vedo costretto a rispondere con
una semplificazione. Io sono un cattolico senza dubbi, che nel dialogo con i non
cattolici ed i non credenti vede il limite di questa ricerca disperata del relativismo
imperante, e del dialogo fine a se stesso sempre più auspicato anche da autorevoli
commentatori. Il dialogo, per me, non può esistere a tutti i costi, e non può diventare uno slogan che finisce per neutralizzare lo spessore delle proprie convinzioni.
L’edificare una società nel dialogo tra cattolici e laici è sicuramente auspicabile per
uno sviluppo democratico del Paese specie di fronte alle grandi sfide che quotidia-
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namente si pongono alla società. Ma comunque non si può negare che vi sia una
separatezza di fondo tra i due mondi, che essi hanno radici, culture, aspettative e
speranze diverse. Il mondo laico è un mondo che ha una concezione della libertà
che nella sua estremizzazione porta anche a quei problemi di ingegneria genetica
contro i quali il recente referendum si è espresso in modo chiaro. Il cattolico ha
una concezione diversa, più spirituale, più attenta al divenire di una prospettiva
universale ed escatologica.
Estremizzando, non ritengo che il dialogo forzato come viene correntemente
auspicato possa rappresentare l’unico indispensabile valore per la costruzione di
una società moderna, migliore e progredita. Credo che la dialettica sia in sé positiva, purché non induca una delle parti a dover preliminarmente modificare le proprie convinzioni. Questo discorso vale a maggior ragione quando viene applicato
al tanto strombazzato dialogo con altre civiltà e altre religioni. Esso è precorribile
se le parti che siedono a questo ideale tavolo sono scevre da preconcette aggressive
posizioni nei confronti dell’altro. Se una religione parte dal presupposto che il suo
credo è universale ed indiscusso, che tutto ciò che la circonda nel mondo ed è diverso da essa è condannabile, evidentemente i presupposti del dialogo sono inesistenti. Ricercare il dialogo a tutti i costi, e lo dice uno come me che da tempo immemore continua a cercare il dialogo con tutti su diversi terreni tra il liberismo e la
solidarietà, tra la fede religiosa e la pratica politica e, come ad esempio in tempi recenti, su quello della cultura, di popoli e nazioni differenti, che la prossima pubblicazione del volume sulle civiltà del Mediterraneo comprova, per maturare la trasformazione della società, con il rischio di dover perdere la propria identità è un
obiettivo che non mi trova d’accordo.
C - Il rapporto con l’Islam si tinge di innumerevoli “colori”. Ciò che però resta da definire è la parte più sostanziale di tale rapporto: si tratta di uno scontro
di civiltà oppure di un confronto. Nell’uno o nell’altro caso, quali sono gli elementi positivi e quelli persistentemente negativi delle nuove frontiere che si sono
aperte nella competizione culturale, politica e religiosa tra le diverse aree del
mondo?
E - Per poter dare una risposta ad una simile domanda che è tra le più importanti dei nostri tempi, occorre per prima cosa capire cosa è la legge coranica, la legge religione che governa gli stati islamici. È una risposta molto netta e semplice:
tutto ciò che si pone fuori dell’Islam è sbagliato e va tendenzialmente distrutto;
tutto ciò che sta a fondamento del suo credo è giusto e va osservato e fatto osservare. Non vi sono accenni all’amore, alla pietà, al perdono, in una parola a tutti i
punti fondamentali della nostra fede. Evidentemente dobbiamo accettare il principio che, senza parlare di scontro di civiltà che mi appare un concetto troppo rozzo
e semplicistico, ci sono preclusioni di fondo su concezioni esistenziali. Se la prospettiva di questo credo ha alla base il convincimento che il nostro modo di vivere
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e di pensare deve essere cambiato, il dialogo si pone su basi difficili da sviluppare.
Anche su questo punto, come sul precedente non ho personalmente molti
dubbi. La Civiltà occidentale pur con tutti i suoi drammi, le grandi crisi, le guerre,
i problemi sociali quali la disoccupazione ed il crescente divario tra povertà e ricchezza, è pur sempre una civiltà solare, una civiltà partecipativa che non esclude
nessuno, in cui tutti possono convivere. Ma soprattutto ha avuto una lunga stagione di conflitti ideologici, sociali, politici e militari che hanno però consentito l’affermazione della democrazia. Non mi pare che le nazioni che fanno riferimento alla Fede Coranica come Principio costituzionale abbiano queste caratteristiche e
questa storia.
La teoria di un Islam moderato, come ha ben illustrato Panebianco nel suo recente editoriale sul «Corriere della Sera» del 7 agosto 2005, è una concezione erronea e superficiale. Dopo l’11 settembre, infatti, si è scoperto che la “moderata”
Arabia Saudita, da sempre in teoria alleata all’Occidente è la nazione da cui partono i finanziamenti più robusti per Bin Laden.
Si è scoperto, come lui dice, che la moderazione politico-diplomatica dei Governi in cui esiste il fondamentalismo religioso non impedisce a quel fondamentalismo di alimentare l’islamismo radicale.
Sempre Panebianco ha evidenziato la nostra incapacità di proporre una politica
in grado di fronteggiare la sfida islamica. Noi cerchiamo di impostare una azione
di prevenzione contro gli attacchi terroristici, ma non abbiamo compreso che per
combattere il terrorismo non basta la polizia, occorre neutralizzare la propaganda
fondamentalista.
Non possiamo consentire che nel nostro Paese proliferino le “madrase” (le
scuole islamiche) e le moschee e nel consentire ciò accettare supinamente i veti posti acché le nostre chiese vengano edificate nei paesi arabi e l’insegnamento cattolico consentito.
Pertanto, nel breve periodo sinceramente non vedo grandi potenzialità nel dialogo così come viene oggi concepito. Questo dialogo per avere un concreto avvio
deve partire da una ferma condanna del terrorismo da parte dei paesi di religione
islamica. A me pare che ad oggi, tranne qualche timida eccezione, questa condanna non sia così forte e manifesta neanche dopo New York, Madrid o Londra.
Vedo invece la forza della civiltà occidentale, in cui coesistono tolleranza e pace
pur nel conflitto politico ed economico, che con tutte le sue ombre, ha pur sempre
generato grandi capolavori dell’arte, del bello e dell’ingegno, che deve essere a mio
parere difesa con maggiore convinzione di quanto si faccia oggi in cui prevale la ricerca del compromesso a tutti i costi.
C - La rivista «Civitas» che fu palestra di grandi pensatori come Meda, De
Gasperi, Sturzo, può essere considerata uno strumento attuale per il progresso
culturale dell’Italia e quindi strumento a disposizione dei pensieri attivi della
cultura e della politica di oggi proiettata nel futuro?
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E - Assolutamente sì. «Civitas» è una componente essenziale della storia del dibattito culturale, politico, religioso, economico del nostro Paese, ed è una fortuna
che oggi sia stata rieditata, e sono certo che essa si confermerà terreno di incontro e
confronto tra coloro che hanno concezioni anche contrapposte. Essa ha un radicamento storico, culturale e spirituale che ne fa un importante presidio di quei valori
a cui molti di noi, ed io sicuramente, si ispirano.
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Politica interna
a cura di Nicola Graziani
La stagione politica aperta con il referendum sulla legge che regolamenta la
procreazione assistita è stata dominata dal tema dei rapporti tra Stato e gerarchia
ecclesiastica, tornato ad una nuova centralità per il concorrere di una serie di fattori che vanno dalla partecipazione in prima persona della Cei nella campagna per
l’astensionismo, agli interventi del Capo dello Stato in materia, al rientro sulla scena politica di parte del Partito Radicale a fianco dello Sdi di Enrico Boselli. Intanto
l’approssimarsi della fine della legislatura ha spinto la maggioranza ad un estremo
tour de force volto a far approvare dal Parlamento una serie di riforme e di provvedimenti legislativi – alcuni previsti dal Patto con gli Italiani presentato da Silvio
Berlusconi nella campagna elettorale del 2001, altri pensati e introdotti con il chiaro intento di incidere sull’esito delle prossime elezioni politiche.
Il governo, in questo periodo, ha dovuto nuovamente fare i conti con le difficoltà dell’economia, sottolineate dall’avvicendamento a Via XX Settembre tra Domenico Siniscalco e Giulio Tremonti, e quelle della politica internazionale (la permanenza dei militari italiani su suolo iracheno; i rapporti con gli Usa dopo il rapimento a Milano di un imam egiziano; l’emergenza terrorismo dopo gli attentati di
Londra; il peggioramento dei rapporti con l’Iran). Contemporaneamente è venuta
a chiudersi una fase nei rapporti tra Palazzo Chigi ed il Quirinale, con Ciampi che
è apparso sempre meno disposto a fare ricorso alla moral suasion per limare gli eccessi contenuti in alcune iniziative legislative della maggioranza, mentre i rapporti
all’interno della Casa delle Libertà hanno registrato un profondo mutamento con
l’abbandono della segreteria dell’Udc da parte di Marco Follini, il ritorno al partito
di Pier Ferdinando Casini ed il rafforzamento dell’asse Fi-Lega.
Le opposizioni hanno lanciato la sfida a Berlusconi celebrando le primarie, il
cui successo in termini di partecipazione popolare ha rafforzato il ruolo di Romano
Prodi, senza però che questo si traducesse in una maggiore omogeneità politica. Il
programma su cui il centrosinistra promette di basare il ritorno al potere non è stato elaborato, e la maggior parte delle discussioni di questi mesi si sono incentrate
sullo stanco e ripetitivo tema della forma politologica con cui l’alleanza, o alcuni
componenti di essa, si presenteranno all’esame del corpo elettorale.
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• Laicità dello Stato e rapporti con la Chiesa. L’impegno diretto della Chiesa
alla campagna per l’astensionismo in occasione del referendum sulla procreazione
assistita, campagna in occasione della quale gerarchie e parrocchie hanno partecipato con impegno maggiore rispetto agli stessi referendum su divorzio ed aborto,
ha rappresentato anche la prima occasione in cui il nuovo Pontefice, Benedetto
XVI, ha avuto modo di esprimersi sul tema della presenza cattolica nella società e
nella politica italiana. A meno di una settimana dalla consultazione lo stesso Pontefice, parlando al convegno diocesano di Roma dedicato alla istituzione familiare, è
intervenuto sottolineando la necessità di contrastare il relativismo dominante nella
cultura contemporanea. L’obbligo è quello di tutelare la “intangibilità della vita
umana dal concepimento al suo termine naturale”. Le unioni di fatto e quelle
omosessuali, ha ribadito il Papa, “scacciano Dio” e portano ad un “avvilimento dell’amore umano”. Il risultato del referendum, andato deserto e quindi dichiarato
nullo per la scarsissima affluenza alle urne (25,9%), ha segnato un indubbio successo del fronte cattolico, ma soprattutto ha dimostrato la stanchezza del corpo
elettorale nei confronti di uno strumento costituzionalmente rilevante ormai rimasto vittima degli abusi che sono stati compiuti – soprattutto ad opera del Partito
Radicale – nel corso degli anni. In particolare le vere sconfitte della giornata sono
state la sinistra e la destra libertaria italiane, quel fronte radicaleggiante che si è dimostrato non più capace come in passato di gestire l’agenda del dibattito culturale
nazionale e di mobilitare le masse attorno ad esso. Non è un caso che nei settori
più pronti e più spregiudicati del laicismo nazionale sia emerso, nel corso del dibattito referendario, un nuovo fronte di “atei devoti” pronti a schierarsi con la gerarchia ecclesiastica la quale non ha mancato di offrire loro la sua sponda. In termini più puramente politici, il dibattito sulla consultazione ha portato ad un notevole ridimensionamento dei favori degli ambienti cattolici in direzione di Gianfranco
Fini, schieratosi apertamente in favore di una parte dei quesiti (fino al punto di definire “altamente diseducativa” l’astensione), e dello stesso sostegno interno ad Alleanza Nazionale nei confronti del leader. Fini, a luglio, ha dovuto affrontare una
vera e propria fronda dei colonnelli del partito. Il fronte dei cattolici impegnati in
politica ha dovuto invece fare i conti con l’esplicito invito dei vertici della Cei ad
astenersi dal voto. Invito divenuto particolarmente pressante quando la stessa
Conferenza Episcopale è giunta a manifestare perplessità nei confronti di quei cattolici che avevano manifestato ugualmente l’intenzione di recarsi alle urne. Difficile dire quanti cattolici abbiano preso la propria decisine unicamente sulla base delle indicazioni della gerarchia, certo però queste hanno avuto un peso enorme: basti
vedere i dati sull’affluenza. Se però una parte del mondo cattolico ha aderito pienamente ai comitati per l’astensione (è il caso del presidente del nuovo movimento
Italia Popolare, Alberto Monticone), altri cattolici hanno espresso un diverso parere e sono andati ugualmente a votare. In particolare Romano Prodi, candidato del
centrosinistra alla Presidenza del Consiglio, si è dichiarato “cattolico adulto” ed ha
ostentato la sua intenzione di depositare la scheda nell’urna. All’indomani del fallimento della prova referendaria, il cardinale Camillo Ruini ha avuto modo di dirsi
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“colpito dalla saggezza del popolo italiano”, di lasciare aperta la porta all’eventualità di apporre modifiche alla legge 40 (“Tutto può essere migliorato, ma non certo
stravolto o radicalmente peggiorato”) e di rassicurare che sull’aborto la Chiesa “è
contraria, ma non vogliamo modificare la normativa”. Parole che intendevano rispondere ai timori espressi dal segretario dei Ds, Piero Fassino, e già espresse dal
ministro dei beni culturali Rocco Buttiglione.
Già alla fine di giugno lo stesso Cardinal Ruini ha comunque ribadito il suo no
alle coppie omosessuali, quello ai “patti di convivenza” e la non volontà di modificare la 194, nonostante la contrarietà della Chiesa ai “piccoli omicidi”.
• Il Papa al Quirinale. In questo clima non certo di scontro, ma sicuramente
di serrato confronto, si è svolta la visita ufficiale di Benedetto XVI al Quirinale.
Carlo Azeglio Ciampi, di osservanza cattolica ma di cultura profondamente estranea all’esperienza cinquantennale dei cattolici democratici e popolari impegnati in
politica, ha colto allora l’occasione per rivendicare “con orgoglio” la laicità dello
Stato come “necessaria distinzione fra il credo religioso di ciascuno e la vita della
comunità civile regolata dalle leggi della Repubblica”. La risposta del Papa è stata
di riconoscimento della “legittimità” della laicità, ma se “sana”, vale a dire non
avulsa da quell’etica che trova le sue radici nella religione e dall’eredità cristiana
della cultura del Paese. La divisione tra la linea della gerarchia ecclesiastica e Prodi
è emersa di nuovo a metà settembre in occasione di un messaggio inviato dal leader
del centrosinistra ad un convegno dell’Arcigay, in cui Prodi ribadiva la linea non
contraria ai Pacs contenuta nella piattaforma programmatica dell’Ulivo. Dura la
reazione dell’Osservatore Romano, che l’ha accusato di voler lacerare l’istituzione
familiare, della Cei ed in alcuni settori del mondo politico. Nelle fila delle opposizioni Clemente Mastella, impegnato tra l’altro in un braccio di ferro nell’ambito
della coalizione per il no all’ingresso dei pannelliani, ha colto la palla al balzo per
ribadire anche la sua contrarietà ai Pacs. All’interno della Cdl Marco Follini ha
parlato di Prodi come di un leader “zapaterista”. Prodi ha risposto scrivendo a “Famiglia Cristiana” per definire quanto accaduto “semplici dispute terminologiche” e
precisare di non volere omologare le coppie di fatto alle famiglie, ma nel frattempo
si è andata acuendo la frattura tra i Ds e settori della Margherita, in particolare
Francesco Rutelli, il quale ha fatto sostanzialmente propria la posizione espressa
contemporaneamente dal Cardinal Ruini, sostanzialmente contrario ai Pacs, soprattutto nel caso di coppie omosessuali, mentre le coppie eterosessuali possono
sperare in aperture nell’ambito del diritto privato. Fermo restando che “la Costituzione intende la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Un intervento, quello del Cardinal Ruini, definito “legittimo” da Piero Fassino, ma la cosa
non ha impedito a Carlo Azeglio Ciampi appena 24 ore dopo di ricordare esaltando la Presa di Porta Pia in quanto fine del potere temporale dei Papi, parole universalmente interpretate come un altolà agli eccessi di certi interventismi.
Quando Ciampi e Pier Ferdinando Casini commemorano a Montecitorio la
visita resa da Giovanni Paolo II alla Camera dei Deputati il messaggio che Bene-
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detto XVI invia contiene la rassicurazione che la Chiesa non è in cerca di privilegi,
e che anzi rispetta la “legittima laicità” dello Stato. Al tempo stesso però rivendica
il diritto a parlare “in favore della persona”, nel pieno rispetto del Concordato.
Proprio sul Concordato, però, si sono appuntati nel frattempo gli strali della parte
più laicista del centrosinistra, lo Sdi di Enrico Boselli ed i radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino. Le due componenti, dopo aver scelto la via della fusione a
freddo nella componente detta della Rosa nel Pugno, hanno immediatamente attaccato gli accordi tra Stato e Chiesa, dichiarandoli superati. Una posizione che
non ha trovato alcun consenso nelle restanti componenti delle opposizioni (lo stesso Bertinotti si espresso contro ogni modifica non solo del Concordato, ma anche
dell’8 per mille), ma che ha agitato non poco le acque, da decenni sonnacchiose,
tra le due sponde del Tevere.
• La questione aborto. Su questo si è innescata infine una nuova polemica sull’aborto. A scatenarla la decisione di un ospedale di Torino di far sperimentare la
“pillola del giorno dopo” Ru486, uno strumento abortivo da anni condannato dalla Chiesa e mai introdotto finora in Italia. La sperimentazione in Piemonte è stata
inizialmente sospesa su decisione del ministro della Salute Francesco Storace (in
questo frangente il presidente della Regione Piemonte, la diessina Mercedes Bresso, ha avuto modo di dichiarare intempestivamente: “sono laica, ma se fossi credente non mi farei cattolica, semmai calvinista”) e poi fatta riprendere, mentre la
Ru486 veniva adottata anche in alcune strutture ospedaliere toscane. Contemporaneamente Benedetto XVI elogiava gli attivisti del Movimento per la Vita, mentre
Storace si dichiarava disponibile a far entrare nei consultori veri e propri volontari
antiabortisti. Dura reazione non solo da parte di settori del centrosinistra, ma della
stessa maggioranza. Mentre l’Osservatore Romano denunciava il tradimento dello
spirito della 194, il ministro delle Pari opportunità Stefania Prestigiacomo commentava: “Qui si vuole tornare ad una condizione medievale di trattamento della
donna”. Un riferimento esplicito anche alla richiesta dell’Udc di avviare un’inchiesta parlamentare sull’applicazione di tutte le parti della 194, compresa quella sui
consultori (in larga parte disattesa).
In generale, l’impressione che si ricava è quella di una mancanza di mezzi politici adeguati ad affrontare una materia così delicata come i rapporti tra la Chiesa
cattolica e lo Stato laico. Non sfugge che, se il problema della completa applicazione della 194 è autentico e pesante, si arriva a parlarne a ridosso della prova elettorale. La cosa alimenta il dubbio che, più che a dare alla legislazione generale italiana
una cornice di valori cristiani, si pensi a concentrarsi su temi etici e morali atti a
smuovere con facilità quelli che una volta sono stati definiti i “voti del cielo”. Manca del tutto l’opera di matura mediazione da parte dell’ormai disperso laicato cattolico impegnato in politica, storicamente capace di inserire talune tematiche in
un più generale contesto di costruzione di una società pluralista volta alla valorizzazione della persona umana. Nel rispetto anche del pluralismo e dei numeri. Colpisce anche il ritorno di vecchi atteggiamenti inutilmente laicisti di parte del mon-
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do politico, trasversale alla destra e alla sinistra, ben rappresentato da Boselli, Pannella, Prestigiacomo e Taradash, mentre l’atteggiamento di Storace, sicuramente
sincero, appare in buona parte frutto della preoccupazione di recuperare ad Alleanza Nazionale una fetta fondamentale di elettorato che rischia di ritenersi in libera
uscita dopo la presa di posizione di Fini sulla procreazione assistita. Gli esiti di questa fase saranno evidenti dopo le elezioni, soprattutto se la nuova maggioranza dovesse approvare una legge in qualche modo favorevole ai Pacs, e la Cei decidesse,
come ha lasciato intendere in una intervista il Cardinal Sodano, di scendere nuovamente in campo, facendo promotrice questa volta non di una campagna per l’astensione dal voto, ma di una vera e propria iniziativa referendaria.
• Riforme e altre questioni. Allo scadere della legislatura, la maggioranza è
tornata a dar prova di una certa compattezza in Parlamento al fine di varare alcune
riforme fondamentali a mantenerne il collante in vista dell’appuntamento elettorale. Così sono state definitivamente varate la devolution tanto cara alla Lega, la
riforma dell’ordinamento giudiziario, la riforma del Tfr, la legge ex Cirielli, la proporzionale. In particolare, quest’ultima non era prevista da alcun patto di legislatura, e non sembrava essere nemmeno all’ordine del giorno dopo che l’aveva chiesta
con forza ancora d’estate l’Udc di Marco Follini. Seguendo l’esempio non esaltante
di Francois Mitterrand nel 1986, la Casa delle Libertà ha cambiato all’ultimo momento le regole del gioco per limitare i danni di una eventuale sconfitta elettorale,
a prezzo di tornare, almeno nominalmente (i frutti della nuova legge matureranno
solo nella stagione postelettorale) al vecchio sistema proporzionale. Lo stesso la cui
fine ha aperto la strada a quella politica per leader e slogan che ha fatto la fortuna
di gran parte dell’attuale classe dirigente italiana, a cominciare proprio da Silvio
Berlusconi (senza dimenticare lo stesso Prodi). L’immediata conseguenza è stata il
ritorno al partito di Pier Ferdinando Casini, aiutato in questo anche dalla fine della
segreteria Follini, sostituito ad ottobre da Cesa, ed il lancio della candidatura a Palazzo Chigi dello stesso Casini, ma anche di Gianfranco Fini. Un “gioco a tre punte” destinato ad aiutare non si sa ancora esattamente chi. La portata della riforma
non è ancora chiara, ma è significativo il fatto che Romano Prodi, generalmente restio ad annunciare progetti controriformistici, in questo casso abbia detto a chiare
lettere che un suo governo cercherà di tornare immediatamente al maggioritario.
Anche la devolution ha provocato l’immediata reazione delle opposizioni, che
ora vedono nel referendum confermativo lo strumento per bloccare quella che viene definita una riforma destinata a frantumare il tessuto connettivo del paese. È
utile notare che i referendum confermativi, al contrario di quelli abrogativi, non
prevedono quorum, e a giovarsi di questa circostanza saranno con ogni probabilità
i fautori del no alla ratifica: l’unica forza politica a desiderare sovra ogni altra cosa
la devolution infatti è la Lega, per la quale la posta in gioco equivale grossomodo
alla stessa ragion d’essere del partito. Forza Italia sembra avere l’atteggiamento di
chi ha già pagato con l’approvazione parlamentare il prezzo pattuito per l’adesione
degli uomini di Bossi alla Casa delle Libertà, mentre difficilmente Alleanza Nazio-
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nale potrà mobilitare a fondo il proprio elettorato con la motivazione che parte del
pacchetto delle riforme costituzionali riguarda un vecchio cavallo di battaglia di
An, il rafforzamento dei poteri del premier. L’uscita di Domenico Fisichella dal
partito è indice di questo profondo malessere. Viceversa il centrosinistra, se non
del tutto contrario in certi suoi settori proprio al rafforzamento dei poteri del premier (in particolare in certi ambienti prodiani), è compatto nell’opposizione alla
devolution bossiana, ed ha scelto di dar vita ai comitati “Salviamo la Costituzione”
presieduti dal Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Da ultimo è significativo che proprio sulla devolution la Conferenza Episcopale Italiana
abbia espresso perplessità similari a quelle dell’Unione, parlando in toni preoccupati della necessita’ “di contrastare con la massima attenzione la creazione di 20
servizi regionali diversi”.
Nelle parole dei vescovi pare di poter cogliere la dimostrazione di quanto si diceva prima, e cioè che la politica attuale, in cui il ruolo dei cattolici laici è ridotto
quasi all’irrilevanza, si limiti ad accontentare alcune esigenze della cultura cristiana,
dando però all’intera legislazione nazionale un’impronta culturale estremamente
lontana dai valori cattolici e dalla dottrina sociale della Chiesa. Questo avviene indipendentemente dall’essere al governo il centrodestra o il centrosinistra. Il ruolo
dei cattolici nella società italiana, al momento, è limitato al gentilonismo dei “voti
del cielo”.
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Politica internazionale
a cura di Mario Giro
Germania incerta; Francia in turbolenza
• Entrambi i paesi al cuore dell’Unione Europea, la Francia e la Germania,
stanno attraversando un periodo di turbolenza che rende improbabile un rapido rilancio del processo di integrazione.
In Germania la sconfitta della SPD alle elezioni amministrative di aprile, ha
costretto Gerarhdt Shroeder ad andare a elezioni anticipate in settembre. Questa
scelta repentina del cancelliere ha scosso l’ambiente politico tedesco, abituato a
procedure meno brusche. Si è trattato tuttavia di una decisione vincente perché alle elezioni, pur partendo con un ampio distacco e avendo perso tutte le locali e le
amministrative degli anni precedenti, la SPD – condotta da un cancelliere che dà il
meglio di sé in campagna elettorale – ha ritrovato slancio ed è giunta seconda per
un soffio: 222 seggi a 226. La conseguenza è stata, dopo quasi due mesi di negoziato, la riedizione della Grosse Koalition, come nel 1966, condotta dalla prima donna cancelliere della storia tedesca: Angela Merkel. Chi si aspettava un rapido rilancio dell’economia attraverso profonde riforme o una ripresa dell’Europa condotta
da una Germania nuova, è rimasto deluso: la coalizione tra SPD e CDU sarà la
collaborazione prudente tra due partiti fino a ieri antagonisti e oggi costretti a collaborare. In altri paesi, come nella vicina Francia, tali forme di coabitazione non
funzionano. Non è detto però che la Germania non riservi sorprese da questo punto di vista. In passato l’esperienza della coalizione diede buoni frutti, ma soprattutto é la biografia della nuova “cancelliera” – originaria dell’est e dalla personalità risoluta – che fa sperare in un nuovo protagonismo della Germania. L’Europa ne ha
certamente un gran bisogno.
•
Dal novembre 2004, quando Nicolas Sarkozy diviene presidente dell’UMP, il
partito creato da Jacques Chirac, la scena politica francese è dominata dalla sfida
tra il vecchio Presidente della Repubblica e il giovane ambizioso ministro dell’Interno d’Oltralpe, accusato di essere troppo autonomo e di giocare a fare il solista.
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Tutta la carriera di Sarkozy è infatti la corsa di un outsider, un “maverick” come si
direbbe negli Usa, un politico senza padrini né filiazioni. Un anno dopo, il duello
tra i due non si è attenuato, anzi ha mietuto la sua prima vittima illustre nei panni
dell’ex primo ministro Raffarin che ha dovuto rassegnare le dimissioni dopo la vittoria dei No al referendum del 29 maggio per la ratifica del trattato costituzionale
europeo.
Il primo ministro si è battuto per il Sì, assieme alla gran parte della classe politica francese, fatte salvo le ali estreme. Tuttavia la maggioranza ha scelto di opporsi,
facendo subire a Chirac una sconfitta paragonabile a quella dello scioglimento dell’Assemblea nazionale nel ’97. I francesi hanno votato No soprattutto per cause interne: il cattivo andamento dell’economia, la sfiducia nelle riforme proposte dal
governo. Ma certamente anche il dibattito sulla futura adesione della Turchia e la
difficile assimilazione dei nuovi 10 membri hanno avuto il loro peso.
Raffarin era stato scelto dal presidente dopo la sua rielezione, come uomo dal
profilo moderato e per contrastare le ambizioni ad occupare palazzo Matignon di
Sarkozy, che aveva dovuto accontentarsi del ministero dell’Interno. Da quel posto
il dinamico politico gollista, un tempo alleato di Balladur nelle presidenziali del
95, ha costruito la sua immagine di uomo forte, affidabile nelle scelte per la sicurezza (uno dei temi della campagna presidenziale), pronto a dirigere la Francia. Per
toglierlo da un posto considerato troppo mediatico, e metterlo in difficoltà secondo alcuni, Chirac aveva spostato Sarkozy al ministero dell’Economia e Finanze nel
secondo governo Raffarin e dato place Beauvau al suo fidato segretario generale
dell’Eliseo, Dominique de Villepin. Ma anche dalla nuova postazione il ministro
aveva proseguito la sua opera autonoma di rafforzamento di un’immagine da “presidenziabile”. Dopo i risultati del referendum, Raffarin è stato il capro espiatorio
predestinato, come accade al Primi ministri in Francia, chiamati anche i “fusibili”.
A quel punto Sarkozy è tornato alla carica e al presidente non è rimasto che nominare primo ministro Villepin, il collaboratore di sempre. Il difetto di quest’ultimo
è di non essere mai stato eletto, non essersi mai cimentato con una campagna elettorale e di apparire come il puro prodotto delle Hautes Ecoles che in Francia sfornano a getto continuo gli alti funzionari di Stato. In compenso Sarkozy è tornato
all’Interno. Tra i due uomini il rapporto è molto difficile, talvolta le dichiarazioni
vanno sopra le righe. Si tratta di una specie di coabitazione tra due anime dello
stesso governo. Sarkozy, che controlla il partito, mira alle elezioni presidenziali del
2007 e ha imposto all’UMP di scegliere il candidato in fase congressuale, bloccando così ogni possibile intervento di Chirac.
•
A sinistra le cose non sono più chiare. Anche per il Partito socialista (PS) il referendum è stato un momento traumatico, già nel corso della campagna elettorale.
Laurent Fabius, ex primo ministro di Mitterrand e uno dei capi socialisti storici,
aveva spaccato il fronte schierandosi per il No, assieme ai trotzkisti e ai comunisti.
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Per un politico liberalsocialista come lui si è trattato soprattutto del tentativo di
rientrare sulla scena politica, dopo alcuni anni di oscuramento, dovuto in parte a
guai giudiziari. Anche se l’assemblea del PS aveva in precedenza stabilito la linea
del sostegno al Si, Fabius si era desolidarizzato, auto-sospendendosi de facto dalla
direzione del partito.
La vittoria del No lo ha ricompensato dandogli un’improvvisa nuova popolarità e mettendo in imbarazzo il giovane leader del PS, François Hollande, succeduto alla testa della formazione dopo la famosa rinuncia di Lionel Jospin, la sera del
primo turno delle presidenziali del 2002. La crisi socialista è tanto più paradossale
se si pensa che alle ultime regionali del 2004 il PS aveva strappato 20 regioni su 22
alla destra. Sempre minacciato dall’estrema sinistra, che non cessa di attaccare socialisti alla stessa stregua dei gollisti e che presenterà certamente uno o più candidati alle prossime presidenziali, il PS sa di rischiare ora anche una frammentazione
interna. Se Fabius decidesse di presentarsi, suscitando forse anche le ambizioni di
qualcun altro, l’incubo dei socialisti è di rivivere l’esclusione dal secondo turno.
Non altrimenti è da leggere l’invito rivolto a Romano Prodi al recente congresso
PS per parlare delle primarie dell’Ulivo: la formula italiana potrebbe rappresentare
per i socialisti francesi quella quadratura del cerchio necessaria a ricostruire un’unità a rischio.
•
Mentre la classe politica d’oltralpe si divide in un tipico esercizio di “politique
politicienne”, le banlieue francesi sono state attraversate da un vento di rivolta. Per
circa un mese migliaia di giovani, in maggioranza rappresentanti le seconde e terze
generazioni degli immigrati arabi o africani, sono scese in piazza di notte incendiando automobili, distruggendo negozi, stazioni di servizio ecc. er scontrandosi
con le forze dell’ordine, in un fenomeno violento senza precedenti per la sua estensione. Il ministro dell’Interno Sarkozy ha scelto questa occasione per lanciare una
delle sue frasi che riecheggiano il linguaggio dell’estrema destra lepenista, un modo
per mandare uin messaggio agli elettori di quella parte politica: ha chiamato i giovani “feccia”. Ma al di là delle esternazioni dei politici, va detto che molti intellettuali, come il filosofo Filkienkraut o l’accademica di Francia Carrère d’Encausse,
hanno espresso giudizi molto duri sui giovani ribelli, accusandoli di non voler integrarsi, si essere il risultato del “comunitarismo” (il vivere in comunità separate, ciò
che è contro lo spirito stesso della laicità repubblicana), di avere “usi e costumi
troppo africani o arabi” ed altro.
Si nota quindi una reale frattura di comunicazione tra i giovani figli di immigrati – quasi tutti con cittadinanza francese – e l’opinione pubblica. Molti francesi
considerano l’integrazione fallita, dopo anni di retorica “repubblicana”, cioè il riferimento ai valori della repubblica davanti alla quale tutti sono uguali nello spirito
della laicità dello stato. Va notato che il fallimento è stato causato piuttosto dalla
non applicazione del modello repubblicano stesso. La frattura sociale è facilmente
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riscontrabile dalla ghettizzazione di intere fasce di popolazione, tra le meno agiate.
Le enormi cités, dove vivono ammassati solo immigrati o poveri, non corrispondono in nulla al modello integrativo alla francese. Il ghetto francese esiste ed è ben visibile nella struttura abitativa delle città. Nel 2005 si contavano oltre 700 quartieri
“sensibili” in Francia. La cartina della loro dislocazione corrisponde alle zone di
turbolenza di queste notti incendiarie.
Non va dimenticato che non si tratta di un fenomeno nuovo: già negli anni
Ottanta rivolte simili si sono avute nelle stesse aree, benché in misura meno generalizzata. In discussione in queste ore è proprio la politica della città, che in Francia
è stata oggetto di molte riflessioni (e anche della creazione di un ministero apposito) ma non ha saputo dare risposte determinanti. Negli anni Ottanta le rivolte erano terminate quando gli emiri fondamentalisti erano riusciti a dirottare la rabbia
giovanile verso la moschea, la reislamizzazione dal basso, l’indottrinamento. Abbiamo visto le conseguenze di tale manovra. Quale sarà lo sbocco che oggi sarà
proposto ai giovani beurs di oggi?
Medio Oriente e Nord Africa: primi mutamenti in uno scenario ingessato
• A fronte dello stato comatoso della politica europea di relazione con il mondo arabo, dimostrata anche dal fallimento del Vertice Euromed di novembre, al
contrario gli Usa – malgrado l’evidente difficoltà a pacificare l’Iraq – sembrano ottenere alcuni successi. La strategia americana del Grande Medio Oriente, incentrata sui rapporti bilaterali, la spinta alla democratizzazione e la mediazione nelle crisi, fa alcuni passi in avanti.
Egitto
In Egitto si sono svolte in autunno le elezioni presidenziali e legislative. Nel
primo caso la vittoria annoiata di Mubarak non ha destato sorprese, anceh se si è
assistito per la prima volta a un confronto tra candidati. Nel caso del voto per il
parlamento invece, l’affermazione del partito dei Fratelli Musulmani che conquistano oltre 80 seggi, anticipa una tendenza che potrebbe essere ripresa da altri paesi
arabo-musulmani. Il partito del presidente rimane maggioritario, complice un
complesso sistema elettorale a vari turni, ma la novità rimane, soprattutto se si tiene conto della presenza dei Fratelli musulmani in molti altri paesi cosiddetti moderati, come la Giordania. Si capisce meglio così la violenta critica che i capi di al
Qaeda da tempo rivolgono alla formazione fondamentalisti, proprio per aver scelto
la via elettorale e il gioco democratico. Un successo di tale opzione è un grave rischio per coloro che hanno puntato tutto sulla violenza, sul terrorismo e sullo
scontro di civiltà.
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Israele
In Israele, il completamento in agosto del ritiro israeliano da Gaza, che molti
osservatori consideravano improbabile, crea una nuova situazione politica. Da una
parte l’Amministrazione Palestinese è messa per la prima volta di fronte alle proprie responsabilità. A Gaza dovrà mantenere l’ordine ed è costretta a dar prova di
fermezza con Hamas che ha nella Striscia il suo punto di forza. Dall’altra il primo
ministro Sharon, che non si è piegato alle critiche piovute da destra, è sempre più
solo nel suo partito, il Likud. A fine anno la grande coalizione con i laburisti, che
ha permesso di sostenere l’impatto degli attacchi, finisce su un binario morto. A
novembre il partito laburista elegge a sorpresa un nuovo leader, Amir Peretz, sindacalista di origine ebreo-marocchina, scelto su un programma economico spiccatamente progressista. Il nuovo segretario parla di “Israele stato di tutte le religioni” e
decide il ritiro dei ministri dal governo di coalizione. A Sharon non resta che convocare le elezioni per la primavera. Tuttavia il vecchio primo ministro non si arrende: stretto fra le critiche nel suo partito e la fine dell’alleanza con la sinistra, con
una mossa improvvisa dichiara di lasciare il Likud per formare un nuovo partito
centrista. Lo segue Shimon Peres che si è visto sfiduciato dal Labour. I primi sondaggi gli danno ragione: la nuova formazione è prima mentre il Likud affonderebbe perdendo molti consensi. Siamo forse alla vigilia di una vera svolta politica in
Israele che non mancherà di influenzare i palestinesi. Abu Mazen infatti è in continua polemica con Hamas che non vuole abbandonare il controllo di Gaza. Alcuni
scontri armati hanno portato alla luce la tensione latente tra l’organizzazione islamista e la polizia palestinese.
Libano
Nel vicino Libano il 2005 è stato l’anno del ribaltamento. L’assassinio, avvenuto in febbraio, di Rafik Hariri, ex primo ministro della ricostruzione post-bellica,
ha provocato una fortissima ondata di indignazione contro la Siria, accusata dell’attentato. Enormi manifestazioni hanno attraversato le vie di Beirut e anche il funerale dell’uomo politico si è trasformato in una protesta di massa. Le pressioni internazionali su Damasco, in cui Francia e Usa si sono trovate fianco a fianco, sono
state talmente forti da costringere al ritiro i circa 20.000 militari che stazionavano
nel paese dagli anni Settanta. Nel giugno, per la prima volta dal 1972, i libanesi
hanno potuto recarsi alle urne senza la tutela siriana. I risultati hanno premiato la
formazione plurale diretta dal figlio di Hariri, Saad, una colazione di cristiani e
musulmani che ha anche avuto l’appoggio degli Hezbollah sciiti del sud. Tutte le
formazioni politiche hanno inserito nelle loro liste personalità di varie religioni e
provenienza geografica: un primo passo per mettere fine alla rigida partizione etnico-religiosa che caratterizzava la politica libanese. Alcune donne hanno potuto essere elette e fanno parte del nuovo governo di coalizione, in cui ha accettato di en-
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trare anche il partito Hezbollah. Il ritrovato pluralismo libanese, affrancato dalla
tutela siriana, rappresenta un esempio unico di democrazia e di coabitazione tra diversi, un messaggio importante per un mondo arabo tentato dall’omologazione a
causa della sfida estremista.
Nord Africa
Anche in Nord Africa si segnalano alcune novità, in controtendenza rispetto
alla minaccia fondamentalista. Nell’Algeria spossata da più di dieci anni di guerra
civile, la parziale riforma del codice della famiglia, con alcuni avanzamenti sull’affido dei figli alla madre in caso di separazione e l’obbligo di assicurare l’alloggio all’ex moglie, ma soprattutto l’approvazione a settembre per via referendaria di una
Carta per la pace, che metta fine al conflitto intestino, segnano una svolta di rilievo. La politica della concordia civile del presidente Bouteflika segna così un altro
passo in direzione dell’uscita dalla crisi. Rimangono tuttavia le polemiche sull’amnistia promessa ai terroristi e ai militari, in un paese che ha visto il numero delle
vittime giungere a circa 200.000, con un milione di sfollati e almeno 18.000
scomparsi.
Marocco
In Marocco, il giovane sovrano Mohammed VI, dopo aver abolito il tutorato
dell’uomo sulla donna e severamente ristretto le possibilità di ripudio e di poligamia, ha preso un’iniziativa coraggiosa sulla riconciliazione nazionale. A Rabat è stata istituita l’Istanza di Equità e Riconciliazione (sul modello sudafricano) che ha rimesso il suo rapporto al re il 30 novembre. In sedute pubbliche (ma senza far nomi) trasmesse dai media, le vittime delle violazioni dei diritti umani dal 1956 al
1999, o i loro parenti, hanno potuto denunciare le violenze subite. Ai congiunti
degli scomparsi è stato concesso di inoltrare denuncia davanti all’Istanza. Così è
venuta alla luce la storia segreta dei regni precedenti, sono stati identificati e chiusi
numerosi luoghi di detenzione clandestini, riesumati molti corpi, indennizzate le
vittime o i loro familiari. L’Istanza di arbitraggio, che si è occupata dei risarcimenti,
ha versato oltre 120 milioni d dollari per circa 6000 casi. Si tratta della più grande
operazione di questo tipo messa in atto in un paese arabo-islamico, un’occasione di
trasparenza e di catarsi nazionale con l’obiettivo di riconciliare il Marocco con il
suo passato. Malgrado il basso profilo appositamente tenuto dai componenti dell’Istanza (quasi tutti ex prigionieri politici o militanti dei diritti umani), tale esperienza è stata seguita con interesse dai media internazionali arabi ed è certamente
destinata a fare scuola per divenire un modello imitabile.
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Il Polisario
Dopo una lunga stasi, si riapre anche la possibilità di una soluzione dell’annosa
questione Saharaoui. Il Polisario (Fronte per la liberazione dell’ex sahara spagnolo)
ha recentemente ceduto alle pressioni americane e liberato gli ultimi 400 prigionieri
di guerra marocchini. Si tratta di una storia dolorosa, risolta dall’impegno del senatore Lugar, presidente della commissione affari esteri del Senato, nel quadro della strategia americana per il riavvicinamento tra Algeria e Marocco, entrambi in ottime relazioni con Washington. Al momento del cessate il fuoco del 1991, vi erano oltre
2200 prigionieri marocchini nei campi desertici di Tindouf, una regione dell’Algeria
che sostiene il Polisario. Quest’ultimo ne libera poche decine alla volta, nel corso di
dieci anni. Dal canto suo, a Rabat la monarchia ha dimenticato i prigionieri del deserto, che diventano dei fantasmi. È Maometto VI a riaprire la ferita nel 2005, chiedendo la liberazione dei “dimenticati del deserto”. Finalmente l’Algeria, cedendo alle
pressioni americane, ottiene dal Polisario il loro rilascio e il 18 agosto gli ultimi 400
tornano a casa. L’antica alleanza americana con il Marocco e le recenti relazioni stabilite con Algeri, spingono alla distensione tra i due paesi, in antagonismo fin dalla
“guerra delle sabbie” dell’inizio anni Sessanta. Per gli Usa la stabilità dell’area nord
africana è molto importante, soprattutto da quando è stato accertata la presenza di
gruppi terroristici salafiti che agiscono nella zona saheliane a sud dei due paesi maghrebini. Il rapimento di turisti occidentali nel deserto e alcune azioni a sud di Marocco
e Algeria, hanno da tempo messo in allarme numerosi servizi di intelligence.
Pericolo di infiltrazioni terroristiche in Africa
• L’“islam nero”, 250 milioni di fedeli, si è sempre distinto da quello arabo per
le sue capacità di adattamento in seno a società etnicamente e religiosamente plurali. Il sincretismo e la mescolanza dei riti sono la regola nella maggioranza dei paesi africani. In Africa islam, cristianesimo e animismo si fronteggiano da avversari
ma non da nemici, o almeno il conflitto è assorbito dal sistema clanico e nella vita
quotidiana. I passaggi da una fede all’altra sono tollerati, le famiglie “miste” frequenti, provocando l’ira o la derisione dell’islam arabo. Tuttavia in alcuni paesi o
regioni, le frizioni possono sfociare in conflitto. I due paesi africani dove il pericolo
di contaminazione del terrorismo internazionale è oggi più forte sono la Nigeria e
il Sudan. Le cronache riportano episodi legati ad al Qaeda in Africa Orientale, nella Somalia dei signori della guerra, in Eritrea, in Tanzania e Kenya a causa degli attentati alle ambasciate Usa, nell’isola arabofona di Zanzibar.
•
Tuttavia Nigeria e Sudan possiedono le caratteristiche necessarie per l’impiantarsi di una rete eversiva stabile. Entrambi i paesi sono ex colonie britanniche, han-
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no conosciuto numerosi colpi di stato militari, adottato un quadro istituzionale federale per evitare le spinte secessioniste (Biafra per la Nigeria, Sud per il Sudan),
sempre incarnate da leader cristiani. Gli studiosi hanno messo in luce legami antichi tra i due paesi, complice il passaggio obbligato attraverso Khartoum che i nigeriani dovevano compiere sul cammino verso la Mecca. Un importante flusso migratorio trasversale è sempre esistito e ancora oggi città sudanesi come Nyala, el Facher (capoluogo del Dafur) o Kassala hanno circa un 20% di popolazione di origine nigeriana. Gli scambi intra-islamici tra i due paesi sono avvenuti anche grazie
alle confraternite musulmane, come quelle impiantate nel Darfur da missionari nigeriani. Come avviene in Nord Sudan, in Nigeria si applica la sharia in 12 stati sui
36 che conta la federazione. Una caratteristica comune ai due paesi è l’appoggio
dato dalle autorità coloniali alle elite islamiche: nel nord Sudan e nord Nigeria
sheik e emiri locali furono frequentemente posti a presiedere le corti di giustizia locali. In Sudan ciò ha permesso di contenere per un tempo il contagio indipendentista proveniente dall’Egitto. I rampolli dell’aristocrazia musulmana sudanese furono sconsigliati di proseguire gli studi superiori a Beirut o al Cairo, favorendo la nascita di scuole islamiche confraternali locali. Similmente in Nigeria i missionari
cristiani furono intralciati e ostacolati dall’autorità britannica nella loro progressione verso nord. Così poco a poco si è venuto a creare in entrambi gli stati una doppia velocità, con un nord sottoposto alla legge islamica e un sud amministrato dalla
legge del colonizzatore adattata alle tradizioni ancestrali. Il diritto musulmano in
vigore nel Nord Sudan fu codificato nel 1915 e venne utilizzato per la redazione di
quello del Nord Nigeria nel 1959. L’anno dopo, all’indipendenza, erano sudanesi
ad occupare i posti chiave nelle corti islamiche del nord Nigeria. Dopo la decolonizzazione in entrambi i casi il doppio sistema giuridico è rimasto intatto, irrigidendosi in scontro confessionale.
•
Il tentativo è ancora oggi lo stesso: estendere la sharia a tutto il paese o almeno
anche ai non-musulmani presenti nelle rispettive regioni del nord. La trentennale
guerra con il Sud ha oggi finalmente avuto fine con la firma dell’Accordo di pace
del 9 gennaio, e non è stata messa in discussione nemmeno dalla morte di John
Garang, il leader cristiano del Sud, avvenuta per incidente di elicottero all’inizio di
agosto. Ciononostante il lungo conflitto ha mutato il volto del paese: la popolazione cristiana della capitale Khartoum è passata da qualche decina di migliaia negli
anni Settanta, a circa un milione oggi. Anche la crisi in Darfur ne è una diretta
conseguenza, complicata nei mesi recenti dalla divisione in seno alla ribellione antigovernativa. Il passaggio della Nigeria alla democrazia nel corso degli anni Novanta e l’elezione di Obasanjo alla presidenza, un cristiano protestante, non ha modificato i termini della questione: il sistema federale permette agli stati del nord di
applicare il codice islamico malgrado le proteste delle chiese. In Sudan anche l’estromissione al potere del National Islamic Front di Hassan el Turabi, il leader fon-
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damentalista che aveva ospitato Bin Laden negli anni Novanta, ha dato un forte
impulso ai negoziati tra governo e SPLA. Tuttavia, anche secondo l’accordo, la sharia è iscritta come fonte di diritto e resta applicabile al nord. Attualmente in tutti e
due gli stati, sotto la spinta della lotta al terrorismo e per mantenere i migliori rapporti possibili con gli Usa, prevale un’interpretazione “tollerante” della sharia: si
denunciano gli eccessi dei sauditi che applicano il taglio della mano per i ladri,
mentre “è meglio utilizzare la frusta”, prevista nell’80% delle pene. I sanguinosi
scontri intra-comunitari di cui è costellata la cronaca nigeriana, anche se possono
aver origine in questioni legate al controllo di mercati o risorse, sono aggravati dal
contrasto sulla legge islamica. La crescita di movimenti radicali in entrambi i paesi
ha messo in discussione lo statuto delle minoranze cristiane nelle regioni del nord,
vittime primarie delle campagne contro l’alcolismo, la prostituzione o i cattivi costumi. La stessa controversia sull’applicazione della pena di morte alle adultere (le
storie di Amina e di Safiya che tanto hanno fatto scalpore nelle cronache occidentali) è la conseguenza di tale situazione. Gravi sono anche le reazioni al fenomeno
dei convertiti (che non diminuisce in Nigeria, né scompare in Sudan) o le accuse
di blasfemia rivolte ai cristiani.
Tale situazione ha come conseguenza di mettere in crisi la tenuta unitaria dei
due stati. Gli estremisti islamici sono più interessati alla religione che all’unità nazionale e non vedono male una possibile partizione, sia in Nigeria che in Sudan.
Paradossalmente si tratta della stessa posizione di molti non-musulmani secessionisti. È possibile che le reti terroristiche sostengano tale eventualità per procurarsi
degli approdi sicuri in territori omogenei. Il contesto della lotta globale al terrorismo rende tale eventualità una minaccia, percepita come tale dalle cancellerie occidentali in particolare nel caso della Nigeria.
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Ricerche
a cura di Andrea Bixio
Individuo e Moltitudine
di Fedele Cuculo (*)
I nuclei tematici
• Tra gli interessi più significativi della riflessione sociologico-giuridica e filosofico-politica contemporanea, con sempre maggior ricorrenza compare il riferimento alla categoria di moltitudine, quale rinnovato paradigma ermeneutico dei
rapporti tra singolarità individuali, collettività sociali, dinamiche ed istituzioni di
potere.
Ne rappresentano rinnovata testimonianza le recenti giornate di studio organizzate dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna (17-19 novembre 2005), orientate appunto all’investigazione intorno ai profili di problematicità e suggestività del tema in discorso.
In realtà, mai con tale intensità come nelle società del post-moderno si è percepito – soprattutto in certi ambienti scientifici del contesto continentale europeo –
il bisogno di confrontarsi con gli esiti della globalizzazione economica, politica,
culturale; questa direttrice di ricerca si è sviluppata problematizzando l’orizzonte
contrattualistico-politico moderno, mediante la proposizione di modelli interpretativi teorici elaborati allo scopo di attingere ulteriori e più appaganti livelli di
comprensione della complessità della realtà sociale.
Più in particolare, le linee di analisi qui segnalate trovano svolgimento in corrispondenza – per un verso – con le più esplicite indicazioni di crisi degli schemi politici e giuridici della rappresentanza statual-nazionale (si pensi alla caduta degli ordinamenti di ispirazione sovietica, ai peculiari attivismi dei movimenti di opinione
e di protesta, ma anche alle teorie e ai processi della cd. de-istituzionalizzazione) e
– per l’altro – con la reticolarizzazione degli assetti sociali (di reciproca e più imme(*) Professore a contratto di Sociologia del Diritto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia - Università di
Cassino.
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diata connessione) implicati dall’affermazione dei mercati globali. In un quadro
siffatto, emerge con progressiva nettezza (attraverso il recupero dell’idea di moltitudine) il tentativo di definizione – originale ma non improvvisato – di una dimensione sociale di congiunzione delle aspirazioni di pertinenza dell’individuo
(inteso nella sua accezione di irripetibile singolarità desiderante) con gli spazi di
autodeterminazione della socialità collettiva.
Nell’intendimento di una loro unitaria profilazione, va, dunque, rilevato come
i percorsi ermeneutici tracciati dai teorici della moltitudine – seppur connotati
dalla comune filiazione spinoziana – si distinguano, in termini sostantivi, per le rispettive sensibilità di ricostruzione ontologica della società ed in ragione delle rilevanti diversità di prospettiva ideologica.
La moltitudine nella prospettiva politica
• Tra i più significativi contributi orientati alla strutturazione di una teoria
della moltitudine, denotano, senza dubbio, particolare meritevolezza di menzione
alcuni pregevoli, recenti lavori ricostruttivi dovuti all’opera di Etienne Balibar (cfr.
Etienne Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo, tr. it., Manifestolibri, Roma 2004; Id., Spinoza. Il transindividuale, tr. it., Ghibli, Milano
2002; Id., La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, tr. it., Mimesis Eterotopia, Milano 2001; Id., Citoyen Sujet. Réponse à la question de J.-L. Nancy:
Qui vient après le sujet?, «Cahiers Confrontation», 20/1989).
Balibar analizza suggestivamente i profili strutturali del complesso rapporto
(insieme permanente e dinamico) intercorrente tra masse e passioni, in riferimento specifico alla duplicità vettoriale (vale a dire in senso oggettivo e soggettivo) della paura quale sentimento collettivo: “la crainte des masses” viene, dunque,
delineandosi come “formulazione [intenzionalmente] ambivalente” del genitivo
che l’espressione (la paura delle masse) contiene (cfr. Spinoza. Il transindividuale,
cit., p. 14), incarnazione di pulsioni reciproche che le moltitudini, nel contempo, patiscono ed ispirano nella dialettica materiale del confronto con le istituzioni di potere.
Il consapevole perdurare delle condizioni di fluctuatio animi delle masse, secondo la perenne oscillazione tra amore e odio nel loro direzionamento politico,
sviluppa la trasposizione dell’idea spinoziana di obbedienza alle leggi come rappresentazione dell’“esaurimento [della coattività] dello Stato nel compimento del suo
fine” (cfr. ivi, p. 15), nella direzione di una democrazia della moltitudine auspicabile ma disarmata.
D’altra parte, nella prospettiva interpretativa di Balibar, la centralità ontologica
della comunicazione intersoggettiva alimenta l’inestricabile composizione di individualità e moltitudine, che ridimensiona la stessa pensabilità della riduzione totalitaria delle masse in forma di disumanità costretta e dispersa: i fantasmi orwelliani
della nostra epoca e i timori del controllo elettronico delle opinioni fanno i conti,
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in questo senso, con la presenza politica della moltitudine e la sua inestinguibile
coscienza di sé.
All’idea cardinale sin qui illustrata della transindividualità quale essenza del legame collettivo si giustappone la valorizzazione negriana della moltitudine come
dimensione di resistenza, mutamento politico e dispiegamento delle cupidità autorealizzative delle singolarità desideranti.
Inscritto nell’orizzonte della critica neomarxista dei sistemi di biopotere, il pensiero di Antonio Negri (cfr. Michael Hardt-Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e
democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004 e Antonio Negri, Guide. Cinque lezioni su Impero e dintorni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003)
articola una lettura antagonistica della moltitudine come momento espressivo di
anti-individualismo politico (nella misura in cui postula il contrasto ai tentativi di
atomizzazione della società politica nel confronto con le strutture globalizzate di
potere economico).
Trasfigurazione sociale di un’ontologia dell’immanenza (elaborata sul terreno
di crisi del modello dello stato-nazione ed emancipata dai vincoli del circuito teorico cittadinanza-rappresentanza) e declinazione di movimenti collettivi, la categoria
di moltitudine qui evocata rifugge la connotazione di compatta indistinzione tradizionalmente involgente l’idea di massa, il suo tratto selvaggio di folla idolatra,
manipolabile e crudele (cfr. Paolo Cristofolini, Saeva multitudo, comunicazione al
convegno bolognese del 17-19 novembre 2005 [per cui supra]), in esplicita e radicale autonomia rispetto agli spettri sociali sottesi ai concetti di proletariato e classe
operaia.
Nella reciproca implicazione di persona e moltitudine (quale dimensione etica
di coalescenza delle singolarità) si sviluppa l’attitudine alla reticolarità, concepita
come capacità di produzione di immaterialità e legame sociale.
La focalizzazione negriana della costitutività della moltitudine – nella teleologia di forma aperta di una società senza stato – compendia processo immaginativo
e generazione istituzionale, arrestandosi sul crinale di una incompiuta definizione
(laddove si innestano le più ponderate mozioni di censura teorica): proprio a questo stadio di riflessione, infatti, si rivela (in tutta la sua consistenza concettuale) il
nodo interrogativo della sensibile mancanza di prefigurazione degli assetti giuridico-politici suscettivi di sostituire sovranità e strutture statuali.
In questo senso specifico, l’aspirazione al tratteggio delle condizioni di inveramento di una democrazia assoluta della moltitudine tradisce i segni della sua inconclusione.
La moltitudine nella prospettiva esistenziale
• Alla stregua di un diverso dispositivo ermeneutico (e valorizzando un peculiare angolo di prospettiva teorica di più schietta matrice spinoziana), Chantal Jaquet tematizza in forma originale la dimensione della corporalità degli individui
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che compongono la moltitudine (cfr. Chantal Jaquet, Sub specie aeternitatis. Etude
des concepts de temps, durée et éternité chez Spinoza [prefaxe d’Alexandre Matheron],
Kime, Paris 1997 e Ea., Le corps, Presses Universitaires de France, Paris 2001).
In tale cornice di riecheggio deleuziano (cfr. Gilles Deleuze, Spinoza. Filosofia
pratica, tr. it., Guerini e Associati, Milano 1998), il tentativo di articolare una visione fisicalista delle relazioni tra personalità e corporeità trova espressione nella
rappresentazione antiaristotelica di una speciale corrispondenza tra il livello della
costituzione passionale dell’individuo (le attitudini del corpo ad agire e a patire,
all’affezione attiva e passiva) e le sue capacità di conoscenza distinta, che permea
di sé l’ordito dei rapporti interindividuali nella proiezione collettiva della moltitudine.
Per converso, nella riflessione critica di Jean Luc Nancy (cfr. Jean Luc Nancy,
La comunità inoperosa, tr. it., Cronopio, Napoli 2003; Id., La creazione del mondo o
la mondializzazione, tr. it., Einaudi, Torino 2003; Id., Essere singolare plurale, tr. it.,
Einaudi, Torino 2001), l’opportunità del ricorso ad un’idea di “essere-in-comune”
(che preceda lo stesso spazio della politica) si interseca – non certo per nominalismi di maniera – all’esplicitazione di perplessità investenti l’inadeguatezza categoriale del concetto di moltitudine, considerato nella sua accezione negriana: “[…] è
necessario superare l’idea di popolo. Il popolo è sempre ispirato ad un’idea di naturalità, di realtà etnica, ma nello stesso tempo bisogna dire che «c’è» un popolo. Alla
parola popolo si accompagna tutta la pesantezza della tradizione che si ispira al
concetto di Gemeinschaft, di Volk. […] Non credo che la moltitudine sia la soluzione: è una prospettiva che non mi convince. Credo che ci sia bisogno di un concetto
di unità che rimpiazzi quella fornita dal popolo. Quando si parla di moltitudine si
parla di qualcosa che ha qualcosa a che fare con la singolarità. Mi sembra che Toni
Negri intenda per moltitudine un insieme eterogeneo di uomini e donne che impone ai singoli una comunicazione costante ispirata alla creatività e all’erotismo. In
questo modo per me è come se la moltitudine si trasformasse in una collettività
amorosa che ha sempre bisogno di una forma e di una unità. Ho l’impressione che
la creatività della moltitudine, in questa versione elaborata da Negri, riprenda
qualcosa della creatività e della spontaneità dei situazionisti. È un concetto fragile
perché la fiducia nella creatività e nella spontaneità della moltitudine si appoggia
all’idea di un soggetto tradizionale.” (sequenze tratte dall’intervista pubblicata da
«il manifesto» del 12 novembre 2005).
Val senza dubbio la pena di considerare, conclusivamente, come la potenziale
ontologizzazione del legame sociale postulato dal concetto di moltitudine rischi di
condurre allo svuotamento del primato valoriale dell’individuo o ad una sua penetrante compromissione, mentre l’assolutizzazione sostanzialista della categoria di
persona (nella sua connotazione di alterità singolare implicata dal superamento
della prospettiva contrattualista) depriva di senso e comprime gli spazi delle istituzioni della consociazione politica.
Per queste ragioni, il riconoscimento della costituzione passionale di individui
e moltitudine non può ragionevolmente corrispondere all’ipostasi della rimozione
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dell’idea di modernità come transizione dal dominio delle passioni alla dimensione
del confronto e della selezione degli interessi.
Così, le aporie definitorie della moltitudine e dell’invocata potenza del numero
(quali concetti di teoria politica), nonché i problemi dell’unanimità come volontà
comune delle masse (della loro decisionalità e delle condizioni materiali dell’obbedienza), se per un verso concorrono indubbiamente a delineare un quadro di irrisolte complessità, per un altro verso testimoniano l’ineludibilità del cimento teoretico sul tema della reticolarità delle dinamiche della socialità collettiva post-moderna; di quella dinamica, più in particolare che rinviene nella moltitudine una necessaria (seppur imperfetta) nominazione. Ne scaturisce la consapevolezza di dover
muovere, ancora una volta, alla ricerca di una forma giuridica e politica autentica;
aspirazione a cui a ben vedere non si può mai realmente rinunciare.
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Religioni e Civiltà
a cura di Agostino Giovagnoli
Una singolare mediazione di pace: La Pira in Vietnam
• Quaranta anni fa, l’11 novembre 1965, il presidente nordvietnamita Ho Chi
Minh ricevette ad Hanoi Giorgio La Pira. Pochi giorni dopo, questi raccontò così
quell’incontro sorprendente:
“Questo colloquio finale era stato preceduto, nei giorni precedenti, (8, 9, 10) da altri colloqui interlocutori, preparatori, avuti con i leaders politici del Vietnam (fronte
della patria etc.): tutti questi ‘esami precedenti’ erano stati felicemente superati; ogni sospetto (sempre naturale in casi di tanto peso come il nostro) era stato vinto, la fiducia
verso di noi era divenuta totale, e finalmente si poteva parlare francamente, a cuore libero con i massimi responsabili politici del Vietnam. Le conclusioni? Eccole in sintesi: –
perché il negoziato di pace avvenga […] è necessario a) la cessazione […] di tutte le
operazioni di guerra […] b) la dichiarazione secondo la quale gli accordi di Ginevra
1954 vengono assunti come base del negoziato […] La novità emersa dai nostri colloqui […] è questa: il governo di Hanoi è disposto ad iniziare il negoziato (O. Ci. Min
ha detto: – sono disposto ad andare ovunque; ad incontrarmi con chiunque) senza prima esigere il ritiro effettivo delle truppe americane […] La difficoltà massima che si opponeva all’inizio dei negoziati era, appunto, costituita dal fatto che sino ad ora il Vietnam aveva richiesto, come atto preliminare ad ogni negoziato, l’effettivo ritiro di tutte
le truppe […] il nostro colloquio si è svolto nel contesto di una situazione politica e storica così piena di complessità: perché non bisogna dimenticare che il Vietnam confina –
e non solo geograficamente – con la Cina. Eppure nonostante questa vicinanza e le sue
inevitabili conseguenze, l’apertura fatta verso di noi è stata davvero grande e davvero
audace e impreveduta! ”.
La mediazione italiana
• Ebbe così inizio un tentativo di mediazione “italiana” per fermare la guerra
in Vietnam, le cui premesse si radicano lontano nel tempo, nel momento del di-
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stacco di La Pira e Fanfani, nel 1951, da Giuseppe Dossetti, con il quale aveva condiviso molte battaglie. Dossetti decise infatti allora di ritirarsi dalla lotta politica,
giudicando irrealizzabili gli ideali che egli aveva cercato di seguire fino a quel momento, per i condizionamenti imposti dalla guerra fredda e per l’indisponibilità
della Chiesa a sostenere il suo disegno. Secondo molte ricostruzioni, con il ritiro di
Dossetti, si sarebbe esaurita la spinta ideale che aveva animato la Dc fino a quel
momento e sarebbe iniziata per il partito una fase puramente pragmatica e di gestione del potere, grazie soprattutto al “tradimento” di Fanfani. Ma la permanenza
di La Pira nella vita politica italiana dopo il ritiro di Dossetti indica che, tra i cattolici impegnati in politica, la spinta ideale non si esaurì con quel ritiro. La Pira, inoltre, ha parlato spesso della profonda amicizia che lo legava a Fanfani, indicando tra
le tappe di ciò che egli chiamava un’“alleanza” nel senso biblico del termine proprio
quanto avvenne nel 1951 e coinvolgendo nei suoi ricordi anche una terza importante figura, testimone e in qualche modo ispiratore del disegno storico e politico
cui La Pira e Fanfani sono rimasti fedeli nei decenni successivi: Giovanni Battista
Montini, allora Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, più tardi arcivescovo di
Milano e infine papa con il nome di Paolo VI. Dall’incontro con Montini che avvenne il giorno dell’Epifania del 1951, scaturì, secondo La Pira un vasto disegno
religioso, storico e politico che lo portò a scrivere una lettera a Stalin, a diventare
sindaco di Firenze, ad organizzare i convegni sulla Pace e sulla civiltà, ad incontrare
Chruscev e molto altro, fino al viaggio ad Hanoi del 1965.
Il sindaco di Firenze è stato spesso accusato di ingenuità, di debolezza e o, addirittura, di complicità nei confronti dei comunisti, ma il suo disegno era chiaramente orientato in senso anticomunista. Le loro parole nei confronti dell’Occidente furono spesso severe, riguardo però soprattutto alle scelte compiute dagli occidentali sul modo di presentarsi al mondo, esaltando il mercato o la libertà individuale. La Pira, infatti, valorizzava l’Occidente sotto un profilo diverso e cioè come
espressione della civiltà cristiana. Non era dunque l’Occidente in quanto tale che
egli respingeva, ma un certo modo di interpretarne l’identità e le conseguenze che
ne scaturivano nella politica internazionale, soprattutto in riferimento ai paesi
emergenti dell’Asia e dell’Africa. Analogamente, La Pira criticava alcuni comportamenti americani nel mondo, contrapponendo però l’immagine positiva di un’altra
America e alla richiesta non di abbandonare il “primato” americano bensì di interpretarlo in altro modo, svolgendo quella funzione di “pilotaggio” del mondo
conforme alla missione che la storia assegnava agli Stati Uniti. Per La Pira, insomma, l’emergere di un inedito confronto culturale a livello planetario richiedeva all’Occidente di riproporre in modo radicalmente nuovo e convincente il suo ruolo
di “guida”. Il suo era un “occidentalismo” che guardava il mondo non da Washington ma da Roma: egli non rifiutava un approccio occidentale ma lo subordinavano
ad una superiore prospettiva universalistica e, alla luce di tale prospettiva, egli intuiva che prove di forza come la guerra in Vietnam erano profondamente controproducenti per conquistare alla causa occidentale il Terzo mondo.
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L’apertura di Hanoi
• Una settimana dopo l’incontro di Hanoi, Fanfani – che si trovava a New
York – venne informato della disponibilità vietnamita da un dettagliato resoconto
di La Pira. Egli decise di agire subito nella vesta che egli rivestiva allora di Presidente dell’Assemblea delle Nazioni Unite ed incontrò l’ambasciatore americano all’ONU, Goldberg, attraverso cui inviò a Johnson una lettera con l’informazione della
disponibilità nordvietnamita. Pochi giorni dopo, La Pira scriveva ad Ho Chi
Minh:
“Signor Presidente e caro amico, questa lettera vuole esprimerVi il ringraziamento
profondo, cordiale per l’accoglienza – indimenticabile, piena di calore e di amicizia –
che Primicerio ed io abbiamo ricevuto ad Hanoi da parte Vostra […] Noi vi portiamo,
tutti voi, nel nostro cuore e noi preghiamo e agiamo ogni giorno – e possiamo dire a ciascuna ora del giorno – perché il temporale triste e doloroso che affligge ancora il popolo
eroico del Vietnam possa finire e perché l’arcobaleno della pace possa apparire su tutta
la Nazione vietnamita e, di conseguenza, sull’orizzonte di tutte le nazioni […] Noi
siamo impegnati ad operare ai livelli più alti – spirituali, culturali, politici – del mondo; e noi abbiamo la sensazione che, malgrado le resistenze che si oppongono alla nostra
azione, qualcosa sia in movimento, nelle sedi più alte e decisionali […] Grazie ancora,
con tutto il mio cuore, e che la Vergine Maria ci aiuti”.
Ma il Segretario di Stato americano, Dean Rusk lasciò passare diversi giorni
prima di chiedere ufficialmente a Fanfani chiarimenti sulla proposta vietnamita,
che il Presidente dell’Assemblea ONU si affrettò a comunicare ad Hanoi attraverso
un canale riservato indicatogli da La Pira e di cui constatò immediatamente l’efficacia. Ma l’iniziativa di La Pira e di Fanfani fu inaspettatamente bruciata da un’improvvisa fuga di notizie e soprattutto dalle successive dichiarazioni ufficiali del Dipartimento di Stato, cui seguì la smentita di Hanoi della disponibilità attestata da
La Pira (anche se la smentita non contraddiceva la testimonianza lapiriana). In sostanza, come scrisse parte della stampa americana, i falchi di Washington e quelli
di Pechino si unirono per affondare l’iniziativa, mentre a Mosca si sperava invece
in uno sviluppo positivo dell’iniziativa La Pira-Fanfani.
Le reazioni in Italia
In Italia, furono sollevati molti dubbi sull’iniziativa. Si disse che Ho Chi Minh
non aveva manifestato alcuna autentica disponibilità nel suo incontro con La Pira
e che quindi quest’ultimo si sarebbe inventato o avrebbe amplificato l’apertura
nordvietnamita. Ma la disponibilità di Hanoi ad accontentarsi di una semplice dichiarazione americana di un ritiro delle truppe non fu attestata solo da La Pira:
nello stesso periodo, i diplomatici occidentali ne ebbero notizia anche dai governi
dell’Europa orientale. Fanfani, poi, fu accusato da una parte della stampa italiana
di leggerezza per aver avallato un’iniziativa che gli americani non avrebbero mai
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preso veramente sul serio e Malagodi definì la sua opera “ridicola per non dire
grottesca”. Ma tali accuse sembrano smentite dall’attenzione dimostrata dagli americani, dalla loro richiesta di chiarimenti e persino dai tentativi di screditare la controparte, mettendone in luce le ambiguità, difendendosi contemporaneamente
dalle accuse di una gestione affrettata della questione. A La Pira, inoltre, è stata attribuita la colpa della divulgazione della notizia, il che costituirebbe un’altra dimostrazione della sua ingenuità e della sua mancanza di serietà. Ma non è certo che la
notizia sia stata rivelata – indirettamente – da La Pira e, in ogni caso, la complessa
dinamica della vicebda mette in luce che l’amministrazione americana era infastidita dall’iniziativa e che contribuì ad una dettagliata diffusione di particolari sui
contatti in corso, pur sapendo che ciò avrebbe provocato la reazione cinese e la
conseguente smentita nordvietnamita. Insomma, anche se la fuga di notizie non fu
provocata dal Dipartimento di Stato, il successivo comportamento del governo
americano fu decisivo per “bruciare” l’iniziativa italiana: Washington non voleva
aprire il dialogo con Hanoi. Il giorno dopo il fallimento dell’iniziativa, Paolo VI –
costantemente informato da La Pira di tutta la vicenda – si affacciò a San Pietro
per invocare la pace in Vietnam e il presidente Johnson dovette inviare in tutta
fretta Goldberg a Roma per chiudere l’“incidente”.
Com’è noto, la vicenda ebbe uno strascico tutto italiano. Il 20 dicembre
1965 La Pira concesse, in casa Fanfani, mentre questi era ancora a New York,
un’intervista a Gianna Preda, giornalista de «Il Borghese». L’intervista mostrò
un’immagine totalmente inattendibile di La Pira, secondo la quale il comunismo
era già stato sconfitto, la Cina non rappresentava un serio pericolo, il governo americano non capiva che cosa stava succedendo nel mondo, Paolo VI era troppo esitante, Moro troppo debole, i socialisti poco convincenti e Pietro Ingrao degno di
grande stima. In realtà, molte affermazioni attribuite a La Pira da Gianna Preda assumono un’altra luce se rapportate alla sua ampia visione storica e religiosa ed il
motivo del suo filocomunismo, che ispira l’intervista, appare complessivamente
infondato. Ma per «Il Borghese» il punto cruciale era soprattutto un altro e cioè
l’ammirazione per De Gaulle cui La Pira avvicinava Fanfani, sempre nell’ottica del
suo vasto disegno storico-religioso. Nel clima dell’epoca, l’accostamento divenne la
dimostrazione che Fanfani sfruttava il suo ruolo di ministro degli Esteri per costruire una personale posizione di potere. L’intervista provocò le dimissioni di Fanfani.
L’iniziativa italiana venne giudicata seria da «Le Monde». Oltre a fondarsi su
informazioni attendibili, non assunse valenze antiamericane e si presentò come un
modo per aiutare l’alleato in una situazione difficile. La Pira perseguì l’obiettivo
della pace nella convinzione che la guerra del Vietnam, oltre che dolorosa per il popolo vietnamita, fosse anche pericolosa per il mondo intero e dannosa per gli stessi
americani. La sua azione si svolse nella convinzione che l’Occidente dovesse sviluppare, valendosi della sua tradizione cristiana, un’iniziativa lungimirante ed efficace
per conservare e sviluppare il suo ruolo nel mondo, estendendo la sua influenza anche nei paesi dell’Africa e dell’Asia e contrastando l’influenza comunista. Essa si
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sviluppò, inoltre, nella consapevolezza che il sistema internazionale non poteva
ignorare la presenza cinese e che la Cina doveva essere coinvolta per costruire un
solido equilibrio di pace nel mondo. In questo senso, tale iniziativa si proiettava oltre il confronto bipolare, assumendo implicitamente quella prospettiva multipolare che la stessa diplomazia americana avrebbe esplicitamente assunto pochi anni
più tardi. In questo modo, La Pira anticipò situazioni e problemi che oggi sono
sotto gli occhi di tutti, come la complessa questione del rapporto fra l’Occidente e
il resto del mondo, al di là del conflitto bipolare determinato dalla guerra fredda.
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Il “Corsivo”
a cura di Giorgio Tupini
C’è o non c’è?
• Don Ferrante avrebbe un gran daffare. Armato dei suoi libri di manzoniana
memoria, aveva sentenziato che tutto quel trambusto attorno alla peste era ridicolo
perché la peste non c’era né poteva esserci, non essendo “né sostanza né accidente”.
Ma di peste morì.
Ora, bisognerebbe interpellarlo sulla questione morale tornata di nuovo alla ribalta in un temporale di agosto: c’è o non c’è?
Rutelli, sfogliando la Margherita, dice di sì per la promiscuità tra politica e affari degli alleati. I Ds si offendono e respingono, Prodi come al solito media, il centrodestra monta a cavallo, ma Amato cala il sipario proclamando alla festa dell’Unità che si tratta di “una vergognosa invenzione”. D’accordo con Don Ferrante dice che non c’è. Porta male.
Così, polverone dopo polverone, l’attenzione è distratta da problemi reali, tra i
quali sta una questione morale più profonda di quella sollevata dalla scalata bancaria delle cooperative. Nel ritratto della politica di casa nostra qualche lineamento si
è alterato.
All’autocontrollo, alla riservatezza, insomma alla serietà di statisti come De
Gasperi, Einaudi e altri fondatori della Repubblica si è sostituita la ricerca spasmodica della visibilità, della quotidiana “dichiarazione” facile e superflua, che consente la citazione altrettanto superflua dei media di pubblico e privato servizio. Sulle
TV vanno in scena ormai le maschere e si intuisce, appena appaiono, quel che dirà
Meneghino o Pantalone, Arlecchino o Gianduia, Pulcinella o Todaro Brontolòn.
Ancora: gli atteggiamenti demagogici attraversano tutti gli schieramenti dimentichi che si governa anche con il “no” e non attenti a una certa reazione montante
dei cittadini, che amerebbero più rispetto verso il proprio buon senso e il proprio
portafogli (ricordiamo soltanto un capolavoro della demagogia domestica: la distruzione delle centrali elettriche nucleari, che fruttò voti ad alcuni e grosse perdite
al Paese, che ora versa milioni di euro agli avveduti produttori francesi e svizzeri di
energia nucleare!)
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Ancora: se negli anni della ricostruzione democratica la politica era considerata
da molti un servizio, ora si assiste ad un ingrossamento procace di emolumenti e
appannaggi. Sembra che siano quasi duecentomila gli stipendi, a volte d’oro, che
interessano i rappresentanti popolari, dai parlamentari europei e nazionali ai reggitori regionali, provinciali e comunali, senza dimenticare i finanziamenti ai partiti,
ai giornali dei partiti, le auto blu, ecc. È inutile rispondere che “la politica ha i suoi
costi” e trattare con fastidio chi avanza riserve. È un fatto che da noi i costi sono di
gran lunga superiori a quelli europei e nordamericani, ingenerano la maliziosa interpretazione che certi decentramenti siano voluti anche per la relativa moltiplicazione dei pani e companatici e provocano insofferenze, disaffezioni, astensionismi,
fughe verso gli estremismi contrapposti. Ora si promette di fare qualche ulteriore
meritoria limatura con la finanziaria di Tremonti, ma come dimenticare che gli
Stati Uniti, con una popolazione cinque volte superiore alla nostra, hanno una Camera con cento Senatori?
Ma fermiamoci qui. Un corsivo non può essere troppo serioso. Non abbiamo
scomodato infatti nessun alfiere della morale, né Aristotele né Tommaso, né Socrate né Agostino, né Kant né contemporanei come Mc Intyre o Willams o Scalfari
(alla ricerca, con il suo Voltaire della “morale perduta”). Partiti dalla questione morale di agosto siamo arrivati pienamente a Esopo, dalla morale della favola che è il
deterioramento della politica. Anche etico.
Ruini e Porta Pia
• Il rosso va bene se non è porpora. Sta diventando il tormentone di molti
compagni di vecchio e nuovo conio. Si chiama “Ruini”, come dicono, tralasciando
quel “cardinale”, che potrebbe complicare il dialogo con gli elettori cattolici.
Il benedetto Cardinale, dopo aver lasciato il segno nei referendum sulla legge
40, ora potrebbe fare il bis con il Pacs promossi da Prodi, Ds, Verdi, Rifondatori
comunisti, Arcigay e perfino da qualche compiacente esponente del centrodestra.
Finimondo. Tutto il sommerso dell’anticlericarlismo ottocentesco si mobilita.
Quelli votati al compito di intercettare il voto cattolico si sforzano di spiegare, interpretare, retrocedere, ma sono presi in contropiede dagli squadristi rossi di Siena,
che vorrebbero tappare – democraticamente, si intende – la bocca al cardinale. Rutelli per la seconda volta prende in castagna gli alleati e ammonisce: “non è detto
che una posizione che si dimostri prevalente nel centrosinistra sia effettivamente
prevalente nel Paese, tanto più se il suo profilo, piuttosto che laico e pluralista, si
manifesti fortemente come laicista”. Che strano, meglio di Scoppola, che fa la predica alla Chiesa invitandola, con Ruini, a essere più attenta ai “valori della pietà”.
Giacché un corsivo è un corsivo – l’abbiamo già scritto sopra – e non può essere troppo serioso, non ci addentriamo oltre. Però due osservazioni vogliamo farle.
La prima è che qualcuno deve ancora capire che vi sono valori morali, pre-politici, che molta gente ritiene più importanti delle polemichette elettorali in chiave
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di vecchio fondamentalismo laicista. Perfino Antonio Gramsci osservava che il sentimento religioso cristiano-cattolico e il rapporto profondo con la Chiesa di Roma
sono gli unici veri caratteri originali delle genti italiche.
La seconda è che ai degasperiani non dell’ultim’ora irrita l’ipocrisia di chi, a destra o a sinistra, tira in ballo il vecchio Presidente a spoposito e per trarne indebito
profitto.
L’uomo che difese sempre la laicità dello Stato, che si oppose all’operazione
Sturzo e a ogni invasione di campo, fu al tempo stesso difensore intransigente di
tutte le libertà a cominciare da quella religiosa. Scriveva nel 1950: “Dio non abbandonerà l’Italia se resterà fedele alla sua missione di difendere la libertà della sua Chiesa
e di difendere il patrimonio della sua civiltà”.
Ma tant’è. Una volta le correnti risorgimentali venate di massoneria – da Mazzini a Garibaldi, da Crispi a Carducci – si pascevano della Questione Romana. Ora
che la Questione è archiviata e Porta Pia è spalancata sulla Capitale, l’integralismo
anticlericale cerca di ravvivarsi con il linguaggio di Podrecca. E così un radicale
transnazionale, new entry dell’area centrosinistra, invita il Cardinale “a farsi una
canna”.
Meglio Peppone.
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
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Novità in libreria
a cura di Valerio De Cesaris
Mondo
Mark Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Laterza, Roma-Bari 2005,
252 pp., € 18,00
Dopo la Storia e politica dell’Unione europea di Giuseppe Mammarella e Paolo
Cacace, Laterza propone la Storia politica dell’integrazione europea di Mark Gilbert,
che prende le mosse dal secondo dopoguerra. Si tratta di un’analisi operata da chi,
formatosi in Inghilterra, non può non porre in rilievo il «rapporto spesso burrascoso della Gran Bretagna con i suoi partner europei». L’autore nota che «quasi tutta
la storiografia dell’integrazione europea è scritta da esponenti del movimento europeo, cioè secondo la prospettiva di persone che attribuiscono un notevole valore
etico-politico allo sviluppo delle istituzioni comunitarie». Gilbert, tentando un approccio più “imparziale”, sottolinea la compresenza di fattori morali e scelte pragmatiche nei vari passaggi della costruzione dell’Unione, in uno svolgimento dei
fatti complesso e per certi versi imprevedibile. Al punto che «l’integrazione europea non è per nulla un processo lineare» o, come affermava Andrew Shonfield, è
«un viaggio verso una destinazione sconosciuta».
Mario Giro, Gli occhi di un bambino ebreo, Guerini, Milano 2005, 136 pp., € 12,50
«Al momento di fare fuoco, gli occhi di alcuni bambini ebrei si sono voltati
verso di me e mi hanno fissato, con uno sguardo di purezza, d’innocenza. Sembrava non capissero. Improvvisamente, qualcosa nel più profondo del mio cuore, che
non so ancora spiegarmi bene, mi ha fatto cambiare parere…». È Merzoug Hamel
che parla, un terrorista islamico che racconta la sua storia, dal fondo di un carcere
marocchino. È stato condannato a morte anche se non ha voluto uccidere. Il libro
è significativo, è il racconto della vita di un giovane beur dell’emigrazione in Francia, in tutto simile a quelli che sono stati protagonisti delle cronache recenti. Merzoug incappa nelle reti della reislamizzazione dal basso e del terrorismo nei primi
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anni Novanta. L’autore narra bene come “si crea un terrorista”: la parabola di un
giovane sradicato che crede di ritrovare identità nel gruppo islamico fino a giungere con un mitra davanti alla sinagoga di Casablanca in Marocco. Si tratta degli attentati di metà anni ’90, i primi nel paese nordafricano che ne subirà in seguito altri, molto più micidiali, come quelli del 2003. La storia di Merzoug termina tuttavia in maniera inaspettata: all’ultimo istante egli si ravvede e decide di non uccidere. Il lavaggio del cervello che ha subito non ha cancellato del tutto la sua umanità.
Non si è mai pentito di non aver sparato, anche se è chiuso in un carcere di massima sicurezza. La sua è una storia emblematica che lascia intravedere una luce di
speranza nel nostro tempo dominato dalla paura del terrorismo.
Howard Zinn, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano
2005, 510 pp., € 22,00
L’ormai classico studio di Zinn, edito per la prima volta nel 1980, è ora pubblicato anche in italiano. Lo storico americano, noto per le sue posizioni radicali
e per il suo impegno pacifista, contesta le ricostruzioni “ufficiali” della storia statunitense, in cui viene sempre presentata una nazione compatta e convinta dei
propri ideali. Zinn analizza invece le contraddizioni interne del paese, gli errori
in politica estera, le forme di oppressione che ancora esistono nel più potente
paese della terra. La sua è una storia dei “vinti”, delle minoranze. Vi è descritto il
genocidio degli indios, la schiavitù, le discriminazioni razziali, la difficile emancipazione delle donne. Si può essere d’accordo o meno con la sua ricostruzione
della storia americana, ma certamente essa ha il fascino di porre problemi a lungo rimossi e dalla storiografia e dalla coscienza nazionale. Il volume di Zinn restituisce la complessità di tanti fenomeni storici, nel paese che è forse il più plurale al mondo.
Sébastien Fath, In God We Trust. Evangelici e fondamentalisti cristiani negli Stati
Uniti, Lindau, Torino 2005, 272 pp., € 24,00
Il volume di Fath, storico francese esperto di questioni religiose statunitensi, è
incentrato sul Sud degli Stati Uniti, la cosiddetta Bible Belt. L’intento dell’autore è
di spiegare i tratti del messianismo americano, tante volte incompreso in Europa,
ripercorrendone la storia. Ne emerge un’interessante interpretazione della «religione civile» americana, intrisa di riferimenti religiosi. Vi si legge anche la differenza
tra Nord e Sud del paese, oggi attenuata rispetto al passato ma sempre considerevole. Le moltissime denominazioni cristiane degli Stati Uniti – quasi mille – hanno
caratteri e orientamenti politici diversi tra loro, talvolta diametralmente opposti.
La “democraticità” del sistema americano permette la sopravvivenza di ciascuna di
esse e crea una sorta di competizione tra chiese, che rende il cristianesimo evangeli-
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co molto dinamico. Le grandi questioni della storia americana, quali la schiavitù e
la segregazione razziale, le guerre, persino le relazioni internazionali con altri Stati
sono state sempre influenzate dal pensiero delle più grandi chiese americane, prima tra tutte la Southern Baptist Convention.
Alberto Bobbio, Truccarsi a Sarajevo. Storia e storie di un assedio dimenticato, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2005, 118 pp., € 7,50
Il piccolo libro di Alberto Bobbio nasce dall’aver visto la guerra e dall’aver incontrato donne e uomini che della guerra sono stati vittime. Bobbio è stato a
lungo inviato speciale di «Famiglia Cristiana» nei Balcani. Nei primi anni Novanta era a Sarajevo, dove ha vissuto i tragici momenti dell’assedio serbo alla
città. L’opinione pubblica internazionale era allora concentrata su altri avvenimenti, primo tra tutti la guerra del Golfo. Eppure la dissoluzione della Jugoslavia
segnava «la fine di un’epoca e anche di un mito, quello della “fratellanza e dell’unità”». Segnava, anche, il primo conflitto in Europa dalla fine della seconda
guerra mondiale. Bobbio non ha scritto un libro di storia né un’interpretazione
geopolitica degli avvenimenti, si è limitato a raccontare le storie di coloro che ha
incontrato in Bosnia in quegli anni drammatici. «Chi dimentica un crimine ne
diventa complice», diceva Voltaire. Il libro di Alberto Bobbio è importante perché aiuta a non dimenticare.
Storia del cristianesimo
Roberto Morozzo della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori,
Milano 2005, 440 pp., € 20,00
La vicenda di Oscar Arnulfo Romero, vescovo martire, assassinato sull’altare
il 24 marzo 1980, è densa di significato per la Chiesa del nostro tempo. La sua figura «resta controversa e carica di opposti significati: profeta e sovversivo, martire e rivoluzionario, uomo della Chiesa e uomo della politica, pastore d’anime e
caudillo, fautore del dialogo e agitatore della piazza». A distanza di venticinque
anni dalla sua morte, El Salvador celebra Romero con larghi onori. La Chiesa ha
avviato un processo di beatificazione e la vox populi lo descrive già come un martire. Nel suo bel libro Morozzo della Rocca restituisce la complessità di un uomo
profondamente radicato nella Chiesa cattolica, che matura un percorso di vicinanza ai poveri e di difesa dei deboli. Le sue posizioni divennero presto invise alle oligarchie salvadoregne, che controllavano il paese attraverso i militari. Agli
insulti e alle minacce seguirono i fatti: il pomeriggio del 24 marzo 1980, mentre
l’arcivescovo di San Salvador celebrava la messa, si udì uno sparo proveniente da
uno degli accessi della chiesa. «Erano passati pochissimi secondi dalla fine dell’o-
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melia. Romero cadde a fianco dell’altare». Morì poco dopo l’arrivo in ospedale,
all’età di 62 anni. Nella storia della Chiesa, quella di Oscar Romero è una delle
vicende più note di quel Novecento che Andrea Riccardi ha efficacemente definito «il secolo del martirio».
Agostino Giovagnoli (a cura di), La Chiesa e le culture. Missioni cattoliche e «scontro
di civiltà», Guerini, Milano 2005, 256 pp., € 20,50
La Chiesa, nella sua lunga storia, si è trovata a contatto con culture diverse, le
ha valorizzate, ha vissuto con continuità lo «slancio universalistico» che la caratterizza. Il volume affronta dal punto di vista storico il decisivo nodo del rapporto
con l’«altro», in un tempo in cui l’incontro tra culture diverse sembra, per molti,
condurre inevitabilmente allo «scontro di civiltà». Dall’America Latina ai Balcani,
dal Senegal e dall’Algeria alla Cina, la Chiesa è entrata in contatto e in dialogo
con culture complesse pur mantenendo salda la propria identità. Dalla vecchia
prospettiva dell’«adattamento» alle culture si è passati nel corso del Novecento all’idea dell’«inculturazione», nel tentativo di rendere accessibile a tutti la vita cristiana. La tentazione di “piegare” la Chiesa alle esigenze di una determinata civiltà, quella occidentale, è oggi pressante, ma la Chiesa non intende identificarsi
esclusivamente con una cultura, né mostrarsi «relativisticamente indifferente verso tutte le culture».
Andrea Tornielli, Matteo L. Napolitano, Pacelli, Roncalli e i battesimi della Shoah,
Piemme, Casale Monferrato (Al) 2005, 192 pp., € 11,50
Le questioni che riguardano l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla deportazione e allo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale continuano a suscitare un interesse vasto, per le profonde ferite lasciate da quegli
anni e per la passione che anima il lavoro degli studiosi su questi temi. Il 28 dicembre 2004 Alberto Melloni sul «Corriere della Sera» ha pubblicato un documento che «è piombato come un macigno sul dibattito storiografico relativo a
papa Pacelli». Vi si leggeva – secondo l’interpretazione di Melloni – l’intenzione
di Pio XII di non restituire alle famiglie i bambini ebrei che erano stati ospitati
durante la guerra negli istituti religiosi in Francia, e che erano stati battezzati.
La questione ha suscitato un intenso confronto giornalistico, particolarmente
sulle pagine del «Corriere della Sera» e di «Avvenire», e ha coinvolto numerosi
storici ed editorialisti. Tornielli e Napolitano hanno approfondito la vicenda,
giungendo a conclusioni diverse da quelle di Melloni: «Non ci sono stati battesimi di massa e gli ebrei salvati dalla Chiesa non sono stati costretti ad abbracciare la fede cattolica».
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Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, 406 pp., € 35,00
Il volume di mons. Marchetto nasce come “contrappunto”, in opposizione all’interpretazione che del concilio ha dato l’Istituto per le scienze religiose di Bologna guidato da Giuseppe Alberigo. La monumentale Storia del concilio Vaticano II
diretta da Alberigo e pubblicata in sei lingue dà – secondo Marchetto – un’idea distorta del Vaticano II, presentato come una cesura netta rispetto al passato e soprattutto come “spirito” nuovo, al di là del carattere più o meno di novità dei suoi
documenti. Per gli storici dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna lo “spirito” del concilio, più importante dei testi prodotti, sarebbe incarnato da Giovanni
XXIII, mentre Paolo VI avrebbe in qualche modo soffocato tale spirito negli anni
seguenti. Questa interpretazione viene bollata come ideologica, così come quella
per cui al concilio si ebbe uno scontro tra «Curia conservatrice» e «teologi progressisti». Per Marchetto il concilio non segna affatto «il nascere di una nuova Chiesa»,
ma si situa pienamente in continuità con i concili precedenti.
Giuseppe Alberigo, Breve storia del concilio Vaticano II, il Mulino, Bologna 2005,
202 pp., € 10,50
Alberigo offre una sintesi del Vaticano II a partire dalle proprie esperienze personali, essendo egli stato testimone diretto dei lavori conciliari. L’idea di una “breve storia”, dopo i cinque volumi – e le quasi tremila pagine – della Storia del concilio Vaticano II, nasce dall’esigenza di produrre un’opera divulgativa, che non sia per
soli specialisti. Il punto di vista di Alberigo è molto diverso da quello di Agostino
Marchetto. Il cuore della sua interpretazione è il concilio stesso come evento: «La
carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con la storia, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini hanno caratterizzato il Vaticano II.
Pertanto appare più forte la priorità del fatto “concilio”, in quanto evento che ha
raccolto un’assemblea deliberante di oltre duemila vescovi, anche rispetto alle sue
decisioni, che non possono essere lette come astratte e fredde norme, ma come
espressione e prolungamento dell’evento stesso». Inoltre, egli insiste molto sul ruolo avuto al concilio da Giuseppe Dossetti. Le due diverse “letture” del Vaticano II –
quella di Marchetto e quella di Alberigo – sono entrambe interessanti per chi voglia approfondire la storia del concilio.
Simona Merlo, All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola II a Stalin
(1905-1939), Guerini, Milano 2005, 444 pp., € 29,50
Il libro affronta una storia locale, quella della Chiesa di Kiev nel primo Novecento, ed è al tempo stesso una finestra sull’ortodossia slava. È la vicenda di una
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Chiesa che vive anni di risveglio dopo la rivoluzione del 1905 e che tenta un rinnovamento istituzionale, reso impossibile dalla successiva rivoluzione del 1917. Il cristianesimo subisce un processo di «estraniazione dal tessuto sociale» del paese, fino
agli anni drammatici del «grande terrore» staliniano. Kiev in quegli anni è una città
«russo-ucraina», secondo la definizione di Zen’kovskij, e le sorti della grande Russia sono inevitabilmente anche quelle della “piccola” Ucraina. Per l’ortodossia keviana, come per quella russa, si apre un periodo «di libertà e servitù insieme, di sofferenze e di speranze, infine di persecuzione e martirio». Simona Merlo utilizza una
copiosa documentazione in ucraino e in russo e offre, con il suo libro, una ricostruzione importante per comprendere la storia delle Chiese ortodosse nei primi
decenni del XX secolo.
Antisemitismo
Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX
secolo. Vol. 1: La crisi dell’Europa: le origini e il contesto, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, UTET, Torino 2005,
XVII-1188 pp., € 45,00
La Shoah, un unicum nella storia mondiale, non smette di coinvolgere gli storici in dibattiti e interpretazioni. L’iniziativa di pubblicare una imponente Storia della Shoah, che raccolga gli interventi di oltre cinquanta tra i maggiori studiosi sull’argomento, è senza dubbio meritevole. Si tratta di un’opera che intende fare il
punto sulla storiografia relativa all’Olocausto, collegando gli avvenimenti della seconda guerra mondiale ad una più generale crisi dell’Europa iniziata nell’Ottocento. Il primo volume affronta appunto la «crisi dell’Europa», dando risalto al contesto generale in cui si affermò l’antisemitismo nazista, alle premesse ideologiche di
esso, agli antecedenti storici dell’antisemitismo. Il secondo volume si occuperà degli anni della distruzione degli ebrei; il terzo di «riflessioni, luoghi della memoria,
risoluzioni»; il quarto di «eredità, rappresentazioni, identità»; il quinto volume sarà
infine una raccolta di documenti. Tre DVD video (1. Il processo di Norimberga; 2.
Il processo Eichmann; 3. Il Tribunale dei Giusti) e un CD-rom ipertestuale completeranno l’opera.
Milena Santerini, Antisemitismo senza memoria. Insegnare la Shoah nelle società multiculturali, Carocci, Roma 2005, 220 pp., € 18,60
L’ostilità antiebraica è uno dei fenomeni di più lunga durata negli ultimi duemila anni, seppure in forme molto diverse tra loro. Innestandosi sul tradizionale
antigiudaismo religioso, diffuso principalmente nell’Europa cristiana, l’antisemitismo moderno si è affermato nel XIX secolo con caratteri politici e razziali, fino alla
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tragedia della Shoah. A seguito della costituzione dello Stato d’Israele i temi dell’antisemitismo europeo si sono diffusi nel mondo islamico, alimentando una contrapposizione violenta. Milena Santerini mette in guardia contro il pericolo di un
“nuovo” antisemitismo nell’èra della globalizzazione, che recupera gli antichi stereotipi contro gli ebrei ma che si esprime in forme nuove e viene veicolato da più
capillari e informali mezzi di comunicazione, come internet. L’autrice, docente di
pedagogia, si interroga su come portare avanti un efficace progetto educativo che
realizzi – a partire dalle scuole – «un confronto interculturale aperto e pluralistico
che aiuti a superare gli stereotipi e l’intolleranza». Un libro rivolto in particolare a
insegnanti ed educatori, ma che offre una riflessione estremamente interessante per
tutti.
Giorgio Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005, 510 pp., € 25,00
Giorgio Fabre dà un’interpretazione della parabola umana di Mussolini, dal socialismo alla presa del potere fino alla politica razziale, inedita nella storiografia italiana. In genere infatti Mussolini è presentato come un «razzista riluttante», che
avrebbe deciso di promulgare le leggi razziali solo in virtù dell’avvicinamento alla
Germania nazista. Il libro di Fabre, che ha suscitato le critiche degli storici defeliciani, sostiene che «anche prima del 1938 l’azione razzista e antisemita di Mussolini fu ampia e talvolta violenta, anche se per lo più segreta». A supporto delle proprie tesi Fabre porta molti documenti, alcuni molto interessanti. Il primo di essi è
una lettera del 1929 indirizzata da Mussolini a Bonaldo Stringher, governatore della Banca d’Italia, in cui si chiedeva che Ugo Del Vecchio, Direttore della filiale di
Genova della Banca d’Italia, fosse sollevato dal suo incarico. In tale lettera si sottolineava che Del Vecchio era «israelita». Dai documenti citati da Fabre risulta che
Mussolini cambiò atteggiamento solo quando seppe dal prefetto di Genova che
l’ultimogenito di Del Vecchio era stato battezzato. Questa e altre vicende documentate nel libro dimostrano che la tesi di Giorgio Fabre merita di essere presa in
considerazione.
Michele Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2005, 170 pp., € 8,50
Il libro è una sintesi della vicenda della Shoah e ha il pregio di essere fruibile
per un pubblico vasto. È infatti destinato innanzitutto al mondo della scuola. L’autore si è a lungo occupato della storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, seguendo
piste di ricerca che sono state battute da molti storici e che hanno prodotto un numero considerevole di pubblicazioni, soprattutto negli ultimi anni. Sarfatti si discosta dalle classiche interpretazioni di Renzo De Felice soprattutto per quel che ri-
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guarda l’atteggiamento della Repubblica sociale italiana verso gli ebrei. Per De Felice infatti la costruzione di campi di concentramento in territorio italiano, a partire
dal 1943, mostrerebbe l’intenzione dei fascisti di evitare la deportazione degli ebrei
in Germania. Per Sarfatti, al contrario, il governo fascista-repubblicano collaborò
con i nazisti per l’arresto e la deportazione degli ebrei.
Amedeo Osti Guerrazzi, Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper, Roma 2005, 224 pp., € 15,00
Il mito degli “italiani brava gente” ha significato, in relazione alla deportazione
e allo sterminio degli ebrei, la creazione di una coscienza assolutoria: le responsabilità della Shoah ricadrebbero unicamente sui tedeschi. Osti Guerrazzi ha studiato i
processi ai collaborazionisti e ai delatori e racconta, con il suo Caino a Roma, una
storia diversa: molti italiani ebbero un ruolo decisivo nella cattura di ebrei romani,
poi consegnati ai nazisti perché fossero deportati e uccisi. In particolare, l’autore
descrive le attività di alcuni gruppi, come la banda di Palazzo Braschi e la banda
Koch, che fecero della persecuzione degli ebrei il perno della loro attività. Alcuni
italiani denunciarono gli ebrei per motivi ideologici, ovvero per antisemitismo, altri, la maggior parte, semplicemente per appropriarsi dei loro beni. Molti ebrei
persero la vita perché il progetto nazista di sterminio trovò, anche a Roma, non pochi complici.
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Fuori scaffale
a cura di Amos Ciabattoni
Achille Albonetti, L’Italia, la Politica Estera e l’Unità dell’Europa, Edizioni Lavoro,
Roma 2005, 216 pp., € 12,50.
L’Italia, la Politica Estera e l’Unità dell’Europa sono l’oggetto di un’accorata riflessione di Achille Albonetti apparsa assai di recente nelle nostre librerie. Essa assume un particolare significato e valore perché l’autore è uno di quegli “artigiani”,
così come assai efficacemente li definisce Sergio Romano nella sua prefazione, che
hanno partecipato ai primi lavori del “cantiere” dell’integrazione europea pur senza
essere, nella stragrande maggioranza dei casi, uomini politici o di governo. Erano
tecnocrati, grand commis, consiglieri e intellettuali ispirati tutti dalla visione dell’
Europa Unita e del superamento delle rivalità nazionali che tanto sangue erano costate fino a quel momento ai paesi europei.
Con l’autorevolezza della sua appartenenza a questa nobile corporazione ideale
l’autore illustra quella che gli appare come una grave crisi della politica non solo
europeista, ma anche europea dell’Italia.
Prima di affrontare le sfide del XXI secolo opera un’assai efficace “amarcord”
sul cammino dell’Italia verso la democrazia e sui valori fondamentali che dovranno
a suo avviso continuare ad ispirarne la politica: democrazia e mercato all’ interno e
Europa e vincolo atlantico all’esterno.
Valori di cui denuncia con veemenza le sofferenze, da cui sono afflitti nel nostro sistema politico, ed in particolare l’incapacità della nostra democrazia parlamentare e rappresentativa di realizzare il principio su cui pur dovrebbe fondarsi,
“la meritocrazia o l’elezione dei migliori”. Un limite questo che si aggiunge all’altro
insoluto problema della copertura dei costi della politica, con il rischio conseguente che le “democrazie [diventino] delle plutocrazie e oligarchie”. Questo anche per
il cattivo funzionamento interno degli apparati politici quali i partiti, come anche i
sindacati, i vari organi collegiali, operanti negli enti pubblici, etc.
Valori di cui invoca comunque la tutela nonché l’ulteriore affermazione e sviluppo quale condizione irrinunciabile, per il raggiungimento dell’ unità politica e
di difesa dell’Europa, traguardo vitale perché i paesi europei possano conservare i
propri attributi di piena sovranità della nuova realtà internazionale.
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In questa prospettiva vengono ribaditi i tre cardini della politica estera italiana:
l’associazione con gli Stati Uniti nell’Alleanza Atlantica, l’unità europea e l’economia di mercato quale fondamento di ogni ulteriore progresso verso quell’unità così
insistentemente e faticosamente perseguita.
Un’unità che per rimanere vitale dovrà estendersi dalla dimensione economica
a quella politica e militare anche per il valore strategico della risorsa: energia, essenziale sia ai fini della produzione che a quelli della sicurezza. Assai efficacemente Albonetti la definisce “strumento di progresso e anche di offesa e difesa”.
Ma proprio l’importanza, che questa risorsa ha ormai prepotentemente assunto, pone l’esigenza di poter disporre di tutte le sue possibili fonti. Evoca il problema del nucleare di cui l’Europa Unita non potrà fare almeno non solo nelle sue utilizzazioni pacifiche, ma anche in quelle militari.
Tanto più che anche nel Trattato di non proliferazione nucleare, proprio su iniziativa dell’ Italia (un’iniziativa aggiungiamo noi propiziata anche dall’ “artigiano”
Albonetti) venne inserita la clausola europea, che prevedeva espressamente che la
firma del TNP da parte dei paesi europei “non nucleari” non avrebbe costituito
ostacolo alla disponibilità dell’arma nucleare da parte della futura Europa Unita.
Un’Europa destinata ad evolvere in un polo continentale convenzionale, nucleare e spaziale, partendo dalla ”integrazione dei deterrenti nucleari di Francia e
Gran Bretagna” e volta a porsi come fattore di stabilità e di progresso nel sistema
internazionale e ad ovviare con il suo stesso esistere a quella “solitudine” degli Stati
Uniti, quale unica superpotenza, fonte a sua volta del tanto discusso unilateralismo
americano di questi giorni.
Nell’operare questa acuta riflessione l’autore evoca con grande efficacia le lezioni dei due scomparsi maestri della nostra diplomazia, gli ambasciatori Roberto
Gaja e Roberto Ducci, i quali assai acutamente avevano osservato come nessun apparato militare potesse ormai assumere un carattere realmente strategico, cioè porsi
come competitivo a livello globale se non munito di capacità non solo nucleare,
ma anche spaziale. Ducci era anzi arrivato a sostenere che gli Europei se non avessero raggiunto la capacità nucleare avrebbero avuto come unica alternativa quella
di aspirare ad un nuovo editto di Caracalla, l’imperatore romano che estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero.
Il raggiungimento di questo obiettivo è dunque essenziale per l’Europa e in
particolare per l’Italia, che non deve smarrire il suo ruolo di promotore delle
iniziative di spinta e progresso sul cammino dell’integrazione evitando di trovarsi esclusa de quelle consultazioni ristrette e da quelle iniziative diplomatiche
promosse dai maggiori partners europei, quali i recenti incontri anglo franco tedeschi di questi ultimi mesi o il negoziato anch’esso tripartito sul nucleare iraniano.
Il modo più efficace di contrastare la formazione di direttori europei come anche la nostra eventuale esclusione da essi è quello di essere sempre partecipi dei
momenti di incontro e approfondimento come anche delle iniziative politiche e
diplomatiche europee.
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L’iniziativa più efficace e desiderabile sarebbe per l’autore quella che dovrebbero assumere i paesi fondatori ai fini di un rilancio del processo di integrazione mediante l’avvio fra di loro di una solidarietà di fatto sostanziata di impegni politici e
di difesa più stretti, consistente in definitiva in un nuovo ricorso alla già sperimentata via funzionale all’integrazione.
Una solidarietà aperta ad ulteriori adesioni, ma difficilmente estensibile a tutti
i venticinque membri dell’Unione Europea, che in tale dimensione “rischia di trasformarsi in una zona di libero scambio, con rilevante significato economico, ma
con insufficiente valore politico.”
Questa critica serrata e disincantata di un europeista autentico partecipe della
fase “eroica” della costruzione europea si pone come un monito assai utile per coloro che si cimentano oggi nel complesso “esercizio” della costruzione europea in un
mondo in cui l’interesse nazionale è riproposto ad ogni piè sospinto come fondamentale criterio di azione politica in stridente contrasto con l’ispirazione dei padri
fondatori delle prime comunità europee, la CECA, la CEE e l’EURATOM, tesi
invece al superamento dell’interesse immediato dei loro rispettivi paesi nel rispetto
del superiore interesse comune di tutti gli europei nel loro insieme.
Antongiulio De’ Robertis
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Nomi citati
Abramo, 16
Abu Mazen, 140
Agostino, 156
Alberigo G., 162
Albonetti A., 166, 167
Amato G., 155
Ambrosanio M.F., 21
Amina, 144
Andreatta B., 18
Aristotele, 156
Balibar E., 146
Bardi, 36
Barucci P., 8
Bazoli G., 19
Benedetto XVI, 131-133
Berlusconi S., 130, 134
Bertinotti F., 133
Bertozzi G.C., 44
Bin Laden O., 128, 144
Bixio A., 8
Bobbio A., 160
Bonino E., 133
Boselli E., 16, 130, 133, 134
Bouteflika, 141
Bresso M., 133
Buttiglione R., 132
Cacace P., 158
Caffè F., 101
Canterini M.,
Cantoni G., 8, 9
Carducci G., 157
Carli G., 36
Carrère d’Encausse, 138
Caselli F., 87, 89
Casini P.F., 130, 132, 134
Cattaruzza M., 163
Cesa, 134
Chirac J., 136, 137
Ciampi C.A., 130, 132
Cipolletta I., 8
Cirielli, 134
Colombo C., 15
Corbetta G., 86, 87
Crispi F., 157
Cristofolini P., 147
Cuculo F., 145
De Felice R., 164, 165
De Gasperi A., 16, 17, 128, 155
De Gaulle C., 153
De Mita C., 18
De Rosa G., 17
de Villepin D., 137
Del Vecchio U., 164
Deleuze G., 148
Dossetti G., 17, 151, 162
Ducci R., 167
Edoardo III, 36
Einaudi L., 36, 155
Emanuele E., 8, 121,
Esopo, 156
Fabius L., 137, 138
Fabre G., 164
Fanfani A., 17, 151-153
Fassino P., 132
Fath S., 159
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
169
Ferrara F., 43
Filkienkraut, 138
Fini G., 131, 134
Fisichella D., 135
Flores M., 163
Follini M., 130, 132, 134
Forlani A., 18
Franco D., 39
Friedman M., 101
Gaja R., 167
Galbraith J.K., 101
Garang J., 143
Garibaldi G., 157
Gennaioli N., 87
Giarda P., 8, 9
Gilbert M., 158
Giovagnoli A., 161
Giovanni Paolo II, 83, 132
Giovanni XXIII, 162
Giro M., 158
Goldberg, 152, 153
Gramsci A., 157
Guarino G., 40, 43, 45, 61
Gui L., 17
Hamel M., 158
Hamilton A., 35
Hardt M., 147
Hariri R., 140
Hariri S., 140
Ho Chi Minh, 150, 152
Hobsbawm, 111, 112
Huntington, 47
Ingrao P., 153
Jaquet C., 147, 148
Jay, 35
Johnson L.B., 152, 153
Kant I., 156
Keynes, 123
La Pira G., 18, 150-154
Langrand-Dumonceau, 43
Leone XIII, 15
Levis Sullam S., 163
Lombardini S., 18
170
Madison, 35
Malagodi L., 18, 153
Mammarella G., 158
Marchetto A., 162
Marseguerra G., 8, 88, 91,
Marx C., 16
Mastella C., 132
Mazzini G., 157
Mazzotta R., 18
Mc Intyre, 156
Meda F., 16, 128
Melloni A., 161
Merkel A., 136
Merlo S., 162, 163
Mill J.S., 96, 123
Mitterrand F., 134, 137
Mohammed VI, 141
Monticone A., 131
Montini G.B., 151
Moro A., 18, 153
Morozzo della Rocca R., 160
Murri R., 16
Mussolini B., 17, 164
Nancy J.L., 148
Napolitano M.L., 161
Negri A., 147
Negri T., 148
O’Connor J., 101, 102
Olivelli T., 17
Osti Guerrazzi A., 165
Pacelli E., 161
Panebianco A., 128
Pannella M., 133, 134
Paolo VI, 151, 153, 162
Parravicini G., 43
Pellizzari A., 17
Peres S., 140
Peretz A., 140
Peruzzi, 36
Piccoli F., 18
Pio XII, 161
Preda G., 153
Prestigiacomo S., 133, 134
Prodi R., 18, 130, 131, 132, 134, 138, 155,
156,
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Quadrio Curzio A., 94
Raffarin, 137,
Riccardi A., 161
Ricci M., 114
Romano S., 166
Romero O.A., 160, 161
Ruini C., 131, 132, 156
Rusk D., 152
Rutelli F., 132, 156
Safiya, 144
Salvi C., 13
Sangiorgi G., 8
Saraceno P., 18
Sarcinelli M., 9
Sarfatti M., 164, 165
Sarkozy N., 136-138
Scalari E., 156
Scalfaro O.L., 135
Schumpeter, 49
Scialoja, 43
Scola A., 126
Sella, 43
Sharon A., 140
Shonfield A., 158
Siniscalco D., 130
Smith A., 49, 99, 100, 109
Socrate, 156
Sodano A., 134
Stalin Y., 151, 162
Storace F., 133, 134
Stringher B., 164
Sturzo L., 16, 128, 157
Tabacci B., 8
Taradash M., 134
Taviani P.E., 17
Tommaso d’Aquino, 156
Toniolo G., 15, 16, 19
Tornielli A., 161
Traverso E., 163
Tremonti G., 48, 130, 156
Vanoni E., 18
Villone M., 13
Voltaire, 156, 160
Waigel T., 53
Willams, 156
Zen’kovskij, 163
Zinn H., 159
Zurzolo A., 8
Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
171
NUMERI PRECEDENTI
ANNO I - N. 1/2004
EUROPA SENZA CONFINI
Gabriele De Rosa - Achille Silvestrini - Franco Nobili - Luigi Giraldi - Giorgio Tupini Jean Dominique Durand - Roberto Morozzo della Rocca - Gorgio Bosco - Agostino Giovagnoli - Paola Pizzo - Marisa Ferrari Occhionero - Simona Andrini - Stefano Trinchese
ANNO II
N. 1/2005
LA DEMOCRAZIA MALATA
Agostino Giovagnoli - Rudolf Lill - Jean Marie Mayeur - Pietro Scoppola - Carlo Mongardini - Savino Pezzotta - Andrea Bonaccorsi - Paolo Musso - Carlo Giunipero - Marco
Impagliazzo - Ruggero Orfei - Giuseppe Merisi - Giovanni Pitruzzella - Leopoldo Elia Nicola Mancino
N. 2/2005
LA LUNGA STAGIONE DELLA LIBERAZIONE
Giulio Andreotti - Franco Nobili - Alfredo Canavero - Raoul Pupo - Corrado Belci Agostino Giovagnoli
RELIGIONI, MULTICULTURALISMO, LAICITÀ
Milena Santerini - Renè Remond - Paolo Branca - Vincenzo Cesareo - Carlo Cardia
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