Civitas Rivista quadrimestrale di ricerca storica e cultura politica • Fondata e diretta da Filippo Meda (1919-1925) • Diretta da Guido Gonella (1947) • Diretta da Paolo Emilio Taviani (1950-1995) Quarta serie, anno II - n. 3/2005 • Diretta da Gabriele De Rosa «Civitas» “riprenderà il difficile impegno con la serietà ed il rigore che la hanno contraddistinta nei momenti più travagliati e complessi. I temi riguarderanno problemi, eventi, prospettive della politica internazionale con un particolare riguardo alla vita italiana ed all’unità europea. ... Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia, in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e, per un certo verso, se non addirittura, da correggere, da meglio interpretare. Sarà anche questo un importante compito della nuova «Civitas»”. [Paolo Emilio Taviani, 18 febbraio 2000] Costo di un numero € 10,00 Abbonamento a tre numeri € 25,00 Abbonamento sostenitore € 250,00 (Equivalente a 10 abbonamenti) C/c postale 15062888 intestato a Rubbettino Editore, Viale Rosario Rubbettino, 10 - 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) Bonifico bancario Banca Popolare di Crotone - Agenzia di Serrastretta C/C 120418 ABI 05256 CAB 42750 Carte di credito Visa - Mastercard - Cartasì Pubblicità Pagina b/n € 1.500,00 - Per tre numeri € 3.500,00 Registrazione Tribunale Civile di Roma n. 152 dell’8.04.2004 Direttore - Responsabile Gabriele De Rosa Condirettore Franco Nobili Vicedirettore Agostino Giovagnoli Direttore editoriale Amos Ciabattoni Redazione • Comitato Andrea Bixio Nicola Graziani Flavia Nardelli Giuseppe Sangiorgi • Sede Via delle Coppelle, 35 00186 Roma Tel. 06/68809223-6840421 Fax 06/45471753 E-mail [email protected] [email protected] Editore Rubbettino Viale R. 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Un’analisi per l’Italia d’oggi (e di ieri) - di Mario Sarcinelli 47 La libertà economica unica regola del mercato globalizzato - di Giampiero Cantoni 53 Parametri di Maastricht e debito pubblico: il caso italiano - di Bruno Tabacci 65 Il futuro dell’impresa italiana: tra economia reale ed economia immateriale di Innocenzo Cipolletta 77 Economia e sistema politico italiano: un rapporto corretto o c’è qualcosa da cambiare? di Piero Barucci 83 Le imprese familiari: problemi di competitività e prospettive di sviluppo di Giovanni Marseguerra 99 Debolezza dell’economia o crisi del suo governo? - di Andrea Bixio 111 La sfida della nuova economia e il tema della formazione manageriale di Antonio Zurzolo RUBRICHE COLLOQUI Intervista al Prof. Emmanuele Emanuele 121 POLITICA INTERNA a cura di Nicola Graziani 130 POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro 136 RICERCHE a cura di Andrea Bixio 145 RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli 150 IL “CORSIVO” a cura di Giorgio Tupini 155 NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris 158 FUORI SCAFFALE a cura di Amos Ciabattoni 166 NOMI CITATI 169 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 3 Economia e Democrazia Presentazione • La scelta, per questo numero di «Civitas», dell’argomento Economia collegato al significato e alla pratica della Democrazia, è stata convenuta, dopo ampia valutazione, dalla Direzione e Redazione. • È vero che il tema presenta aspetti di intrinseca difficoltà quanto al comune interesse, anche perché in generale non viene sempre spiegato con la necessaria semplicità richiesta dalla buona comunicazione istituzionale, ma è anche vero che gli effetti che nella pratica dei suoi sviluppi quotidiani si producono, sono quelli più direttamente “sentiti”, o anche soltanto “percepiti”, dalla gente. E ne determinano i comportamenti, sia in direzione della politica che di chi, al momento, ne detiene le leve del potere. • Del resto, è innegabile che l’argomento Economia e la sua diretta influenza sulla pratica della Democrazia, sono ormai di ordine e dimensione mondiali. Per cui ne deriva l’obbligo imprescindibile di ogni Paese civile di adeguarsi alla sua mondializzazione e adeguare a sua volta le proprie politiche. È quello che viene richiesto all’Italia. • «Civitas» si propone di “trasmettere” valutazioni e messaggi utili alla necessaria riflessione, specialmente in un momento delicato come quello che per alcuni mesi vivrà il nostro Paese per effetto di una lunga campagna elettorale dal cui esito dipenderanno tanti aspetti della sua vita e della sua ormai irrinunciabile “maturità” di Nazione e di classe dirigente. • Siccome è innegabile che il successo in tali direzioni di un Paese, dipende da precisi fattori, come la capacità di produrre “ricchezza”, la idoneità a saperla distribuire e trasformarla in servizi e quindi nel “Bene” comune, ovvero in giustizia sociale; l’adeguatezza della classe di governo e politica in generale, allora i contenuti di questo numero di «Civitas» si indirizzano sugli elementi più sostanziali di tale assunto. Dal modo di libeCivitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 7 Presentazione rarsi dell’enorme debito pubblico (male di fondo della nostra economia) (Piero Giarda) al modo di intendere la libertà in economia (Giampiero Cantoni); dall’effetto dei parametri di Maastricht (Bruno Tabacci); al futuro dell’impresa italiana (Innocenzo Cipolletta); da cosa va cambiato nel rapporto economia e politica in Italia (Piero Barucci); alla funzione delle imprese familiari, ai punti deboli del suo governo, alla sfida della formazione manageriale (Giovanni Marseguerra, Andrea Bixio, Antonio Zurzolo). • È ovvio che la trattazione dell’argomento Economia coinvolge altri importanti aspetti della nostra vita di Nazione: quelli culturali (Emmanuele Emanuele) e quelli legati alla storia della nostra rinascita (Giuseppe Sangiorgi). Però l’attualità e la validità dello sforzo che «Civitas» intende compiere sono legate alla capacità dei nostri governi di saper dare, al pressante tempo delle improcrastinabili e radicali riforme del nostro sistema Economico-Finanziario, solidità ed efficacia. È il nostro auspicio più vivo. Franco Nobili 8 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Editoriale • Quali sono le due o tre cose da fare in ogni caso, cioè chiunque esca vincitore dalle prossime elezioni poltiche? Questo numero di «Civitas» dedicato a Economia e Democrazia ha preso forma e contenuti da questa domanda, certo elementare e forse anche rozza ma inevitabile davanti allo spettacolo quotidiano di un Paese soffocato dalle chiacchiere della politica, dalla prepotenza degli interessi e dall’ignoranza dei cittadini. Un Paese, questa Italia di fine 2005, in piena recessione morale e intellettuale prima ancora che economica. Un Paese senza rotta né bussola; che non sa più chiedersi «che cosa fare?» per il futuro ma solo «che cosa dire?» del passato, a cominciare da quello prossimo di ieri per finire a quello quasi remoto dell’altro ieri. Di fronte a uno spettacolo del genere e con la sensazione diffusa di avere toccato il fondo, un contributo non tanto alla discussione generale quanto alla definizione di un programma operativo per il Paese con la individuazione delle «due o tre cose» comunque da fare; un contributo di questo tipo, così necessario eppure ormai così raro, era sembrato un motivo più che valido per decidere di dedicarvi un intero quaderno di «Civitas». Salvo dover rispondere, fatta questa scelta editoriale, a una prima domanda: da dove cominciare? • A essere sinceri, la risposta non è stata difficile da trovare ed è stata: dal bilancio pubblico. In tutte le sue componenti: da quella della spesa a quella delle entrate (fisco in testa) per finire alla risultante delle prime due, vale a dire il deficit pubblico, e tornare infine all’origine di tutto, cioè al debito pubblico. L’analisi retrospettiva di Piero Giarda e soprattutto la sua proposta per l’oggi, assieme ai contributi di Mario Sarcinelli e Giampiero Cantoni, dimostrano ampiamente la necessità, per chiunque sarà scelto dagli Italiani a governarli nei prossimi cinque anni, di partire da qui, dai conti pubblici. Non solo in tutte le loro componenti ma anche a tutti i livelli, da quello statale a quelli locali, e di qualsiasi tipo o motivazione. E soprattutto cominciando ad ammettere che la finanza pubblica, in questo Paese, non è più una specialità dell’econoCivitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 9 Editoriale mia ma è diventata una specie di culto nazionale, una categoria dello spirito italico. Ossia, in altre parole, che oggi il vero debito dell’Italia, quello più pesante da sopportare e più difficile da smontare, siamo proprio noi. Noi Italiani. In che modo? Prendiamo appunto la spesa pubblica e immaginiamola come una grande, onnicomprensiva matrioska. Scoperchiata la quale si trova una matrioska solo un po’ più piccola che è la spesa per la pubblica amministrazione, dentro la quale sono contenute in serie tante altre matrioske, da quelle statali a quelle regionali, provinciali, comunali, territoriali, consortili, di bacino, di area, di competenza e via scoperchiando e scoprendo. Ma non è finita, perché ciascuna di queste matrioske, a sua volta, ne contiene e ne mantiene altre. E queste altre ancora. Fino a quella in cui, in qualche modo, troviamo uno di noi; un Italiano convinto di essere lì dentro, in quel posto, per diritto; perché in credito di tutto e in debito di niente. • L’obiezione più facile è che non tutti gli Italiani sono dentro la grande matrioska nazionale ed è vero. Ma è vero anche questo: primo, che l’aspirazione autentica di chi si trova ancora fuori è quella di entrarvi comunque e dovunque; secondo, che chi è fuori per scelta o per necessità finisce per sopportarne il peso due volte. Cioè direttamente per quanto gli costa e indirettamente per quanto non riceve, sia sotto forma di servizi sia come possibilità-libertà di intraprendere, di lavorare, di creare, di studiare; insomma di contribuire a produrre nuova ricchezza (per sé e per gli altri) invece che partecipare al consumo di quella disponibile e sempre più scarsa. Ciò che ha di insopportabile un sistema come questo è non solo il suo costo economico ma, peggio, il suo costo culturale perché non ha una cultura del futuro ma, a malapena, di un presente sempre più rissoso e di un passato sempre meno trasparente. Non avere futuro ovvero comportarsi come non avendolo è davvero peggio che dover affrontare un presente difficile, specie quando le difficoltà non sono soltanto nostre ma anche di un’intera area economica e addirittura (come va di moda dire adesso) di una «identità» e delle sue «radici». • Trovato nei conti pubblici il punto di partenza obbligato per tutti, la domanda successiva diventa: riusciranno i vincitori delle prossime elezioni a scoperchiare la grande matrioska pubblica e tutte le medie, piccole e mini matrioske che la riempiono? Sempre per essere sinceri, la risposta questa volta non è 10 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Editoriale facile. Non tanto perché si tratta di convincere gli Italiani della necessità di fare questa grande operazione-verità ma perché non si trovano (almeno fino a ora) aspiranti vincitori disposti a convincerli, a parlar loro chiaro ovvero con appelli non del tipo «prima vinciamo, poi vedremo» ma di un genere completamente diverso, del tipo per intenderci «cosa faremo e come governeremo se vinceremo». Se ci è consentita una digressione nella cronaca, non si ha l’impressione che i concorrenti dei due poli si stiano preparando con questo spirito all’appuntamento con gli elettori. È vero che c’è ancora qualche mese alla scadenza, che non si sa ancora con quali regole si svolgerà la gara, che nell’uno e nell’altro campo sono più numerose le occasioni di scontro che quelle d’incontro. Tutto vero, ma anche solo per fermarsi al nostro tema, quello cioè dei conti pubblici, la preoccupazione comune sembra più quella di rassicurare gli Italiani che la politica della matrioska non finirà mai invece di convincerli che finirà comunque, o per scelta ossia per lungimiranza politica o per forza ossia per necessità economica. • Purtroppo, sempre per restare alla cronaca e sperando di essere smentiti dai fatti, è difficile trovare della lungimiranza politica nella scelta del premier in carica di accontentare le lobby d’ogni genere sia dal lato della spesa (da fare e da tagliare) sia da quello delle entrare (da prendere e da lasciare) concludendo i suoi cinque anni di governo con una Finanziaria tipicamente pre-elettorale. Se lo fa perché pensa così di rivincere, dimostra di non avere capito né valutato il reale stato d’animo collettivo degli Italiani, quotidianamente in bilico tra paura del futuro e rivolta contro il presente con la sensazione di essere senza prospettive, di vivere in una società appunto senza bussola né rotta, di non avere più un bene comune per il quale fare anche sacrifici ma che ci siano solo beni privati, sempre più grandi e sempre più ostentati. Non sarà insomma promettendo a tutti una piccola matrioska che il premier in carica rimarrà in quella grande apprestata per sé e per la sua maggioranza. • Quanto all’aspirante premier, i toni sono certamente diversissimi ma lo spartito sembra lo stesso. In attesa che la «fabbrica» bolognese digerisca la massa di idee-forza, schede tecniche, contributi politici e materiale vario conferitole da tutte le parti dell’Unione; in attesa cioè di leggere il programma dell’aspirante maggioranza, l’impressione prevalente è di un diffuso déja vu. A cominCivitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 11 Editoriale ciare da quella «nuova concertazione» che, rimettendo attorno al tavolo parte politica e parti sociali, ripropone un rito antico quanto superato. Superato nei fatti, in quanto le strutture della produzione non sono più «concertabili» come ai tempi delle grandi tavolate tri-partisan e superato nelle idee, in quanto le sovrastrutture convocate (per usare un concetto caro alla sinistra) non rappresentano veramente i nuovi «concertandi» ma solo i vecchi «concertatori». Fuor di metafora, se l’aspirante premier conta sulla «nuova concertazione» tra Confindustria e Sindacati per tagliare la spesa pubblica parassitaria, premiare l’innovazione e il merito, rimettere in moto lo sviluppo; se questo è lo spartito del suo programma, troverà certamente la maggioranza degli Italiani disposta ad applaudirlo il giorno delle elezioni ma non altrettanto il giorno dopo, quando i nodi della finanza pubblica verranno al pettine anche del suo Governo dimostrando che la politica della matrioska non è buona o cattiva a seconda di chi la pratica ma, chiunque pretenda di continuare a praticarla, è peggio di un errore economico: è un delitto politico. Perché, appunto, uccide ogni opportunità di crescita, promettendo di distribuire tra tutti qualcosa che c’è sempre di meno invece di chiedere a ciascuno di fare di più e di meglio, mettendolo nelle condizioni di farlo e non scoraggiandolo o, peggio ancora, impedendogli di farlo. Quello che si chiede oggi alla politica è invece una capacità nuova di ascoltare e capire il nuovo proprio cominciando a smantellare il vecchio che si è impadronito del bilancio pubblico, che occupa le sue innumerevoli matrioske e resiste al loro interno. Si chiamino corporazioni professionali, sindacato dei lavoratori o confederazioni degli imprenditori, la forza di resistere al cambiamento non gliela dà la loro rappresentanza ma la debolezza della politica che fa proprie le loro regole. Il contrario cioè di quanto succede per i mercati delle professioni, del lavoro e delle imprese, che hanno una forza propria e dalla politica si aspettano regole, che la politica non sa o non vuole dare. • Per tornare alla domanda di partenza su bilancio e conti pubblici, riusciranno i vincitori delle prossime elezioni politiche a fare quello che serve e non quello che piace? Se la lettura di questo numero di «Civitas» li aiuterà a trovare la risposta giusta, mettendo nei loro programmi anche un solo impegno concreto accanto a tante alate promesse, potremo dire tutti di non avere perso tempo. Così come non avranno sprecato le loro raccomandazioni i molti, tra studiosi di economia e praticanti della politica, che da qualche tempo si dedicano a scoperchiare matrioske e a documentare sprechi. Come anche «Civitas» ha sottolineato, esisterebbero già le condizioni politiche e tecniche per una salutare 12 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Editoriale inversione di rotta nella gestione della finanza pubblica, cominciando proprio da dove l’aspirante maggioranza nazionale di centro-sinistra è già maggioranza locale. Parliamo di 16 regioni su 20, di 74 province su 108, di oltre cinquemila comuni su ottomila: una quota di «governo» reale del Paese che in tempi di decentramento e di devoluzione equivale a una quota anche maggiore di «governo» dei conti pubblici. Prima di strillare indignati per i tagli della Finanziaria ventura sarebbe certamente meglio se tutti questi amministratori si degnassero di guardare nei loro bilanci: assieme a tanti consulenti inutili (a cominciare da quelli per la comunicazione) vi troverebbero certamente una quantità di spese futili (a cominciare da tante notti e da tanti eventi) che potrebbero essere tagliate senza togliere nulla di essenziale ai loro amministrati. Un consiglio: senza perdere tempo a cercarle, si limitino a consultare l’elenco compilato nel libro Il prezzo della politica da due che se ne intendono né possono essere sospettati di partigianeria come i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone. Il consiglio vale ovviamente anche per la restante parte d’Italia amministrata dal centro-destra così come siamo impazienti di leggere i programmi di entrambi gli aspiranti al governo nazionale. Nell’attesa ci permettiamo un sogno ad occhi comunque aperti. Di leggere, fra cinque anni, un articolo sull’Italia in cui si racconta di come questo Paese è riuscito ancora una volta a risollevarsi e come questo miracolo sia cominciato con una riorganizzazione della macchina pubblica. Come? Con il consenso dei lavoratori, che hanno ritrovato il senso di responsabilità, e con il contributo degli imprenditori, che hanno smesso di chiedere e ricominciato a rischiare, i dipendenti della Pubblica amministrazione sono diminuiti di oltre 1 milione rientrando in standard di numero e di produttività competitivi a livello internazionale; è stata approvata una norma costituzionale che rende impossibili i condoni fiscali e le sanatorie previdenziali eliminando l’incentivo maggiore all’evasione dei singoli e delle imprese; le clientele politiche sono state cancellate con la riduzione del numero di onorevoli, senatori, consiglieri e amministratori d’ogni livello nonché dei rispettivi compensi. La democrazia ha cessato così di essere un lucro ed è tornata a essere un investimento sul futuro, sui giovani, sulla unicità storica, culturale e ambientale dell’Italia. Forse è solo un sogno. Ma forse no. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 13 Una lunga storia La questione economica irrompe nella cultura civile dei cattolici con la Rerum Novarum e diventa subito questione economica e questione sociale: il profitto non in sé ma collegato al bene comune. Il terreno di coltura era fertilissimo. Vent’anni prima dell’enciclica di Leone XIII, Giuseppe Toniolo conseguiva la libera docenza in economia politica con una dissertazione che aveva per titolo: “L’elemento etico quale fattore intrinseco dell’economia”. L’impegno di Toniolo era quello di fare uscire i cattolici italiani dalla marginalità politica che derivava loro dalla “questione romana”. Nel 1892, per i 400 anni della scoperta dell’America, ci sono buone agevolazioni ferroviarie per chi si reca a Genova dove si svolgono grandi celebrazioni in onore di Cristoforo Colombo. Ne approfittano i socialisti per celebrare lì il loro congresso fondativo, ma ne approfitta anche Toniolo per organizzare a Genova il primo congresso dell’Unione cattolica di studi sociali che su suo impulso era sorta nel 1890. Toniolo e la “Democrazia Cristiana” • Sono gli anni nei quali Toniolo elabora la sua concezione di un movimento politico da chiamare “Democrazia Cristiana”, concepisce le “unioni professionali di soli lavoratori”, anima la sezione di economia sociale dell’Opera dei Congressi, è l’instancabile promotore di iniziative di risveglio del mondo cattolico in tutta Italia fino al punto di venir denunciato alla polizia come “agitatore socialista cristiano” e minacciato d’arresto. Non se ne cura: sull’esempio francese istituisce le settimane sociali cattoliche (la prima sarà a Pistoia nel 1907), dà vita alla Fuci, fonda l’Unione donne cat- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 GIUSEPPE SANGIORGI Giornalista e scrittore ≈ “… guidare e indirizzare i processi economici nella direzione del bene comune, vale a dire la cultura del popolarismo. … È questa la necessità che resta e alla quale in ogni modo sono chiamati i cattolici impegnai in politica, coniugando così il rapporto tra economia e democrazia” ≈ 15 Giuseppe Sangiorgi toliche d’Italia, è in definitiva il grande campione cattolico di una visione della società alternativa a quella socialista. “Proletari di tutto il mondo, unitevi in Cristo” esclamerà parafrasando Carlo Marx. Giuseppe Toniolo è l’Abramo del cattolicesimo democratico italiano nelle diverse forme che esso ha assunto nel tempo. Lo è per esserne il capostipite, lo è per la sua assoluta obbedienza alla gerarchia ecclesiale. È sull’autonomia della sfera politica che paradossalmente lui, laico, rompe con Romolo Murri, sacerdote, che questa autonomia rivendicava. Non solo per motivi anagrafici – Toniolo è del 1845, mentre Filippo Meda è del 1869, Luigi Sturzo è del 1871, Alcide De Gasperi è del 1881 – egli anticipa e non segue la Rerum Novarum, la grande scossa elettrica che scuote il corpo dei cattolici trovando un consenso entusiasta e immediato. All’inizio del Novecento un giovane studente universitario, Alcide De Gasperi, su incarico del presidente della Federazione delle società operaie cattoliche in pieno inverno va a predicare i principi dell’enciclica tra gli emigrati italiani in Austria: “ciò che eseguii – racconta lui stesso – tra difficoltà di ogni specie, battendomi con socialisti ed anarchici, mietendo applausi e fischi, sorrisi di compassione, molte busse e una bronchite di tre settimane”. Meda e le Riforme Economiche Sociali • Filippo Meda, il fondatore di «Civitas», leader del cattolicesimo lombardo, negli stessi anni, pur non riuscendo a dare vita al suo “Centro politico”, elabora il programma di un partito dei cattolici impegnato sulla frontiera delle riforme economiche e sociali. Nel 1902 Luigi Sturzo – a proposito di quello che viene definito l’“eccesso di individualismo” siciliano che impedirebbe il diffondersi di tali pratiche associative e imprenditoriali nell’Isola – organizza nella sua Caltagirone le cooperative di braccianti agricoli che acquisiscono i latifondi della zona innovando le tecniche produttive, introducendo la rotazione delle colture e umanizzando i sistemi di lavoro. Il discorso di Caltagirone del 24 dicembre 1905 si innesta su queste esperienze concrete, oltreché sui fermenti del cattolicesimo italiano a cavallo tra i due secoli. È lungo il cammino da questo primo manifesto programmatico all’Appello ai Liberi e Forti del 18 gennaio 1919. È lungo, ma è anche una maturazione di idee, di obiettivi, di consapevolezza, di capacità organizzativa che proietta definitivamente i cattolici sulla scena politica del Paese. Se entrando nel governo Boselli del 1917, Meda era stato il primo esponente cattolico a diventare ministro dall’Unità d’Italia, è col Partito popolare che il cattolicesimo politico italiano può esprimere con pienezza i propri ideali di giustizia e libertà. I dodici punti programmatici dell’Appello di Sturzo sono improntati a un deciso riformismo in campo economico, finanziario, fiscale, previdenziale, sindacale. È una grande proposta di modernizza- 16 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giuseppe Sangiorgi zione e di democratizzazione del Paese, la promessa di una nuova stagione che sarà gelata sul nascere dal fascismo. Quella stagione rifiorisce alla fine del regime. Agli occhi della storia non può essere considerata più solo un’occasionale coincidenza lo svolgersi, nel luglio del 1943, della riunione conclusiva per l’elaborazione del Codice di Camaldoli mentre Roma viene bombardata e pochi giorni dopo Benito Mussolini viene detronizzato dal Gran Consiglio. In questo drammatico susseguirsi di avvenimenti il Codice è davvero l’annuncio dei tempi nuovi, e non un annuncio estemporaneo, poiché la sua preparazione durava almeno da un decennio all’interno del Movimento dei laureati cattolici. Se quello di Malines del 1927 era stato la sistemazione del pensiero cattolico espresso in Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il Codice di Camaldoli si proietta nel futuro rappresentando, secondo la felice formula di Gabriele De Rosa, “quel complesso di indirizzi programmatici ispirati dalla dottrina sociale della Chiesa, che furono elaborati in vista della ricostruzione”. De Gasperi e le idee ricostruttive • Il Codice di Camaldoli viene diffuso pubblicamente nel 1945, ma esso si intreccia subito con i fermenti e le aspirazioni della lotta di Liberazione. Ne sono un paradigma gli articoli di De Gasperi sul «Popolo» clandestino che delineano gli impegni programmatici della nascente formazione politica dei cattolici. Il primo, a firma Demofilo, è quello del 28 novembre 1943 intitolato: “La nostra Democrazia cristiana e le sue tradizioni”, il secondo è quello del 12 dicembre 1943, intitolato “La parola dei democratici cristiani”, il terzo è quello del 23 gennaio 1944 intitolato “Il nostro movimento e la sua ideologia”. Sono questi tre scritti, e in particolare “La parola dei democratici cristiani” – non “Le idee ricostruttive della Dc”, un testo che gli è stato erroneamente attribuito e nel quale invece lo statista non si ritrovava – a rappresentare l’impronta personale di De Gasperi sulla Democrazia Cristiana. Al punto che dopo la pubblicazione della “Parola”, fa precisare nel numero successivo del «Popolo» clandestino che uno dei sottotitoli del testo, “l’essenza del regime repubblicano”, era errato e doveva leggersi invece “l’essenza del regime democratico”. Attraverso questi documenti, e i tanti altri che se ne devono citare di quegli anni, dal “Programma di Milano” del Movimento guelfo agli scritti di Teresio Olivelli, di Paolo Emilio Taviani, di Luigi Gui, di Achille Pellizzari, di Giuseppe Dossetti, i cattolici avanzano le loro proposte in materia economica e sociale, proposte che ispireranno i principi della prima parte della Costituzione, e si tradurranno nelle politiche più innovative dei primi governi della Repubblica: la riforma agraria di Amintore Fanfani, l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, il Piano casa, la Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 17 Giuseppe Sangiorgi riforma fiscale di Ezio Vanoni. Tutto ciò nelle condizioni dell’epoca: di un Paese allo stremo nel quale, secondo Pasquale Saraceno, il fascismo e la guerra erano costati un prezzo pari a un quinto o un sesto della ricchezza nazionale. L’evoluzione industriale dell’Italia • La ricostruzione, e con essa il “miracolo economico” e il boom degli anni Sessanta traghettano a tappe forzate il Paese dalla condizione rurale a quella industriale; producono un benessere mai conosciuto prima, ma anche nuovi squilibri e disuguaglianze. La Democrazia cristiana, nel mutare dei processi politici che dal centrismo passano al centro sinistra, a una breve ripresa del centrismo, di nuovo al centro sinistra, fino alla solidarietà nazionale e al pentapartito, ricerca nuove vie di sviluppo del Paese. Lo fa nei suoi congressi, ma anche con altre iniziative: i convegni di San Pellegrino degli anni Sessanta, quello di Perugia del 1972, l’assemblea degli “esterni” del 1981, segretario del partito Flaminio Piccoli, rappresentano alcuni dei tentativi compiuti nel tempo per rilanciare la capacità progettuale dei cattolici sui diversi problemi dello sviluppo e dell’organizzazione dello Stato. Il convegno di Perugia, durante il governo Andreotti-Malagodi, ebbe tra i suoi protagonisti personalità come Nino Andreatta, Siro Lombardini, Roberto Mazzotta, Romano Prodi, e con loro tutta una schiera di giovani economisti e giovani politici, all’indomani della “svolta generazionale” dentro la Democrazia cristiana prodotta dal convegno di San Ginesio del 1969 che aveva segnato il definitivo affermarsi, accanto a quelli storici, di nuovi leader nazionali come Ciriaco De Mita e Arnaldo Forlani. Se Aldo Moro al congresso di Napoli del 1962 poteva dire che la DC riconosceva allo Stato, in vista degli interessi generali, “la funzione di orientare e condizionare le scelte economiche dei privati oltreché un consistente potere diretto d’iniziativa e d’intervento”, a San Pellegrino Lombardini e Andreatta puntavano decisamente sulla imprenditorialità pubblica e sulla spesa pubblica come leve di una nuova fase di espansione del Paese. La continuità del rapporto Economia e Democrazia • Era rispetto a oggi un’altra Italia, come diversi erano i contesti europeo e mondiale. Quelle linee di politica economica non hanno più, oggi, le condizioni per realizzarsi. Resta la suggestione della indicazione di fondo che a Perugia dava Lombardini, simile alle visioni di Giorgio La Pira: “… La società potrà muoversi verso le strutture auspicate da Papa Giovanni nella Mater et Magistra; nelle nuove forme di socializzazione la persona umana troverà nuove potenzialità di sviluppo…”. Indicazione che era il tentativo della politica democristiana di guidare e in- 18 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giuseppe Sangiorgi dirizzare i processi economici nella direzione del bene comune, vale a dire la cultura del popolarismo. È questa la necessità che resta e alla quale in ogni modo sono chiamati i cattolici impegnati in politica, coniugando così il rapporto tra economia e democrazia. A Camaldoli, nel 1998, al primo degli attuali convegni annuali organizzati dalla rivista «Il Regno», Giovanni Bazoli ha tenuto una relazione dal titolo: “Ispirazione cristiana e valori in un’economia libera e solidale”. La esigente proposizione che egli formulava era la seguente: “In definitiva si tratta di stabilire se le ragioni della solidarietà possono trovare collocazione e soddisfazione all’interno del processo economico, in quanto ad esso connaturate, ovvero costituiscano valori da considerare solo in una fase successiva, al fine di imporre necessarie condizioni del sistema…”. Come Toniolo, quando nel 1873 poneva il tema dell’elemento etico quale fattore intrinseco dell’economia. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 19 La sessione di bilancio per il 2006 Come spesso è avvenuto nel passato, anche quest’anno la sessione di bilancio che regolerà entrate, spese e debito per il 2006 è stata comunicata al Parlamento e al pubblico in modo equivoco. È stata infatti indicata una manovra di 22 milioni di euro che, se fosse vera, si collocherebbe, nella classifica delle manovre di finanza pubblica italiana di tutti i tempi, al secondo posto preceduta solo da quella definita nell’estate-autunno del 1992 dopo lo shock dell’ultima svalutazione della lira. L’evento sarebbe di particolare rilievo in connessione anche al fatto che si tratta della impostazione della legge di bilancio relativa ad un anno, il 2006, che sarà di elezioni politiche, una circostanza che genera tentazioni nelle quali è di frequente caduto il legislatore italiano. La realtà è un po’ diversa. Gli interventi sulle entrate tributarie sono molto modesti (un po’ di aumenti e un po’ di riduzioni con un effetto netto sul deficit inferiore a 1 milione di euro). Gli interventi sulla spesa sono previsti di importo pari a circa 10 milioni di euro. Si tratta quindi di una manovra correttiva del deficit pari a circa lo 0,8% del PIL, il che indicherebbe una sostanziale adeguatezza delle politiche di bilancio in corso che richiedono solo piccole correzioni e aggiustamenti. È difficile dall’esterno valutare come stanno esattamente le cose. Per la formulazione di un giudizio occorrerebbe con- PIERO GIARDA Università Cattolica di Milano Ringrazio la prof. Maria Flavia Ambrosanio per l’analisi dei provvedimenti finanziari contenuti nel disegno di legge finanziaria. È da segnalare che una parte dei provvedimenti descritti nel testo sarà soggetta a variazioni anche rilevanti per effetto degli emendamenti introdotti dal Governo stesso in sede di discussione al Senato. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 ≈ “… Ci sono segnali che l’economia possa iniziare a crescere nel 2006 …, ma non è nulla che possa essere ricondotto alle misure per lo sviluppo contenute nella manovra di bilancio per il 2006” ≈ 21 Piero Giarda siderare il realismo delle stime dei risparmi di spesa associati alla manovra. Ciò non sarebbe però sufficiente. Occorrerebbe anche valutare (a) se le previsioni a legislazione vigente – rispetto alle quali sono misurati gli effetti della manovra proposta – sono state fatte correttamente e, (b) cosa succederà effettivamente nel 2005, stante che le previsioni per il 2006 si basano sul pre-consuntivo per il 2005. Se le previsioni a legislazione vigente sono fatte correttamente – sulla base di appropriate previsioni macro-economiche e di corrette valutazioni della legislazione in essere – allora si potrebbe dire che, se il 2005 si chiude con un deficit pari al 4,7%, la manovra proposta farebbe scendere il deficit del 2006 al 3,8%. Se tutte le condizioni indicate non sono rispettate, il deficit per il 2006 sarà maggiore del valore indicato. Nelle pagine che seguono viene presentata una descrizione semplificata del processo di bilancio italiano e, successivamente, una sintesi della manovra di bilancio proposta dal governo. Struttura della sessione di bilancio in Italia • Dal 1979, dopo la riforma delle regole per la formazione del bilancio attuata con la legge n. 468 del 1978, l’autunno politico è normalmente dedicato alla formazione della legge di bilancio per l’anno successivo. L’avvio della sessione di bilancio è preceduto dal documento (una circolare del Ministro dell’economia emanata nel mese di marzo di ciascun anno) che fissa le regole per la formazione del disegno di legge di bilancio dello Stato cosiddetto a legislazione vigente. Tale circolare viene impostata sulla base delle indicazioni programmatiche contenute nei prospetti del bilancio pluriennale che accompagnano la legge di bilancio dell’anno precedente. Il Ministro dell’economia traduce (o dovrebbe tradurre) in regole pratiche, diverse per le diverse voci del bilancio dello stato, le indicazioni generali di tali prospetti, limitatamente a quelle spese che non sono predeterminate legislativamente in termini monetari o per le quali sono definite regole legislative di sviluppo nel tempo. Così è avvenuto anche quest’anno. Tuttavia è prassi corrente che le regole pratiche definite dal Ministero dell’economia siano spesso ignorate nella formazione del bilancio a legislazione vigente. Il disegno di legge del Bilancio dello Stato presentato al Parlamento nel periodo luglio-settembre, riflette si le indicazioni del Ministro dell’economia, ma è anche il risultato di un processo di negoziazione con i Ministeri di spesa che cercano di affermare le esigenze delle singole amministrazioni in relazione ai compiti istituzionali loro assegnati. È da segnalare che un Governo che volesse evitare di presentarsi con manovre correttive di importo rilevante potrebbe predisporre bilanci a legislazione vigente che sottostimano l’effettivo andamento delle spese. Il passo successivo è (o dovrebbe essere) la formazione del documento di programmazione economica e finanziaria nel quale le previsioni a legislazione vigente, 22 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Giarda estese all’intero settore pubblico, vengono integrate con le conseguenze finanziarie della attuazione di obiettivi programmatici. Il DPEF quindi prevede di aggiungere (a) le variazioni in aumento della spesa, per quegli interventi ritenuti necessari per l’attuazione di un qualche programma di governo e, (b) le riduzioni del prelievo tributario (nel desiderio o nella speranza che ciò possa avere effetti benefici sull’andamento dell’economia italiana). La somma delle tre componenti (legislazione vigente + gli effetti di aumenti della spesa e delle riduzioni delle imposte) determinano livelli di spesa, livelli del prelievo tributario e livelli del deficit complessivo del settore pubblico che devono essere messi a confronto con l’andamento dell’economia italiana, con gli obiettivi della politica del governo, con i vincoli internazionali, con gli scenari di sviluppo dell’economia mondiale. Spesso (quasi sempre) succede che il deficit risultante da questa prima fase della programmazione finanziaria produca un deficit superiore al deficit ritenuto ammissibile. Da questi esiti originano le manovre correttive che sono il bread and butter della sessione di bilancio. Mentre gli interventi che determinano variazioni in aumento del deficit sono quasi sempre ben identificate (un bonus per i figlio o una riduzione dei contributi sociali) le manovre dirette alla riduzione del deficit spesso si presentano con caratteri (assai strani) che toccano l’immaginazione di un lettore non specializzato nelle questioni di finanza pubblica. Tre casi tipici. Una manovra frequentemente annunciata riguarda il recupero dell’evasione fiscale. Cosa si vuole esattamente intendere con questa espressione non è mai chiaro. Forse vuol dire che le previsioni di gettito a legislazione vigente sono fatte nell’ipotesi che l’evasione sia un elemento endemico e caratteristico del nostro costume sociale o della nostra legislazione, come se esistesse un qualche livello o una qualche percentuale standard di violazione degli obblighi di adempimento delle leggi tributarie che non può essere recuperata normalmente al gettito (l’evasione esiste in tutti i paesi e sistemi tributari). Forse che i comportamenti normali della pubblica amministrazione, dei suoi ministri e direttori generali, delle strutture periferiche dell’amministrazione delle finanze hanno fino ad allora tollerato che cittadini o contribuenti non onorassero i loro obblighi tributari. Quindi gli amministratori della cosa pubblica che sono stati fino ad oggi lenient o tolleranti, da oggi in avanti non lo saranno più; ovvero che trasmettendo nuovi ordini alle amministrazioni periferiche queste riusciranno ad indurre comportamenti più virtuosi ed onorabili. Altre volte le manovre correttive riguardano la correzione delle spese cosiddette di funzionamento della pubblica amministrazione, quelle stesse spese non sostenute da esplicite norme di legge che avrebbero dovuto (ma non sono state) regolate con la legge di bilancio a causa del fatto che le amministrazioni di spesa dello Stato centrale non hanno obbedito agli ordini che il Ministro dell’economia ha impartito con la circolare del mese di marzo di cui abbiamo già parlato. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 23 Piero Giarda Altre volte ancora viene creato ex-ante un bilancio a legislazione vigente che invece include elementi programmatici (incrementi di spesa superiori a quelli che sarebbero portati dalla legislazione vigente) e quindi la manovra correttiva tende a riportare più vicini alla legislazione vigente poste di spesa che erano state ipotizzate molto più elevate. Le manovre correttive di finanza pubblica si presentano quindi con volti di verità molto articolati e complessi. Le situazioni, i prospetti contabili, l’intersezione tra le diverse regole contabili che presiedono al bilancio dello Stato e ai conti del settore pubblico sono oggettivamente non sempre di immediata comprensione. Non è però necessario che sia così. La responsabilità nella trasparenza dei conti è tutta dei governi. Poco può fare il Parlamento; anzi è esso stesso vittima della mancanza di trasparenza. Non è sempre così e non è sempre stato così. Il pre-consuntivo 2005 • Nel 2005 nessuno degli originari obiettivi di finanza pubblica è stato realizzato. L’anno non sarà quindi ricordato come un anno felice per la finanza pubblica. Le spese sono aumentate più del previsto, le entrate sono cresciute meno del previsto. Sono quindi peggiorati i saldi (il deficit di bilancio è aumentato) ed è pure aumentato il rapporto debito/PIL. Si mostrano nei consuntivi per il 2005 le questioni sollevate nel precedente paragrafo. Le previsioni a legislazione vigente erano state fatte sulla base di previsioni troppo ottimistiche sull’andamento dell’economia: come conseguenza le entrate complessive (tributarie e non) sono risultate inferiori al previsto. La pressione tributaria (il rapporto entrate tributarie/PIL) resta invariato rispetto al 2004 ma, per la bassa crescita dell’economia, il livello delle entrate risulta inferiore alle previsioni. Le previsioni a legislazione vigente delle spese sono risultate errate per difetto, mentre la misura degli effetti degli interventi correttivi della loro dinamica è risultata stimata per eccesso. Come conseguenza le spese correnti al netto degli interessi sono aumentate di circa il 3,8% in misura ben superiore al tasso d’inflazione, sulla cui misura erano stati definiti gli obiettivi della legge finanziaria dello scorso anno. Le spese per investimenti sono rimaste sui livelli dell’anno precedente, valore inferiore alle previsioni e anche la spesa per interessi è risultata inferiore alle previsioni. Nel complesso gli esiti di finanza pubblica per il 2005 confermano alcune tendenze che si erano già manifestata in anni precedenti. Le spese crescono più del previsto, le entrate sono sostenute solo dai proventi di entrate straordinarie quali i condoni. Come conseguenza tutti i saldi finanza pubblica peggiorano con il passare degli anni. In particolare è peggiorato l’avanzo primario (la differenza tra 24 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Giarda entrate e spese al netto degli interessi passivi). Il peggioramento è stato molto rilevante e non è stato compensato dalla forte caduta degli oneri per il servizio del debito pubblico. È da rilevare che in tutti gli ultimi 4 anni è diminuita, grazie anche alla moneta unica, l’incidenza e il peso degli interessi passivi. Il peggioramento del saldo primario è stato però superiore alla riduzione della spesa per interessi. Il deficit complessivo di bilancio è andato quindi progressivamente aumentando. Di fronte a previsioni di consuntivo così negative, nel corso dei mesi di settembre-ottobre sono state proposte dal Governo misure dirette a ridurre il peggioramento dei conti pubblici del 2005: misure tampone quali una riduzione del 30% della spesa pubblica per beni e servizi (impossibile da attuare di qui a fine anno), aumenti del prelievo tributario sulle imprese (attraverso la modifica delle regole di ammortamento) e una accelerazione delle procedure per le dismissioni immobiliari. Altri interventi sono in corso di preparazione quando questo articolo viene scritto. Non è solo una questione sull’andamento dei conti nel 2005. Il peggioramento ha riguardato l’intero periodo degli ultimi quattro anni. A fronte del “bonus” della riduzione della spesa per interessi che avrebbe potuto compensare gli effetti negativi del rallentamento della crescita dell’economia, le spese correnti sono aumentate in modo significativo e la pressione tributaria si è leggermente ridotta. La manovra finanziaria per il 2006 • Risultando lo scenario tendenziale per il 2006 incompatibile con gli impegni assunti in sede europea, la manovra finanziaria per il 2006 propone una correzione del deficit dell’ordine di 11,5 miliardi di euro. Sono previste riduzioni nette di spesa rispetto alla legislazione vigente per 10,5 miliardi (risultanti da riduzioni per 14,9 miliardi e aumenti per 4,4 miliardi) e aumenti nette di entrate per 1,0 miliardi (risultanti da aumenti per 4,3 miliardi e riduzioni per 3,3 miliardi). Le previsioni tendenziali. Le previsioni tendenziali per il 2006 sono illustrate nel DPEF 2006-2009 (poi confermate nella Relazione previsionale e programmatica per il 2006) e sono riportate nella Tabella 1. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 25 Piero Giarda TAB. 1. Previsioni tendenziali, P.A. 2006 (miliardi di euro) 2006 Var. % prev. su ’05 Entrate tributarie 393,1 1,1 imposte una tantum 0,2 -89,4 Contributi sociali 185,1 1,6 Altre entrate 49,3 – Entrate totali 627,5 1,2 Spese correnti netto interessi personale consumi intermedi pensioni altre Interessi passivi Spese correnti totali – sanità 568,9 154,4 111,0 208,6 94,9 68,0 636,9 95,6 2,4 -2,1 3,7 4,6 3,7 – 2,1 2,7 Spese in conto capitale Spese totali netto interessi Spese totali Pressione fiscale (% PIL) Avanzo primario (% PIL) Risparmio pubblico (% PIL) Indebitamento netto (% PIL) 57,9 626,8 694,7 40,3 0,1 -1,0 4,7 3,8 2,5 2,2 Le entrate sono previste in crescita del 2,2% e le entrate dell’1,1%. Con queste previsioni si determinerebbe una riduzione dell’avanzo primario e un aumento dell’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche. Il primo scenderebbe allo 0,1% del PIL, il secondo aumenterebbe al 4,7% del PIL. Queste previsioni confermano la situazione critica della finanza pubblica italiana e quindi la necessità di una manovra correttiva che consenta di rispettare gli impegni assunti con il Patto di stabilità e crescita. Gli obiettivi. Il DPEF 2006-2009 illustra gli obiettivi della politica di bilancio, che si inseriscono nel contesto più ampio degli obiettivi di politica economica, da raggiungere mediante linee di intervento così individuate dal Governo: maggiori investimenti nelle infrastrutture, liberalizzazione dei mercati, alleggerimento del carico tributario, tutela del potere d’acquisto delle famiglie, aggiustamento strutturale dei conti pubblici. Ignorando la consueta retorica espressiva dei documenti programmatici e limitandoci a considerare i flussi di finanza pubblica, gli obiettivi per il 2006 indicano, rispetto al pre-consuntivo del 2005, l’aumento dell’avanzo primario allo 0,8% del PIL, la riduzione dell’indebitamento netto al 3,8% del PIL e la riduzione del rapporto debito/PIL al 107,4% (vedi la Tab. 2). 26 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Giarda TAB. 2. Il quadro programmatico 2006-2008 (% del PIL) 2005 2006 2007 2008 Saldo primario 0,1 0,9 1,8 2,5 Indebitamento netto 4,7 3,8 2,8 2,1 Rapporto debito/PIL 108,1 107,4 105,2 103,6 Gli obiettivi per il 2006 richiedono una riduzione del deficit tendenziale di circa 11,5 miliardi di euro. Questa è l’entità della manovra correttiva. La legge finanziaria dispone riduzioni ma anche aumenti di spesa, aumenti ed anche riduzioni delle entrate. Gli interventi sulle spese • I risparmi di spesa sono stimati dal Governo in 10,5 miliardi di euro. Il contributo più rilevante alla riduzione del deficit proverrebbe dagli interventi nel comparto degli enti territoriali e nel comparto della sanità (per un totale di 5,6 miliardi di euro). Risparmi significativi si otterrebbero dalla riduzione dei trasferimenti correnti e dei contributi in conto capitale alle imprese (2,35 miliardi). Altri risparmi deriverebbero dalla compressione dei consumi intermedi e delle spese per consulenze e di rappresentanza e dalla riduzione degli investimenti dello Stato. TAB. 3. Gli interventi sulle spese (miliardi di euro) Minori spese – pubblico impiego – consumi intermedi, consulenze – contributi alla produzione – contributi c/capitale alle imprese – Patto di stabilità interno Regioni – Patto di stabilità interno Comuni – sanità – riduzione investimenti Stato – limiti spese investimento – limiti tiraggi contabilità speciali – altre 12,34 0,98 1,55 1,15 1,20 1,10 2,02 2,50 0,36 0,34 0,40 0,74 Maggiori spese – pubblico impiego – eccedenze di spesa – fondo famiglia e sviluppo – altre Minori spese nette ex articolato L.F. Minori spese nette ex Tabelle L.F. Totale minori spese nette 2,74 0,53 0,59 1,14 0,48 9,60 0,90 10,50 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 27 Piero Giarda Patto di stabilità interno e spesa sanitaria. Per quanto riguarda gli enti territoriali, il disegno di Legge Finanziaria apporta ulteriori modifiche al Patto di stabilità interno, al fine di rendere coerenti i flussi di spesa delle autonomie territoriali con gli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2006-2008 in relazione agli obblighi assunti dalla repubblica in sede comunitaria. La Legge Finanziaria per il 2005 aveva introdotto un vincolo alla crescita della spesa complessiva (corrente e in conto capitale) degli enti decentrati (Regioni, Province autonome, Province, Comuni con più di 3.000 abitanti e Comunità montane con più di 50.000 abitanti). Per il 2006, i vincoli agirebbero separatamente sulle due componenti. Per le Regioni, la spesa corrente, al netto delle spese per la sanità e per il personale e dei trasferimenti ad altri enti della P.A., dovrebbe al massimo essere pari alla spesa effettuata nel 2004 ridotta del 3,8%; le spese in conto capitale non potrebbero superare quelle sostenute nel 2004 aumentate del 6,9%. Per gli enti locali, la spesa corrente, al netto delle spese a carattere sociale, per il personale e dei trasferimenti ad altri enti della P.A., dovrebbe al massimo essere pari alla spesa effettuata nel 2004 ridotta del 6,7%; le spese in conto capitale non potrebbero superare quelle sostenute nel 2004 aumentate del 10%. Per ciò che concerne il settore della sanità, la Relazione tecnica al disegno di Legge Finanziaria individua uno scostamento di 3,5 miliardi di euro tra il livello di finanziamento del SSN assicurato da Stato e Regioni, pari a 92,6 miliardi, e la spesa stimata, pari 96,1 miliardi Su queste basi, si richiederebbe alle Regioni una manovra da 2,5 miliardi (lo Stato metterebbe a disposizione del SSN finanziamenti aggiuntivi per un miliardo). Pubblico impiego. L’effetto netto atteso dalle disposizioni in materia di personale è pari a circa 450 milioni di euro. Le maggiori spese derivano: (a) dagli aumenti conseguenti al rinnovo dei contratti; (b) dalle nuove assunzioni (2.500 unità) per compiti di sicurezza e ordine pubblico; (c) dalla proroga dei contratti a tempo determinato, per alcune categorie; (d) dall’istituzione dell’area separata della vice-dirigenza da parte della contrattazione collettiva del comparto ministeri. Queste maggiori spese sarebbero compensate dai risparmi derivanti dall’introduzione di limiti all’utilizzo di personale a tempo determinato (la spesa per il 2006 non dovrebbe superare il 60% della spesa sostenuta nel 2003) e dalla riduzione delle spese di personale degli enti territoriali. Altre disposizioni. Ulteriori misure di contenimento della spesa concernono i consumi intermedi e le spese di consulenza e rappresentanza, con risparmi stimati in circa 1,6 miliardi di euro; la riduzione dei trasferimenti correnti e i contributi in conto capitale alle imprese, per 2,3 miliardi di euro; gli investimento dello Stato per 360 milioni di euro. Infine, altri risparmi proverrebbero dalla limitazione dei pagamenti di ANAS Spa (300 milioni di euro) per spese d’investimento e dei tiraggi dalle contabilità speciali (400 milioni di euro). 28 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Giarda Gli interventi straordinari. Il disegno di Legge Finanziaria contiene anche disposizioni presentate come misure dirette a “favorire lo sviluppo e l’occupazione” e “per il sostegno dei redditi delle famiglie meno abbienti”. Si propone la creazione per il solo 2006 del Fondo famiglia e solidarietà, con una dotazione di 1,14 miliardi di euro. Si propone altresì, sempre per il solo 2006, ed in via sperimentale, la istituzione di un Fondo, alimentato da una quota pari al 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, da destinare a scopi di sostegno al volontariato, alla ricerca ed università e per le attività sociali svolte dai comuni di residenza dei contribuenti. L’operatività del Fondo verrebbe comunque rinviata al 2007, primo anno utile per analizzare le scelte dei contribuenti. Gli effetti delle Tabelle della Legge Finanziaria. Parte integrante della manovra per il 2006, come per ogni manovra finanziaria, sono anche gli interventi che si attuano attraverso le tabelle della Legge Finanziaria (Tab. 4), i cui effetti si manifestano prima sul bilancio dello Stato e poi sui conti della P.A. La Tabella A contiene le voci da includere nel Fondo speciale di parte corrente, per il finanziamento di nuove leggi nel corso del 2006. La Tabella C contiene gli stanziamenti relativi a leggi la cui quantificazione annua è demandata alla Legge Finanziaria. Per il 2006 la Tabella A introduce maggiori spese correnti per 452 milioni; la Tabella C riduce le autorizzazioni di spesa per il 2006 fissate dalla Legge Finanziaria per il 2005 (che costituiscono la legislazione vigente 2006) per 2.756 milioni, con un effetto netto sul bilancio dello Stato pari a – 2.304 milioni di euro. Le Tabelle B, D ed E riguardano le spese in conto capitale. La Tabella B indica le voci da includere nel Fondo speciale di conto capitale, la Tabella D contiene nuove spese per il finanziamento di programmi di sostegno dell’economia, la Tabella E indica invece il definanziamento di programmi di spesa, riducendo le autorizzazioni definite da precedenti leggi. Per il 2006, l’effetto netto sul bilancio dello Stato è un aumento della spesa in conto capitale pari a 3.022 milioni di euro. Infine, la Tabella F contiene gli importi da iscrivere in bilancio per le autorizzazioni di spesa di leggi pluriennali. Non reca né riduzioni né aumenti di spesa, in quanto è costruita sulla base della legislazione vigente, ma mostra gli effetti delle cosiddette rimodulazioni, ovvero lo spostamento al futuro di autorizzazioni di spesa. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 29 Piero Giarda TAB. 4. Gli interventi sulla spesa nelle tabelle della Legge Finanziaria (milioni di euro) 2006 2007 2008 Finanziaria 2006 Finanziaria 2005 Finanziaria 2006 Effetti su spesa corrente Finanziaria 2006 Finanziaria 2006 Finanziaria 2006 Effetti su spesa c/capitale Finanziaria 2005 Finanziaria 2006 Rimodulazioni Tabella A 452 Tabella C 19.452 16.786 - 2.756 -2.304 Tabella B 474 Tabella D 4.757 Tabella E - 2.209 +3.022 Tabella F 22.640 15.997 -6.643 489 505 19.450 15.583 -3.957 -3.468 19.450 15.577 -3.873 -3.368 385 356 1.220 9.480 -1.040 +565 - 646 +9.190 17.336 10.642 -6.694 33.664 60.467 +26.803 P.A. 2006 -1.800 +900 Gli importi delle variazioni in aumento o riduzione delle spese rispetto agli importi risultanti dalla legislazione vigente (registrati nel bilancio dello Stato in base al criterio finanziario e autorizzativo) devono essere tradotti in importi rilevanti per i conti delle Amministrazioni Pubbliche, rilevanti per il calcolo del deficit. Per il 2006, si dovrebbe avere (vedi l’ultima colonna della tabella 4) un effetto netto di riduzione della spesa pari a circa 900 milioni di euro, derivanti da minori spese correnti per 1.800 milioni e maggiori spese in conto capitale per 900 milioni. Gli interventi sulle entrate • Alla manovra sulle spese è affiancata una manovra sulle entrate che dovrebbe portare maggiori introiti netti per poco meno di 1 miliardo di euro (Tab. 3.6). Le maggiori entrate deriverebbero per lo più dalle misure predisposte dal D.L. 203/2005, in corso di conversione in legge. 30 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Giarda TAB. 5. Gli interventi sulle entrate (miliardi di euro) Maggiori entrate – tassa sulle reti (?) – rivalutazione beni d’impresa – giochi – effetti D.L. 203/2005 4,26 0,80 0,92 0,70 1,84 Minori entrate – proroga agevolazioni fiscali – eliminazione tassa brevetti – riduzione cuneo contributivo 3,30 1,20 0,10 2,00 Maggiori entrate nette 0,96 Lotta all’evasione e interventi sulle procedure di riscossione. Il D.L. 203/2005 introduce nuove norme per la lotta all’evasione fiscale e modifica il sistema di riscossione dei tributi. Per quanto riguarda il recupero di imponibili, vengono innanzitutto coinvolti i Comuni, attraverso la previsione a loro favore di una quota di partecipazione all’accertamento fiscale, pari al 30% delle somme riscosse a titolo definitivo relative ai tributi erariali. Verrebbe poi potenziata l’attività dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Dogane, attraverso l’assunzione di nuovo personale, sia a tempo indeterminato sia con contratti di formazione-lavoro, per un totale di 1.800 unità, da destinare principalmente alle aree del Centro-Nord, che sarebbero particolarmente carenti di organico. Il recupero di gettito atteso per il 2006 è indicato in 325 milioni di euro. Altri 300 milioni di euro dovrebbero derivare dall’attuazione del nuovo sistema di riscossione dei tributi, il quale prevede l’eliminazione delle società concessionarie del servizio nazionale della riscossione. Questa decisione discende, come è argomentato nella Relazione al disegno di legge di conversione del decreto, dalla constatazione dei risultati estremamente deludenti dell’attività delle concessionarie, con capacità di riscossione delle somme iscritte a ruolo pari al massimo al 5-6% del carico riscuotibile. “… il valore aggiunto derivante dall’attività esecutiva svolta dai concessionari è praticamente inesistente…”. Il servizio di riscossione coattiva verrebbe affidato ad una società per azioni di proprietà pubblica, costituita dall’Agenzia delle entrate e dall’INPS, denominata Riscossione Spa (il decreto contiene norme molto dettagliate per regolare il passaggio dal vecchio al nuovo sistema). Ampliamento delle basi imponibili. Queste misure, che dovrebbero portare 1,5 miliardi di euro nelle casse del fisco, riguardano prevalentemente i redditi d’impresa, del settore bancario e del settore assicurativo: limitazione dell’applicazione della cosiddetta participation exemption; introduzione di norme anti-elusive, per contrastare le cessioni di partecipazioni che consentono la percezione di dividendi esenti Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 31 Piero Giarda e la deduzione di minusvalenze da realizzo; modifica della base imponibile dell’IRAP, dovuta dalle imprese di assicurazione, rendendo irrilevanti, come per il settore bancario, gli accantonamenti, le rettifiche di valore e le riprese di valore su crediti verso la clientela; riduzione, per le imprese di assicurazione, della deducibilità della variazione della riserva sinistri relativa ai contratti dei rami danni; riduzione per le banche della deducibilità delle svalutazioni dei crediti. Tassa sulle reti e altre misure di aumento delle entrate. L’art. 42 del disegno di Legge Finanziaria propone l’istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2006, di una addizionale erariale al canone e alla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche con grandi reti di trasmissione dell’energia, quali energia elettrica e gas, con un gettito di 800 milioni di euro nel 2006. In realtà, l’ipotesi di questa nuova imposta è già caduta: il maggiore gettito sarà recuperato estendendo al 2006 la riduzione degli ammortamenti già prevista nel Decreto 203 del 15 ottobre scorso. Infine, maggiori introiti dovrebbero derivare dall’estensione delle disposizioni sulla rivalutazione volontaria dei beni posseduti dalle imprese (circa 602 milioni di euro) e delle aree fabbricabili (circa 311 milioni di euro). Altri 700 milioni di euro proverrebbero dal settore giochi e scommesse. Sgravi fiscali. Come di consuetudine, il disegno di Legge Finanziaria proroga tutta una serie di agevolazioni fiscali in alcuni settori (accise sulle emulsioni stabilizzate e sul metano per usi industriali e civili, benefici fiscali per interventi di recupero del patrimonio edilizio, aliquota IRAP all’1,9% nei settori dell’agricoltura e della pesca, ecc.). Ad esse si accompagna l’estensione della clausola di salvaguardia, che permetterebbe ai contribuenti di scegliere tra l’IRPEF attuale, quella del 2002 e quella del 2004, a seconda di quale risulti più favorevole. Altre disposizioni riguardano l’abolizione della tassa sui brevetti, la deducibilità integrale dall’IRES di erogazioni liberali in favore di università ed enti di ricerca pubblici, la non imponibilità dei proventi conseguiti da università ed enti di ricerca pubblici nello svolgimento di attività commerciali conformi agli scopi istituzionali. Infine, l’intervento più cospicuo in materia di agevolazioni fiscali concerne la riduzione di un punto dei contributi sociali, con una perdita di gettito stimata in 2 miliardi di euro (cosiddetta riduzione del cuneo contributivo). Qualche valutazione • Come valutare la manovra per il 2006 rispetto ai suoi due obiettivi del sostegno allo sviluppo e della correzione strutturale dei conti pubblici? Per quanto riguarda il primo obiettivo, il sostegno allo sviluppo, non si può non sottolineare la modestia degli interventi proposti. Si consideri anzitutto la par- 32 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Giarda te straordinaria della manovra. Gli interventi per lo sviluppo e l’occupazione ammonterebbero a 2 miliardi di euro di riduzione del cuneo contributivo. Ma dal punto di vista delle imprese, al taglio dei contributi sociali si accompagnerebbe comunque una riduzione dei trasferimenti correnti per 1,2 miliardi di euro, con un saldo a loro favore per 800 milioni di euro. Il disegno di Legge Finanziaria propone poi la creazione del Fondo innovazione, di entità cospicua, 3 miliardi di euro, che dovrebbe finanziare i progetti individuati dal Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione, elaborato nel quadro del rilancio della strategia di Lisbona, a seguito del Consiglio Europeo del giugno 2005. L’effettiva istituzione del Fondo innovazione è però esplicitamente subordinata all’acquisizione di 3 miliardi di euro da dismissione o alienazione di beni dello Stato. Si tratta di entrate molto aleatorie (quanta parte delle dismissioni previste per il 2005 è andata a buon fine?) e ciò mette seriamente in dubbio l’effettiva attuazione delle politiche per lo sviluppo, a meno poi di finanziarle in parte in disavanzo. Infine, restano 1,2 miliardi di euro per il Fondo famiglia e sviluppo, del quale si può dire che esso rappresenta solo una temporanea e modesta misura di soluzione di un problema molto serio di giustizia distributiva ma che poco ha a che fare con questioni di sviluppo e crescita del sistema economico. Ci sono segnali che l’economia possa iniziare a crescere nel 2006 a tassi un po’ superiori a quelli del 2004 e 2005, ma non è nulla che possa essere ricondotto alle misure per lo sviluppo contenute nella manovra di bilancio per il 2006. Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la riduzione del deficit, si osserva che le maggiori entrate nette previste dalla manovra ammontano a poco meno di un miliardo di euro e che la riduzione del deficit è affidata soprattutto alle misure di contenimento della spesa. Anche su questo fronte non c’è nulla di diverso e di più incisivo di quanto sia stato fatto con le ultime leggi finanziarie. Le misure che riducono il deficit sono pari a 19,2 miliardi, quelle che lo aumentano sono pari a 7,7 miliardi. L’effetto netto è di 11,5 miliardi. Alcune di queste misure, come i tagli proposti per i Ministeri o altre riduzioni di spesa avranno un effetto di rimbalzo (aumenterebbero le spese) sul disavanzo del 2007 e del 2008; certamente non si tratta di misure strutturali. Le disposizioni sul pubblico impiego avranno un effetto netto quasi nullo, al blocco delle assunzioni in alcuni comparti, si affiancherebbero le nuove assunzioni nei settori della pubblica sicurezza e della lotta all’evasione. Come avvenuto per il 2005, lo sforzo maggiore per il risanamento viene richiesto al sistema di finanza decentrata, regioni ed enti locali, ai quali si impone una riduzione della spesa (esclusa la spesa sociale, il personale e la sanità) rispetto ai livelli del 2004. Alle Regioni viene anche richiesto di reperire risorse per 2,5 miliardi di euro per finanziare la maggiore spesa sanitaria. La manovra finanziaria per il 2006 appare quindi poco efficace ex ante. La modestia degli interventi si somma ai dubbi sul realismo delle previsioni tendenziali. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 33 Piero Giarda Il Ministro dell’economia è intervenuto per correggere alcuni (ma solo alcuni) degli aspetti più critici dei valori inizialmente presentati. È quindi molto probabile che i conti pubblici continuino a peggiorare nonostante il miglioramento previsto per il 2006 dell’andamento dell’economia italiana. 34 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Il debito pubblico: un male da cui liberarsi? (e come?) Un’analisi per l’Italia d’oggi (e di ieri) MARIO SARCINELLI Alexander Hamilton, uno dei padri della Costituzione americana, autore con Madison e Jay di saggi raccolti sotto il titolo di The Federalist e fondatore del Tesoro degli Stati Uniti, ha scritto che “A national debt, if it is not excessive, will be to us a national blessing”; egli infatti unificò i debiti pubblici della nascente federazione e degli stati, operazione che non fu esente da critiche. Se si fa fede a chi, oltre due secoli or sono, contribuì a seminare libertà e democrazia, il debito pubblico non è certamente un male in sé. Basti pensare che esso permette il finanziamento delle opere pubbliche, soprattutto di quelle che hanno una vita attesa molto lunga e un periodo spesso non breve prima che maturino i suoi benefici; che costituisce una rendita per i piccoli risparmiatori avversi al rischio di controparte e, limitatamente, a quello di mercato; che offre ai fondi pensione e alle compagnie di assicurazione strumenti di accumulazione che permettono il bilanciamento con le passività a lungo termine che essi offrono ai sottoscrittori di polizze; ecc. Inutile dire che quando è molto elevato, esso costituisce un grosso fardello che vincola la politica economica, crea una classe di rentier che vive sui trasferimenti di reddito che le classi produttive operano a favore di chi fornì risorse alla collettività in epoche passate, presumibilmente riduce per i detentori di capitali liquidi l’incentivo ad assumere rischi nel settore reale dell’economia e, forse, compromette il tasso di crescita di lungo periodo. Sorge, quindi, la necessità di liberarsi da un debito pubblico divenuto particolarmente vincolante. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Università La Sapienza di Roma ≈ “… anche svendendo il patrimonio pubblico, è difficile giungere ad una drastica e strutturale riduzione del debito pubblico. … meno si realizza dalla vendita di attività, meno debito si redime, più danno la collettività subisce, più se ne avvantaggia il compratore” ≈ 35 Mario Sarcinelli Come liberarsi da un debito pubblico • Per raggiungere questo obiettivo, la scienza e la pratica delle pubbliche finanze annoverano quattro strumenti. Il primo, il più radicale e il meno accettabile è il disconoscimento totale o parziale; lungi dall’essere un reperto storico (chi non ricorda dai banchi di scuola che i banchieri fiorentini Bardi e Peruzzi furono vittime del ripudio del debito da parte di Edoardo III, re d’Inghilterra, nel 1343?), esso è diventato lo strumento per riequilibrare gli oneri debitori dei paesi in via di sviluppo con le potenzialità delle loro economie negli ultimi venticinque anni o poco più. Di recente, il risparmiatore italiano è stato colpito dalle decisioni inappellabili del governo argentino che attraverso moratorie e offerte non negoziabili ha portato a termine la più grande ristrutturazione di debito sovrano che si sia mai avuta e dalla quale i portatori italiani di carta argentina si sono in gran parte volontariamente esclusi, sperando in condizioni meno penalizzanti in futuro... In passato, le cannoniere dei paesi creditori venivano impiegate per ridurre a più miti consigli i governi proni a non onorare il proprio debito, ma quei tempi sono fortunatamente tramontati. Un altro strumento, anch’esso rifiutato dalla coscienza civica, è l’inflazione che erode il valore della moneta e di tutte le obbligazioni che comportano debito di valuta; dopo le esperienze inflazionistiche degli anni ’70 del secolo scorso si sono diffusi i titoli indicizzati, che comportano debiti di valore. Questa opzione è oggi di fatto preclusa per chi è membro dell’Unione monetaria europea, poiché la sua banca centrale ha come compito prioritario quello di mantenere la stabilità dei prezzi. Tuttavia, l’inflazione del 1946 distrusse il debito accumulato dal Regno d’Italia sino alla fine della seconda guerra mondiale; secondo le memorie di Guido Carli, l’allora governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi lasciò che la spinta inflazionistica acquistasse forza distruttiva prima di intervenire con il nuovo strumento della riserva obbligatoria; dopo l’annuncio delle misure volte a frenare la concessione dei crediti, le aspettative inflazionistiche si invertirono rapidamente. I manuali di scienza delle finanze elencano anche l’imposta straordinaria sul patrimonio, spettro che di solito la sinistra radicale agita quando la barca della pubblica finanza comincia a fare acqua e le imposte ordinarie sono già molto elevate. Tuttavia, a questo riguardo bisogna distinguere tra le imposte sul patrimonio che sono pagate trasferendo allo stato quote del medesimo e quelle che, pur ad esso commisurate, sono pagate col reddito, anche se con grande sacrificio dei contribuenti. Nel primo caso, lo stato viene di norma in possesso di beni diversi dalla moneta e quindi non utilizzabili per redimere il debito; se lo stato realizzasse in breve tempo quei beni sul mercato, presumibilmente l’offerta supererebbe di gran lunga la domanda e le quotazioni cadrebbero a livelli bassissimi, con danno per il venditore e per tutti i detentori di quelle attività. Se le operazioni di vendita dei beni patrimoniali sono fatte dai singoli proprietari-contribuenti, il risultato non sarà 36 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Mario Sarcinelli molto diverso, salvo che intervenga il credito bancario, con il rischio, però, che le banche si trovino a fronteggiare una serie di insolvenze nel tempo se vi è un’ulteriore caduta dei valori cauzionali. Lo stato, perciò, se ottiene in pagamento dell’imposta patrimoniale beni diversi dalla moneta, si induce a distribuire nel tempo le vendite, a rateizzarne il pagamento e ad ottenere da intermediari finanziari prestiti garantiti dai beni in corso di liquidazione. Tuttavia, per non turbare troppo i mercati delle attività, lo stato può indursi a trasformare l’imposta straordinaria patrimoniale in una ordinaria per un certo numero di anni. È questo appunto il caso dell’imposta commisurata al patrimonio, ma pagata col reddito. Infine, resta la via maestra, quella del rimborso o – per essere più precisi – quella del mantenimento o della riacquisizione della capacità di rimborso del debito. Nessun debitore privato, né alcun debitore pubblico ha bisogno di liberarsi delle proprie obbligazioni, ma soltanto di mantenersi in una zona di affidabilità che gli permetta di espandere il proprio indebitamento senza difficoltà e a costi non penalizzanti. Per un debitore privato il flusso di cassa non impegnato permette di valutare se il livello di indebitamento è sostenibile, date la sua struttura, la capacità di ricorso agli azionisti, la previsione sull’andamento dei tassi d’interesse, le prospettive dell’impresa sia congiunturali sia strutturali, ecc. Per lo stato l’avanzo primario, o saldo tra entrate e spese eccettuati gli oneri per gli interessi sul debito, rapportato al prodotto interno lordo (pil), sembra un buon indicatore della sostenibilità del debito, come convenzionalmente definito, alla luce del prevedibile andamento della crescita, dei tassi d’interesse, della pressione fiscale e della struttura delle spese, della loro probabile evoluzione nel tempo, della reputazione del paese nel mantenere fede ai propri impegni, ecc. Il vincolo forte del debito pubblico • Il debito pubblico diventa un vincolo molto forte, talvolta insopportabile, allorché rispetto al pil supera un livello ritenuto critico. Il trattato di Maastricht lo ha fissato al 60%, che deriva dalla media dei debiti pubblici rispetto al pil degli stati della Comunità europea all’epoca della preparazione del suddetto trattato. Soprattutto le autorità comunitarie, ma anche quelle nazionali danno segni di impazienza e di crescente preoccupazione quanto più grande è la distanza dalla soglia critica e, in particolare, quanto più essa tende a crescere verso l’alto. Al contempo, le società di rating e gli analisti finanziari assumono un atteggiamento di più occhiuta vigilanza, poiché scontano nelle proprie valutazioni una maggiore probabilità di inadempienza. I mercati, a loro volta, fanno scendere le quotazioni sul secondario e possono aumentare anche di molto il margine rispetto al titolo di riferimento sul primario, se i risparmiatori e gli intermediari finanziari alleggeriscono il proprio portafoglio vendendo titoli e rendono il ricorso a nuove emissioni più oneroso e talvolta impossibile per il paese emittente. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 37 Mario Sarcinelli Se si prescinde da una serie di elementi, già sommariamente elencati, che sono “idiosincratici”, cioè riferibili al singolo paese, la sostenibilità del debito pubblico dipende dalla dinamica del rapporto debito/pil. Infatti, l’indicazione di uno squilibrio massimo tra entrate e spese del 3% nel trattato di Maastricht deriva dalla necessità di mantenere inalterato quel rapporto al 60%, nell’ipotesi che il pil cresca al massimo del 5% nominale l’anno (3% in termini reali e 2% per effetto dei prezzi) e che il costo medio del debito sia anch’esso del 5%. Sempre considerando soltanto il rapporto debito/pil, il debito è matematicamente sostenibile nel lungo periodo, quale che ne sia il livello, se è stabile, cioè quando il numeratore e il denominatore crescono allo stesso tasso; ne consegue che il grado di sostenibilità aumenta se il debito cresce meno del pil e peggiora nel caso contrario, a parità di ogni altra condizione. Pertanto, un livello del rapporto debito/pil molto elevato, ad es., superiore al 100% come oggi è vero per il Giappone (170%), per la Grecia (110%) e per l’Italia (108%), non è di per sé instabile, ma ha molte probabilità di aumentare rapidamente a causa di shock dovuti al mercato (ad es., per innalzamento dei tassi d’interesse e/o dei premi al rischio), alla congiuntura negativa (ad es., per caduta della domanda, per riduzione dell’offerta di lavoro o per mancata crescita della produttività totale dei fattori) e alla politica economica (ad es., per insofferenza dei vincoli che il debito pone alla finanza pubblica nelle sue funzioni fondamentali di allocazione delle risorse, di distribuzione delle stesse tra i gruppi sociali e di stabilizzazione del ciclo). Anche da livelli molto elevati del rapporto debito/pil si può rientrare, come dimostra l’esperienza recente del Belgio che si trova oggi al 95%; per il lontano passato si può citare il caso del Regno Unito che dalle guerre napoleoniche emerse con un rapporto che si stima intorno al 200%. È ovvio che, economicamente, il giudizio dei mercati sulla sostenibilità dipende anche dagli altri fattori “idiosincratici”; se per i paesi sviluppati un rapporto superiore a 100 può essere considerato sostenibile, per i paesi latino-americani, inadempienti abituali, si scende al 20-30%. Le componenti variabili del debito • Scendendo all’esame delle singole componenti che fanno variare il debito, va detto che alcune partite, come gli scarti di emissione e la regolazione di debiti pregressi, non influenzano il saldo primario, ma incrementano direttamente il debito. Prescindendo da queste poste, la dinamica del rapporto debito/pil dipende dal saldo primario (a), cioè dalla differenza tra le entrate e le spese al netto degli oneri sul debito, dalle vendite di attività patrimoniali (v), dal divario, più volte richiamato, tra onere medio sul debito (r) e tasso di crescita del pil (g). Se quest’ultimo è nullo, gli interessi sul debito possono essere tranquillamente pagati con altro debito senza 38 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Mario Sarcinelli alterare il rapporto debito/pil. Se r diventa maggiore di g, quel rapporto aumenta, a parità di ogni altra condizione, o perché si abbassa il tasso di crescita, come è accaduto in Italia dove dal 2,1% per il quadriennio 1998-2001 si è scesi allo 0,6 del successivo triennio o perché si innalza il tasso di interesse di mercato che si trasmette allo stock dei titoli a mano a mano che maturano o che vengono adeguati i tassi variabili. È ciò che si teme possa accadere tra breve; secondo il Governatore Fazio, un aumento di un punto percentuale su tutte le scadenze, data l’attuale struttura del nostro debito, aumenta la spesa per interessi di 0,2 punti percentuali rispetto al pil nel primo anno e di ulteriori 0,3 e 0,1 rispettivamente nel secondo e nel terzo. Dal 1995 al 2004 le tre componenti a, v e (r-g) hanno dato congiuntamente un contributo al miglioramento del rapporto debito/pil, che ha toccato il massimo di 4,22 punti percentuali nel 2000 e il minimo di 0,20 nel 2004. Nel 2005 si avrà un peggioramento di 1,60 punti (da 106,6 a 108,2), poiché l’avanzo primario, ancora previsto pari a 0,6%, e le dismissioni patrimoniali non sono sufficienti a compensare la divaricazione tra r e g. Il rapporto debito/pil torna a crescere dopo un decennio di riduzioni e si riporta al livello del 2002. Accogliendo una periodizzazione proposta da Daniele Franco della Banca d’Italia, si può così sintetizzare la recente evoluzione del debito pubblico italiano, in relazione al pil. Dal 1970 al 1994 si ebbe una forte accumulazione di debito per il perseguimento di una politica di bilancio insostenibile; il rapporto debito/pil si innalzò dal 40 al 125% nell’intervallo (tra il 1991 e il 1994 salì di 24 punti percentuali). Dal 1985 al 1991 una prima fase di rinsavimento diede priorità al contenimento del debito; il saldo primario migliorò del 4,7%, quasi del tutto neutralizzato dalla maggiore spesa per interessi pari al 4%; gli oneri per il servizio del debito risultarono pari al 12,5%. Una fase di effettivo riequilibrio finanziario si produsse tra il 1992 e il 1997, con caduta del deficit (saldo primario più oneri sul debito) dal 12 al 3%, con aumento dell’avanzo primario pari a 6,5 punti percentuali, con discesa al 121% del rapporto debito/pil. Tra il 1998 e il 2001 l’avanzo primario si ridusse dal 6,7 al 3,4%, in particolare a causa di manovre fiscali espansive per il 2000 e il 2001, nonostante l’ampio ricorso a misure temporanee. Dal 2002 al 2004 si sono avute nuove difficoltà e nuove manovre di contenimento del disavanzo, con ulteriore discesa dell’avanzo primario all’1,8% nel 2004, mentre l’onere medio del debito era pari nello stesso anno al 4,7%. Nel 2005 si è dovuto ricorrere a tre manovre correttive per mantenere sotto controllo la pubblica finanza; nell’ultima si è dovuta compensare con misure fiscali la mancata vendita di attività immobiliari per € 5 miliardi. Nello scenario di medio termine delineato nel Documento di programmazione economica e finanziaria, r è posto uguale a 4,5% e g a 3,5%, cosicché l’avanzo primario e le dismissioni patrimoniali devono ragguagliarsi all’1% per poter mantenere costante il rapporto debito/pil; se poi quest’ultimo deve scendere in misura significativa, come gli impegni con l’Unione Europea richiederebbero, l’avanzo primario dovrebbe essere di almeno 3 punti percentuali. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 39 Mario Sarcinelli Una mega dismissione patrimoniale • Già si incontrano difficoltà nella dismissione del patrimonio immobiliare pubblico con operazioni che richiedono un tempo notevole per il loro montaggio e che vieppiù aumenteranno a mano a mano che si cercherà di vendere attività meno appetibili e che si affievolirà il boom immobiliare che negli Stati Uniti ha assunto il carattere di bolla. Il prof. Giuseppe Guarino, illustre giurista e geniale proponente di soluzioni wholesale come Ministro dell’industria, ha avanzato l’idea che bisogna affrontare il problema, non con una serie di “piccole” vendite, ma con una megaoperazione di dismissione (Il debito pubblico è un problema risolubile?, relazione al convegno Nexus del 26 ottobre 2005) le cui finalità, pienamente condivisibili, sono abbattere il debito pubblico per un ammontare auspicabilmente di € 630 miliardi, abbassare il rapporto debito/pil al livello fissato a Maastricht del 60%, tagliare la spesa per interessi dal 5,3% del pil (2003) al 2,7 circa, allineandoci così a Francia, Germania e Regno Unito, riguadagnare gradi di libertà nella gestione della finanza pubblica. La stima che il prof. Guarino fa dei beni alienabili lo induce a ridurre le ambizioni nell’abbattimento del debito a € 430 miliardi, ottenibili vendendo: a) per € 40 miliardi partecipazioni nelle società quotate in borsa (Enel, Eni, ecc.); b) per altri € 60 miliardi partecipazioni in società non quotate (CDP, Poste, ecc.); c) per € 100 miliardi beni immobili strumentali delle pubbliche amministrazioni; d) per € 50 miliardi beni immobili di interesse storico, archeologico e artistico; e) per € 40 miliardi beni immobili scarsamente utili, poco utilizzati e difficilmente vendibili con trattative individuali; f ) per € 90 miliardi immobili privi o quasi di reddito, ma suscettibili di valorizzazione (soprattutto case degli ex IACP); g) per € 50 miliardi crediti fiscali e di altra natura. La tecnica di dismissione suggerita è la parte veramente innovativa della proposta e prevede la concentrazione iniziale in un’unica società per azioni dei beni sopra elencati; il suo capitale iniziale sarebbe pari ai valori di conferimento, sicché in attesa che i periti facciano una valutazione tecnicamente più soddisfacente esso sarebbe di € 430 miliardi. Il reddito iniziale della società sarebbe pari a € 6,5 miliardi, provenienti per € 2 miliardi da dividendi su partecipazioni e € 4,5 miliardi da canoni corrisposti dallo stato sugli immobili alienati e ripresi in locazione (3% su € 150 miliardi). Obiettivo dell’operazione dovrebbe essere la massimizzazione degli introiti per redimere la maggior quantità possibile di debito pubblico in circolazione, da conseguire con la cessione auspicabilmente rapida e totalitaria delle azioni della mega-s.p.a., il che presuppone inevitabilmente, anche per motivi di trasparenza nelle cessioni, la sua quotazione in borsa. A tal fine, gli amministratori avrebbero piena libertà di gestione e soprattutto di organizzazione dei vari compendi in sub-holding, società operative, ecc. al fine di valorizzare pienamente i beni trasferiti alle loro cure. 40 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Mario Sarcinelli L’incognita delle valutazioni • L’ingegnosità dei meccanismi e la fantasia nella loro progettazione non possono esimere da un’analisi delle problematiche cui una simile costruzione andrebbe incontro. In primo luogo, vi sono quelle economico-valutative. In mancanza di un riscontro di mercato, è difficile dire se le stime avanzate sono realistiche, ma esse sono senz’altro accettabili come ipotesi di studio, da confrontare con altre di cui si dirà in seguito. Il punto cruciale è la valutazione che gli esperti dovranno fare per asseverare o correggere gli iniziali valori attribuiti ai beni conferiti; essa non potrà essere minimamente di tipo analitico, poiché i tempi ed i costi per realizzarla sarebbero eccessivi. Necessariamente si dovrà fare ricorso a valutazioni per categorie di beni, a prezzi medi non facilmente riscontrabili nella pratica, a giudizi soggettivi sulle probabilità di riscossione, a flussi di cassa che appaiono certi solo per gli immobili ceduti e riaffittati dallo stato. A questo riguardo, va notato che il 3% rivalutabile, al netto di ogni onere fiscale e per manutenzione ordinaria e straordinaria, è superiore al tasso marginale, ponderato per le varie forme di ricorso al debito, al quale lo stato si finanzia oggi. Costituendo il canone del 3% un tasso fisso per un lungo periodo, se le aspettative d’inflazione restano intorno al 2% il tasso reale è pari all’1% circa; se superiori, quest’ultimo si azzera o diventa negativo. Probabilmente, qualche clausola di revisione, come accade nella pratica privata degli affitti, sarebbe opportuna, purché i parametri di riferimento e le circostanze che fanno scattare la revisione siano chiaramente specificati. La sostenibilità del mercato • Le obiezioni di carattere finanziario appaiono ancora più gravi. La concentrazione in un’unica società di tutti i beni della cui proprietà lo stato vuol disfarsi dà luogo ad un mega-conglomerato, che il mercato non è in grado di apprezzare convenientemente. Se la mega-s.p.a. viene quotata, è molto probabile che mantenga una forte sottovalutazione rispetto ai valori intrinseci o a quelli di libro. La capacità di valutazione del mercato sarebbe facilitata dalla creazione di partecipate specializzate per comparto, per categorie di immobili, ecc. Significherebbe ciò un ritorno all’IRI che, nato per liquidare, nel tempo si trasformò in ente di gestione delle proprietà bancarie e industriali di cui lo stato con i salvataggi era venuto in possesso? Ovviamente, non v’è nessuna predestinazione, ma il rischio di ripetere esperienze già vissute non può essere ignorato. Ancora più seria appare un’altra obiezione di carattere finanziario; per sostituire nei portafogli di privati investitori, di fondi comuni e di altri intermediari finanziari attività altamente liquide come i titoli del debito pubblico, con azioni della mega-s.p.a. o di sue partecipate, con obbligazioni che hanno a garanzia immobili ceduti dallo stato e con reddito basso o incer- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 41 Mario Sarcinelli to (ad es., case ex IACP) oppure direttamente con immobili già di pertinenza dello stato può avvenire solo lentamente e concedendo sconti che rappresentano opportuni premi al rischio, oltre che incentivi per mutare la composizione del portafoglio. Ciò è perfettamente naturale, ma è agli antipodi del mandato della megas.p.a. che dovrebbe estrarre il massimo valore dalle vendite, dirette o indirette, del patrimonio ad essa conferito. Le critiche maggiori sono sul piano del mandato e del governamento societario. La costituzione della mega-s.p.a. trasforma una proprietà, soprattutto immobiliare, dispersa sul territorio e dalle molteplici destinazioni d’uso, in azioni di un’unica società che lo stato immette nel proprio portafoglio. Il management della mega-s.p.a. deve promuovere la valorizzazione delle attività che le sono state conferite attraverso un’appropriata organizzazione del gruppo societario e un’adeguata spinta imprenditoriale, ma non potrà dedicarsi, se non incidentalmente, alla vendita delle azioni di propria emissione che sono in mano allo stato. È il Ministero dell’economia e delle finanze che deve operare, come ha fatto sinora, per la vendita delle azioni a sue mani e col ricavato estinguere titoli del debito pubblico. In ciò sarà facilitato dal trasferimento sulla valutazione di borsa del potenziale di valorizzazione che il management della mega-s.p.a. sarà stato in grado di attivare, nonché dall’afflusso di dividendi straordinari per le dismissioni di sotto-insiemi compiute dalla medesima. Ove, per la specialità del caso, si attribuisse alla mega-s.p.a. il compito di vendere le azioni di pertinenza del MEF si andrebbe incontro a un conflitto di interessi, poiché il mandato della società a valorizzare, che richiede tempo, potrebbe essere pretermesso a quello di vendere il più rapidamente possibile le azioni del MEF per ridurre il debito pubblico. Un mega-conglomerato con un patrimonio enorme, pari a due volte e mezzo quello di tutte le banche italiane, con una varietà ed una complessità di interessi assolutamente inedita e con un potere, in senso sostanziale, che nessuna amministrazione pubblica ha mai avuto in Italia susciterebbe appetiti formidabili in partiti politici, rappresentanti delle amministrazioni espropriate e interessi costituiti; difficilmente potrebbe operare senza avere i costanti riflettori dei media sul proprio operato o, peggio, sulle supposte intenzioni ad operare, anche perché il settore immobiliare non ha mai goduto in Italia di una grande considerazione sotto il profilo della trasparenza… Una volta che il controllo fosse passato in mani private, se le quotazioni fossero alte è difficile immaginare che vi siano tentativi di scalata, ma i problemi di governamento non si semplificherebbero di molto; ove i prezzi di borsa fossero bassi, vi sarebbero scalate per ottenere guadagni dall’asset stripping. In questo caso, i profitti andrebbero ai privati, non allo stato che presumibilmente ha venduto a prezzi molto scontati. 42 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Mario Sarcinelli I precedenti nella storia passata • Non sarebbe corretto respingere la soluzione proposta dal prof. Guarino senza investigare se essa ha avuto qualche forma di applicazione nella travagliata storia finanziaria del nostro Paese. Sin dalla nascita il Regno d’Italia ebbe l’assillo di trovare sufficienti risorse per finanziare le esigenze dello stato unitario e delle sue forze armate e cercò di mobilizzare tutte le risorse a disposizione. Nel 1862, il Sella ordinò che la Cassa ecclesiastica, organo dello stato creato nel 1855, passasse tutti i suoi beni al demanio affinché fossero venduti insieme con le altre attività di pertinenza demaniale; per assicurare il pagamento delle pensioni ai religiosi, a favore della Cassa venne iscritta rendita 5% in misura uguale alla rendita assicurata dai beni passati al demanio. Il trasferimento aveva appena avuto inizio che le pressanti esigenze del Tesoro spinsero il Sella ad affidare la liquidazione dei beni demaniali ad una società privata, la Società anonima per la vendita dei beni del Regno d’Italia partecipata dalla Società generale di credito mobiliare italiana, con la prescrizione di seguire, di massima, le procedure previste per le vendite pubbliche. L’appalto venne concesso dal 1865, con obbligo di versare allo stato degli anticipi, di cui 40 milioni già nel 1864 (sintetiche notizie su questo argomento sono in Giannino Parravicini, La politica fiscale e le entrate effettive del Regno d’Italia – 1860-1890, ILTE, Torino 1958). In questo caso, non si trattò di un’operazione volta a ridurre il debito pubblico, che invece aumentò per l’emissione della rendita a favore della Cassa ecclesiastica, ma di fornire mezzi finanziari allo stato attraverso le anticipazioni della società appaltatrice del servizio di vendita. La terza guerra d’indipendenza pose gravi problemi finanziari al neonato Regno d’Italia; sul piano monetario si giunse alla dichiarazione del corso forzoso, su quello fiscale all’emanazione di una legge eversiva che nel 1866 trasferì in proprietà al demanio dello stato i beni di qualsiasi specie appartenenti agli enti ecclesiastici soppressi, contro iscrizione di rendita a favore del fondo per il culto, di nuova istituzione, per il pagamento delle pensioni ai religiosi. L’operazione di conversione della proprietà ecclesiastica non fornì prontamente allo stato i mezzi straordinari di cui era alla ricerca, anzi determinò un immediato aggravio per effetto dell’iniziale accreditamento di titoli del debito pubblico a fronte delle proprietà trasferite. Nella ricerca di meccanismi per accelerare gli introiti attraverso l’alienazione del patrimonio ecclesiastico, un disegno di legge dello Scialoja, che non ebbe seguito, intendeva attribuire ai vescovi l’obbligo di alienazione, da effettuare in un decennio con rate semestrali di 50 milioni, mentre la riscossione e il pagamento venivano assicurati dal conte Langrand-Dumonceau, sia in nome proprio sia per conto della Banca di credito fondiario e industriale di Bruxelles, dietro corresponsione di un’esorbitante provvigione: il 10% dei 600 milioni che lo stato intendeva ricavare! Francesco Ferrara scrisse su La Nuova Antologia che si trattava di “un baratto di parole e carta contro 60 milioni di lire metalliche”. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 43 Mario Sarcinelli Una successiva legge del 1867 dispose la soppressione di ulteriori categorie di enti, la devoluzione al demanio di tutti i loro beni e l’iscrizione a favore del fondo per il culto di rendita 5% per le pensioni ai religiosi degli enti soppressi. Le due leggi del 1866 e del 1867 vennero applicate ad oltre 52.000 enti, compresi quelli conservati e assoggettati alla conversione dei beni immobili. La vendita poteva avvenire solo ai pubblici incanti, per lotti piccoli nella misura del possibile, con pagamento di un decimo del valore di aggiudicazione in contanti e per nove decimi in 18 anni, a rate uguali e con interesse scalare del 6%. Era previsto uno sconto del 7% sui nove decimi se si saldava tutto il prezzo e del 3% se si pagava entro due anni. Per fronteggiare le impellenti necessità dello stato, venne introdotta un’imposta straordinaria del 30% sul patrimonio degli enti che non erano stati soppressi, eccettuati soltanto le confraternite e i benefici parrocchiali, nonché su quello dello stesso fondo per il culto, da assolvere con varie modalità; inoltre, fu autorizzato un prestito per un introito massimo di 400 milioni di lire da redimere con i proventi della vendita dell’asse ecclesiastico. Queste obbligazioni, collocate dal Tesoro sotto la pari a prezzi variabili da 77 a 85, potevano essere utilizzate al valore nominale di 100 per pagare le rate da parte degli acquirenti dei beni ecclesiastici. (Su tutta questa materia sono preziose le notizie e le osservazioni di Giulio Cesare Bertozzi negli Annali di statistica – 1879 del Ministero di agricoltura, industria e commercio). Pur tenendo conto della diversità dei tempi e dello sviluppo delle tecniche finanziarie per la mobilizzazione delle attività reali, da questi precedenti storici si evince che le dismissioni immobiliari furono operazioni necessariamente lente, che i tentativi di accelerazione attraverso l’intermediazione finanziaria o non andarono in porto o si rivelarono più costose, come accadde con l’emissione delle obbligazioni ecclesiastiche, che l’entità degli sconti fu piuttosto modesta, ma non per questo meno criticata per la disparità che creava tra chi aveva disponibilità da investire e chi no (Relazione della Commissione centrale di sindacato sull’amministrazione dell’asse ecclesiastico nel 1878 al Parlamento). Per provvedere alle necessità della pubblica finanza si dovette battere la strada maestra della tassazione e del ricorso al mercato. I tentativi più recenti • L’opportunità di procedere alla valorizzazione/alienazione del patrimonio immobiliare pubblico fu avvertita sin dalla fine degli anni ’80 del ’900. Nel 1991 venne costituita la Immobiliare Italia, società mista con la partecipazione dell’IMI e disciolta dopo alcuni anni per l’impossibilità di raggiungere l’oggetto sociale a causa, pare, dell’opposizione o almeno della non collaborazione della Direzione generale del demanio. Nel 1996 venne annunciata la mobilizzazione del patrimonio reale attraverso un modello di cartolarizzazione basato su fondi immobiliari, ma il 44 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Mario Sarcinelli progetto non decollò. Le prime cartolarizzazione di immobili pubblici si ebbero nel 2001-02; contemporaneamente vi fu la costituzione per legge della società per azioni “Patrimonio dello stato” che si è dedicata alla preparazione del Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche, alla promozione del “Fondo patrimonio uno”, fondo immobiliare ad apporto pubblico, all’assistenza nella preparazione del “Fondo immobili pubblici” e nella cartolarizzazione SCIP 3 di immobili e terreni pubblici, al monitoraggio di SCIP 2, nonché alla vendita all’asta di immobili pubblici. Nel periodo 2001-04 le privatizzazioni immobiliari sono ammontate a € 15,2 miliardi. Nel 2004 è stata completata e inviata al Parlamento una relazione sul Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche con stime per gli anni 2001, 2002 e 2003; è questa un’operazione meritoria, poiché non è possibile gestire la valorizzazione/alienazione del patrimonio pubblico senza conoscere la sua composizione e soprattutto la sua dimensione; ciò non significa che tutti i beni inclusi nell’esercizio fossero da considerare (perché inserire nella stima i ghiacciai che non sono certamente alienabili?) e che il metodo del fair value non lasci perplessi in alcuni casi. Tuttavia, una stima ha sempre margini di opinabilità e di errore ed è comunque preferibile all’assenza di informazioni. L’attivo delle amministrazioni pubbliche nel 2003 a valori di libro ammontava a € 1.246,4 miliardi e a quelli di stima a € 1.771,4; al passivo, i debiti risultavano pari a € 1.381,4 miliardi. Prescindendo da una piccola posta relativa ai fondi per rischi ed oneri futuri (€ 2,8 miliardi), emerge un disavanzo patrimoniale ai valori di libro di € 137,8 miliardi, che diventa un avanzo di € 387,2 miliardi ai valori stimati. Se si considerano le sole amministrazioni centrali, l’attivo stimato è pari a € 977,5 miliardi, che si riduce del 46% a € 448,7 miliardi applicando un indice di alienabilità (pudicamente denominato disposability…). Per ottenere questa stima del patrimonio alienabile di pertinenza delle amministrazioni centrali si sono dovuti includere il 70 per cento degli immobili destinati ad usi governativi e collettivi e il 30% dei beni di valore culturale, bibliotecario ed archivistico… A questo punto, va riconosciuto non solo che le ipotesi avanzate dal prof. Guarino sul valore dei beni mobilizzabili non sono molto lontane dalle stime effettuate da una squadra di tecnici, ma anche che i timori di chi teme un nuovo sacco del patrimonio culturale non sono infondati; di già in America i curatori di importanti musei considerano alcuni “pezzi” come investimenti passibili di realizzazione sul mercato e li vendono attraverso Sotheby’s... Sulla tela di fondo che si è sopra delineata è stato redatto il piano strategico delle privatizzazioni per il 2006-2009. Su un totale di attività per le amministrazioni centrali e per gli enti previdenziali al 2004 di € 1.063,9 miliardi, il piano prevede dismissioni per € 44,5 miliardi, relative ai comparti dei fondi di rotazione per € 5,5 miliardi, delle partecipazioni per € 20 miliardi, delle immobilizzazioni materiali (fabbricati e terreni, infrastrutture e attività atipiche) per € 14 miliardi, dei crediti e di altri averi degli enti previdenziali per € 5 miliardi. Dal piano sono Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 45 Mario Sarcinelli esclusi gli enti locali, anche se essi posseggono un 40% del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, i quali sinora si sono mostrati restii ad alienare i propri beni, anche per l’insufficienza degli incentivi. L’inclusione delle infrastrutture (ad es., quelle portuali) è un chiaro indicatore dell’esaurirsi dello stock di beni facilmente alienabili, come le attività finanziarie e gli immobili residenziali; tuttavia, per procedere su questa strada si richiede non solo un’apposita legislazione, ma anche un’attenta riflessione da parte dei responsabili politici e della società civile sui regimi giuridici che potranno sostituire quello della tradizionale concessione al fine di garantire l’interesse pubblico non solo ad una buona gestione e alla non discriminazione, ma anche all’espansione della capacità e al miglioramento della qualità. È sufficiente ricordare che nell’Ottocento le ferrovie di proprietà pubblica vennero date in concessione per l’esercizio, ma nel 1905 si arrivò alla gestione diretta da parte dello stato… Concludendo, è possibile affermare che anche svendendo il patrimonio pubblico, è difficile giungere ad una drastica e strutturale riduzione del debito pubblico. La tesi che è sufficiente concedere forti sconti per conseguire l’obiettivo omette di considerare che meno si realizza dalla vendita di attività, meno debito si redime, più danno la collettività subisce, più se ne avvantaggia il compratore. Secondo notizie di stampa, l’operazione SCIP 1 ha comportato veri e propri regali, poiché la sottovalutazione del 50 per cento nella cessione delle attività al veicolo speciale per la cartolarizzazione al fine di assicurare al medesimo il massimo rating è stata recuperata solo in parte quando gli immobili sono stati venduti. Perciò, solo la ricostituzione di un sufficiente avanzo primario potrà permettere al rapporto debito/pil di scendere in modo apprezzabile; in attesa che ciò avvenga attraverso una ripresa della crescita economica e un contenimento del tasso di aumento delle spese, le dismissioni patrimoniali andrebbero manovrate in modo da non fare aumentare il rapporto debito/pil rispetto all’anno precedente, evitando così le reprimende di Bruxelles e le minacce di revisione verso il basso del rating da parte delle agenzie. Le dismissioni patrimoniali dovrebbero continuare anche dopo che l’avanzo primario sarà stato riportato ad un livello di sicurezza, dando così un proprio apporto alla riduzione del rapporto debito/pil. Nell’ansia di privatizzare, però, bisogna evitare che l’interesse di breve periodo, come l’incasso di una somma capitale per ridurre marginalmente il debito, comprometta quello di lungo periodo attraverso una deficiente architettura e un’insufficiente regolamentazione dei campi che il settore pubblico trasferisce a quello privato acriticamente fidando nella mano invisibile… 46 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 La libertà economica unica regola del mercato globalizzato Gli studiosi sono concordi. La globalizzazione che pareva obbedire a una legge fisica, si è inceppata. Rallenta l’integrazione mondiale, si accentua la propensione a rapporti e scambi tra aree con una cultura simile. Questo accade perdurando una stagnazione economica che genera sfiducia verso la capacità taumaturgica del mercato. L’Europa si è bloccata, la Germania è in stagnazione e ci avviamo verso la rassegnazione dell’Europa senza Costituzione basata solo sulla moneta. La Banca Centrale Europea amministra la moneta e i tassi con la mentalità di Euroburocrati senza futuro, mentre il dollaro e la FED condizionano il mercato mondiale. GIAMPIERO CANTONI Senatore della Repubblica Università S. Pio V di Roma I tentativi più recenti • Risparmio considerazioni sul fatto che la realtà stia dando ragione alle tesi di Huntington sul mondo ineluttabilmente diviso tra sette civiltà. Credo che questa diminuzione di slancio globale obbligatorio, possa essere positiva. Mi spiego. Il mercato è il regno della libertà individuale governata da alcune (poche) regole. Non è il suo meccanismo a garantire la prosperità. Se così fosse l’uomo sarebbe, come volevano gli stoici, una formichina condannata a subire la necessità. Invece il liberalismo è la scoperta del primato della qualità umana. La legge del mercato non è un Moloc divoratore dei singoli: nel mercato pesa di più l’energia di libertà di chi va al mercato. Dunque sarebbe una contraddizione, una specie di controvalore, se la globalizzazione fosse imposta dalla necessità storica: la libertà economica si esercita nelle condizioni date e il suo sviluppo non è sottomesso a bronzee leggi. Conta la libertà. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 ≈ “… la libertà economica si esercita nelle condizioni date ed il loro sviluppo non è sottomesso a bronzee leggi. conta la libertà” ≈ 47 Giampiero Cantoni Ed allora che si fa? Qui viene la politica. Infatti questo passaggio dalla globalizzazione all’integrazione per “arcipelaghi omogenei” rende quanto mai decisiva la questione della competitività del sistema. La libertà individuale cerca il terreno più consono a sviluppare i propri talenti. Si va dove il lavoro e il capitale possono dare meglio i loro frutti. Ecco: il compito del governo è dissodare il terreno, renderlo idoneo ad una crescita rigogliosa. Senza dogmi (in questo senso Tremonti, con il suo colbertismo, ha capito tutto per primo). Ci vuole l’erpice delle riforme. Il ruolo fondamentale della competitività • La competitività deve diventare un punto fondamentale per il rilancio non solo delle economie, ma per un processo di modernizzazione necessaria per uscire dalle ingessature di un Paese con un’architettura burocratica troppo farraginosa e complessa e un capitalismo eccessivamente concentrato e protetto. Certo, sulla strada della modernizzazione del Paese, non è derogabile il metter mano alla previdenza. Senza rivedere le pensioni siamo condannati, stante l’alto tasso di invecchiamento. Non è questione di tagli, ma di nuovo disegno del Welfare. Oggi lo stato sociale non obbedisce al suo scopo: finisce per gravare sulle fasce deboli e sugli esclusi dal lavoro. Bisogna ripartire dalla valorizzazione della società, spostare l’asse dal Welfare State alla Welfare Society, dove si dia più peso alle libere aggregazioni. Il Paese invece perde tempo. Si dissangua in dibattiti e litigi che ignorano questo stato congiunturale del mondo. Invece occorre fare le riforme in grande. L’assestamento dei rapporti tra i partner suppone che Francia e Germania la smettano di pretendere il dominio. Non possiamo permetterci né a livello italiano né a livello continentale di avere una democrazia bloccata dai contrasti tra istituzioni. Se vogliamo sopravvivere, il buon senso impone: riformare e investire di più per aumentare la competitività e la produzione. Difendere la nostra civiltà è buona cosa per tutte le civiltà, nel rispetto delle differenze. Qui vorrei sottolineare un punto, che io ritengo niente affatto “solo” occidentale, una specie di optional: la democrazia economica. Anch’essa va non dico esportata (non è una merce), ma aiutata a fiorire nei paesi a democrazia limitata. Il mercato strumento di pace • Altro importante elemento è il mercato quale strumento essenziale di costruzione di una pace duratura. Creare legami economici solidi e stabili rende le ostilità più costose per le rispettive popolazioni. Fare scattare la leva dello sviluppo economico è essenziale per pacificare territori ancora in balia di una violenza folle e sca- 48 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giampiero Cantoni tenata. Perché, secondo voi, un adolescente palestinese ha più probabilità di diventare un terrorista di quante ne abbia un ragazzino della Milano bene? Semplicemente, perché le opzioni a sua disposizione sono infinitamente inferiori. Nella miseria, esplodono tutti i nostri istinti aggressivi, che il capitalismo in qualche modo attutisce. L’intuizione è antica, e risale almeno a Schumpeter: per cui l’imperialismo militarista era un “atavismo”, un ritorno a un precedente stadio di civilizzazione, e nemico giurato del capitalismo autentico. Il libero mercato crea legami di solidarietà ed amicizia. Funziona come veicolo della comprensione. Costringe a cooperare anche individui riottosi e mal disposti. “Non dalla benevolenza del macellaio”, insegna Adam Smith, ci aspettiamo che la carne ci venga servita in tavola: ma anzi dalla sua avidità, della sua egoistica propensione al guadagno. È così che il mercato spezza il male terribile dell’egoismo, che degenererebbe altrimenti in ingordigia predatoria e nella tentazione, sempre fortissima, del furto. Il mercato è quel sistema nel quale gli individui depongono la spada, si stringono le mani, e vivono di scambio, non di violenza. Per questo, esportare un sistema di autentico libero mercato è essenziale, soprattutto per spezzare la spirale dello “scontro tra civiltà”, che poi è solo un sinonimo elaborato e pomposo per l’atavica incomprensione tra i popoli, il naturale desiderio di non parlarsi se non ad armi spianate. Il mercato ha tenuto unito l’Occidente, anche in anni di differenze buie e profonde. I popoli in guerra erano nemici, nel ’39-’45. Eppure, deposte le armi, sono stati riuniti in fratellanza dall’amicizia cementata dal libero commercio. Si sono messi gli uni a disposizione degli altri: gli americani hanno comprato automobili tedesche, i tedeschi hanno mangiato panini americani, gli italiani hanno esportato il loro genio, la moda e la loro cultura, e hanno imparato a fare i conti con le abitudini e le attitudini degli amici ritrovati. Le istituzioni fondamentali della democrazia economica – il rispetto dei diritti di proprietà e la libertà di entrata nei mercati – vanno esportate nei paesi islamici con convinzione pari a quella con cui stiamo esportando il diritto di voto. Sono realtà complementari, e vanno tenute insieme per costruire relazioni pacifiche con quei Paesi e dentro quei territori. Globalizzazione e governabilità • E infine la globalizzazione – fenomeno dominante è ancora più incalzante nel terzo millennio. La globalizzazione deve però essere compatibile con i processi di crescita e progresso democratico, anche perché un fenomeno fuori controllo significa correre grandissimi rischi, insiti e conseguenti nelle grandi rivoluzioni epocali. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 49 Giampiero Cantoni È vero anche che la globalizzazione è un processo di cambiamento epocale che deve essere sviluppato nella governabilità tenendo conto anche della fragilità degli attuali equilibri. Globalizzare significa anche grandi eventi quali gli enormi spostamenti di masse di uomini che arrancano ormai quotidianamente verso i Paesi più ricchi o ritenuti tali. È vero anche, che la globalizzazione deve essere accompagnata da un processo evolutivo e democratico della politica, migliorando la trasparenza dei sistemi economici, con la finalità di modernizzare le regole pluralistiche di mercato e la conseguente armonizzazione di tutti i paesi verso i principi dello sviluppo, della flessibilità e nell’efficienza dei meccanismi di crescita, per conseguire un risultato che incide nella creazione di nuova occupazione, soprattutto ai giovani che entrano per la prima volta nel circuito produttivo. L’Europa deve aprirsi, togliere l’ingessatura dei protezionismi indotti e spingere i governi verso le riforme strutturali permanenti istituzionali e del Welfare State. Creare nuovi “Fondi Pensione Europei” per omogeneizzare questo fondamentale diritto per la dignitosa futura sicurezza. Il fenomeno della globalizzazione rende opportuno e urgente definire il coordinamento e la responsabilità sovranazionale per il governo della globalizzazione. La classe politica europea e tutti coloro che hanno le leve del potere per lo sviluppo della globalizzazione e la sua governabilità hanno però grandi responsabilità politiche, sociali e morali verso la collettività. Il processo di evoluzione mondiale non è però in contraddizione con il Welfare State, ma è in netta opposizione allo stato sociale che spreca risorse, capitali improduttivi e spese assistenziali. Le basi di una nuova etica sociale • Gli effetti positivi della globalizzazione porranno la base per una nuova etica sociale verso la trasparenza delle decisioni politiche che influenzano le scelte a carico della collettività. Un elemento essenziale sarà la scuola e la formazione perché nelle società più avanzate l’innovazione tecnologica sarà un fattore di confronto, dove si determineranno ancora di più che in passato le disuguaglianze tra individui e nazioni. Gli aspetti immateriali della conoscenza e dell’istruzione hanno ormai preso il sopravvento rispetto alle ricchezze materiali. Infatti la conoscenza e la capacità di innovazione tecnologica, saranno l’asse portante delle società più evolute e concorrenziali. Solo un esempio: l’Unione Europea possiede un numero di personal computer inferiore ai paesi emergenti. 50 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giampiero Cantoni Per il nostro Paese la globalizzazione deve essere vista come una leva per scardinare l’ingessatura di regole arcaiche, per accelerare la modernizzazione e la ristrutturazione di un sistema burocratico e imprenditoriale sempre più concorrenziale e adatto allo sviluppo della competizione internazionale. Con la globalizzazione le prerogative degli Stati nazionali e degli apparati politici e istituzionali vengono indeboliti, mentre si rinforzano le istituzioni sovranazionali. Diventano irreversibili i processi di destatalizzazione. Le privatizzazioni dovranno essere accelerate con coraggio per un sistema produttivo dove l’imperativo sarà: “meno stato più mercato”. Inoltre, si affacceranno nuovi problemi che investono direttamente il rapporto tra politica e economia facendo emergere le differenze fra le diverse velocità di sviluppo che inevitabilmente si delineeranno nell’integrazione dei vari mercati, dove però il sistema politico lento e farraginoso non riuscirà a tenere il passo nell’evoluzione dei processi di mondializzazione. La globalizzazione però farà crescere le disuguaglianze sociali, i risentimenti e le chiusure localistiche e corporative. Questi fattori indeboliranno l’Europa dal punto di vista economico e sociale. Infine governare la globalizzazione significa anche governare i mercati e le politiche di protezione ambientale. Economia ed ecologia diventeranno derivati di comune interesse sociale. E infine la globalizzazione in Europa non deve chiudersi in difesa, ma gestire nuove opportunità in aiuto ai più deboli, quasi che “la globalizzazione «dal volto umano» significa rendere più compatibili su scala globale l’impatto sulle persone, ambiente, salute e la pace.” Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 51 Parametri di Maastricht e debito pubblico: il caso italiano In tutti i paesi europei e, in particolare, in Italia, la difficile congiuntura economica ha indotto, recentemente, ad avviare un intenso dibattito circa l’opportunità di ammodernare i criteri di base che presiedono il coordinamento delle politiche economiche dei paesi dell’Unione, ovvero i c.d. parametri di Maastricht e il successivo Patto di stabilità e di crescita. Sul punto è opportuno, in via preliminare, fare alcune precisazioni. Anzitutto, va ricordato, sul piano “storico”, che i criteri del Trattato di Maastricht – 3% del PIL per il deficit, 60% per il debito – furono previsti per l’ingresso nell’Unione Economica e Monetaria: il parametro del 60% era non solo vicino al dato medio per i paesi europei all’epoca del Trattato, ma era – ed è – anche il valore che stabilizza tale rapporto per un Pil nominale che cresce al 5% in presenza di un deficit pubblico (indebitamento netto della P.A.) pari al 3% del Pil. A sua volta, il limite del 3% posto al rapporto deficit/pil era di fatto simile alla quota destinata in molti paesi alle spese in conto capitale, che oltre agli investimenti fissi includono anche i trasferimenti in conto capitale della P.A. La proposta di un Patto di stabilità per l’Europa fu invece avanzata successivamente e, segnatamente, nel novembre del 1995 dall’allora Ministro delle finanze tedesco Theo Waigel. L’intento da questi perseguito era evidente: il governo tedesco dell’epoca temeva che una volta entrati nell’euro, i paesi tradizionalmente indisciplinati sul fronte della finanza pubblica – e in primis l’Italia – tornassero alle vecchie pratiche, con le invitabili conseguenze per la stabilità dell’UEM e le altrettanto invitabili ripercussioni sul tasso di cambio della nuova moneta. BRUNO TABACCI Deputato, Presidente della X Commissione Attività produttive, commercio e turismo Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 ≈ “… senza uno sforzo corale per abbattere sensibilmente il fardello del nostro debito qualsiasi tentativo di rilancio dell’economia… non potrà che essere velleitario e, in quanto tale, persino controproducente” ≈ 53 Bruno Tabacci L’idea del Patto era dunque quella di trasformare i criteri di ingresso nella UE in regole che garantissero definitivamente la disciplina di bilancio nell’area dell’euro. Dopo un periodo di defatiganti trattative, il Patto di stabilità e crescita nacque nel giugno del 1997 al Consiglio Europeo di Amsterdam. Il Patto fu adottato, in vista della terza fase dell’Unione economica e monetaria, in conseguenza della valutazione politica, da parte di alcuni Stati membri (in particolare la Germania), circa l’insufficienza della procedura sui disavanzi eccessivi prevista dal Trattato istitutivo della Comunità europea e dal relativo Protocollo allegato al Trattato. In particolare, era stata evidenziata da parte di alcuni Paesi la necessità, da un lato, di assicurare che il valore di riferimento del 3% del rapporto disavanzo/PIL costituisse effettivamente un tetto massimo, non valicabile se non in circostanze eccezionali, e, dall’altro, di introdurre in caso di disavanzi eccessivi un meccanismo sanzionatorio semi-automatico che evitasse di demandare la decisione di comminare eventuali sanzioni integralmente alla discrezionalità del Consiglio dell’Unione Europea. Sono state così introdotte disposizioni intese a meglio precisare sia i parametri e i criteri per l’applicazione dei valori di riferimento indicati nel Trattato CE e nel Protocollo, sia le procedure e gli strumenti per constatare l’esistenza di un disavanzo eccessivo, prevenirne il verificarsi e raccomandarne la riduzione al di sotto dei medesimi valori. In base al Patto i membri dell’UEM si sono impegnati a presentare dei programmi pluriennali di stabilità, funzionali al mantenimento di un saldo di bilancio a medio termine prossimo all’equilibrio ovvero in surplus. Tale ultima condizione era diretta a consentire di affrontare i periodi di recessione con un margine di manovra sufficiente per lasciar agire pienamente i cosiddetti stabilizzatori automatici, senza eccedere il tetto del 3% del PIL per il deficit. Il superamento, anche limitato, del tetto massimo del 3%, veniva consentito, senza incorrere in sanzioni, solo “circostanze eccezionali e temporanee”, cioè connesse ad eventi che non sono soggetti al controllo dello Stato interessato o che sono determinate da una grave recessione economica (diminuzione del PIL, in termini reali, pari almeno al 2%); peraltro, se il rapporto deficit/PIL avesse superato il 3% in presenza di una diminuzione del PIL inferiore al 2%, lo Stato interessato poteva comunque cercare di dimostrare che il disavanzo era connesso a circostanze eccezionali e il Consiglio, valutate tali osservazioni, avrebbe potuto derogare alla dichiarazione di disavanzo eccessivo. Va inoltre ricordato, come i vincoli del Patto di stabilità e crescita si riferiscano al complesso di tutte le amministrazioni pubbliche, dal momento che le grandezze su cui valutare il disavanzo e il debito sono state individuate rispettivamente nell’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche e nel debito pubblico. Gli Stati membri risultano pertanto responsabili degli andamenti del complesso della finanza pubblica, che solo per una parte è gestita attraverso il bilancio statale. 54 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Bruno Tabacci Nel caso dell’Italia, in considerazione delle notevoli dimensioni del disavanzo e del debito, ne è derivata l’esigenza di introdurre procedure volte a monitorare e contenere gli andamenti finanziari di enti, quali in primo luogo quelli territoriali, che godono di una ampia autonomia finanziaria. In risposta a questa esigenza si è provveduto a definire il cosiddetto Patto di stabilità interno, con il quale regioni ed enti locali sono investiti della responsabilità di concorrere al rispetto degli obiettivi e dei vincoli finanziari assunti dallo Stato in sede comunitaria. Vincoli di bilancio e rilancio della crescita: il bivio della politica economica • Date queste premesse, utili al corretto inquadramento della questione, prima di addentrarsi nello spinoso tema di come i vincoli europei e, in particolare, quello inerente il rapporto debito/Pil, incida sulla politica economica nazionale, è opportuno svolgere alcune riflessioni di carattere generale in ordine alla permanenza della validità degli attuali vincoli di bilancio comunitari, ciò al fine di rispondere ad una domanda cruciale: le regole europee sono troppo rigide e tali da ingessare in modo esiziale le politiche di bilancio nazionali soprattutto nelle fasi di ciclo negativo, oppure è vero il contrario, ossia che è proprio mantenendo una situazione di bilancio equilibrata in tempi di vacche grasse che si può utilizzare poi la politica fiscale a fini espansivi in periodi di recessione? Dalla riposta a tale quesito, dipende la risposta che vogliamo dare sul piano delle politiche economiche nazionali per il rilancio della crescita e dello sviluppo. In altre parole, se si opta per una risposta affermativa alla prima domanda, ne discende che in periodi di difficile congiuntura è meglio allentare le regole e magari fare un po’ di deficit spending ovvero ridurre le imposte anche a scapito del disavanzo per la rilanciare domanda e investimenti. Viceversa, in una visione più ortodossa, anche in periodo di vacche magre è preferibile puntare comunque sulla riduzione del debito, al fine semmai di destinare a politiche espansive o a più costose riforme strutturali i risparmi di spesa derivanti dai minori interessi da pagare per il servizio del debito. È questo lo snodo centrale della questione che abbiamo dinanzi. E sul punto non esito ad affermare che per un paese come l’Italia, con un debito pubblico che nel 2005, dopo anni di ininterrotta discesa, ha ricominciato a crescere, attestandosi al 108,2% del Pil, la vera priorità è e rimane la riduzione dello stock di debito. Senza questa riduzione non c’è futuro e non c’è libertà. E senza libertà non c’è sviluppo. E la libertà, oggi, nella nuova dimensione internazionale dei mercati finanziari, si conquista con il rigore finanziario, senza il quale siamo destinati ad essere Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 55 Bruno Tabacci trascinati nella spirale senza ritorno del rialzo dei tassi di interesse sul nostro debito. Un rialzo che dipende dalle valutazioni del mercato, delle operatori e delle agenzie di rating, che guardano l’Italia come un osservato speciale. Nonostante l’ossessiva attenzione dei media sullo scostamento del nostro disavanzo dal rapporto magico del 3% per cento del Pil, la vera questione della nostra finanza pubblica risiede nella dinamica del rapporto debito/prodotto; se il livello di tale rapporto resta elevato, i tassi d’interesse sono più alti e i conti pubblici sono più esposti al rischio di una loro variazione, senza peraltro considerare che una rilevante parte delle entrate deve essere destinata al pagamento di interessi ai possessori di titoli anziché alla provvista di beni e servizi. Assicurare una continua, anche se graduale, diminuzione del rapporto fra debito e prodotto è dunque l’obiettivo più importante che dovrebbe prefiggersi qualsiasi governo, di qualunque colore esso sia, fermo restando, ovviamente, che la riduzione del deficit è a sua volta funzionale a tale diminuzione. Non si può fingere di ignorare questa realtà. Ciò non vuol dire, tuttavia, che i vincoli comunitari non siano perfettibili e che il Patto di stabilità non possa essere reso più “intelligente”. Bene ha fatto, pertanto, il Governo italiano a spingere in questa. La riforma del Patto di stabilità: quando la flessibilità non sacrifica il rigore • La riforma, approvata il 27 giugno scorso, dal Consiglio UE, del Patto di stabilità è assolutamente condivisibile e rappresenta una feconda evoluzione della governance economica europea, posto che è riuscita nell’intento di lasciare maggiore margine ai governi europei per le loro politiche economiche, senza tuttavia modificare i presidi del 3% per cento per il deficit e del 60% per il debito. Sul punto, ricordo che le principali modifiche relative al rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio e al coordinamento delle politiche economiche, hanno riguardato anzitutto l’obiettivo a medio termine di bilancio: quest’ultimo, correttamente, può ora essere differenziato per ciascuno Stato membro e può divergere dal requisito di un saldo prossimo al pareggio o in attivo. Tale obiettivo specifico, riveduto in caso di importanti riforme strutturali e – in ogni caso – ogni quattro anni, deve offrire un margine di sicurezza rispetto al rapporto tra disavanzo pubblico e PIL del 3% ed assicurare rapidi progressi verso la sostenibilità, consentendo, di conseguenza, rilevanti margini di manovra nel bilancio, segnatamente per gli investimenti pubblici. Di particolare rilievo è, inoltre, la peculiare considerazione attribuita alle riforme strutturali che abbiano un impatto sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche nell’ambito dell’esame dei programmi di stabilità degli Stati membri. 56 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Bruno Tabacci A tale riguardo, nel valutare la situazione di uno Stato membro, il Consiglio dovrà tener conto delle eventuali riforme delle pensioni che introducono un sistema multipilastro, comprendente un pilastro obbligatorio, finanziato a capitalizzazione. Agli Stati membri che attuano simili riforme viene dunque consentito di deviare dal percorso di aggiustamento verso il loro obiettivo di bilancio a medio termine o dall’obiettivo stesso, con una deviazione che rispecchi il costo netto della riforma del pilastro a gestione pubblica ( a condizione che tale deviazione resti temporanea e che sia mantenuto un opportuno margine di sicurezza rispetto al valore di riferimento del disavanzo). Tali regole non potranno che incentivare quelle riforme strutturali dalle quali dipende la solidità della finanza pubblica. Ancor più rilevanti , soprattutto per l’Italia, sono inoltre le modifiche alle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi. Sono stato infatti ampliati i casi in cui il superamento del valore del 3% può essere considerato eccezionale e temporaneo e può quindi (se resta vicino a detto valore) essere giustificato: si è stabilito, infatti, che può essere considerato eccezionale un superamento del valore di riferimento risultante da un tasso di crescita negativo o dalla diminuzione cumulata della produzione durante un periodo prolungato di crescita molto bassa in relazione alla crescita potenziale; in secondo luogo, si è disposto che la Commissione, nel preparare la relazione sulla situazione di disavanzo eccessivo, tenga presenti tutti gli altri fattori rilevanti; la relazione deve in particolare riflettere in maniera appropriata gli sviluppi relativi alla posizione economica a medio termine (in particolare la crescita potenziale, le condizioni congiunturali prevalenti, l’attuazione delle politiche nel contesto dell’agenda di Lisbona e delle politiche intese a promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione) e l’evoluzione della posizione di bilancio di medio termine (in particolare l’impegno per il risanamento del bilancio nei periodi di congiuntura favorevole, la sostenibilità del debito, gli investimenti pubblici e la qualità complessiva delle finanze pubbliche). Inoltre, la Commissione deve tenere nella debita considerazione tutti gli altri fattori significativi, con particolare attenzione agli sforzi di bilancio intesi ad aumentare o a mantenere a un livello elevato i contributi finanziari a sostegno della solidarietà internazionale e della realizzazione degli obiettivi delle politiche europee, segnatamente l’unificazione dell’Europa. Infine, anche in tal caso, in tutte le valutazioni finanziarie nel quadro della procedura medesima, la Commissione e il Consiglio devono tenere nella debita considerazione l’attuazione di riforme delle pensioni che introducono un sistema multipilastro comprendente un pilastro obbligatorio, finanziato a capitalizzazione. A tal fine, nel caso di Stati membri il cui disavanzo superi il valore di riferimento, pur rimanendo prossimo ad esso, e qualora tale superamento rispecchi l’attuazione di riforme delle pensioni, si tiene conto del costo netto della riforma in maniera linearmente decrescente per un periodo transitorio di cinque anni. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 57 Bruno Tabacci Da ultimo, ma non certo per importanza, vanno ricordate le nuove norme relative al termine per la correzione del disavanzo eccessivo, pari di norma ad un anno dalla sua constatazione, ma che in caso di circostanze particolari può essere aumentato di 1 anno (2 anni dopo la sua constatazione, come previsto dalla raccomandazione adottata il 12 luglio nei confronti dell’Italia). I termini fissati per la correzione possono dunque essere riveduti e prorogati qualora durante una procedura per i disavanzi eccessivi si verifichino eventi economici sfavorevoli imprevisti con importanti conseguenze negative sul bilancio, mentre il termine entro il quale il Consiglio può decidere di irrogare sanzioni per inadempimento delle proprie raccomandazioni viene esteso da 10 a 16 mesi. Il combinato disposto delle suddette modifiche ai vincoli di bilancio comunitari, che assegna un ruolo specifico alla congiuntura economica, non può che essere visto con favore da un Paese come l’Italia che è invischiato ormai da alcuni anni, com’è noto, in una trappola di bassa crescita, che a sua volta aggrava una situazione atavica di difficoltà sul versante dei conti pubblici. La maggiore attenzione alle condizioni cicliche anche nella procedura di deficit eccessivo consente dunque di conservare quel rigore indispensabile in una economia di mercato, garantito dalle norme del Trattato che rimangono pienamente valide, assicurando nel contempo una maggiore razionalità economica dello stesso Patto di stabilità e creando degli incentivi per politiche fiscali sane in periodi di alta crescita. I nuovi impegni assunti dall’Italia in sede UE • Se la revisione del Patto di stabilità ha evitato all’Italia l’irrogazione di pesanti sanzioni pecuniarie per disavanzi eccessivi, rimane intatto il problema del risanamento strutturale dei nostri conti pubblici, comunque impostoci dall’Unione europea. Al riguardo, occorre ricordare che l’Italia, anche a seguito delle riclassificazioni contabili operate da Eurostat, ha fatto registrare un disavanzo pari al 3,2% del PIL nel 2003 e nel 2004 e destinato a mantenersi, nell’ipotesi di politiche invariate, nettamente al di sopra del 3% nel 2005 e nel 2006. Quanto al debito, il rapporto debito/PIL, pari al 106-107% nel 2003 e nel 2004, è tornato nuovamente a crescere nel 2005, risultando nettamente superiore al valore di riferimento (del 60%). Il debito, inoltre, non sembra destinato a scendere significativamente nel prossimo futuro, posto che il livello dell’avanzo primario, inferiore al 2% nel 2004, risulta pressoché nullo nei prossimi anni. Rispetto al decennio scorso, in cui il rapporto debito/PIL si è progressivamente ridotto dal 124,3% del 1995 al 106,6% nel 2004, l’ultimo DPEF prospetta nel 58 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Bruno Tabacci 2005 una inversione di tendenza, con una crescita del debito rispetto al PIL di 1,6 punti percentuali, passando dal 106,6% al 108,2%. Sulla base di tale scenario, il 12 luglio scorso, il Consiglio ECOFIN, nell’ambito della procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia, ha adottato una serie di raccomandazioni, dirette ad impegnare il nostro Paese a: a) attuare con rigore il bilancio 2005, in particolare mediante la riduzione delle misure una tantum dall’1,4% allo 0,4% del PIL; b) prendere le misure necessarie per riportare il deficit al di sotto del 3%, in modo durevole, entro il 2007. Ipotizzando una crescita del PIL dell’1,5% nel 2006 e nel 2007, il Consiglio ha raccomandato una riduzione cumulativa del disavanzo strutturale di almeno l’1,6% del PIL nel periodo 20062007, di cui la metà (0,8%) da conseguire nel 2006; c) assicurare che il rapporto debito/PIL si riduca ad un ritmo soddisfacente, conseguendo un avanzo primario di livello adeguato e prestando particolare attenzione anche ai fattori diversi dal disavanzo netto, come le operazioni registrate “sotto la linea” (vale a dire operazioni che non incidono sull’indebitamento netto ma soltanto sul debito); d) proseguire il risanamento delle finanze pubbliche negli anni successivi al 2007 per poter raggiungere una posizione di bilancio prossima al pareggio o positiva. In particolare, in linea con la nuova disciplina del Patto di stabilità e crescita, il Consiglio ha raccomandato alle autorità italiane una riduzione del deficit, in termini corretti per il ciclo, al netto delle misure temporanee e una tantum, pari allo 0,5% del PIL. A seguito dell’attivazione da parte della UE della procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia, che ha richiesto l’attuazione di “misure di aggiustamento permanenti al netto delle una tantum che assicurino un aggiustamento cumulato pari all’1,6% nel biennio 2006-2007, rispetto al 2005”, l’aggiustamento strutturale cumulato indicato dal DPEF 2006-2009 risulta pari allo 0,8% del PIL nel 2006, dell’1,8% nel 2007, al 2,4% nel 2008 e al 2,9% nel 2009. Rispetto all’andamento tendenziale, che prospetterebbe per il 2006 e per il triennio successivo un indebitamento netto pari al 4,7% del PIL, il DPEF 20062009 ha fissato per il 2006 un obiettivo programmatico di indebitamento netto pari al 3,8% del PIL, con un recupero dell’ordine dello 0,9% del PIL rispetto al valore tendenziale. L’indebitamento netto programmatico risulta da un avanzo primario dello 0,9% (+0,8 punti di PIL rispetto al valore tendenziale) e da una spesa per interessi del 4,7% (-0,2 punti di PIL rispetto al tendenziale). Per il 2007, l’obiettivo di indebitamento netto è stato fissato dal DPEF del luglio scorso al 2,8% del PIL, in modo da scendere al di sotto della soglia del 3%, come concordato in sede europea. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 59 Bruno Tabacci Nel biennio successivo la riduzione dell’indebitamento netto proseguirà fino a raggiungere l’1,5% del PIL nel 2009. In corrispondenza con la riduzione dell’indebitamento netto, dovrebbe registrarsi, a livello programmatico, un avanzo primario dell’1,8% nel 2007, del 2,5% nel 2008 e del 3% del 2009. Per quanto concerne il rapporto debito pubblico/PIL, il quadro programmatico presentato dal Governo prevede che nel 2006 il rapporto torni a scendere, rispetto al valore raggiunto nel 2005 (108,2%), al 107,4%; per quanto concerne gli anni successivi, il rapporto debito/PIL dovrebbe ridursi al 105,2% nel 2007, al 103,6% nel 2008 e al 100,9% nel 2009. Gli obiettivi fissati dal DPEF del luglio scorso sono stati confermati dalla Relazione revisionale e programmatica presentata il 30 settembre scorso. Quali politiche per la riduzione del debito ? • La matematica elementare del debito ci dice che la sua dinamica rispetto al prodotto dipende da tre variabili: costo medio del debito, tasso di crescita nominale dell’economia, saldo primario fra entrate e spese al netto degli interessi: una differenza positiva fra costo del debito e tasso di crescita fa aumentare il rapporto fra debito e prodotto nazionale; un avanzo primario lo fa diminuire. Da tali semplici considerazioni si evince che, tra i diversi fattori in gioco, per ottenere una riduzione significativa del rapporto debito/Pil occorre, in primo luogo, un avanzo primario stabile, ove stabile significa di natura strutturale, ossia in primo luogo depurato da eventuali misure una tantum e da effetti ciclici. Per raggiungere un tale obiettivo, funzionale al rispetto degli impegni stipulati in sede Ue, va chiarito subito che, data la congiuntura attuale, la via dell’aumento della pressione fiscale non è assolutamente percorribile, posto che così facendo si deprimerebbero ancor di più la propensione al consumo e gli investimenti, ossia gli stessi presupposti alla base di un possibile rilancio dell’economia. L’eccesso della spesa corrente • È evidente pertanto che il risanamento dei conti pubblici dovrà essere strutturale sul versante della spesa – che, nonostante decreti taglia spese e golden rule, è cresciuta sensibilmente negli ultimi anni – ma non dovrà incidere né sulle tasche dei cittadini e sulla qualità dei servizi loro offerti, né sui bilanci delle imprese che vogliono crescere, rischiare e internazionalizzarsi. Alla radice dei problemi di finanza pubblica in Europa e in Italia vi è, infatti, un eccesso della spesa corrente. 60 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Bruno Tabacci In troppi settori e in troppi ambiti, sussistono privilegi troppo ampi e generosi in confronto alla capacità delle nostre economie di produrre gettito fiscale senza imporre aliquote che disincentivino l’offerta di lavoro e gli investimenti. Per ricondurre davvero la finanza pubblica in equilibrio è dunque indispensabile controllare la spesa corrente, eliminando inutili sprechi e ingiustificati privilegi, razionalizzando le spese dello Stato centrale e degli enti decentrati, secondo una logica aderente al principio di sussidiarietà. Considerati i vincoli di bilancio e la difficile comprimibilità della spesa corrente nel breve periodo, deve essere tuttavia altresì chiaro che, nel breve periodo, se non si intende lasciare dov’è (108,2%) il rapporto debito/Pil, non sono nemmeno immaginabili ulteriori tagli della pressione fiscale, benché posti in essere ai fini del rilancio della domanda interna. Obiettivi indifferibili del prossimo governo • Il primo e indifferibile obiettivo di politica economica di qualunque Governo si insedierà nella prossima legislatura dovrà essere pertanto l’abbattimento dello stock di debito e della relativa spesa per interessi. Ma come? Principalmente attraverso due linee direttrici. La prima è quella della dismissione degli ancora cospicui assets pubblici di beni e valori mobiliari e immobiliari e, soprattutto, della loro “valorizzazione”. Quest’ultima è una parola spesso abusata e che va riempita di significanti concreti, tra i quali ritengo debba esservi in primis il maggiore coinvolgimento dei privati nella gestione di quell’immenso patrimonio pubblico di beni paesaggistici, storici, artistici e culturali di cui l’Italia dispone. L’affidamento ai privati di tale patrimonio, anche mediante un maggiore utilizzo dello strumento concessorio, oltre ad assicurare cumulativamente risparmi di spesa e maggiori e significativi introiti alle casse erariali, garantisce, in definitiva, una migliore e più efficiente salvaguardia dei beni pubblici, ne estende in modo virtuoso la fruibilità collettiva e contribuisce nel contempo ad implementare quell’offerta turistica tanto importante ai fini del rilancio della crescita dell’economia. Peraltro nei giorni scorsi l’ex ministro dell’Industria Giuseppe Guarino ha rilanciato una proposta di drastica aggressione del debito pubblico che merita quantomeno di essere vagliata con la massima attenzione prima di essere eventualmente respinta: attraverso la costituzione di una nuova società per azioni in cui andrebbe a confluire una fetta rilevantissima del patrimonio dello Stato (partecipazioni nelle società quotate come Eni, Enel e Finmeccanica, e nelle società non quotate, immobili anche di valore storico, crediti, beni non utilizzati a fini pubblici ed altro) stimabile in 430 miliardi di euro circa. La collocazione sul mercato di tale holding, attraverso la quotazione in Borsa, secondo la proposta di Guarino, consentirebbe di abbattere in un solo colpo il debito pubblico al 70% del Pil. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 61 Bruno Tabacci La seconda linea direttrice è rinvenibile nella lotta all’evasione e all’elusione fiscale e a quel 16,5% di Pil di economia sommersa – un dato che per molti analisti e osservatori è sottostimato e che in realtà si attesterebbe tra il 25 ed il 30%, il doppio dunque della media dei paesi Ocse – che costituisce il vero ostacolo alla realizzazione di una equa ed efficiente politica fiscale. Le dimensioni del sommerso sono tali da inquinare e condizionare negativamente qualunque intervento di politica economica e, a mio avviso, il contrasto di questa propensione all’evasione che riguarda da vicino quasi tutte le fasce sociali, non può non costituire la priorità assoluta di qualunque governo. A tal fine, andrà ulteriormente migliorata la disciplina vigente sull’immigrazione, soprattutto al fine di combattere l’evasione contributiva ; andranno introdotti nuovi incentivi per l’emersione del lavoro irregolare; sul piano tributario, oltre al rafforzamento organizzativo dell’Amministrazione finanziaria e al coinvolgimento dei comuni nelle attività di accertamento (come peraltro previsto dalla manovra finanziaria per il 2006) andranno introdotti – parallelamente alla ulteriore estensione degli studi di settore – nuovi meccanismi fondati sul c.d. “contrasto fiscale d’interessi” (in base al quale la lotta all’evasione si realizza anche con l’ampliamento del novero dei beni e soprattutto dei servizi deducibili dal reddito imponibile). In questa direzione, testè molto sinteticamente tracciata, le risorse che via via si libereranno dalla graduale riduzione della spesa per interessi potranno, in prospettiva, anche essere destinate ad una ulteriore riduzione della pressione fiscale e, in tale ambito, ad una riduzione del cuneo d’imposta sul lavoro che, com’è noto, è tra i più alti dei paesi avanzati. Indispensabile uno sforzo corale • Ma senza un sforzo corale per abbattere sensibilmente il fardello del nostro debito qualsiasi tentativo di rilancio dell’economia condotto con una deviazione, benché temporanea, dall’equilibrio strutturale dei conti pubblici, non potrà che essere velleitario e, in quanto tale, persino controproducente. E aggiungo, da ultimo, che anche nell’ipotesi, verosimile, di una imminente sostanziale ripresa dell’economia reale, quale che sia il Governo futuro, non dovrà cedere alla tentazione, come invece ha fatto il centrosinistra nella scorsa legislatura, di adottare politiche fiscali espansive pro cicliche; queste ultime, in periodi di crescita sostenuta, dovrebbero infatti essere generalmente evitate, proprio al fine di consentirne il ricorso in periodo di bassa crescita. Tra le ragioni delle attuali difficoltà di bilancio, anche in altri paesi Europei, vi è infatti l’allentamento del processo di consolidamento fiscale negli ultimi anni del secolo scorso (1999-2000), quando la crescita economica è stata relativamente so- 62 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Bruno Tabacci stenuta e proprio per questo lo sforzo per il risanamento avrebbe potuto e dovuto essere più consistente. Così come, in questa Legislatura, sarebbe stato forse meglio non “impiccarsi” all’iniziale programma elettorale, prendendo invece atto, con realismo ed onestà intellettuale, di come le condizioni oggettive dell’economia avrebbero dovuto esigere maggiore rigore nelle previsioni di bilancio e maggiore lungimiranza e selettività nelle politiche di sostegno, troppo sbilanciate sulla domanda e sui consumi privati, a discapito dell’esigenza di sostenere l’offerta – e dunque l’innovazione, la ricerca e la qualità – delle nostre imprese nel nuovo scenario ipercompetitivo dell’economia globalizzata. L’auspicio è che dunque non si ripetano, nel futuro, i medesimi errori, e che chiunque assuma la responsabilità del Governo la eserciti con prudenza e senso dello Stato, ma anche con il coraggio dell’impopolarità ed il senso della concretezza, per il bene del Paese e, soprattutto, delle giovani generazioni, sulle quali troppo spesso ricadono gli errori del nostro passato. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 63 Il futuro dell’impresa italiana: tra economia reale ed economia immateriale Il cambiamento è caratteristica precipua dei sistemi economici: non ci può essere sviluppo economico senza un continuo cambiamento dei modi di produrre, dei prodotti utilizzati, dei consumi e delle preferenze dei consumatori. La molla del cambiamento è la concorrenza, ossia la ricerca continua di fare meglio e di più, per riuscire a vincere la competizione. Per questo i paesi che più sono immersi in un clima concorrenziale sono anche quelli che meglio e prima riescono ad adattarsi a nuovi assetti e finiscono pertanto per avere maggiori redditi e maggiore occupazione, pur se nel breve termine appaiono più stressati e più “a rischio”, per i continui cambiamenti che si rendono necessari. Al contrario, i Paesi ove imprese e lavoratori sono al riparo dalla concorrenza, sembrano vivere nel breve termine in modo più disteso, ma in realtà perdono posizioni e si impoveriscono in modo irreversibile: questo ha dimostrato, tra le altre cose, l’esperienza dei paesi ad economia pianificata dell’area comunista, che si erano messi al riparo della concorrenza e che hanno accumulato ritardi incolmabili. Dal reale all’immateriale • Se la concorrenza è lo stimolo del cambiamento e della crescita, l’innovazione tecnologica ne è lo strumento. L’innovazione non nasce per caso, ma è guidata dai bisogni espressi dal mercato. E quindi, un mercato dove è forte la concorrenza, esprime continuamente nuovi bisogni e premia le soluzioni in termini di profitti e successi. Per questo, concorrenza ed innovazione tecnologica vanno di pari passo e contribuiscono a modificare continuamente l’assetto delle imprese di un Paese. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 INNOCENZO CIPOLLETTA Presidente della UBS Corporate Finance (Italia) S.p.a. e Presidente del CdA dell’Universtà di Trento ≈ “… una maggiore competitività di costo per sostenere le nostre esportazioni deve essere una costante della politica e delle imprese italiane … (per) conseguire più elevati livelli di crescita in un contesto internazionale profondamente cambiato e caratterizzato da una nuova divisione mondiale del lavoro” ≈ 65 Innocenzo Cipolletta Lo sanno bene le imprese immerse nella concorrenza: le ragioni del loro successo sono anche le cause del loro possibile declino, se non sapranno innovare per tempo, perché altre imprese le imiteranno con costi e innovazioni tali da metterle fuori mercato. Sicché è normale che il tessuto produttivo di un Paese industriale si modifichi di continuo e che tali modifiche siano più forti nei periodi di accelerazione dell’innovazione tecnologica, com’è l’attuale che fa emergere nuovi prodotti, nuove modi di produrre e nuovi concorrenti che accedono per la prima volta alle soglie del mercato. L’Italia è in pieno in questa fase di trasformazione e, mentre si stanno esaurendo i fattori di successo che hanno contribuito a disegnare la struttura produttiva del nostro Paese, stanno emergendo nuove tendenze e nuovi sviluppi che contribuiranno all’emersione di una nuova specializzazione. Poiché ciò che tende a scomparire è ben noto e visibile e quindi genera preoccupazioni, mentre ciò che sta per emergere è ancora poco noto, meno visibile ed in cerca di soluzioni ancora da definire, ne deriva che, nelle fasi di cambiamento sostanziale, nel Paese emergano più gli svantaggi delle perdite subite e dalle proteste di chi perde posizioni, che i vantaggi del nuovo che verrà. È anche per questo che ne deriva spesso l’immagine di un Paese in difficoltà, che sta abbandonando una posizione nota, senza ancora sapere bene dove approderà. E questo spiega perché in Italia ci sia molta più preoccupazione per le perdite di alcune posizioni, mentre c’è poco interesse a quanto di nuovo sta emergendo. Ma la tendenza che si sta materializzando per l’economia del nostro Paese, segue anche tracce già sperimentate da chi ci ha proceduto, pur se la via di uscita sarà tipica delle nostre competenze. L’economia si sta spostando dal reale all’immateriale e questo caratterizza tutte le imprese, siano esse di beni che di servizi. La prossima specializzazione dell’economia italiana ricalcherà, verosimilmente, la specializzazione esistente oggi. E questo non è necessariamente un male o un limite, perché la nuova specializzazione riguarderà più il modo di fare impresa che il settore o il mercato di riferimento, che rimarrà, presumibilmente, quello tradizionale del nostro Paese. Più servizi, dunque, ma non attraverso un processo di banale terziarizzazione dell’economia, quanto in una evoluzione che sposta l’impresa dal reale all’immateriale, pur rimanendo saldamente ancorata nel campo industriale. L’Italia, a mio avviso, salverà la sua forte anima industriale, ma l’industria che sta emergendo non sarà simile a quella, fin qui conosciuta, del miracolo economico o dei distretti dove “piccolo è bello”. Sarà l’Italia dell’impresa densa di servizio e dell’organizzazione della produzione personalizzata su scala industriale che sta emergendo dalla concorrenza internazionale. Un’Italia che saprà conservare le sue quote di commercio mondiale, anche se porterà molta produzione fuori dai nostri confini. Un’Italia dove la cultura industriale, così radicata a livello locale, farà emergere nuovi modi di produrre e di servire il mercato, più che nuovi prodotti. 66 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Innocemzo Cipolletta Un nuovo modello di specializzazione • L’Italia ristagna da alcuni anni, malgrado il sistema economico internazionale sia caratterizzato da una espansione relativamente forte, ma non tale da trascinare anche il nostro Paese. La crescita mondiale sembra aver lasciato ai margini dello sviluppo il Vecchio Continente Europeo e le imprese italiane appaiono le più stanche. Certo, la crescita mondiale si è spostata ad Oriente ed il centro del Mondo – che un tempo era il Mediterraneo e che poi si è spostato sull’Atlantico – ora sembra sempre più situarsi sul Pacifico. L’Europa appare distante, tanto che si parla di vero malessere europeo. Ma non tutti i Paesi europei si comportano allo stesso modo. Alcuni Paesi continuano un forte trend di crescita, come la Spagna ed alcuni dei Paesi scandinavi. Altri, come il Regno Unito e l’Irlanda, appaiono più legati al mondo americano che a quello europeo. La Germania e la Francia stanno recuperando terreno sul commercio mondiale e tentano alcuni rilanci di domanda interna. L’Italia appare più fragile in questo scenario: ancora alle prese con vecchi problemi irrisolti (debito pubblico, ritardo del Mezzogiorno, insicurezza interna, ecc.), mentre deve affrontare l’urgenza dei nuovi problemi a cui non può sottrarsi (immigrazione, tecnologie, invecchiamento della popolazione, ecc.). Le cause del disagio italiano sono molte e molto si è discusso su di esse, fino a teorizzare una sorta di declino industriale per il nostro Paese. Non sono così pessimista, ma è certo che l’Italia sta assistendo all’esaurirsi del modello di crescita che l’aveva caratterizzata fino ad oggi e deve quindi adattarsi ad un nuovo modello. Per molti anni la crescita del nostro Paese è stata assicurata dalle esportazioni e la politica economica del Paese è stata coerente con questo obiettivo. Durante il periodo del Miracolo Economico (anni ’50 e ’60) le esportazioni sono cresciute grazie ai bassi costi di produzione del nostro Paese ed alla compressione della domanda interna, con il risultato di accrescere reddito e benessere di tutti. Ma con l’aumento del reddito, sono cresciuti anche i costi di produzione, sicché per mantenere il nostro modello di sviluppo abbiamo fatto ricorso alle svalutazioni della lira (anni ’70, ’80 ed in parte ’90): il risultato è stato quello di mantenere una certa capacità di crescita, ma a scapito di un impoverimento interno, generato dalla forte inflazione derivante dalle svalutazioni e dall’aumento dei tassi di interesse e dell’indebitamento pubblico. L’aver posto fine al circuito perverso “svalutazione – inflazione – impoverimento” con l’ingresso dell’Italia nell’euro a metà degli anni ’90, ha migliorato nettamente il livello di vita interno, ma ha peggiorato la capacità di crescita, per il venir meno del traino delle esportazioni, che continuano a sostenere molte aziende italiane ma non rappresentano più la componente più dinamica dell’economia. Di fatto oggi l’Italia “sta meglio” perché ha un tasso di disoccupazione più basso di dieci anni fa, maggiore occupazione e da lavoro a molti immigrati, ma non riesce a crescere. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 67 Innocenzo Cipolletta Se la ricerca di una maggiore competitività di costo per sostenere le nostre esportazioni deve essere una costante della politica e delle imprese italiane, tuttavia occorre anche che esse si posizionino su segmenti di mercato che consentano, a loro ed al Paese, di conseguire più elevati livelli di crescita in un contesto internazionale profondamente cambiato e caratterizzato da una nuova divisione mondiale del lavoro. La competizione massiccia a livello mondiale • Siamo in una fase di eccesso di offerta di capacità produttiva a livello mondiale. L’ingresso sul mercato di produttori come la Cina e l’India in una fase di rapida diffusione dell’innovazione tecnologica ha comportato una competizione massiccia sui settori tradizionali dell’industria con una forte riduzione dei prezzi e dei margini di profitto delle imprese. Questo fenomeno era ed è inevitabile. Anzi esso è auspicabile, dato che comporta il progressivo sviluppo di paesi ed aree finora caratterizzati da una povertà assoluta. Nel medio termine, esso significa la crescita di un mercato mondiale a dimensioni tali da consentire a tutti i paesi spazi significativi di crescita e di benessere. D’altra parte, ai suoi tempi, anche il nostro Paese si è sviluppato grazie a comportamenti analoghi, guadagnando quote di mercato a discapito di altri paesi, imitando ed innovando i prodotti che altri avevano immesso nel mercato e sfruttando i più bassi costi di produzione. Ma, se nel medio termine l’evoluzione sarà positiva, nel breve termine questo fenomeno sta determinando difficoltà a molti produttori. In realtà si sta osservando un processo di specializzazione produttiva a livello mondiale. Tale processo, sempre presente sulla base dei vantaggi comparati, subisce accelerazioni nelle fasi di eccesso di capacità produttiva, perché le imprese meno solide tendono a scomparire più rapidamente proprio perché la scarsa domanda rispetto all’offerta penalizza in modo più forte chi non ha capacità competitive di costo e/o di qualità. La specializzazione produttiva tende a concentrare le attività produttive di una regione o Stato in quelle che sono più vantaggiose ed in quelle che sono più protette in modo naturale: le prime hanno una protezione implicita nei vantaggi competitivi assunti grazie ad una tradizione di conoscenze e di abilità che difficilmente si riesce a sostituire. Le seconde sono protette naturalmente perché si tratta di attività che hanno scarsa competizione (commercio e distribuzione, servizi alle persone, distribuzione di energia, editoria e comunicazioni, costruzioni, logistica, ecc.). Il ritmo lento dell’Italia • Per l’Italia questa evoluzione si sta traducendo, quasi paradossalmente, in una sorta di cristallizzazione della nostra struttura produttiva sui settori tradiziona- 68 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Innocemzo Cipolletta li. Infatti, perdiamo capacità produttiva ed imprese in settori in cui non c’è una forte tradizione (in particolare nei settori tecnologicamente avanzati dove la presenza del Paese era già scarsa), mentre cresce la specializzazione in alcuni settori o imprese tradizionali in cui abbiamo specifiche competenze e siamo tradizionalmente forti, malgrado essi siano in diretta competizione con i nuovi produttori (alta moda, elettrodomestici di consumo, componentistica dell’auto, macchine utensili, legno e mobilio di alta gamma, ecc.). Inoltre aumenta il peso e l’interesse degli imprenditori per i comparti “protetti”, ossia quelli in concessione (autostrade, energia, comunicazioni, attività locali, servizi, ecc.), dove la pressione della concorrenza internazionale è inferiore o si manifesta più in termini di controllo che di presenza di attività produttiva. Ne sono esempi l’investimento forte di capitali privati nelle telecomunicazioni, nelle autostrade, nell’energia, nelle banche, ecc.. Una simile evoluzione avviene in molti dei Paesi europei, ognuno con le sue specialità e con le sue protezioni. Non si tratta di rammaricarsi o di contrastarla per perseguire ipotetiche altre vie. La cosa migliore da fare, a mio avviso, è quella di investire in questa tendenza per trarne il maggior vantaggi e posizionarsi meglio per quando anche paesi come la Cina e l’India saranno grandi mercati di sbocco, oltre che competitori temibili per le produzioni a basso costo. L’industria dei servizi • Seguire e favorire la tendenza in atto significa capire che l’economia si sta spostando dalla parte dei servizi: l’industria dei prossimi anni sarà un’industria di servizi, intesa nel senso che la componente di servizio nei prodotti industriali aumenterà notevolmente e che il consumatore finale – sia esso impresa o famiglia – acquisterà sempre più prodotti industriali sofisticati, non già direttamente, ma attraverso un servizio. Questa è la rivoluzione che stiamo osservando e che consentirà alle industrie italiane di competere con paesi a più bassi costi di produzione e di allargare la domanda interna che rappresenterà la componente dinamica della crescita dei paesi di vecchia industrializzazione. Il servizio è sempre stato una componente del prodotto industriale: basti pensare alla ricerca, al design, al marketing, alla commercializzazione, all’assistenza post vendita e così via. Ma finora questa componente è stata vissuta essenzialmente come funzionale alla produzione manifatturiera, la cui logica era prevalente. Questo è il mondo delle commodities, ossia il mondo dei prodotti standard pur se con diverse opzioni. La crescita dei servizi si è così manifestata essenzialmente attraverso l’outsourcing di funzioni di servizio che hanno generato molte imprese del cosiddetto “terziario avanzato”: dalle imprese di informatica a quelle di amministrazione, di engeneering, di marketing, di design, di progettazione, ecc. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 69 Innocenzo Cipolletta Ma una nuova fase si sta presentando: quella dei beni industriali personalizzati, pur se prodotti in quantità relativamente elevata. Si tratta di prodotti con un forte contenuto di servizio inglobato dentro, perché studiati per le esigenze specifiche del cliente: al punto che la manifattura del prodotto può essere anche delocata, mentre prendono sempre maggiore consistenza e restano nel nostro Paese, tutte le funzioni a più elevato valore aggiunto. Questa “nicchia” di produzioni è sempre esistita, e in Italia è ben nota perché rappresenta un comparto dove le qualità della nostra manifattura possono eccellere. Si tratta di imprese ove è presente, al tempo stesso, una forte componente artigianale, industriale e di servizio. Ma questo comparto è destinato a crescere in misura rilevante e ad assumere connotati industriali, grazie sia alla tecnologia che all’ampliarsi del mercato. Innovazione tecnologica e flessibilità • L’innovazione tecnologica sta rendendo flessibili i sistemi di produzione e consente di adattare i prodotti a specifiche esigenze: basti pensare alla moda, con il ritorno di vestiti “sartoriali” in produzione di serie, nel senso che il prodotto standard può essere adattato alle misure specifiche del cliente trasmesse per via informatica ai macchinari industriali che li producono. Ma il campo dove questa forma di personalizzazione è più evidente è quello delle macchine utensili e degli impianti, che devono adattarsi alle esigenze dei clienti ed essere sempre diverse l’una dall’altra, pur avendo basi di ricerca e di soluzioni tecnologiche comuni. E questo è un settore dove l’Italia eccelle e che sta allargando la sua quota. Queste produzioni industriali nascono da una forte componente di servizio, producono servizi (assistenza, adattamento, ecc.), occupano intelligenze e possono essere montati vicino al cliente che spesso è localizzato in aree lontane. Basti pensare alle macchine a controllo numerico che sono vendute in tutto il mondo, essendo l’Italia e l’Europa un mercato troppo ridotto. Se queste produzioni sono sempre esistite e se l’innovazione tecnologica le sta rilanciando, resta il fatto che il loro sviluppo è derivato soprattutto dall’ampliarsi di una domanda che non è più locale. Posto che tali produzioni sono di gamma elevata e, quindi, hanno un mercato relativamente ristretto, la loro crescita non può avvenire che in caso di un forte allargamento del mercato. Questo è avvenuto grazie alla globalizzazione che ha ampliato il mercato e fatto crescere la classe di consumo (persone ed imprese) di fascia medio/alta che costituisce il mercato di riferimento di queste produzioni. È così che, alta moda, macchine utensili, mobili, elettronica di consumo, ecc., sono comparti che sono cresciuti personalizzandosi e dotandosi di servizi impliciti, tanto che meno rilevante appare oggi il sapere dove essi sono stati prodotti, mentre 70 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Innocemzo Cipolletta resta sempre più importante capire dove e chi li ha concepiti e chi assicura il servizio complessivo. Rientra in questa accezione il mondo dei marchi, il cui valore è fatto da una somma di servizi che si sono consolidati nel tempo e consentono di soddisfare esigenze sofisticate di una clientela di livello medio/alto, capace di remunerare costi elevati, che così coprono il valore del lavoro di paesi industriali che non possono competere con i paesi di nuova industrializzazione presenti ornai sui prodotti standard. Rientra in questa accezione anche tutto il mondo della subfornitura di qualità, per produzioni studiate assieme al committente e prodotte spesso in esclusiva per lui. È la filiera delle competenze, dove una impresa concepisce e commercializza un prodotto, la cui impostazione, produzione e assemblaggio è allocata presso una serie di imprese italiane ed estere che hanno collaborato allo studio ed alla ricerca delle soluzioni. Queste imprese operano con tempi di consegna predefiniti e certi, in una ideale catena di montaggio estesa in tutto il mondo e che si materializza, di volta in volta, con soluzioni diverse, a seconda delle opportunità e dei mercati da servire. Impliciti o espliciti in tali filiere sono i servizi di logistica, di informatica, di organizzazione e quanto altro renda effettivamente efficiente ed unica una simile organizzazione. Leader nei propri mercati di riferimento • Questa tendenza all’immateriale nella produzione industriale si sposa bene con la caratteristica di piccola impresa che continuerà a rappresentare una specificità italiana. Ma la piccola impresa di domani non sarà la piccola impresa che abbiamo conosciuto fin qui. E questo perché la grandezza del mercato di riferimento influenza anche la grandezza delle imprese. Fin tanto che i mercati di riferimento sono stati locali, la dimensione delle imprese italiane era proporzionate a tali mercati, nel senso che grandi, medie e piccole aziende erano riferite al mercato specifico. Si potevano così avere grandi imprese locali che invece risultavano medie o piccole se confrontate con altre che operavano su mercati di dimensioni diverse. Partendo da questi presupposti, si può dire che, in epoca di globalizzazione, con la estensione dei mercati ed il ridursi delle barriere locali, la dimensione media delle aziende tende a crescere perché cresce il mercato di riferimento. Questo non è sempre vero, ma può esserlo mediamente, se mercato globale significa la possibilità di servire imprese e consumatori dislocati a distanza rilevante, con abitudini, comportamenti e regole diverse rispetto a quelle con le quali si è avuto a che fare fino a ieri. In altre parole, nel mercato globale ci sarà sempre un posto importante per le piccole e medie imprese, ma la piccola impresa del mercato globale dovrà essere mediamente più grande della piccola impresa del mercato locale. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 71 Innocenzo Cipolletta Tuttavia questa affermazione merita un’ulteriore specificazione. In genere quando si parla di dimensione aziendale si fa riferimento al numero degli addetti o, meno frequentemente, al fatturato dell’impresa stessa. Questi riferimenti sono senza dubbio utili, se non necessari, quando si fanno indagini statistiche per quantificare il fenomeno della piccola impresa e cercare di analizzarne i comportamenti con riferimento a diverse variabili e situazioni. Tuttavia appare ben chiaro come questa accezione della dimensione non sia sempre valida e risulti a volte incapace di rendere a pieno il senso di dimensione aziendale. In realtà il numero degli addetti di una impresa non pretende di delimitarne la dimensione, ma sta ad indicare altre caratteristiche dell’impresa stessa: la quota di mercato detenuta, la complessità della sua organizzazione interna, il capitale investito, l’esistenza di professionalità multiple, il numero e la qualità dei contatti con l’esterno, la capacità o meno di ricorrere a servizi esterni, l’articolazione dei rapporti tra management e proprietà, gli investimenti in ricerca ed innovazione, la sua proiezione sul mondo esterno, la capacità di influenzare il mercato di riferimento e quella di prevederne le evoluzioni, il controllo esercitato da investitori istituzionali e da autorità, e così via. Tutte queste caratteristiche possono concorrere a fare grandi o piccole le imprese. Da esse se ne deduce che anche imprese di dimensioni piccole, secondo l’accezione del numero degli addetti, possono essere considerate come imprese medie o grandi se riescono ad avere peculiarità specifiche come organizzazione, rapporto con il mercato, ricerca, ecc. Le dimensioni delle imprese competitive • Se è vero che la globalizzazione presuppone dimensioni maggiori delle stesse piccole imprese, ecco allora che tale crescita non deve essere intesa solo come numero di addetti, o meglio essa non deve essere perseguita banalmente accrescendo addetti e fatturato, ma assumendo caratteristiche da grande impresa, pur se si dovesse rimanere con lo stesso numero di dipendenti. Più in particolare, le imprese piccole e medie di domani avranno a disposizione competenze, professionalità, organizzazione e contatti di livello non diverso da quello che oggi caratterizzano una grande azienda. Ciò è possibile grazie alla specializzazione del mercato che offre servizi che un tempo erano appannaggio della grande impresa, perché essa era la sola che aveva la dimensione per produrli al suo interno. Oggi, invece, è possibile acquistare sul mercato sistemi di organizzazione e servizi che sono nati dall’outsourcing di funzioni interne di grandi imprese. Le piccole imprese, per crescere senza dover necessariamente aumentare di dipendenti, faranno ricorso a questi servizi, quindi dovranno avere una capacità di scelta e di valutazione che spesso è legata alla cultura ed alla esperienza. La globalizzazione in atto presuppone un accrescimento delle competenze di tutti. Questo significa 72 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Innocemzo Cipolletta dover crescere per competere in un mercato globale, anche se si vuole, o si deve, restare piccoli. Ma la grandezza di una impresa è funzione anche del mercato di riferimento. In altre parole, la quota di mercato detenuta e la capacità di influenzare il mercato di riferimento sono fattori che hanno un ruolo non secondario nel determinare la dimensione di una azienda, o meglio nel sapere se essa deve solo difendersi o può attuare anche una strategia di attacco sul mercato. La dimensione del mercato di riferimento non è un dato assoluto imposto dalle circostanze, ma può essere, entro certi limiti, una scelta dell’impresa stessa. Sempre più le imprese tendono a focalizzare la propria attività su ciò che sanno fare in maniera eccellente, mentre si ricorre a committenti esterni per acquisire ciò che non si sa fare o ciò che non conviene produrre in proprio. La scelta tra il make o il buy per le imprese di tutte le dimensioni rappresenta una scelta fondamentale al fine di poter perseguire un’alta qualità. Questa tendenza, che spinge sempre più verso una frammentazione del modello produttivo, implica anche la creazione di mercati tanto segmentati quanto lo sono le diverse parti o funzioni in cui si riesce ad articolare il processo produttivo. Sono queste le “nicchie” produttive dove le piccole imprese cercano riparo dalla concorrenza generalista delle grandi imprese: riuscire ad essere leader mondiale di una piccola fase produttiva o di una specifico bene o servizio, consente alle piccole imprese di poter dominare il proprio mercato di riferimento, di poterne influenzare l’evoluzione governando la tecnologia, di potersi imporre malgrado una dimensione ridotta. Certo, il vantaggio non sarà mai eterno perché altri concorrenti vorranno entrare in quel mercato, mentre non si potrà mai imporre la proprio volontà all’acquirente, specie se è un a grande impresa, a rischio che questa ultima favorisca la nascita di un concorrente o decida di internalizzare la funzione se le pretese del fornitore appaiono troppo onerose. Ma, se si riesce a governare il mercato, seguendo le esigenze del committente, collaborando con esso, investendo in innovazione e mantenendo una certa articolazione della clientela, allora si può essere una grande impresa pur rimanendo piccoli, perché si avranno ruoli e funzioni da grande impresa, fino a poter essere dei veri monopolisti del proprio segmento di mercato. Questa ricerca di nicchie produttive e di focalizzazione della produzione presuppone una organizzazione di impresa orientata al mercato, pronta al cambiamento e capace di mantenere elevate professionalità al suo interno. In altre parole, presuppone una crescita dell’impresa che gli consenta di rimanere leader sul mercato di riferimento, ciò che costituisce una chance in più per operare sul mercato globale. E questa è una tendenza già visibile per le imprese italiane che si accentuerà nel futuro. Già oggi siamo leader in specifici settori (freni per auto, macchine per la stampa dei giornali, macchine per imballaggi, ecc.) dove imprese di media se non piccola dimensione di fatto controllano quote significative del loro mercato di riferimento e sono determinanti nel guidare le tendenze della tecnologia, dei prez- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 73 Innocenzo Cipolletta zi. Molto più di quanto non lo siano le poche “grandi” imprese italiane che operano in mercati così vasti dove loro non controllano che quote marginali. Questo è il caso, ad esempio, dell’automobile o dell’energia. La domanda di servizi quale motore dell’industria moderna • Ma anche la domanda interna giocherà un ruolo determinante nella nuova specializzazione dell’economia italiana. Infatti la crescita della domanda interna privilegerà sempre più i servizi, i cui contenuti di innovazione e di consumi industriali sarà una molla potente per la crescita qualitativa e quantitativa del Paese. Come in altri Paesi industriali, l’Italia vedrà crescere una domanda di servizi che impiegano e “consumano” consistenti volumi di prodotti industriali moderni e sofisticati, la cui produzione presuppone imprese industriali capaci di interpretare i nuovi bisogni: ossia imprese industriali di servizi come prima descritte. I consumi delle famiglie e delle imprese sono in misura crescente orientati verso i servizi moderni. Questo non significa che consumeremo sempre più servizi e sempre meno beni. Significa invece che consumeremo molti beni non più in via diretta, ma attraverso il ricorso ai servizi. Ed i beni che consumeremo attraverso i servizi saranno spesso ben più sofisticati e moderni di quelli che consumeremo acquistandoli direttamente. Ecco perché una società con una crescente domanda interna di servizi è una società fortemente industriale, dove l’industria è moderna e vicina ad i nuovi bisogni dei consumatori. Una industria che è anche tecnologicamente più avanzata e basata sulla ricerca, con contenuti di servizio superiori all’industria tradizionale dei beni di massa. Di fatto, la struttura dei consumi delle famiglie si sta spostando verso i servizi, sia per i nuovi bisogni, sia per quelli tradizionali. Basti pensare all’alimentazione, che si sta spostando verso la ristorazione, sia nei momenti di lavoro che in quelli del tempo libero. Lo stesso vale per i divertimenti, lo sport, il turismo, dove si tende sempre più, a non consumare direttamente i beni, ma si transita attraverso un servizio. In questi casi, si usano beni industriali più moderni, più sofisticati e rinnovati in continuità, rispetto al caso di un uso diretto di tali beni. Alcuni esempi possono aiutare a capire meglio. Mangiare a casa implica l’uso di macchinari e tecnologie decisamente meno avanzati di quelli a cui si ricorre indirettamente quando si mangia in un ristorante o in una mensa, dove l’approccio industriale della produzione impone macchine efficienti e tecnologie moderne. Andare in una palestra per fare esercizi ginnici, oggi implica l’uso di macchinari complessi ed una assistenza specialistica, mentre la ginnastica a casa propria comporta pochi acquisti di materiali e nessun servizio. Curarsi presso un ospedale, una clinica o ricorrere ad un laboratorio medico, ci porta ad utilizzare macchinari sofi- 74 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Innocemzo Cipolletta sticati che mai potremmo avvicinare ricorrendo al medico di famiglia o curandoci da soli con l’acquisto di medicine e macchine specifiche. In tutti questi esempi – e facendo astrazione dalla soddisfazione personale – il ricorso al servizio rispetto al “fai da te” implica un consumo indiretto di beni industriali sofisticato e basato spesso su ricerca ed uso di moderne tecnologie. Implica quindi anche l’esistenza di imprese industriali che sanno rispondere alle esigenze dei nuovi consumatori e che sanno servire il loro mercato di riferimento, direttamente connesse con le imprese che erogano il servizio, in una filiera di competenze che fa crescere le imprese e fa sviluppare il Paese nella direzione dell’innovazione e della ricerca. Poiché questi servizi hanno spesso anche una certa protezione nei confronti della concorrenza estera, posto che devono essere forniti in prossimità ed a contatto con il consumatore finale, questo orientamento della domanda verso i servizi è un modo per mantenere quote di reddito e di lavoro nei Paesi industriali in fasi di forte concorrenza estera da parte di Paesi di nuova industrializzazione. Se accanto a questi servizi nasce poi la filiera industriale, allora anche questa filiera riceve una sorta di protezione, almeno temporanea, che gli garantisce di potersi sviluppare per competere poi nel mondo. Questa appare essere la tendenza di mercati come quello italiano, che potranno sviluppare segmenti di servizi densi di industria, così come l’industria si sta continuamente vestendo di servizio. Liberare i servizi • Le possibilità di sviluppo dell’economia italiana riposano dunque sulla capacità che avrà il Paese di rafforzare la specializzazione produttiva in atto, allargandola anche ad altri comparti, di far crescere le proprie imprese che devono orientarsi sempre più sul contenuto di servizio della loro produzione, di far crescere un comparto di servizi professionali moderni, capaci di interagire con le imprese industriali e di far emergere una nuova domanda interna che privilegerà i servizi i cui contenuti di innovazione e di consumi industriali sarà una molla potente per la crescita qualitativa e quantitativa del Paese. Questa tendenza è comune a molte economie industriali, ma il nostro Paese può accelerarla, beneficiandone dei vantaggi, o ritardarla finendo per stare più a lungo nella fase del disagio. La via per accelerarla sta nell’ampliamento della concorrenza. Occorre eliminare molte delle protezioni esistenti che impediscono l’emergere di nuove imprese e di nuovi modi di consumo, ritardando gli adeguamenti necessari: ciò che non impedisce al paese di perdere le vecchie strutture produttive, ma rallenta e diminuisce la crescita delle nuove. È necessario un processo di liberalizzazioni e di aumento della competizione che acceleri le tendenze in atto: tutto il contrario di quanto spesso si chiede in fasi Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 75 Innocenzo Cipolletta difficili, ossia protezioni per difendersi e prendere tempo. L’aumento di concorrenza favorisce la concentrazione delle attività in operatori più grandi, capaci di competere sul mercato interno ed internazionale. Di questo ha bisogno l’Italia per competere nel mondo: operatori più grandi e più professionali, come è stato detto in precedenza. Liberalizzazione e competizione mondiale • Le liberalizzazioni e la competizione sono essenziali se si vuole che i settori naturalmente protetti crescano come dimensione, sviluppino una domanda di innovazione e ricerca e siano domani dei competitori mondiali, quando le loro protezioni verranno meno in seguito ai progressi della scienza e della tecnologia. Un caso è emblematico: le professioni, che sono protette da legislazioni rigide, sono il settore di maggior creazione imprenditoriale in molti paesi moderni. Avvocati, architetti, ingegneri, medici, giornalisti, ecc., stanno creando nel mondo imprese di dimensioni grandi, capaci di essere presenti con loro filiali ed affiliati in tutto il mondo. È così che si internazionalizzano attività che, per la loro natura, erano tipicamente locali e protette (consulenza giuridica, logistica, gestione di aeroporti, ingegnerizzazione di processi, progettazione di edifici e di complessi, ecc.). L’Italia, invece, ha preso dei ritardi in questi settori perché la legislazione protettiva esistente e il sistema di corporazioni che si è costituito rendono ardua la trasformazione in imprese di queste attività, ne impedisce la pubblicità, ne frenano la concorrenza stabilendo prezzi e tariffe e così via. È tutto il comparto dei servizi che necessita di maggiore competizione: professioni, commercio, comunicazioni, trasporti, finanza, distribuzione dell’energia, ecc., sono i settori per i quali è opportuno accelerare la concorrenza, così come prevede la direttiva europea sui servizi (la cosiddetta direttiva Bolkestein), oggi boicottata in molti paesi europei. Un analogo processo di concorrenza e liberalizzazione deve poi riguardare alcuni servizi collettivi, come l’educazione e la sanità che rappresentano i consumi privilegiati di domani. Per mantenere le sue posizioni sui mercati mondiali, per crescere di dimensioni e di capacità produttiva, per svilupparsi ed aumentare il livello del reddito, il nostro Paese ha bisogno di maggiore competizione e di maggiori liberalizzazioni. Queste sono anche le chiavi per una ripresa economica, che non può più dipendere solo da capacità competitiva di prezzo, ma che deve riposare sulla qualità dei nostri prodotti e servizi e sulla capacità delle nostre imprese. 76 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Economia e sistema politico italiano: un rapporto corretto o c’è qualcosa da cambiare? L’argomento che mi è stato assegnato può essere affrontato riflettendo sull’intera storia economia dell’Italia repubblicana e può dar luogo a tre tipi diversi di risposte. Il primo. Non vi è stato alcun rapporto fra il sistema politico italiano e lo sviluppo economico dell’Italia. La questione non si pone in quanto la crescita dell’economia italiana sarebbe avvenuta più o meno negli stessi termini sotto un qualunque assetto politico, naturalmente di ordine democratico ed inserito nella economia occidentale. Il secondo. Il sistema politico italiano ha dato un apporto positivo allo sviluppo della nostra economia. E questo può essere assunto misurandone gli effetti sulla base di qualche parametro quantitativo (livello di occupazione o divario Nord-Sud). Oppure sulla base di qualche valutazione politica di aspetti socio-economici (divari sociali, livello e qualità del Welfare, tenuta della famiglia, etc.). Il terzo. La crescita dell’economia italiana è stata così sostenuta nonostante il ruolo negativo che ha svolto il sistema politico. Se quest’ultimo fosse stato più prossimo a quello di altri paesi europei, la crescita avrebbe potuto essere più sostenuta, o più equilibrata, oppure meno ciclica. Le caratteristiche del nostro sistema economico PIERO BARUCCI Economista ≈ “L’Italia ha bisogno di una vera e propria rifondazione che è sì di norme e di assetti produttivi ma che è in primo luogo di cultura, di atteggiamenti, di mentalità” ≈ • Avendoci convissuto, come cittadino di questa repubblica, so che si è trattato di un sistema fondato su un forte potere di parecchi partiti di diversa dimensione, su un sistema parlamentare molto forte e governi tendenzialmente de- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 77 Piero Barucci boli, con un partito comunista organizzato e continuamente alla soglia di un impegno governativo, con un sindacato dei lavoratori molto presente, attivo e forte, con una rappresentanza imprenditoriale notevole. Governi tendenzialmente deboli e di breve durata, hanno garantito una buona costanza nell’indirizzo fondamentale della politica economica, una notevole stabilità nella alleanze internazionali, una radicata fedeltà all’impegno per la costituzione dell’unità europea. Le cose sono un po’ cambiate dopo il 1994, con governi con una più lunga durata media, ma il condizionamento dovuto dai partiti “marginali” è sempre stato assai marcato. Nei quasi sessanta anni della vita repubblicana, la crescita economica è stata notevole; nei quarantacinque anni fra il 1947 ed il 1992 è stata imponente. Sono però mutate non tanto e non soltanto il ritmo, ma, e più che altro, le ragioni che l’anno favorita. Gli anni del cosiddetto “miracolo economico” fanno storia a sé: la crescita fu particolarmente elevata, con una inflazione assai bassa, i conti pubblici in equilibrio e quelli esteri quasi. L’economia italiana trasse gran vantaggio dalla favorevole congiuntura internazionale e dal recupero tecnologico conseguente la fine della seconda guerra mondiale. Una prima liberalizzazione degli scambi internazionali, resi ordinati dall’ancoraggio ad un dollaro moneta di indiscusso riferimento, favorì l’inizio della costituzione del mercato comune europeo, e permise all’Italia di trarre pieno vantaggio da un andamento salariale inferiore a quello della produttività. Si ebbe, per un lungo periodo di tempo, una saggia politica economica che, utilizzando al meglio una congiuntura economia e politica assai favorevole, riuscì a conciliare l’espansione insieme a significative misure di tipo riformatore. In breve, e sia pure in modo troppo sbrigativo, può dirsi che in quel periodo il ciclo economico italiano era nelle cose; fu merito del sistema politico italiano non contrastarlo anche se non si ebbero scelte storiche – esclusa la opzione europea – per assecondarlo esplicitamente. È negli anni a seguire che l’indirizzo politico italiano diviene nettamente attivo, tanto da lasciare il segno della peculiarità sulle scelte generali di politica economica. Tali scelte sono individuabili in: 1) una forte politica attiva della presenza pubblica nella economia italiana; 2) una politica di welfare diffusa e generosa nei suoi diversi aspetti; 3) il ricorso ad una politica del cambio funzionale al recupero di competitività per le nostre esportazioni. Il fatto che queste scelte si siano mostrate al culmine in fasi diverse del periodo che va fra il 1962 ed il 1992 non va trascurato; ma una trattazione più accurata richiederebbe spazi non disponibili in questa occasione. 78 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Barucci Le scelte di percorso • Solo in punta di penna si può ricordare che la scelta del primo tipo era di vecchia data nella esperienza storica italiana. Ma è indubitabile che tale presenza si fece nel periodo particolarmente ampia sia per la nazionalizzazione della energia elettrica, sia per il salvataggio “pubblico” di parecchie realtà industriali condotte da privati, sia per l’acquisizione del controllo di banche “private” da parte di quelle pubbliche. Agli inizi degli anni ’90 le imprese pubbliche in Italia presentavano una copertura molto vasta, con punte di eccellenza, come si è poi visto, casi che necessitavano una profonda ristrutturazione, casi di palese decozione. Il numero degli occupati ad esse interessate era molto elevato. In non pochi casi, erano state soggetti attivi nella politica industriale italiana. Per loro la stagione delle privatizzazioni giunse alcuni anni dopo rispetto alle esperienze estere. La scelta del secondo tipo era anch’essa nella storia dell’Italia, nel senso che, per una ragione o per l’altra, l’Italia ha convissuto con una condizione del bilancio pubblico in significativo squilibrio. Eppure, ancora agli inizi degli anni ’70, il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo era in Italia entro il famoso parametro di Maastricht. È negli anni successivi che inizia un profondo deterioramento dei nostri conti pubblici; per qualche anno ciò accadde anche in altri paesi europei i quali però, fino dai primi anni ’80, iniziano politiche di correzione fiscale. Il fatto è che agli inizia degli anni ’90 l’Italia si presenta con queste caratteristiche: un saggio di inflazione che è il doppio di quello della Germania, un rapporto deficit-Pil intorno al 10%, un rapporto debito-Pil intorno al 120% e con tassi di interesse reali positivi (ed in qualche anno largamente positivi). Vedremo fra breve, e conclusivamente, se questa fu una scelta consapevolmente compiuta oppure subita a parte dal nostro sistema politico. La scelta del terzo tipo fu invece lucidamente ed abilmente perseguita. Attraverso una politica internazionale in cui servivano abilità diplomatica e disegno di più lungo respiro (non va dimenticato il ruolo avuto dall’Italia nel rilancio europeo degli anni ’80), l’Italia fu in grado di utilizzare il cambio a favore della nostra industria e del nostro turismo. In pochi anni la lira fu ripetutamente svalutata rispetto al marco tedesco, almeno fino a quando il processo di integrazione europea si fece più stringente. Gli effetti del trattato di Maastricht • La conclusione è che durante questo lungo periodo, che giunge fino al 1995, data dell’ultimo aggiustamento del cambio, l’Italia resse sì il ritmo di alcuni aggregati macroeconomici rispetto a quelli di altri paesi europei, ma non sulla base di Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 79 Piero Barucci vantaggi competitivi conseguito con politiche produttive e distributive di tipo europeo, ma sulla base di una combinazione di abili adattamenti che non potevano durare nel tempo. Il resto è storia recente, quella di cui si parla tutti i giorni su tutti i giornali e che, purtroppo, è scritta nelle serie statistiche che ci riguardano. Nel momento in cui gli effetti del Trattato di Maastricht e sue successive modifiche si fanno sentire, fino all’avvento della moneta unica, l’economia italiana, non potendo più utilizzare politiche di astuto adattamento di accorgimenti occasionali rispetto a disegni di più lungo andare, non riesce più a trovare nel suo interno vantaggi competitivi adeguati a fronteggiare una concorrenza divenuta globale. Per cui oggi, per la prima volta nella sua breve storia di paese unito, l’Italia è costretta a confrontarsi con la concorrenza internazionale solo utilizzando al meglio le forze di cui dispone all’interno di un quadro composto di regole uguali per tutti in un’epoca di completa globalizzazione del movimento internazionale dei capitali. Una rifondazione di norme e di assetti • Siamo ad un passaggio di ordine storico, del quale non mi sembra che il dibattito in corso tenga adeguatamente conto. Esso oscilla fra l’appello salvifico a rendere d’incanto l’Italia un paese come gli Usa o la Gran Bretagna, ed il suggerimento ripetitivo di introdurre questa o quella misura. È utile il richiamo al quadro d’assieme che dobbiamo raggiungere; e sono utili le discussioni su le misure che si possono prendere. Il punto da affrontare è però, purtroppo, diverso. L’Italia ha bisogno di una vera e propria rifondazione che è si di norme e di assetti produttivi ma che è in primo luogo di cultura, di atteggiamenti, di mentalità. Ciò che ancora prevale è parte di un mondo post-agricolo, di assistenza pubblica, di isola protetta da muraglie di vario ordine, in un momento in cui non è possibile più sottrarsi al vento irrefrenabile che ci deriva dall’essere parte della concorrenza internazionale, in particolare di quella dei capitali. Questa vera e propria rifondazione non può che avvenire per via politica. Mi auguro che nella prossima campagna elettorale tutto questo possa fare almeno capolino. Il ruolo della politica • Torniamo alla domanda iniziale: che ruolo ha avuto in questo lunga, e per molti versi gloriosa vicenda, il sistema politico italiano? Ed è tuttora in grado di svolgere un ruolo, e, se affermativamente, in qual modo? 80 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Piero Barucci Qui il giudizio è assai arduo, perché per gran parte ha natura storica. Il che comporta di tener conto di molti fattori, il primo dei quali riguarda la geografia partitica italiana e la presenza di un fortissimo partito comunista sia pure con un rapporto del tutto particolare con la Unione sovietica. Per cui, tutto compreso, mi sentirei di dire che per una cinquantina di anni il nostro complicato sistema politico accompagnò la crescita della nostra economia, attenuando i conflitti sociali, ma non rendendo esplicito che ognuno di noi stava utilizzando artatamente delle condizioni non solo irripetibili ma anche tali che scaricare sulle generazioni future gli oneri che erano per noi dei vantaggi non meritati. In questa sottaciuta verità, stanno probabilmente le difficoltà che ora si incontrano a dare una svolta profonda alla nostra politica economica. Per tutti noi ciò che si è conseguito diviene una soglia dalla quale è difficile retrocedere; anche se lo si è ottenuto per una casuale vicenda ereditaria. Il punto in discussione diviene allora un altro, ed è questo. Se l’Italia (e non solo la sua economia) ha bisogno di una vera e propria rifondazione di cultura, di atteggiamenti, di mentalità (non parlo di valori per non scomodare parole che mettono paura), quale sistema politico e, perché no, elettorale può facilitarla? Da non esperto di così ardue questioni, mi permetto di avanzare l’ipotesi che il sistema politico attuale (e quello elettorale appena varato) è inadeguato. Saranno anni, i prossimi, durante i quali il sistema politico italiano non potrà limitarsi ad assecondare ciò che è di per sé in atto nella nostra economia, ma dovrà cercare di indirizzarlo, orientarlo, piegarlo nel senso dovuto perché l’Italia possa continuare ad essere un importante paese industrializzato, nel quale crescita, giustizia sociale, qualità della vita delle generazioni attuali e future possano essere congiuntamente conseguite. C’è un severo lavoro da svolgere; inconsueto, che potrebbe comportare un rischio di impopolarità simile a quello che si guadagnarono sul campo i responsabili governativi dell’estate del 1992. Ma qualche lettura storica, oltre che una conoscenza critica diretta del mio paese, mi dicono che la politica è divenire continuo i cui movimenti significativi si scoprono molto spesso con qualche ritardo. C’è tanto movimento oggi nella vita politica italiana, e mi pare di poter dire che c’è anche del buono. Nelle occasionali opportunità di incontro, nelle più diverse località italiane, per motivi di ordine culturale, politico, economico, religioso, si incontrano tante persone di tutte le età che manifestano la volontà per un forte sentire civile. Così come, incontrando gli imprenditori, capita di scorgere una insospettata voglia di reagire, di rischiare, di mettersi in gioco. Il sistema politico italiano sarà quello che saprà essere dopo questa lunga fase di disvalore della politica o di stanca ripetizione di riti del passato. Vedremo cosa av- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 81 Piero Barucci verrà! Intanto i politologi potranno esercitarsi a disegnare il vestito ideale per l’Italia che verrà; la quale sarà ciò che tutti noi vorremo che sia. 82 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Le imprese familiari: problemi di competitività e prospettive di sviluppo Il tema dei problemi e delle prospettive delle nostre imprese familiari è oggi non solo di estrema attualità ma anche di enorme rilevanza per il futuro del nostro Paese. Prima di scendere nel dettaglio della nostra analisi, che sarà di natura prettamente economica, è però opportuno precisare le premesse fondanti da cui intendiamo muovere. Alla base della nostra riflessione vi è la convinzione che le innumerevoli piccole e piccolissime imprese che costituiscono il nucleo del sistema produttivo italiano ed europeo sono caratterizzate da uno straordinario spirito di intrapresa, ovvero da una cultura d’impresa, che significa non solo imprenditorialità, ma anche capacità di assunzione del rischio non disgiunto però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa. • Per quanto attiene poi all’idea di impresa che sottende tutta la nostra elaborazione, vogliamo citare due passi assai incisivi dell’Enciclica Centesimus Annus. Nel primo Giovanni Paolo II, richiamando l’attenzione sulle finalità dell’impresa e sui suoi costituenti essenziali, scrive: “Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società.” (Centesimus Annus, n. 35). Il concetto è poi ulteriormente rafforzato allorché si mette in chiaro come al centro dello schema interpretativo di ogni realtà imprenditoriale debba necessariamente sempre esservi l’uomo e il suo sviluppo integrale: “L’azienda non può esser considerata solo come una «società di capitali»; essa, al tempo stesso è una «società di persone», di cui entrano a far parte in modo di- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 GIOVANNI MARSEGUERRA Università Cattolica di Milano ≈ “In Italia il fenomeno del capitalismo familiare è probabilmente ancor più rilevante che negli altri Paesi sviluppati… Ed è dunque ragionevole, in un tale contesto, che la capacità manageriale di una famiglia sia adeguata alle circostante e che gli investimenti possano essere affrontati rimanendo nel nucleo familiare” ≈ 83 Giovanni Marseguerra verso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano con il loro lavoro” (Centesimus Annus, n. 43). Nella nostra riflessione di natura economica, dunque, quando si parlerà di impresa, si intenderà sempre e comunque riferirsi ad una comunità di uomini al servizio della società, al di là delle specifiche definizioni via via adottate e facenti riferimento alla dimensione o alla struttura proprietaria o alla tipologia di gestione. Le piccole imprese del capitalismo familiare • Se si volesse individuare un elemento di reale continuità nel contesto di rapida evoluzione che ha segnato il capitalismo italiano degli ultimi due decenni, lo si potrebbe probabilmente rintracciare nella massiccia presenza di imprese possedute e gestite da famiglie. Quando si voglia guardare in prospettiva al problema della competitività e dello sviluppo industriale complessivo del nostro Paese, il naturale punto di partenza dell’analisi è dunque costituito dal tema del capitalismo familiare, dei suoi problemi e delle sue prospettive. In effetti il tessuto produttivo dell’Italia, e per molti versi anche dell’Europa, è costituito in massima parte da piccole e piccolissime imprese, le quali costituiscono una forma di imprenditorialità al contempo molto diffusa e di grande valore economico e culturale e possono a ben ragione essere considerate la principale forza propulsiva dell’innovazione imprenditoriale, dell’occupazione ed anche dell’integrazione sociale. La maggior parte di queste piccole attività imprenditoriali è poi caratterizzata dalla sostanziale coincidenza che in esse si realizza tra proprietà e controllo, nel senso che una medesima famiglia è al contempo coinvolta direttamente in maniera significativa nella gestione e detentrice di una rilevante quota di proprietà. I dati confermano che questa peculiare tipologia di gestione, controllo e proprietà delle attività di produzione rappresenta un fenomeno con una diffusione assolutamente rilevante a livello mondiale e ancor più marcata nel nostro Paese. Sebbene in linea di principio non sia del tutto esatto identificare la ridotta dimensione con la caratteristica familiare (perché è ben vero che esistono piccole imprese che non sono a carattere familiare e, d’altra parte, non tutte le imprese a carattere familiare sono di ridotte dimensioni), tuttavia è però certamente vero che la quasi totalità delle imprese piccole e delle micro-imprese ha un carattere fortemente familiare sia per quanto concerne la proprietà sia per quanto attiene la gestione delle attività. Il quadro europeo • Vediamo alcuni dati. Per quanto attiene all’Europa intera, secondo i dati EUROSTAT 2002 (si veda anche la Fig. 1), le micro-imprese (quelle con meno di 84 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giovanni Marseguerra Figura 1 - Indicatori imprese UE-15, Anno 2000 (Fonte: Eurostat, 2002) 10 dipendenti) rappresentano l’89,1% del totale delle imprese dell’Unione europea, forniscono il 27,8% dell’occupazione totale ed il 20,8% del valore aggiunto, mentre gli analoghi dati per le piccole imprese (quelle con meno di 50 dipendenti) sono il 9,1% (del totale delle imprese), 21,9% (dell’occupazione totale) ed il 19,9% (del valore aggiunto). Dunque, in aggregato, le micro e piccole imprese costituiscono a livello europeo quasi il 100% (esattamente il 98,2%) delle imprese, quasi il 50% (esattamente il 49,7%) dell’occupazione totale e più del 40% (esattamente il 40,7%) del valore aggiunto totale. Questi dati da soli sono sufficienti a dimostrare la validità delle precedenti affermazioni sulla rilevanza, a livello europeo, delle imprese a dimensione più ridotta. Il quadro italiano • Per quanto attiene poi più specificatamente all’Italia, i dati ISTAT 2004 confermano come nel nostro Paese, nel 2002, delle oltre 4,2 milioni di imprese attive nell’industria e dei servizi (con una occupazione totale di quasi 16 milioni di addetti), ben il 95 per cento abbia meno di dieci addetti e come questa classe dimensionale abbia un peso in termini di occupazione pari al 47 per cento (si veda la Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 85 Giovanni Marseguerra Fig. 2), contro, ad esempio, il 21 per cento in Germania, il 22 per cento in Francia e il 27 per cento nel Regno Unito. A conferma del fatto che il sistema produttivo del nostro Paese resta caratterizzato dalla prevalenza della micro e piccola impresa, il numero di addetti per impresa è pari circa a 3,8, un numero di gran lunga inferiore a quello delle altri grandi economie industriali. In termini di confronto con gli altri Paesi europei, la dimensione delle imprese italiane dell’industria e dei servizi è in media pari a circa il 60 per cento di quella degli altri Paesi dell’Unione. Sembra lecito nutrire qualche perplessità su una siffatta struttura del sistema produttivo se è vero, come sembrano indicare gli ormai numerosi studi in materia, che lo sviluppo della produttività dipende in maniera critica dalla dimensione dell’impresa: il punto è che, da un lato, l’innovazione richiede investimenti cospicui a cui difficilmente possono far fronte imprese di ridotta dimensione (e questo è vero specialmente nei settori a più alto contenuto tecnologico, dove la grande dimensione assume un rilievo spesso determinante), e dall’altro in taluni settori industriali sono presenti rendimenti di scala crescenti che comportano una perdita di efficienza là dove la dimensione dell’impresa è troppo ridotta . Figura 2 - Distribuzione dell’occupazione per classi di addetti - Italia, Anno 2002 (Fonte: ISTAT, 2004) Il ruolo della politica • Ma quale è l’esatta diffusione del capitalismo familiare, nel mondo in generale e in Italia in particolare? Non esiste invero una definizione di impresa familiare che sia al contempo sufficientemente precisa da poter essere utilizzata nell’analisi empirica e universalmente accettata così da permettere confronti tra diversi campioni di imprese. Ad esempio, in Corbetta (1995) si definisce familiare quell’im- 86 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giovanni Marseguerra presa in cui una o poche famiglie, collegate da vincoli di parentela, di affinità o da solide alleanze, detengano una quota di capitale di rischio sufficiente ad assicurare il controllo dell’impresa stessa, anche quando tale controllo venga esercitato in presenza di amministratori e/o manager esterni alla famiglia (ma di loro fiducia), fino ad includere il caso in cui nessun membro delle famiglie controllanti sia impegnato nella gestione dell’impresa (Corbetta, 1995, pp. 20-21). È evidente come, anche attenendosi a questa definizione, in cui non viene specificata la misura del coinvolgimento della famiglia nella gestione né viene indicata la consistenza della quota di possesso, non sia facile, senza ulteriori specificazioni, valutare con precisione la dimensione della diffusione del capitalismo familiare. D’altro canto ogni ulteriore indicazione sui limiti da imporre alla proprietà e/o alla gestione di una famiglia per classificare un’impresa come appartenente al capitalismo familiare rischia di essere, se non altro, arbitraria e dunque più difficilmente condivisibile. Quello che si può certamente dire è che il mondo delle imprese familiari comprende una ampia varietà di aziende con modelli di struttura proprietaria, di governance e di gestione tra loro assai diversi e, qualunque sia il criterio adottato per definirlo, il capitalismo familiare rappresenta un fenomeno con una diffusione assolutamente rimarchevole a livello mondiale. Secondo le cifre fornite dall’organizzazione internazionale Family Firm Institute (FFI), appartengono al capitalismo familiare tra l’80 ed il 90 per cento delle attività imprenditoriali del Nord America e circa il 75 per cento di quelle del Regno Unito. Secondo i dati riportati da alcuni autori (Caselli e Gennaioli, 2003), due terzi delle imprese piccolo e medio piccole tedesche sarebbero gestite dai proprietari mentre la proporzione di imprese possedute o gestite da famiglie nel mondo sarebbe tra il 65 e l’80 per cento circa. Il capitalismo familiare inoltre sarebbe responsabile di circa il 70 per cento delle vendite totali e dei profitti complessivi delle 250 più grandi imprese private Indiane e le 15 più importanti e facoltose famiglie controllerebbero più del 60 per cento delle attività corporate quotate in Indonesia, tra il 50 e il 60 per cento nelle Filippine e in Tailandia, più del 30 per cento in Sud Korea e Hong Kong, e più del 20 per cento a Singapore, nella Malesia e a Taiwan. In Italia il fenomeno del capitalismo familiare è probabilmente ancor più rilevante che negli altri Paesi sviluppati, e questo non sorprende anche perché, come abbiamo visto, da noi la percentuale di micro e piccole imprese è particolarmente elevata ed è dunque ragionevole, in un tale contesto, che la capacità manageriale di una famiglia sia adeguata alle circostanze e che gli investimenti (necessariamente limitati) possano essere affrontati rimanendo nel nucleo familiare. Alcuni profili economici del capitalismo familiare • Esaminiamo ora quali siano, dal punto di vista della teoria economica, le principali caratteristiche, e di conseguenza i principali punti di forza e di debolez- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 87 Giovanni Marseguerra za, del capitalismo familiare (Marseguerra, 2004). Nelle piccole imprese di famiglia coesistono la forma dimensionale ridotta e il carattere familiare della proprietà e del controllo, e se evidentemente ciascuna di queste due caratteristiche comporta vantaggi e svantaggi specifici, è tuttavia l’interazione delle due a creare una specificità economica del tutto peculiare. I vantaggi e gli svantaggi della piccola dimensione sono ben noti: da un lato abbiamo la flessibilità organizzativa (con scambi interpersonali diretti, frequenti e informali), la flessibilità produttiva (possibilità di offrire prodotti personalizzati e di adeguare rapidamente l’offerta alla domanda), lo stretto legame con il tessuto locale (che comporta la conoscenza approfondita del mercato di riferimento e la possibilità di uno stretto contatto con i clienti); dall’altro vi è però la scarsità di risorse umane qualificate (che comporta una generale debolezza degli aspetti gestionali), la debolezza finanziaria (che comporta una generale difficoltà nel reperire risorse per gli investimenti e dunque, ad esempio, una scarsa propensione ad avviare attività di ricerca e sviluppo). Per quanto poi attiene al carattere familiare dell’attività, come appare evidente, il principale punto di forza del capitalismo familiare è costituito dalla sostanziale coincidenza che in esso si realizza tra la proprietà e la gestione, tra il proprietario ed il manager. Non essendoci una situazione di delega da parte di chi detiene i diritti di proprietà nei confronti di chi deve gestire gli asset societari, si evita che la gestione possa non essere in linea con gli interessi della proprietà e vengono così fondamentalmente a mancare tutte quelle situazioni di conflitto di interesse che si verificano invece nella grande impresa a proprietà diffusa e che comportano, per l’impresa stessa, la sopportazione di alti costi. A dire il vero, che un’impresa funzioni meglio se chi ha il compito di gestirla ne detiene anche la proprietà può sembrare fin troppo ovvio. Tuttavia, quello che è sicuramente un vantaggio per lo sviluppo dell’impresa nella prima fase della sua crescita può invece rivelarsi un grosso limite nelle fasi successive. Il punto è che per competere sui mercati globali le imprese devono poter trattare la dimensione come una variabile strategica, e dunque essere in grado, all’occorrenza, di espandere l’azienda in risposta alle mutate circostanze esterne. Devono cioè poter aggiustare la dimensione alle mutevoli circostanze in cui si trovano ad operare, scegliendo periodicamente la dimensione più appropriata alla situazione competitiva corrente. Tuttavia, per poter crescere, è necessario saperlo fare. Vi sono, a questo riguardo, essenzialmente tre problemi che le piccole imprese a carattere familiare si trovano a dover affrontare nel loro processo di crescita. In tutti e tre i casi si tratta di problemi di scarsità. Vi è innanzitutto la scarsità di risorse umane, da intendersi non solo in riferimento al limitato numero di addetti ed alla loro generalmente limitata qualificazione, ma anche per quanto attiene alla difficoltà ad attrarre personale qualificato da inserire in azienda. Vi è poi la scarsità di risorse finanziarie, anche qui in riferimento sia alle limitate disponibilità interne per gli investimenti sia per quanto attiene alla difficoltà a raccoglier capitale esterno, di debito o di rischio. 88 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giovanni Marseguerra Vi è infine probabilmente la scarsità più importante, vale a dire quella di cultura di impresa, in riferimento sia pure in diversa misura, all’imprenditore, al dirigente e all’operaio. Esaminiamo brevemente in successione queste tre grandi scarsità della piccola impresa familiare. La scarsità di risorse umane è una conseguenza diretta dello scarso sviluppo della struttura organizzativa interna che da un lato conduce ad una ridotta capacità di attrazione delle figure professionalmente più qualificate e dall’altro porta ad una forte difficoltà a mantenere nell’impresa queste stesse figure, quando queste siano presenti, in conseguenza delle ridotte possibilità di crescita personale offerte da un ambiente ristretto anche culturalmente. La scarsità di capacità gestionali si manifesta tipicamente al momento della successione nella conduzione aziendale. In questa fase della vita di un’azienda, infatti, non solo la proprietà dell’asset passa da una generazione alla successiva ma anche la gestione dello stesso passa da una generazione alla successiva, e si ha dunque quello che possiamo chiamare il fenomeno della trasmissione intergenerazionale delle responsabilità manageriali. Ma l’identificazione tra proprietà e management implica necessariamente una forma di inefficienza (Caselli e Gennaioli, 2003), a meno che la distribuzione delle capacità gestionali non coincida esattamente con quella delle proprietà (il che appare abbastanza inverosimile). In presenza di eredi con scarsa attitudine imprenditoriale oppure in contrasto tra loro, si corre il rischio concreto che quanto è stato realizzato dal fondatore sia rapidamente dissipato da successori non all’altezza del compito. Potrebbe in questo soccorrerci la saggezza, molto pragmatica, degli americani in forza della quale se è vero che agli eredi del fondatore va assicurato il patrimonio finanziario e la possibilità di gestirlo, è però anche vero che non può esistere un diritto ereditario alla successione manageriale (l’esempio spesso citato è quello del figlio di un chirurgo che, soltanto per diritto di nascita, dovrebbe essere in grado di operare). Risorse umane e sviluppo dell’impresa • La scarsità di risorse umane è però una difficoltà strutturale del piccolo capitalismo familiare che è poi strettamente connesso alla terza scarsità sopra menzionata, quella culturale. L’accentramento delle funzioni di direzione e controllo in una stessa persona, l’imprenditore fondatore, o in un ridotto nucleo di persone (i familiari del fondatore), conseguenza del carattere familiare dell’impresa, comporta quasi inevitabilmente una forte de-responsabilizzazione delle altre figure presenti in azienda, in primo luogo quelle dirigenziali. Il problema culturale, consiste, in estrema sintesi, nella difficoltà che incontra l’imprenditore nel separare l’azienda da se stesso e dalla propria famiglia: questa difficoltà si manifesta sia nella riluttanza a perdere porzioni di controllo e di gestione, sia nella poca disponibilità a far Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 89 Giovanni Marseguerra crescere i propri dipendenti. Si può allora ragionevolmente sostenere che, in conseguenza della scarsità di cultura imprenditoriale che spesso caratterizza la piccola impresa familiare, la forma organizzativa caratteristica del capitalismo familiare comporta che il dirigente-manager esterno alla famiglia tenda tipicamente a diventare più un esecutore della volontà del fondatore-proprietario (o dei suoi eredi) che un soggetto dotato di propria autonomia e responsabilità. Si genera così un circolo vizioso in cui, da un lato, l’impresa non riesce a cogliere le opportunità di crescita per insufficienza di competenze, professionalità e motivazioni e, dall’altro, non crescendo, comprime sempre più le professionalità che sono invece presenti, demotivando al contempo i più intraprendenti. E allora si vede bene come il fenomeno tristemente noto della fortissima mortalità delle piccole imprese può essere spiegato anche facendo ricorso a questo perverso meccanismo di selezione avversa. Le nuove figure dell’impresa familiare • Alla luce delle precedenti osservazioni si pone per la piccola impresa familiare il problema di riuscire a costruire una nuova figura (di dirigente, di quadro o anche solo di operaio) che abbia le capacità e le competenze adeguate alle nuove sfide competitive della rivoluzione tecnologica. Vi è una crescente esigenza di nuove competenze manageriali e professionali che, come abbiamo visto, spesso non esistono rimanendo all’interno del nucleo familiare. Questo sta comportando l’attivazione di un processo non semplice, ancora in una fase preliminare, di cooptazione dall’esterno di dirigenti, responsabili, e collaboratori i quali, per poter operare efficacemente, richiedono discrezionalità ed autonomia. Comincia così ad avviarsi un processo graduale di separazione tra proprietà e management e di nuova “divisione del lavoro manageriale” anche nelle piccole e piccolissime imprese che presenta specificità e peculiarità proprie. Ad esempio, in forza di questo processo di apertura dell’impresa familiare, la legittimazione a ricoprire cariche direttive dovrebbe sempre più tendere a basarsi sul possesso effettivo di capacità e competenze (i soli legami familiari non devono più, da soli, essere sufficienti). Un fenomeno analogo sta interessando il cosiddetto “middle management” (cioè i quadri intermedi, i tecnici, ecc.) manifestandosi nella domanda, da parte di queste figure professionali, di una crescente autonomia e di un più marcato riconoscimento di ruolo. Man mano che l’impresa si espande, e da piccola cerca di acquisire una dimensione più appropriata al contesto competitivo, non sono solo le ridotte capacità gestionali a mettere seriamente in difficoltà un processo di crescita comunque non facile. Vi sono anche i ridotti mezzi finanziari. Se il patrimonio della famiglia non è più sufficiente a finanziare la crescita, le strade che si presentano sono essenzialmente due. Gli investimenti necessari che non possono essere più finanziati con i mezzi propri, lo potranno essere ricorrendo al capitale di debito oppure al capitale 90 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giovanni Marseguerra di rischio. E tuttavia, ricorrere al finanziamento esterno non è senza conseguenze per l’attività dell’impresa: qualunque sia la soluzione adottata infatti, la separazione tra la figura del finanziatore e quella del finanziato genera un conflitto di interesse (tra manager ed azionisti oppure tra manager, creditori ed azionisti). Poiché i conflitti di interesse generano sempre dei costi per l’impresa nel suo complesso, con il ricorso al finanziamento esterno si viene a perdere uno dei principali vantaggi dell’impresa familiare. La specificità italiana • Quale è, in questo quadro, la specificità italiana? Anche nel nostro Paese, la difficoltà a reperire risorse finanziarie ha rappresentato (e tuttora rappresenta) uno degli ostacoli maggiori alla crescita delle imprese. Il punto è che il finanziamento degli investimenti continua a basarsi quasi esclusivamente sulle risorse generate internamente oppure sui prestiti bancari, e le imprese si sono sempre avvalse in misura alquanto ridotta della possibilità di reperire autonomamente sul mercato i capitali necessari a finanziare gli investimenti. Questa caratteristica delle fonti di finanziamento in Italia ha rappresentato, e in parte ancora rappresenta, una significativa differenza rispetto a quanto avviene in molti altri Paesi e, in particolare, in quelli del sistema anglo-sassone (Marseguerra, 2000). Questo stato di cose ha effetti perversi sullo sviluppo delle attività imprenditoriali. Infatti le imprese, da un lato, si trovano a dover fronteggiare (per una pluralità di motivi) una grave erosione della loro capacità di autofinanziamento e, dall’altro, sono le prime vittime della scarsa cultura imprenditoriale degli intermediari finanziari che tendono a valutare l’affidabilità di un’azienda quasi esclusivamente in funzione delle sue disponibilità patrimoniali (con assai poca considerazione delle reali opportunità imprenditoriali). Un maggiore indebitamento inoltre comporta accresciuti oneri finanziari, riducendo così il livello degli utili e imponendo forti limiti alle attività di ricerca. Tutto ciò rischia di impedire alle nostre imprese di cogliere importanti opportunità di crescita e di sviluppo. Le fonti finanziarie • Se poi si considera la difficoltà nel reperimento delle fonti finanziarie non nell’ottica della singola impresa ma in quella più generale dell’insieme delle piccole imprese, allora è il sistema economico intero che può incontrare gravi difficoltà nella crescita e nello sviluppo. In altri termini, i tratti essenziali di un modello vincente possono trasformarsi in un ostacolo alla crescita per il Paese intero. La situazione attuale dell’Italia, con un forte rallentamento della crescita negli ultimi de- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 91 Giovanni Marseguerra cenni, può forse essere spiegata, tra le altre cose, anche dalla particolare fase evolutiva in cui si trovano le imprese del suo capitalismo familiare, incapaci di superare quella che può essere definita una soglia critica dello sviluppo, determinata dalle limitate capacità gestionali e dalle ridotte risorse finanziarie delle famiglie proprietarie. Bisogna comunque ricordare, anche alla luce del recente sviluppo del mercato dei capitali che si è avuto nel nostro Paese, in parte in conseguenza della maggiore attenzione ai diritti degli azionisti di minoranza, che le possibilità di crescita per le piccole imprese sono oggi di molto aumentate. E tuttavia il fenomeno della sottocapitalizzazione è ancora un problema rilevante e non risolto del sistema produttivo italiano. Congiuntura e PIL • Dal punto di vista congiunturale poi, l’Italia si trova certamente in una situazione molto difficile. Tutti i dati, per quanto imprecisi e indicativi possano essere, lo confermano. Prendiamo soltanto i dati sul PIL degli ultimi due anni: nel 2003 il nostro Paese è cresciuto appena dello 0,3% a fronte di una media europea dello 0,5% (e del 2,5% della Spagna), di una crescita americana del 3,5% e cinese del 9,3%. Gli stessi dati riferiti al 2004 ci dicono che l’Italia è cresciuta de 1,2% a fronte di una media europea dello 2% (e del 2,7% della Spagna), di una crescita degli Usa del 4,4% e della Cina del 9,5%. Le recenti stime e previsioni del Fondo Monetario Internazionale per il 2005 e il 2006 non fanno poi ben sperare per il futuro, visto che si prevede che la nostra crescita resterà significativamente sotto la media europea e ben sotto la crescita americana. Dunque se è vero che tutta l’area UE ha avuto (e probabilmente continuerà ad avere anche nei prossimi anni) un ritmo di crescita assai rallentato rispetto a quello Usa ed internazionale, è però anche vero che noi siamo andati (e probabilmente continueremo ad andare anche nei prossimi anni) meno bene della media europea. A preoccupare ci sono poi i dati sulla finanza pubblica, la perdita di competitività espressa dalla bilancia commerciale, le difficoltà della FIAT, la crisi dell’Alitalia, e si potrebbe continuare. Un quadro dunque poco incoraggiante. I problemi della competitività • Si pongono per l’Italia due problemi di competitività: quello della competitività del sistema-Paese, e quello della competitività delle nostre imprese. Secondo il recente Global Competitiveness Report 2003-2004 elaborato dal World Economic Forum, l’Italia ha subito nel 2002 un deciso calo di competitività rispetto ai 74 Paesi considerati dalla ricerca, scendendo nella graduatoria in un solo anno dal 92 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giovanni Marseguerra ventiseiesimo al trentanovesimo posto. Se si guardano i dati in maggior dettaglio si scopre che, mentre siamo scesi al trentanovesimo posto per quanto riguarda il livello di competitività come sistema Paese, occupiamo invece il ventiquattresimo posto come sistema delle imprese (rispetto al ventitreesimo del 2001) e il diciottesimo (rispetto al diciannovesimo del 2001) quando si prendano in considerazione in via ancora più specifica direttamente le strategie e le prassi operative delle imprese. Questi dati segnalano come esista in Italia un forte divario tra il sistema Paese nel suo complesso e il sistema delle imprese. Prima di esaminare più diffusamente il problema della competitività delle nostre aziende, consideriamo brevemente i nostri problemi strutturali. Per quanto attiene a questi, le nostre debolezze vanno ricercate nelle infrastrutture (materiali e immateriali), nell’energia (ricordiamo l’abbandono del nucleare, che fu un errore gravissimo visto anche che importiamo energia nucleare da Paesi a noi confinanti), nella Pubblica Amministrazione, nella distribuzione, nella formazione, nel deficit di ricerca scientifica e tecnologica, nell’incapacità ad attrarre capitali esteri, nel ritardo del Mezzogiorno, nel fisco oneroso e iniquo; e si potrebbe proseguire a lungo. Tutte queste debolezze comportano aumenti nei costi di produzione, fanno crescere l’inflazione, alimentano rendite. Una volta queste inefficienze venivano superate dalle svalutazioni impropriamente definite competitive, che adesso sono fortunatamente finite con grande vantaggio per il nostro debito pubblico e per l’abbassamento dei tassi di interesse. Ma alle stesse non è stata sostituita una politica di innovazione sistemica, i governi si susseguono ed i problemi rimangono (e le graduatorie internazionali sono lì a confermarlo). La questione è dunque quella di comprendere se il calo di competitività che stiamo vivendo rientra in un generale declino del nostro sistema industriale (o prelude ad un prossimo declino) a favore di altri paesi oppure se questi ranking internazionali di competitività, così negativi per noi, non possono invece costituire lo stimolo per modificare in positivo la situazione. Le prospettive di sviluppo • La situazione di difficoltà in cui si trova il nostro sistema produttivo che, come abbiamo visto, configura una specifica emergenza italiana in una più generale difficoltà europea, impone una riflessione più approfondita con un riferimento specifico al problema dello sviluppo delle nostre imprese. Questo nella convinzione che, se è vero che dalle difficoltà dovute all’inefficienza infrastrutturale del nostro Paese, acuite dall’aggressività competitiva dei Paesi emergenti, si potrà uscire solamente con accordi economico-finanziari di lungo respiro tra le parti sociali per progettare ed agire in modo innovativo, è però anche vero che potremo avere successo solo se ognuno degli attori farà la sua parte. Imprese per prime. In base all’analisi economica svolta, si è visto come nel medio-lungo periodo sia necessaria una crescita dimensionale delle nostre imprese che permetta di po- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 93 Giovanni Marseguerra tenziare gli indiscutibili fattori di qualità che esse oggi, nonostante tutto, esprimono con straordinaria vitalità. Nell’attuale contesto fortemente competitivo l’espansione dell’impresa, da intendersi in termini di crescita del fatturato, del capitale investito ed anche del numero di addetti, è ormai una necessità ineludibile. Si pensi solo alla necessità di sfruttare le economie di scala e di scopo in conseguenza della forte competizione sui costi, oppure all’esigenza di competere su mercati sempre più internazionalizzati. Ebbene, coerentemente con l’impostazione di metodo e di valore del nostro approccio e facendo riferimento all’impresa come comunità di uomini, il principio che a nostro avviso, se correttamente applicato, può rappresentare la giusta bussola per affrontare una situazione non facile, è quello della sussidiarietà (Quadrio Curzio, 2002), di cui sono ben conosciute le linee fondamentali e che è un principio cardine della Dottrina Sociale della Chiesa in riferimento al modo di essere delle istituzioni della società civile. In estrema sintesi, il nucleo centrale della sussidiarietà è costituito dalla valorizzazione della persona, in particolare della sua dignità, autonomia, libertà e responsabilità. Se si considerano le diverse sfere di autonomia costruttiva, cioè quella personale, quella familiare e quella associativa, potremmo dire che la caratteristica principale della sussidiarietà è che la libertà e la responsabilità individuale devono esplicarsi al massimo entro ciascuna di questa diverse sfere. Dunque la corretta applicazione del principio di sussidiarietà porta alla costruzione di capacità individuali e collettive, favorendo la maturazione e l’accrescimento delle potenzialità dei singoli e delle comunità di gestire in maniera attiva la propria vita sociale, lavorativa, familiare e politica. La sussidiarietà può poi essere intesa, in un’accezione più generale ma anche con precisi contenuti operativi, come un principio metodologico di fondamentale importanza ed utilità pratica nella gestione della complessità: se si pensa infatti al problema enorme delle interazioni che si realizzano tra le varie componenti di ogni sistema complesso, nel principio di sussidiarietà si possono trovare le più corrette chiavi di interpretazione di queste reciproche relazioni, vale a dire quelle che garantiscono autonomia e coesione tra le parti attraverso flessibilità e responsabilità. La spinta della sussidiarietà • Ma in che modo la sussidiarietà può concretamente aiutare le piccole imprese del capitalismo familiare nel loro indispensabile percorso di crescita? In un contesto come quello attuale, caratterizzato da una competizione aggressiva e da una dinamica di rapidi cambiamenti, far crescere un’impresa significa permetterle di avere continuità, ovvero permettere che l’impresa stessa si sviluppi “come comunità di uomini”. Ciascuna delle tre grandi scarsità che caratterizzano la piccola impresa familiare (di risorse umane, di risorse finanziarie e di quella particolare risorsa che abbiamo chiamato cultura di impresa) può essere efficacemente affrontata facendo ricorso al principio di sussidiarietà. 94 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giovanni Marseguerra Per quanto attiene alle risorse umane, l’analisi svolta ha mostrato come si ponga per la piccola impresa familiare il problema di riuscire a costruire una nuova figura (di dirigente, di quadro o anche solo di operaio) che abbia le capacità e le competenze adeguate alle nuove sfide competitive della rivoluzione tecnologica. Le economie in generale esprimono un fabbisogno crescente di capitale umano, e le piccole imprese familiari in particolare richiedono risorse umane sempre più qualificate e più formate. Se infatti è importante che sia elevato il livello complessivo delle conoscenze e delle competenze, è però fondamentale che queste siano in grado di evolversi adattandosi alle continue trasformazioni in atto. In un’ottica di lungo periodo, risulta indispensabile innalzare il livello medio dell’istruzione attraverso una opportuna valorizzazione del sistema scolastico ed universitario. Tutto ciò richiede però tempo perché i vantaggi di queste politiche si vedono con il passaggio di generazioni successive di giovani sempre più formati. Accanto dunque a queste iniziative di ampio respiro, è necessario procedere anche in un’ottica di più breve periodo e, a questo riguardo, si impone la necessità che l’apprendimento accompagni tutta la vita delle persone, e non si esaurisca con la fase che è tipicamente dedicata all’istruzione. In questa ottica, assume assoluto rilievo la formazione continua dei lavoratori già occupati ed anzi, idealmente, l’istruzione e la formazione professionale degli adulti non dovrebbero presentare soluzioni di continuità, così da permettere di soddisfare in modo integrato le richieste del sistema economico e della società in generale. Dunque per valorizzare le risorse umane e le professionalità, e per responsabilizzare le figure dirigenziali, diventa essenziale l’investimento in formazione, che è lo strumento principe per la gestione delle risorse umane, ma che è anche il mezzo essenziale per promuovere la vera sussidiarietà. Questa impostazione metodologica ha inoltre il merito di porre al centro dell’analisi l’individuo, la persona, con i suoi diritti ed i suoi doveri (nel caso specifico, di apprendimento). In altri termini, quando si esamini in modo organico il processo di istruzione e formazione, ovvero di apprendimento, è la responsabilità personale che viene ad assumere il ruolo principale, ed emerge allora chiaramente come solo attraverso il principio di sussidiarietà si possa ottenere una vera valorizzazione dell’individuo. Inoltre, questo tipo di approccio, in cui la formazione degli adulti non è più residuale ma centrale, accanto all’accrescimento personale ed al perfezionamento professionale, conduce anche, a livello macro, ad una maggiore coesione sociale ed ad una più sentita partecipazione alla vita sociale. La cultura imprenditoriale • Vediamo infine brevemente come anche le altre due grandi scarsità della piccola impresa familiare, quella delle risorse finanziarie e quella della cultura Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 95 Giovanni Marseguerra imprenditoriale, possano essere affrontate facendo ricorso agli strumenti della sussidiarietà. Per quanto attiene alla finanza, osserviamo solamente come il problema consista essenzialmente nella accentuata prudenza, se non diffidenza, del sistema bancario e creditizio, soprattutto delle banche più grandi, nello spirito di intrapresa dei piccoli imprenditori del capitalismo familiare. Se per la scarsità delle risorse umane lo strumento essenziale della sussidiarietà è quello della formazione, nel caso della scarsità di risorse finanziarie lo strumento essenziale è quello del modello cooperativo per l’attività bancaria. La conoscenza del territorio, la vicinanza agli operatori economici, il radicamento nei mercati locali, l’inclinazione ad instaurare relazioni di lungo periodo, sono tutti tratti caratteristici del modello cooperativo dell’attività creditizia che costituiscono un fattore di vantaggio competitivo e che consentono di ridurre drasticamente i costi derivanti dalla valutazione del merito di credito permettendo in tal modo l’accesso ai finanziamenti bancari da parte di categorie di clientela che altrimenti ne resterebbero escluse. Per quanto attiene infine alla scarsità di cultura imprenditoriale, lo strumento essenziale della sussidiarietà è rappresentato dall’associazionismo che, nelle sue varie forme, rappresenta la strada per consentire alle piccole imprese di esprimere tutte le loro potenzialità. Attraverso le associazioni imprenditoriali, ad esempio, le imprese imparano a ragionare in un’ottica di sistema per sfruttare al meglio le economie di agglomerazione. Per mezzo di politiche orizzontali dirette ai sistemi locali, si possono ottenere miglioramenti di competitività, non della singola impresa, ma di tutto il sistema. Una micro-impresa inserita in un sistema di imprese ha maggiori possibilità di innovare, esportare e consolidare i propri risultati imprenditoriali. Conclusioni • La nostra analisi si propone come un primo passo verso lo sviluppo di una teoria delle piccole imprese del capitalismo familiare basata sulla sussidiarietà ed ha portato alla individuazione dei precisi strumenti di policy attraverso i quali questo principio può trovare concreta attuazione. Che poi sulla sussidiarietà possa essere costruita buona parte della teoria economica, non è opinione nuova. Basti qui ricordare cosa scriveva, quasi centocinquanta anni fa il grande economista John Stuart Mill nel celeberrimo saggio On Liberty (1859): «Il male comincia, quando il Governo, in cambio di incoraggiare l’azione degli individui e dei corpi collettivi, sostituisce la sua propria alla loro attività; quando invece di istruirli, di consigliarli o, all’occorrenza, di denunciarli davanti ai tribunali, li lascia in disparte, ne inceppa la libertà, o fa per essi i loro affari » (J.S. Mill, Della libertà, Sansoni, Firenze 1974, p. 156). Solo dunque se si saprà promuovere la vera sussidiarietà si potrà permettere 96 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Giovanni Marseguerra al capitalismo familiare di continuare ad essere motore dello sviluppo e della crescita del nostro Paese e dell’Europa intera, consentendo altresì all’Italia di diventare davvero europea. Riferimenti bibliografici CASELLI, F., e GENNAIOLI, N., 2003, “Dynastic Management”, CEPR Discussion Paper No. 3767. CORBETTA, G., 1995, Le imprese familiari: Caratteri originali, varietà e condizioni di sviluppo, Egea, Milano. MARSEGUERRA, G., 2000, “Governo delle Imprese e Mercati Finanziari: il Ruolo degli Investitori Istituzionali”, «il Risparmio», n.1, Anno XLVIII, pp. 1-21. MARSEGUERRA, G., 2004, “Le sfide del capitalismo familiare”, «L’Impresa», n. 4, Giugno-Luglio, 2004, pp. 26-34. QUADRIO CURZIO, A., 2002, Sussidiarietà e Sviluppo. Paradigmi per l’Europa e per l’Italia, Vita e Pensiero, Milano. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 97 Debolezza dell’economia o crisi del suo governo? “Esiste una (…) serie di passioni le quali, nonostante derivino dall’immaginazione, devono sempre essere attenuate rispetto al livello a cui le innalzerebbe la natura indisciplinata, e questo prima che noi possiamo prendervi parte o considerarle gentili o adeguate. Tali passioni sono l’odio e il risentimento, con tutte le loro diverse modificazioni. Riguardo a tutte queste passioni, la nostra simpatia si divide tra la persona che le prova e quella che ne è oggetto. Gli interessi di queste due persone sono direttamente opposti. Il nostro sentimento di partecipazione per l’una ci fa temere quel che la nostra simpatia per l’altra ci porterebbe a desiderare”. (A. Smith, La teoria delle passioni, Parte I, Cap. III, 1). Le nostre passioni e la condizione dell’economia • Si è voluto iniziare questa breve riflessione sulle vicende economiche del nostro Paese con la citazione di un notissimo passo di una delle più intelligenti opere di uno dei padri fondatori dell’economia moderna, perché involontariamente, ma significativamente bene allude alla condizione sociale e subito dopo politica della nostra Italia. Mentre tutti si dicono ossequiosi nei confronti degli autorevolissimi richiami all’unità e alla solidarietà della massima magistratura dello Stato, altrettanti, subito dopo, sembrano dimenticare quei moniti, attribuendo all’altro una volontà negativa e promuovendo un desiderio di contrapposizione che sa molto di furbizia egoistica pronta a strumentalizzare la inconsapevolezza dei più. E in queste spesso fittizie contrapposizioni si finisce non solo per perdere il senso dell’interesse generale, ma anche per alimentare un disorientamento che retroagendo sulla situa- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 ANDREA BIXIO Università “La Sapienza” di Roma ≈ “… si può ritenere che oggi non si possa più evitare di dare priorità direttamente alla crescita. Cosa che a ben vedere non significa affatto lassismo rispetto alla spesa pubblica; … vuol dire operare in modo molto deciso sotto l’aspetto della sua riqualificazione” ≈ 99 Andrea Bixio zione contribuisce involontariamente a rafforzare il senso piuttosto di inimicizia che quello, per usare di nuovo la terminologia di Smith, di simpatia. Di modo che la convergenza indubitabile delle analisi sulla crisi italiana, che pure provengono da settori ideologici spesso opposti, non riesce ad esercitare una propria funzione virtuosa nell’individuare obbiettivi condivisibili, ma resta impotente, quando non attonita, di fronte all’emergere di un inconsapevole desiderio del peggio, quando questo fosse imputabile all’altro. Per reagire contro questo stato di cose, dunque, vale la pena richiamare l’attenzione su alcuni punti sui quali vi è un certo accordo e a partire dai quali sia possibile svolgere qualche riflessione problematica, utile per riprendere con animo sereno il filo del discorso. E per dare effetto a questa intenzione, bisogna subito ricordare che una certa convergenza si verifica, quando si vada a guardare le ragioni della crisi partendo un po’ da lontano; quando, cioè, ci si riferisca all’evoluzione dell’economia europea a partire dal secondo conflitto mondiale. Riflettendo su un non lontano passato • Qualora ci si ponga in quest’ottica, non si può evitare di vedere che la crisi viene da lontano e che quella italiana costituisce solo un segmento, con proprie specificità, di un fenomeno più ampio. Come è noto, infatti, i maggiori paesi europei hanno goduto di una crescita ancora certamente alta negli anni sessanta (5,3%); ma questa crescita è venuta sempre più diminuendo nei decenni successivi, fino a raggiungere il 2,2% negli anni ottanta, il 2,1% negli anni novanta e un ulteriore deterioramento nell’ultimo periodo. Il tasso di sviluppo ha seguito dappresso questo andamento anche se in parte un suo indebolimento non doveva meravigliare, dal momento che si era partiti, dopo la seconda guerra mondiale, da condizioni che consentivano ampi margini di veloce espansione economica. Dunque un certo rallentamento della crescita potrebbe anche essere ritenuto in parte fisiologico. Tuttavia è noto che il rallentamento è stata conseguenza anche di una specifica evoluzione della società, ivi compreso il compimento di quello stato sociale che, sorto alla fine dell’ottocento e sviluppato nel primo cinquantennio del secolo successivo, dopo la ricostruzione raggiungeva la propria massima realizzazione. Processo, questo, che portò ad una espansione della spesa pubblica, in particolare della spesa corrente, ad un aumento progressivo della pressione fiscale e ad un rallentamento della attività produttiva dovuto anche alle dinamiche salariali, nonché a cause esogene come la crisi petrolifera. Il rallentamento dello sviluppo insieme all’espansione della spesa pubblica poneva i vari paesi europei di fronte ad una crisi di sistema, che si evidenziava già in 100 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Andrea Bixio tempi per così dire risalenti mediante la crisi fiscale dello Stato. Si ricorderà a tal proposito che già nel 1977 Federico Caffè curò la pubblicazione del noto libro di James O’Connor The Fiscal Crisis of the State del 1973, in cui l’autore riteneva doversi far fronte speditamente alla crisi fiscale, anche se questa di per sé non poteva direttamente essere ascritta all’espansione della spesa sociale. Se si pensa che il volume di Milton Friedman Capitalism and Freedom è del 1962 e che The Affluent Society di John Kennet Galbraith è del 1958, cioè che le posizioni ‘conservatrici’ e quelle liberal erano già ben definite, si può facilmente comprendere di fronte a quali ritardi sociali ci si trovi oggi, pur essendo stata la nostra cultura economica ben consapevole dei termini dei problemi fin da tempi da considerarsi senz’altro remoti. Ma forse tutto ciò non può neppure tanto meravigliare, quando si voglia rileggere un breve passo sempre del libro di O’Connor: «Una miriade di ‘interessi speciali’ – grandi società per azioni, industrie, gruppi commerciali, regionali… – esercitano pressioni sul bilancio, affinché siano effettuati vari tipi di investimenti sociali. (Il sistema politico manipola queste pressioni in modi che devono essere o legittimati o nascosti all’opinione pubblica). Le organizzazioni sindacali e i lavoratori in generale avanzano svariate richieste, relative a consumi sociali di vario genere, mentre i disoccupati e i poveri (insieme con gli uomini d’affari che versano in difficoltà finanziarie) esigono un aumento delle spese sociali. Ben poche di queste rivendicazioni sono coordinate dal mercato; quasi tutte sono manipolate dal sistema politico, e in definitiva vengono accolte o respinte a seconda dell’esito di una lotta politica. Proprio perché l’accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali avviene in una cornice politica, si hanno in grande quantità sprechi, duplicazioni e sovrapposizioni nei progetti e nei servizi statali. Alcune richieste sono in conflitto e si elidono l’una con l’altra; altre si contraddicono in una molteplicità di modi. L’accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali è un processo altamente irrazionale sotto l’aspetto della coerenza amministrativa, della stabilità fiscale e di una accumulazione privata potenzialmente redditizia». (Introduzione). Questo stato di cose, come è noto, spinse gli Stati Uniti a mutare la propria politica economica diretta non più a sostenere e sviluppare la domanda, ma a rafforzare l’offerta, riducendo in parte la spesa pubblica e avviando un notevole indebolimento della pressione fiscale, facilitati in tutto ciò dalla possibilità di finanziare il processo anche in deficit. Così, mentre in Europa si proseguiva in una politica classica di sostegno della domanda che inevitabilmente faceva crescere la spesa pubblica e il debito dello Stato, al di là dell’oceano grazie ad un riavvio della concorrenza ed alla modernizzazione dell’apparato produttivo, si recuperava in competitività e si tornava a rilevanti tassi di sviluppo. Per converso in Europa si passava nel breve volgere di sei anni da un avanzo contenuto ad un notevole disavanzo che nel 1975 era già del 4,3%. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 101 Andrea Bixio Una divaricazione delle politiche economiche • Come mai una tale divaricazione della politica economica dei due continenti? O più precisamente come mai una più decisa capacità reattiva degli Stati Uniti? Vi sono certamente delle ragioni legate alla diversa struttura economica, al diverso grado di organizzazione delle classi e di ceti sociali, al differente grado di ‘liberalismo’ presente nei due sistemi. È tuttavia da ricordare anche una diversa collocazione squisitamente politica con diverso grado di responsabilità globale. Per gli Stati Uniti, a differenza che per l’Europa, era in gioco un proprio primato politico che si doveva fondare necessariamente su un primato economico. Se si torna con la memoria a quegli anni, non si può evitare di ricordare che la grande sfida geo-politica si era indirizzata verso la cosiddetta competizione pacifica con una Unione Sovietica uscita da poco dal gelo staliniano. Ora, la base materiale su cui tale competizione si veniva svolgendo era data, con piena consapevolezza degli attori, dalla produttività. Non potendo scontrarsi con le armi, le due massime potenze non potevano affrontarsi che sulla base della competizione economica e alla fine appunto su quella della produttività. Ci si rammenterà anche che in quegli anni l’Unione Sovietica accettava la sfida su un tale terreno, perché godeva ancora di buoni tassi di sviluppo, mentre nel campo avverso si cominciava a parlare di declino americano. Le urgenze della storia e il maggior grado di responsabilità verso di esse, a parer di chi scrive spinsero gli Stati Uniti a prendere coscienza dei propri problemi e ad impostare decise scelte di politica economica per riportare la produttività del sistema a livelli che fossero in grado di sopportare la competizione. La storia degli anni subito seguenti ci mostra come la sfida lanciata dall’Unione Sovietica sulla base della convinzione della superiorità della propria organizzazione produttiva, effettivamente si svolgesse su un simile terreno; anche se il vincitore non fu il sistema che in un certo momento aveva ritenuto di aver le armi migliori, ma fu appunto gli Stati Uniti. Al di sotto della illusoria cortina di ordine autocratico, per parafrasare O’Connor, i vari ceti sociali presenti nel paese del comunismo di Stato da un lato mantenevano alta la spesa pubblica (anche per la struttura giuridica stessa del sistema) accaparrando risorse sulla base di criteri politici e non di efficienza economica, dall’altro lato spingevano lo stesso Stato verso una condizione di crisi fiscale dissimulata appena dal tipo particolare di ordine politico. In fondo quello dell’Unione Sovietica, da questo punto di vista, può essere considerato come un caso limite di un processo che investiva in quei tempi un po’ tutti i paesi. Un caso limite che si è risolto drammaticamente proprio a causa della radicalità e rigidità che caratterizzava quella esperienza. L’Europa, in particolare quella continentale, non aveva le responsabilità geopolitiche del suo partner; inoltre difficilmente avrebbe potuto rinunziare alla forte e 102 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Andrea Bixio rigida espansione dello Stato sociale e della spesa pubblica; perché, grazie a questa, aveva nel secolo ventesimo arrestato l’espansione di una economia collettivista (fondata su una radicale socializzazione e centralizzazione dei mezzi di produzione), legando a sé ceti e classi potenzialmente antagonisti. Dunque, per questi motivi (e naturalmente per molti altri ancora), da un lato non sentiva così urgente la necessità di trasformare repentinamente la propria politica economica, dall’altro lato, come in Italia, aveva difficoltà a farlo nel timore di alterare gli equilibri sociali conseguiti pagando un altissimo prezzo. Dunque, il nostro continente restò per molto tempo legato a politiche tradizionali, di sostegno della domanda, nella convinzione che l’ampliamento della spesa pubblica avrebbe dato un sostegno alla domanda e indirettamente alla attività economica in maniera proporzionalmente maggiore dell’effetto restrittivo causato inevitabilmente dall’aumento della pressione fiscale. Perciò, si proseguì sostanzialmente nella direzione consueta, ritenendo di poter mantenere non solo il livello, ma in fondo la qualità stessa della spesa, e di poter pur tuttavia rilanciare l’attività economica. Cosa che non è priva di senso, a patto, però, che la stessa spesa pubblica venga riqualificata fortemente depurandola delle diseconomie ed indirizzandola in modo da costituire un elemento propulsivo del miglioramento della produttività totale dei fattori. Ma tutto ciò significherebbe far corrispondere ad una prima fase di forte contenimento e riqualificazione della spesa sociale un rilancio di quella per investimenti altrettanto indirizzati all’aumento della produttività del sistema. Cosa più facile da dirsi che da farsi, dal momento che, come si sa, in situazioni di crisi di bilancio la prima cosa che viene tagliata sono appunto gli investimenti. E il nostro Paese? • L’Italia si muove nel contesto europeo appena descritto, secondo politiche di sostegno della domanda che hanno, come è noto, dato luogo ad aumenti notevolissimi della spesa pubblica e soprattutto dei disavanzi e del debito pubblico. I dati sono notissimi, ma qui vanno richiamati sinteticamente al fine di rendere più comprensibile la situazione. L’incidenza della spesa pubblica sul prodotto interno lordo a partire dagli anni settanta si è venuta espandendo, passando da circa un terzo a circa il 58% nel 1993 e divenendo oggi maggiore di tre volte quella del 1970. A questa espansione tuttavia non ha corrisposto una adeguata copertura fiscale, dal momento che per molti anni la dinamica dello sviluppo delle entrate è stata molto inferiore di quella relativa alla crescita delle spese. Nello stesso tempo a causa dell’aumento della spesa in disavanzo (per molto tempo intorno al 10%), il debito pubblico è passato in percentuale sul prodotto interno lordo dal 50% del 1972 al 125% del 1994; per poi ridiscendere, come è noto, lentamente anche a Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 103 Andrea Bixio causa degli impegni di Maastricht, i quali in ogni caso con l’entrata nell’euro giovarono, consentendo una riduzione della spesa per interessi. Tuttavia, all’espansione della spesa pubblica non corrispose affatto una sua virtuosa riqualificazione; cosicché essa non è mai apparsa dirigersi a migliorare la produttività del sistema; piuttosto a moltiplicare le diseconomie, a rilanciare i consumi, nonché indirettamente l’inflazione (sempre superiore alla media europea). Cosicché per molti anni la competitività del sistema è stata recuperata principalmente mediante le periodiche svalutazioni competitive; utili, perché hanno in parte contribuito a rilanciare in particolare le esportazioni e la nostra quota nel commercio mondiale. Questi i dati più grossolani della nostra situazione; rispetto alla quale è possibile condurre un discorso solo introduttivo, senza pretendere di voler chiarire nei suoi molteplici aspetti la condizione di crisi del nostro paese. Tuttavia, va ricordato, prima di passare a porci qualche interrogativo sul nostro futuro, che se per certi versi la politica di sostegno della domanda è stata per molto tempo analoga a quella degli altri grandi paesi dell’Europa continentale, le modalità e i contesti sono stati da noi profondamente differenti. A bassa inflazione, stabilità del valore della moneta, stabilità salariale e difesa del potere di acquisto, performanti risultati della produttività totale e del settore industriale, nonché specializzazione in produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto, ha corrisposto in Italia alta inflazione, instabilità monetaria, aumento nominale dei salari, indebolimento del potere di acquisto, specializzazione in settori tradizionali, declino negli ultimi anni della produttività. Le ragioni di questo diverso tipo di condizione vanno ricercate nella storia economica e nel percorso specifico attraverso il quale il nostro paese si è potuto sviluppare all’interno della divisione internazionale del lavoro; esse hanno condotto ad uno sviluppo della spesa pubblica, l’aumento di valore nominale della quale, grazie al processo inflativo in atto, per molto tempo è stato compensato dalla sua svalutazione. Cosicché l’espansione di quella stessa spesa ha potuto in una certa stagione apparire non anomala, perché appunto compensata. Cosa che, però, paradossalmente ha facilitato di nuovo una espansione della stessa spesa pubblica. Con tutte le sue carenze, tuttavia, il nostro modello, quello appena sopra descritto, ha svolto una funzione positiva; con esso si è riusciti ad un tempo a far fronte a rapidissime e disordinate trasformazioni nella direzione di un mai visto prima sviluppo sociale (che pur premeva sulla spesa pubblica) e a mantenere competitive le merci italiane sul piano nel commercio internazionale. È noto che questo tipo di processo ad un certo punto si è dovuto arrestare per vari motivi: il debito pubblico insostenibile, la riduzione mondiale dell’inflazione che non poteva non essere perseguita anche da noi, pena la perdita di competitività, e che non consentiva più una riduzione del valore reale del debito, un nuovo sistema internazionale fondato sulla stabilità monetaria, la istituzione dell’euro, i limiti di Maastricht… 104 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Andrea Bixio Così si è passati da un risalente periodo in ci si cresceva più dell’Europa ad un più recente momento in cui la tendenza si ritrovava completamente invertita, causata da problemi strutturali nostri, aggravati in parte dal rallentamento dei nostri grandi partners commerciali. E a tutto ciò si è aggiunta la globalizzazione economica dovuta non solo a ragioni economiche consistenti nella volontà di aumentare i volumi del commercio mondiale e la crescita, ma anche politiche. Essendo la globalizzazione stessa per certi versi un ampliamento di quella competizione pacifica fra occidente e oriente che prendendo atto del carattere catastrofico della guerra globale, aveva indirizzato i sistemi verso una competizione operata prevalentemente mediante l’esercizio delle politiche economiche. Ora, in una tale situazione il nostro paese non poteva evitare di ritrovarsi di fronte a gravi difficoltà. Così come l’Unione Sovietica non potendo risolvere come già la Germania nazista i propri problemi mediante la guerra, aveva dovuto affrontare una rude ristrutturazione non solo economica, ma anche dolorosamente sociale, anche l’Italia non potendo esportare i propri problemi mediante l’inflazione e le svalutazioni competitive a causa di vincoli esterni si è trovata ad un certo punto costretta ad una ristrutturazione economica che, se si vuole essere onesti, non ha potuto (e non può) evitare di dover far pagare dei prezzi di carattere sociale, o a danno di un ceto o in danno di un altro; e meglio sarebbe con danno distribuito secondo solidarietà collettiva. In che modo tuttavia operare? • Come è noto, all’inizio della ‘transizione’ italiana la priorità è stata data al risanamento delle finanze pubbliche; anche pagando qualcosa in termini di crescita. Prima il debito pubblico, il disavanzo; poi lo sviluppo. Certo, se si va a vedere i programmi politici, tutti dichiaravano di voler perseguire politiche ad un tempo di risanamento e di sviluppo. Quando però si prende in considerazione il decennio trascorso, si deve constatare che il contenimento del debito è stato in un primo periodo l’obbiettivo senz’altro primario. Obbiettivo centrato solo in parte e solo in senso quantitativo, perché non si è operato a sufficienza nella direzione di una riqualificazione a fondo della spesa pubblica. Cosa che risulta con evidenza, quando si vada a vedere il lento declino della produttività totale; declino accelerato dalla globalizzazione economica. Perciò oggi ci si trova in una situazione particolarmente complicata. Il disavanzo a causa della congiuntura è tornato a crescere, mentre il problema della crescita si fa molto più assillante, non potendo attendere ulteriormente. Dunque si può ritenere che oggi non si possa più evitare di dare priorità direttamente alla crescita. Cosa che a ben vedere non significa affatto lassismo rispetto Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 105 Andrea Bixio alla spesa pubblica; al contrario vuol dire operare (che può essere di diverso segno) in modo molto più deciso sotto l’aspetto della sua riqualificazione. Così, sembra che le opzioni di massima presenti sul tappeto, per semplificare siano due. Procedere speditamente verso politiche di rafforzamento dell’offerta, di congrua riduzione della pressione fiscale (e qui ben vengano le proposte che in questo periodo vengono avanzate al fine di alleggerire l’economia del carico di una parte consistente del debito pubblico), di contenimento, riduzione e soprattutto riqualificazione della spesa pubblica, di liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei capitali, nonché del sistema bancario e del comparto dei servizi, non dimenticando tuttavia di evitare azioni provenienti anche dall’esterno, dirette a operazioni puramente e semplicemente speculative anche nel settore industriale. Oppure continuare a sostenere la domanda con un carico fiscale inalterato, ma allora riqualificare ancora più a fondo la spesa pubblica in modo che questa si dimostri idonea a incidere fortemente sulla produttività totale dei fattori; dunque mantenendo un ruolo attivo dello Stato in una condizione tuttavia che deve evitare le modalità di una lunga e non sempre lusinghiera esperienza del passato. Politica che va comunque accompagnata con le riforme (in parte già oggi avviate) in ordine agli aspetti già indicati a proposito della prima opzione. Politica difficile da portare avanti data l’inefficienza del comparto pubblico e la resistenza di molti gruppi sociali, condizionanti le scelte proprio di coloro che dovrebbero procedere speditamente nella direzione indicata. Una via da intraprendere • Quale di queste due opzioni è maggiormente percorribile dal nostro paese? Questo è senz’altro l’interrogativo decisivo. Perché il problema italiano non è, come si è detto fin dall’inizio di queste considerazioni, quello di individuare i problemi o le politiche economiche da portare avanti, non è in altri termini culturale, ma di altra natura. Il problema riguarda la decisione e la capacità di portarla ad effetto. Subito sopra, esemplificando, sono state individuate due parzialmente differenti opzioni. Ambedue sono plausibili, perché, a ben vedere, costituiscono due differenti modi per raggiungere un medesimo risultato. È possibile intraprendere con decisione l’una o l’altra via? Qui sorgono gravissime difficoltà. Infatti, il nostro paese, mentre in apparenza è polarizzato in due schieramenti, la prevalenza di uno dei quali potrebbe produrre la forza necessaria per poter decidere, nella realtà ha una struttura consociativa profonda, per la quale a privilegi e protezioni di un ceto corrispondono altrettanti privilegi di un altro; corrispondenze che possiamo rilevare anche all’interno di un medesimo gruppo sociale. In questa situazione le spinte all’innovazione sia di un segno che di segno opposto finiscono per elidersi vicendevolmente, non riuscendo ad emergere e a sostanziare la 106 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Andrea Bixio decisione di uno dei due schieramenti. Cosa che spiega le incertezze e le lentezze dei governi sia di destra che di sinistra nell’imboccare una via che astrattamente potrebbe anche essere quella più idonea dal punto di vista della propria ideologia politica. Se è vero che il centrodestra riceve il suo consenso più caratterizzante, ad esempio, dal lavoro autonomo, mentre lo schieramento alternativo da quello dipendente, è anche vero che il secondo tipo di lavoro registra una sua rilevante presenza anche nella prima coalizione e viceversa. Così, quando si tenga presente che piccoli scarti di voti possono ribaltare i risultati elettorali, risulta evidente che si è in ogni caso politicamente condizionati da posizioni che in astratto potrebbero essere estranee alle opzioni del singolo schieramento. Cosa che riguarda molti gruppi sociali fra cui non ultimo quello imprenditoriale. Di qui il liberalismo più proclamato che reale del centro-destra; di qui il ‘socialismo’, di cui paradossalmente si deve parlare con qualche delicatezza nella sinistra proprio a causa della egemonia culturale di gruppi ‘democratici’ non socialisti. La ragione di tutto ciò la si può rinvenire nella storia stessa del nostro paese, il quale per più di cento anni si è venuto sviluppando mediante una forte presenza pubblica, una sorta di capitalismo di stato, con brevi momenti di politiche liberiste. Cosa che ha plasmato la crescita dei ceti sociali non mediante virtuosi rapporti di netto confronto reciproco, ma attraverso forme consociative e corporative di tipo ora democratico, ora, purtroppo come si sa, di tipo autocratico e totalitario. Così, ci si è trovati di fronte ad una società in cui ciascun gruppo era in grado di condizionare l’altro e la totalità del paese. Questo intreccio fra i vari ceti, da un lato ha sottratto la possibilità di istituire una egemonia sociale capace di promuovere e affermare, pur democraticamente e nel rispetto delle minoranze, specifiche scelte strategiche, dall’altro lato ha avuto sempre più bisogno della spesa pubblica e di vari tipi di sostegno statale. Ha condotto, inoltre, ad indebolire la stessa azione dello stato dal momento che quest’ultimo da soggetto attivo e dominante è divenuto sempre più elemento servente le mediazioni fra i ceti sociali. Due contraddizioni • Di qui una prima contraddizione: l’Italia è ancora strutturata in modo tale da aver bisogno di una forte azione sul piano economico da parte dello stato, ma avendo indebolito la capacità propulsiva e innovativa di quest’ultimo, anche e soprattutto nella politica economica e nella riqualificazione della spesa, non trova soccorso più in quell’architrave che ha fortemente contribuito alla modernizzazione del paese. E poi ancora un’altra contraddizione: poiché alla rilevanza dell’azione statale per oltre un secolo ha corrisposto una relativa debolezza del capitalismo privato, nel momento in cui per ragioni geo-economiche e geo-politiche si è dovuto in par- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 107 Andrea Bixio te abbandonare la leva statale, ci si è trovati di fronte ad un’ulteriore causa di debolezza; ad un esiziale indebolimento del capitale privato, il quale ha visto dissolversi grandi gruppi industriali in settori decisivi come l’elettronica, la chimica, l’alimentare, l’informatica… in un momento in cui il sistema globale tornava ad assegnargli un ruolo centrale. Così, quando abbiamo avuto più bisogno dei privati, abbiamo assistito alla morte di molti grandi gruppi finanziari ed industriali potenzialmente idonei ad impostare azioni globali. Cosa, dunque, fare in una tale situazione? Prima di tutto sarebbe necessario che i gruppi sociali dominanti dei rispettivi schieramenti premessero per spingere ad intraprendere azioni decisive tempestivamente; e perciò nella prima parte della legislatura. E poi, direi che sono proprio le contraddizioni indicate che ci devono indicare la via da seguire. Per prima cosa bisogna dire che non si può rinunciare ad un ruolo forte dello stato, intendendo, però, questo ruolo in modo affatto nuovo, che si fonda su due capisaldi fondamentali. Il primo consiste nel fatto che tale ruolo non significhi che lo stato debba interessarsi di produzione come ha fatto nel passato. Il secondo riguarda il capitale privato (naturalmente anche straniero a patto che non sia meramente speculativo). Lo stato deve divenire il portatore di una domanda pubblica diretta a promuovere investimenti privati diretti all’innovazione. Perciò, veloce eliminazione di vecchie e superate situazioni, trasformazione tecnologica degli apparati amministrativi in senso allargato, ammodernamento o decisa sostituzione di sistemi di organizzazione e di comunicazione, altrettanto veloce sviluppo della ricerca e in generale azione capace di orientare in collaborazione con le università, i centri di ricerca e i vari settori economici, lo stesso sviluppo tecnologico verso quelle tecnologie che contribuiscono al miglioramento della produttività totale. Dunque, la spesa come spesa per investimenti e in particolar modo come volano per il rafforzamento del settore privato. Il rapporto con questo settore non come mera azione di sostegno dell’esistente, ma come ragione di sana concorrenza delle aziende rispetto ad un mercato di origine pubblica orientato all’innovazione, alla trasformazione e all’ammodernamento del cosiddetto sistema paese. Questo l’aspetto più rilevante da sottolineare per far fronte ad una situazione strutturalmente contraddittoria che finisce per spingere l’Italia verso un non tanto poi lento declino. Le riforme necessarie • Il contenimento della spesa corrente, la riduzione della pressione fiscale, la creazione di un nuovo e più flessibile sistema di garanzie sociali, un maggior tasso 108 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Andrea Bixio di concorrenza soprattutto nei servizi… sono tutte cose necessarie, implicite nel discorso che fin qui è stato sviluppato. Esse, come da più parti richiesto, riguardano riforme che si stanno tentando e che vanno compiute con maggiore consapevolezza e decisione. Tuttavia vanno inquadrate nello scenario che si è cercato di sinteticamente descrivere, perché altrimenti si potranno rivelare alla fine vane o insufficienti. Se è difficile che noi possiamo diventare un paese anglosassone capace di trovare una Margareth Tatcher e di tenercela per lo meno per due legislature, meno impossibile è restare in qualche modo nel solco della nostra tradizione non abolendo la tradizionale alleanza fra stato e capitalismo privato, ma all’opposto rivoluzionandola e rendendola virtuosamente capace di affrontare le nuove sfide. E soprattutto fine di un processo di riforma rissoso e senza fine, nonché meno produzione legislativa e più attenta implementazione e controllo dei processi di attuazione. Per concludere • Alla fine di questo ragionamento vorrei ricordare che essendo partiti da una significativa citazione riguardante le passioni asociali, è opportuno chiudere su un tema analogo e tuttavia speculare. Perché è senz’altro meglio concordare, pur soffrendo di qualcosa nell’immediato, di ripartirci i beni di un ritrovato sviluppo, che accapigliarci per strapparci sempre più sottili porzioni di un reddito complessivo declinante. Dunque, come ci ricorda il nostro moralista riprendendo il motivo contenuto nella prima citazione, “Ciò che rende l’intera serie di passioni appena menzionate sgraziate, e, nella maggior parte dei casi, sgradevoli, è il fatto che la nostra simpatia è divisa di fronte a esse. All’opposto esiste un’altra serie di passioni che quasi sempre vengono rese particolarmente piacevoli e convenienti da una simpatia raddoppiata. La generosità, l’umanità, la gentilezza, la compassione, la amicizia reciproca e la stima, tutte le affezioni sociali e benevole, quando vengono espresse nell’atteggiamento e nel comportamento, anche nei riguardi di coloro che non sono particolarmente legati a noi, compiacciono quasi sempre lo spettatore indifferente. La sua simpatia per la persona che prova quelle passioni coincide esattamente con la preoccupazione per la persona che ne è oggetto”. (A. Smith, cit., Parte I, cap. IV, 1). Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 109 La sfida della nuova economia e il tema della formazione manageriale Non da qualche anno, ma ormai da qualche secolo, ogni nuova generazione di imprenditori si è trovata di fronte mutamenti radicali che raramente è stato possibile affrontare con gli strumenti offerti dall’esperienza precedente. Economista La sfida della nuova economia • Non si è trattato soltanto di mutamenti ed innovazioni tecnologiche, anche se queste sono state clamorose e spesso travolgenti: basti pensare ai mezzi di trasporto, all’elettricità, all’elettronica, all’informatica, ai nuovi farmaci, e via dicendo. Si è trattato anche, e forse in maggior misura, dei profondi cambiamenti intervenuti nella società, nei comportamenti umani, nella continua alterazione delle aree economiche generata dalle vicende geopolitiche: basti pensare a quanto avvenuto in Occidente con le guerre napoleoniche nel secolo XIX, o con la prima e la seconda guerra mondiale, con il crollo degli imperi multinazionali e la ridefinizione di confini e mercati che ne è derivata. Non a caso Hobsbawm ha definito il secolo appena passato “il secolo breve” per i tanto rapidi e sconvolgenti avvenimenti politici ed economici che lo hanno caratterizzato. Ad ognuno di questi eventi l’imprenditore ha dovuto reagire improvvisando nuovi strumenti, nuove tecniche, nuovi atteggiamenti e diverse strategie di penetrazione; quelli che ne sono stati capaci hanno avuto successo; gli altri sono stati cancellati dal mercato. ANTONIO ZURZOLO ≈ “La formazione manageriale è un compito complesso e costoso, ma irrinunciabile se si vuole progredire o, addirittura, se non si vuole regredire” ≈ Il “nuovo” della nuova economia • Se questa è la realtà storica, ci si può chiedere cosa abbia di realmente nuovo la cosiddetta nuova economia. An- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 111 Antonio Zurzolo che oggi ci troviamo di fronte ad eventi inattesi che coinvolgono non solo la produzione e il mercato, ma il costume, la politica, intere nuove aree geografiche e popolazioni sino ad oggi ritenute al margine dello sviluppo economico mondiale. Ma quello che è realmente nuovo, e che costituisce una sfida che non ha precedenti storici, è l’ampiezza e la velocità dei mutamenti avvenuti negli ultimi anni. Le tecnologie hanno raggiunto livelli elevatissimi in ogni ambito e i processi innovativi si susseguono senza sosta. La rapidità delle comunicazioni e della diffusione dell’informazione non solo economica, ma scientifica, sociale, culturale, favorita dall’introduzione e dallo sviluppo delle tecnologie informatiche al di là di ogni previsione, costituisce un possente fattore di accelerazione. La combinazione di elettronica, computer, telecomunicazioni in un unico sistema integrato apre la porta a nuovi modi di gestire le attività economiche. La globalizzazione dei mercati ha abbattuto le frontiere e aperto le porte alla concorrenza mondiale. La dimensione nazionale per le imprese, salvo le piccolissime, non esiste più. Questa constatazione si riferisce non solo al mercato di sbocco dei prodotti o di approvvigionamento delle materie prime, ma anche a tutte le scelte e le opportunità di finanziamento, di localizzazione e persino di proprietà delle aziende stesse. Queste affermazioni risultano immediatamente evidenti quando si tenga conto dell’entità dei flussi commerciali e finanziari internazionali, di possibilità di quotazione delle aziende sulle borse internazionali, del merchant banking mondiale che vede intermediari di un paese acquistare o vendere aziende di un altro paese per conto di committenti di un terzo paese. Paesi emergenti crescono ad un ritmo impressionante e invadono i mercati anche dei Paesi industrializzati. Fino all’inizio degli anni ’80, ad esempio, sarebbe stato impossibile immaginare che nell’arco di appena un decennio un Paese arretrato come la Cina potesse – servendosi di un doppio dumping, sociale e valutario – occupare spazi sempre più ampi di quelli che erano stati fino a quel momento i mercati tradizionali dell’industria manifatturiera occidentale (e che si tratti di un doppio dumping appare evidente quando si considerino le condizioni sociali dei lavoratori cinesi ed il fatto che la Cina, a fine 2005, abbia accumulato riserve valutarie di oltre 700 miliardi di dollari, pur con un reddito pro-capite di poco superiore ai 1.000 dollari). La vera novità dunque non è rappresentata soltanto da eventi di questo genere, ma dalla rapidità con la quale questi eventi si sono verificati, e dall’ampiezza che questi fenomeni hanno raggiunto in tempi incredibilmente brevi. Da questo punto di vista, dunque, il secolo presente potrebbe già essere definito, parafrasando Hobsbawm, “il secolo brevissimo”. È chiaro che una situazione come quella adombrata presenta una serie di rischi e di opportunità dei quali l’impresa non può non tener conto e non solo nelle strategie di medio e lungo termine, ma anche nell’operatività quotidiana. 112 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Antonio Zurzolo La situazione dell’Italia • Nel contesto globale sopra descritto, il nostro Paese si trova in una situazione particolarmente difficile e delicata. Secondo un recente rapporto di “Business International”, la competitività del sistema Italia registra un arretramento di ben otto posizioni rispetto al 2002 e si colloca al 31° posto nella classifica che prende in considerazione 60 Paesi, a notevole distanza quindi da quelli più avanzati (in Europa la Danimarca è al 5° posto, il Regno Unito al 6°, i Paesi Bassi al 7°, la Francia al 14°, la Germania al 15°). Il nostro Paese è in fase di sostanziale stagnazione; produzione e produttività non crescono; le spese di ricerca sono tra le più basse tra i Paesi industrializzati; il problema del Mezzogiorno è sempre grave. Secondo un recente sondaggio congiunturale («Sole 24 ore» del 13 ottobre 2005) si stima che nel 2005 il Pil cresca solo dello 0,2% e il consumo delle famiglie dello 0,7%; in flessione dello 0,3% gli investimenti. Modeste sono le attese di ripresa per il 2006: Pil + 1,1%; consumo delle famiglie + 1,2%; investimenti + 1,7%. Le motivazioni sono diverse. Innanzitutto cause esterne all’impresa quali, oltre naturalmente la fase congiunturale sfavorevole, l’insufficienza di infrastrutture, l’eccessiva burocratizzazione della amministrazioni pubbliche, le distorsioni del sistema fiscale, le carenze del sistema scolastico. Poi la peculiarità del tessuto produttivo costituito, in rilevante misura, da imprese di piccole e medie dimensioni a conduzione familiare. Sono poche le grandi imprese, in buona parte ex aziende pubbliche o a partecipazione statale, e pochissime le società quotate in borsa. Il sistema della piccola e media impresa italiana non sempre dispone della managerialità necessaria a garantire la competitività in un mercato globale e, soprattutto, risulta fragile la struttura dimensionale (patrimoniale e organizzativa) rispetto alla tipologia dello specifico settore. Eppure anch’essa deve affrontare la concorrenza internazionale sempre più agguerrita sia sul lato della qualità e novità dei prodotti, sia su quello dei prezzi e, in particolare, la concorrenza dei Paesi emergenti che non hanno tutti gli oneri e i vincoli dei Paesi più avanzati. Se questa è la realtà dalla quale non si può prescindere, ma vogliamo avere un ruolo sul mercato globale (e in una situazione di mercato aperto alla concorrenza internazionale non esistono possibilità di scelta: i rischi vanno affrontati e le opportunità subito colte, pena la progressiva emarginazione), è necessario scegliere rapidamente linee strategiche lungo le quali muoversi e modelli organizzativi moderni ed efficienti. Occorre perseguire in tempi brevi un vero e proprio riposizionamento strategico facendo emergere le potenzialità della dimensione (raggiungibile nelle diverse forme e modalità di aggregazione) che deve essere adeguata al fine di conseguire Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 113 Antonio Zurzolo una migliore l’ammodernamento e il rafforzamento delle dotazioni tecnologiche, la ricerca, l’innovazione (dei prodotti, dei processi, dell’organizzazione), subito avvertendo che le scelte non possono mai considerarsi definitive, ma soggette a continuo riscontro con le realtà operative e di mercato. Sono operazioni che richiedono anche cospicui investimenti finanziari. Le trasformazioni dovranno essere affrontate non sotto spinte emotive, ma con analisi e valutazioni adeguate alla rilevanza dei problemi che comportano. In questo processo di progressivo e incessante assestamento essenziale e determinante è l’azione del management. La formazione manageriale • Ci si può dunque porre il problema del tipo di formazione manageriale più idoneo ad affrontare temi di tanta ampiezza e di tanto peso, dai quali dipendono non solo la sopravvivenza e lo sviluppo di imprese e di interi settori industriali, ma addirittura la possibilità del mantenimento di adeguati livelli di occupazione e di reddito nelle maggiori economie occidentali. Tuttavia quanto detto in precedenza sulla crescente interrelazione dei mercati e delle economie porta inevitabilmente a porre il problema in termini più ampi. Il contatto con strutture sociali, economiche e culturali diverse, per essere fruttuoso, presuppone un allargamento delle conoscenze non solo linguistiche, ma anche giuridiche, economiche e culturali nel senso più ampio del termine. Per tornare alla Cina, si può ricordare che i primi successi nella diffusione del cristianesimo in quell’immenso Paese furono ottenuti dal p. Matteo Ricci soltanto dopo averne assimilato a fondo la cultura, la filosofia e la religione, e che solo dopo essere stato cooptato tra i saggi e gli scienziati del Celeste Impero gli fu possibile svolgere la propria funzione missionaria e culturale. La componente culturale • Ora, appaiono evidenti due cose: la prima è che la formazione manageriale deve poggiare su una solida base culturale in senso ampio, e ciò non può che avvenire nella scuola superiore: quindi inglese, informatica, economia, e imprenditorialità non possono essere condizioni sufficienti (pur essendo necessarie) al successo economico di un individuo o di un Paese. La seconda, che non è possibile accostarsi in modo serio a culture diverse dalla propria se prima non si conosce, appunto, la propria. E qui tocchiamo un tasto particolarmente dolente del nostro sistema scolastico che, per eccessiva permissività e scarsa profondità di studio, porta i giovani a completare i propri cicli formativi – inclusa l’università – in condizioni di 114 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Antonio Zurzolo deplorevole ignoranza della propria storia e perfino della propria lingua, per non parlare di quelle altrui: condizioni sulle quali appare difficile impostare quella che dovrebbe essere una formazione aggiuntiva e complementare e non esclusiva, quale deve essere quella manageriale. L’esperienza dell’IRI • Il tema della formazione manageriale si è affacciato in ritardo nel nostro paese a causa della frammentata struttura del sistema produttivo, costituito in gran parte, come già detto, da piccole e medie imprese a conduzione familiare. Solo con il crescere delle dimensioni aziendali, la nascita della grande impresa, la separazione tra proprietà e gestione, il problema è venuto alla luce. Vale forse la pena ricordare come, in passato, questo problema sia stato affrontato con notevole pragmatismo, e con un discreto successo, dall’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), nato nel 1933 proprio per supplire alle carenze e ai fallimenti della grande industria e della finanza privata con un apporto, oltre che di fondi pubblici, di managerialità tecnicamente all’avanguardia e non connessa, com’era stato per il passato, alla proprietà. L’IRI aveva creato istituti di formazione, indirizzati sia ai dirigenti italiani che a giovani funzionari dei paesi in via di sviluppo nei quali, alle docenze accademiche che davano una pregevole base teorica agli studi, si affiancavano testimonianze e corsi tenuti da tecnici e da managers sia interni che esterni al gruppo1. Iniziative analoghe sorsero poi nell’ambito di altri gruppi pubblici e privati. Le dimensioni del fenomeno erano tuttavia piuttosto circoscritte. In generale la dirigenza si autoformava in ambito aziendale e, spesso, nel ricoprire le posizioni di vertice si cercava di fronteggiare le difficoltà contingenti. Così, nei decenni passati abbiamo assistito all’avvicendarsi nella conduzione manageriale di figure molto diverse: i tecnici, negli anni della ricostruzione postbellica, i commerciali nei momenti di crisi del mercato; i controller nelle fasi di consolidamento, i finanziari, nel più recente processo di razionalizzazione e riaggregazione del sistema produttivo sia sul piano nazionale che su quello internazionale. Tutte le figure che avevano ed hanno tuttora, un ruolo importante e insostituibile in azienda. Tuttavia hanno anche dei limiti. Il tecnico perché è portato a concentrarsi sulla produzione e sulle relative tecnologie a volte senza tenere sufficientemente conto – dei costi e dei possibili vantaggi competitivi della concorrenza; il commerciale per la propensione ad esaltare i volumi a scapito dei prezzi; il controller per le caratteristiche proprie delle sua 1 L’esperienza IRI vide la partecipazione ai corsi di management di oltre 3.200 stranieri e di un numero ben più consistente di dirigenti del gruppo. Tra gli istituti di formazione dell’IRI vanno ricordati la scuola Reiss Romoli che ha formato una classe di dirigenti e tecnici nel campo delle telecomunicazioni, e le scuole di formazione delle BIN (Banche di interesse nazionale) nel settore bancario. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 115 Antonio Zurzolo funzione il finanziario per la tendenza a privilegiare il capital gain di breve-medio termine rispetto allo sviluppo e alle strategie di lungo respiro. Non è certo il caso di elencare quali imprese italiane rientrano nei citati raggruppamenti, ma gli esempi sono evidenti e le conseguenze sulla crisi dell’apparato produttivo non possono sfuggire all’osservatore attento . Non è dunque questo l’approccio giusto. Se si vuole affrontare con successo l’attuale scenario competitivo occorre creare una solida cultura manageriale. L’identikit del vero manager • Il vero manager, almeno con riferimento alla grande industria2, non può essere né un puro tecnico, né un puro venditore, né un puro controllore o un puro finanziario; deve invece possedere sufficienti conoscenze e abilità in tutti questi campi e altri ancora per poter gestire con cognizione di causa i suoi collaboratori; deve avere grandi doti di sintesi e la capacità, dopo aver valutate le diverse opinioni, di decidere sul da farsi, assumendosi le relative responsabilità; deve avere spiccate doti di leadership; e cioè la capacità di coinvolgere e valorizzare i suoi collaboratori, poiché l’uomo rappresenta pur sempre il punto centrale dei processi economico-produttivi. Se questo è vero, i corsi formativi del management devono approfondire le diverse tematiche (Finanza, Marketing, Produzione, Organizzazione, Personale, Amministrazione e Controllo, ecc.)oltre che nelle modalità tecniche operative caratteristiche della funzione, in un’ottica di dialettica interfunzionale Lingue straniere, informatica, economia, diritto sociologia devono essere la base, non il fine. I corsi formativi devono mettere i futuri dirigenti in grado di comprendere e affrontare i concreti problemi della gestione aziendale. Il ruolo della scuola • Ma chi può fornire ai giovani la cultura occorrente a ricoprire efficacemente posizioni ai vertici aziendali? Come già accennato, il problema va visto in una prospettiva più ampia che comincia dalla scuola superiore, passa per l’università e solo alla fine approda al tema specifico della formazione manageriale vera e propria. 2 È poi del tutto evidente che un’attenta e intelligente gestione della grande industria non può che avere riflessi benefici sulla piccola e media industria, che in molti casi ne è fornitrice o cliente, e che ne è quindi in generale fortemente condizionata non solo in termini di fatturato, ma anche di stili manageriali. 116 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Antonio Zurzolo Si è già detto che alla cultura generale deve provvedere la scuola superiore che deve prendere atto delle mutate esigenze e ad esse adeguare i propri programmi e la loro attuazione. Spetta all’Università fornire la base dottrinaria che apre alla conoscenza e comprensione dei fenomeni economico-aziendali. Può infine attribuirsi a Corsi specifici, da attuarsi in stretta collaborazione tra l’Università (pubbliche e private), mondo produttivo organizzazioni economiche, la formazione manageriale. Il mondo produttivo è direttamente interessato alla formazione manageriale e deve quindi sostenerla con la disponibilità di uomini e mezzi3, ma occorre tenere ben presente che il problema ha ripercussioni sull’intero sistema economico nazionale. La formazione • La richiesta di formazione manageriale attraversa oggi una fase di grande sviluppo: l’accesso ai corsi di Master of Business Administration (MBA) non è mai stato tanto massiccio, e l’offerta di istruzioni italiane e straniere appare estremamente ampia. E tuttavia cominciano a levarsi voci critiche che occorre ascoltare se non si vuole che questo cospicuo impegno di risorse umane e finanziarie col disperdersi in un’ennesima fabbrica di diplomi inutili o quasi inutili. I corsi di MBA non devono essere una ripetizione delle lezioni universitarie con qualche ulteriore approfondimento accademico. Il fine non è quello di mettere i partecipanti in grado di svolgere eleganti disquisizioni teoriche, ma di allinearli ad affrontare i concreti problemi della gestione aziendale. Il corpo insegnante deve essere formato da docenti italiani e stranieri e da manager che hanno avuto responsabilità gestionali e operative. È infatti di tutta evidenza l’importanza di poter trasmettere ai giovani il patrimonio di esperienze di chi le ha direttamente vissute. Passando dal generale al particolare, occorre sottolineare che del problema della formazione manageriale devono farsi carico anche le singole aziende o, almeno quelle di maggior rilievo. La sensibilità della dirigenza • Le aziende devono sentire la necessità che la propria dirigenza segua corsi formativi e devono curarne direttamente l’organizzazione o, quanto meno, favorire 3 Contributi finanziari potrebbero essere forniti anche dalle Fondazioni di origine industriale (Agnelli, IRI, Olivetti) e bancarie (Cariplo, San Paolo, Monte dei Paschi, Casse di Risparmio) Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 117 Antonio Zurzolo la partecipazione a corsi esterni. Devono poi, per i giovani più promettenti, programmare il loro passaggio in posizioni operative nelle principali funzioni (Produzione, Commerciale, Finanza, Amministrazione e Controllo, ecc.) e aree di business, e successivamente l’inserimento nello staff dell’alta direzione. Potranno così acquisire sul campo l’esperienza necessaria a comprendere meglio le problematiche delle diverse funzioni /aree che compongono la realtà aziendale e le loro interrelazioni e vivere da vicino il momento decisionale. I manager a loro volta, devono sentire la responsabilità, anche sociale, del proprio ruolo e partecipare con convinzione e con il massimo impegno ai processi formativi. Solo in tal modo si potrà formare una classe dirigente all’altezza delle sfide che dovrà affrontare in un mercato globale sempre più vivace e agguerrito. La formazione manageriale è un compito complesso e costoso, ma irrinunciabile se si vuole progredire o, addirittura , se non si vuole regredire. 118 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Rubriche COLLOQUI Intervista al Prof. Emmanuele Emanuele 121 POLITICA INTERNA a cura di Nicola Graziani 140 POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro 136 RICERCHE a cura di Andrea Bixio 145 RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli 150 IL “CORSIVO“ a cura di Giorgio Tupini 155 NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris 158 FUORI SCAFFALE a cura di Amos Ciabattoni 166 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 119 Colloqui intervista a cura di Amos Ciabattoni L’Italia e il suo grande fabbisogno di cultura di Emmanuele Emanuele «Civitas» - Prof. Emanuele, ai Suoi impegni nel settore economico bancario, a quelli di amministratore di aziende di grande importanza nel Paese e di Presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio di Roma, Lei affianca interessi culturali di grande attualità e il “Forum” al quale si richiama il nostro “Colloquio” ne è la dimostrazione più recente. Quali sono gli scopi del Movimento culturale di “Alleanza Popolare” da Lei fondato e come e per quali aspetti si affianca oppure si distingue dai numerosi analoghi movimenti che si propongono di concorrere al fabbisogno culturale della società di oggi? Emanuele - Definire “Alleanza Popolare” un movimento culturale non è appropriato. Essa è nata nel 1998 come movimento politico a seguito della nuova stagione delle riforme elettorali nel nostro Paese e all’affermarsi di un sistema bipolare. “Alleanza Popolare” può dirsi più correttamente un movimento politico per la politica. Essa, infatti, aveva come intendimento, fin dagli inizi, quello di radicare nell’agone della politica quelle forze culturali, professionali, imprenditoriali esistenti nel nostro Paese ciclicamente chiamate alla partecipazione all’attività politica, ma successivamente espulse dal sistema partitico, poiché non omologhe agli “apparati” burocratici. In altri termini, “Alleanza Popolare” voleva colmare un divario tra la società civile e quella politica, divario che si avverte ogni giorno di più nel nostro Paese, dove una classe politica che ha una storia ed una formazione diversa, perché proviene, nella stragrande maggioranza dei casi, non da professionalità dimostrate, al di là di quelle della partecipazione all’attività partitica, e dal bisogno quindi di una società sempre più evoluta e scientificamente avanzata di ave- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 121 re persone atte a dare, con l’esperienza del loro cursus honorum professionale, un contributo concreto alla proposta politica per la soluzione dei problemi del nostro Paese. Devo dire, per la verità, che questa proposta di “Alleanza Popolare”, che tra l’altro proponeva un grande accordo, come dice il nome, tra le principali componenti sociali del Paese, non ha avuto il successo sperato, perché i partiti si sono chiusi a riccio, rifiutando qualsiasi possibilità di dialogo e di penetrazione ad esponenti della società civile, percepiti come soggetti estranei alla dialettica interna dei partiti e come tali, non graditi. C - Il quadro del nostro Paese che emerge spesso nelle analisi politiche e culturali, mostra un’incompleta maturità di “Nazione” dell’Italia: fatti storici hanno concorso nei secoli passati a configurare e a far crescere uno “Stato”, un “governo” più che una “Nazione”, ed i “compromessi” politico-ideologici dai quali è nata la nostra Unità geografico-politica (non a torto si ripete il concetto di un “Risorgimento incompiuto”), non hanno prodotto effetti del tutto positivi. Se condivide questa analisi, vuole argomentarla nel positivo e nel negativo? E - È indubbio che l’Italia ha sentito in modo assai meno sacrale rispetto agli altri Paesi europei il concetto di “Nazione” e questo per motivi storici essendo diventata Nazione molto tardi rispetto ad esempio alla Spagna, alla Francia, alla Germania, all’Austria, e ovviamente agli Stati Uniti ed all’Inghilterra. Noi abbiamo avuto una storia nazionale diversa. Siamo stati per lunghi secoli divisi, abbiamo subito una grave frantumazione del nostro territorio sotto dominazioni straniere, non abbiamo maturato dopo l’Unità una concezione di “Nazione-Patria” per un periodo sufficientemente ampio, ed ovviamente l’identità fortemente maturata in epoca risorgimentale si è finita per perdere. Durante la stagione monarchica, l’Italia ha tentato, infatti, con grande determinazione, di costruirsi quell’identità nazionale. Lo ha fatto con le guerre di indipendenza, con le campagne di espansione coloniale, e con la sanguinosa prima guerra mondiale. Il dopoguerra della seconda guerra mondiale ha nuovamente ributtato il nostro Paese, a causa di una damnatio memoriae del passato, in un limbo dove la capacità di essere Nazione è stata vista addirittura con sospetto e quasi demonizzata. La concezione della democrazia forte che fa una Nazione, penso all’Inghilterra ed alla Francia, da noi non ha avuto maturazione; si è sempre cercato un profilo basso, in nome di una concezione democratica che è finita per diventare paralizzante per il ruolo internazionale del nostro Paese. L’Italia non è mai diventata Nazione nel senso pieno del termine perché non è riuscita a crescere in maniera autonoma, non è mai riuscita ad avere, nel lungo periodo della prima Repubblica, il ruolo di Paese leader. Siamo stati più che altro un Paese di frontiera, un territorio dove si incontravano e scontravano le realtà confliggenti della vecchia guerra fredda, tra l’Occidente e l’Oriente, tra il mondo comunista e quello della democrazia. Non abbiamo acquisito la capacità di cresce- 122 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 re per levare una voce forte in questo dibattito, preferendo spesso essere una specie di luogo di incontro, dove transitavano le realtà internazionali di cui ho fatto cenno, piuttosto che tentare di rappresentare l’elemento di cerniera tra i due mondi, o ancor più avere un ruolo importante nella dialettica tra di essi. Questo è il limite vero della nostra fragile democrazia, questo è il limite della nostra capacità di non aver saputo realizzare la Nazione italiana. Indipendentemente dalla cultura e dal grande ruolo che abbiamo rivestito e continuiamo a rivestire per le vestigia della nostra storia e per le indubbie qualità artistiche del nostro popolo, non siamo riusciti ad essere quella Nazione unita e forte, al di là dell’iconografia classica del detto “un popolo di guerrieri, poeti, santi e navigatori” inciso sul frontone del Palazzo della Civiltà Italiana. C - Il declino dei “partiti dei grandi ideali” è una realtà che l’Italia ha vissuto negli ultimi decenni. Ad essi si è venuta sostituendo la proliferazione di partiti, ex grandi e nuovi piccoli, che rendono per lo meno singolare il sistema politico italiano. Il fenomeno merita, a nostro avviso, attenzione soprattutto dal punto di vista della natura e della legittimazione culturale e storica delle infinite “sigle” partitiche: il tutto – secondo i punti di osservazione – a vantaggio o a scapito dell’efficienza del sistema. Qual è il suo punto di vista? E - La crisi delle grandi ideologie ottocentesche che sono state l’humus culturale e politico su cui si è articolato il grande dibattito tra il liberismo ed il socialismo è oggi indubbia. Queste ideologie hanno una matrice molto ben delineata e sono conseguenti alle problematiche socio-economiche generate dalla prima grande rivoluzione industriale. Nella stagione del trapasso dalle economie che traevano origine dal latifondo, si innestò un meccanismo produttivo generato dal capitalismo mercantile che mise in moto una grande stagione di progresso economico, sociale e scientifico. In parallelo con la stagione in cui l’economia vedeva codificate le sue regole dal liberismo, pur con le voci attente alle problematiche sociali, penso a Stuart Mill, e soprattutto a Keynes, la politica era improntata da una concezione liberale a cui si frappose dapprima la protesta sindacale e successivamente l’ideologia socialista nelle diverse accezioni riformista o rivoluzionaria. Un ruolo importantissimo, come noto lo ha avuto in questo contesto la dottrina sociale della Chiesa, che si è posta anch’essa quale ulteriore punto di riferimento e cerniera tra le tematiche del mercato e quelle della solidarietà. È evidente che queste ideologie che hanno avuto una germinazione di più di duecento anni fa, hanno cominciato a mostrare chiari segni di logoramento, ed i partiti che ad esse si ispiravano hanno cominciato anch’essi a perdere il rapporto con la realtà, che si evolve continuamente in virtù di fenomeni esterni conseguenti oggi anche alla seconda grande rivoluzione, quella informatica e tecnologica, da cui è scaturita la globalizzazione. In questo contesto, stanno proliferando sigle nuove che non si richiamano alle passate ideologie, ma tendono a presentarsi come portatrici di proposte politico- sociali inno- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 123 vative, anche se i filoni essenziali sono più o meno gli stessi, ma in cui il fattore distintivo è proprio il rifiuto di identificarsi con le ideologie tradizionali. Se infatti è vero che molte delle proposte avanzate da partiti come Rifondazione comunista o i DS sono il portato, rispettivamente, del socialismo sovietico delle origini e del socialismo riformista, invero mal digerito, così come Forza Italia esprime in maniera, a dire il vero, non troppo aderente le idee liberali, è altrettanto vero che alcune “proposte” nuove, frutto di una realtà profondamente diversa, (la Lega, il nuovo corso di AN, la Margherita, i fermenti di una rinascita di un partito dei cattolici) si stanno manifestando. Credo che ad esse bisogna prestare la massima attenzione, bisogna interpretarne in prospettiva le capacità di aggregazione, soprattutto occorre non demonizzarle, e vederle come un contributo fecondo al dibattito politico generale. C - Il bipolarismo è stato presentato – e ritenuto – a lungo come una soluzione ottimale per irrobustire democraticamente il Paese e facilitare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo in progresso della società italiana. Con il passare del tempo, questa scelta, presentata, come ottimale e di qualità, ha però mostrato notevoli aspetti negativi e prodotto altrettanti non positivi effetti. Qual è il Suo punto di vista e quali sono gli aspetti ancora positivi e quali i negativi che influiscono sulla vita italiana e sulla capacità del nostro Paese di competere nella visione “globale” del mondo? E - Nel nostro Paese, in realtà, non esiste una solida cultura del bipolarismo e del bipartitismo, che invece ha attecchito nei Paesi anglosassoni dove mantiene un preciso valore ed una chiara attualità. Tuttavia non v’è dubbio che anche da noi essa ha avuto una grande importanza. Penso alle battaglie referendarie ed alle conseguenti riforme che hanno giovato a semplificare il processo di trasformazione, proprio nel momento in cui si disfaceva il tessuto partitico che aveva connotato il nostro Paese dal 1946 fino agli anni Novanta. Oggi sicuramente il bipolarismo comincia a penetrare nella concezione collettiva in maniera sempre più evidente. Il paradosso è che contestualmente si è assistito ad una proliferazione sproporzionata di sigle partitiche, sicuramente estranea agli intendimenti dei fautori del bipolarismo, che miravano piuttosto alla semplificazione del quadro politico. Questo ha prodotto il ritorno, nel dibattito politico, della opportunità di riproporre un sistema elettorale proporzionale. Infatti, l’attuale sistema non garantisce appieno la stabilità dell’azione di Governo. La Lega nel Centro Destra e i due partiti dichiaratamente comunisti nel Centro Sinistra provocano costanti fibrillazioni e lacerazioni alle proposte degli schieramenti in cui militano. Questi partiti contribuiscono a far vincere la coalizione ma rendono difficile governare. Ciò che ci si chiede da più parti è di scomporre l’attuale sistema bipolare facendo emergere una forza più omogenea in cui far convergere partiti che oggi paradossalmente, pur avendo teorie e programmi molto simili, si trovano a militare in schieramenti opposti a causa delle caratteristiche del sistema elettorale bipolare. 124 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Personalmente penso che sia da coltivare un’altra ipotesi. Ritengo, infatti, che il sistema elettorale migliore dopo questa prima stagione bipolare in cui i differenti partiti presenti nelle due coalizioni non sono riusciti ad omogeneizzare le loro idee nei rispettivi programmi, potrebbe essere quello di introdurre un temperamento del vigente sistema che ne rafforzi la stabilità mediante il rafforzamento della componente proporzionale con il quorum di sbarramento al di sotto del quale non vi sia legittimazione ad essere rappresentati in Parlamento. C - Due sono in particolare le grandi idee positive alle quali ha da secoli attinto linfa vitale la nostra cultura, e che sembrano oggi essere in ripresa: il Cristianesimo (con il suo immenso patrimonio di pensiero sociale) ed il Socialismo umanistico progressista (con i suoi fermenti di giustizia sociale legati alle libertà civili). I relativi ritorni, a distanza più ravvicinata fra loro, si fanno sempre più invocati ed evidenti, oltre che indispensabili, a sostegno di un esistenzialismo, singolo e comunitario divenuto immanente. Il tema lanciato dal Suo movimento culturale “Alleanza Popolare” su “I valori del Cattolicesimo nei movimenti politici e nei partiti italiani” è su questa linea di interpretazione dei fabbisogni più urgenti della società di oggi? E come intende contribuire a colmarli? E - Sono completamente in sintonia con la sua impostazione. Durante il convegno cui Lei fa riferimento ho detto che proprio i due grandi filoni che si sono più produttivamente contrapposti, in Italia, durante il periodo postbellico e che con il loro confronto hanno consentito la crescita democratica, culturale e sociale del nostro Paese sono stati il Cattolicesimo politico ed il Socialismo democratico. Credo che questo trovi puntuale riscontro nel fatto che in Europa due sono i grandi schieramenti che si fronteggiano: il Partito Popolare Europeo, in cui trova rappresentanza il pensiero sociale della Chiesa, ed il Gruppo Socialista Democratico che si ispira al Socialismo riformista. Non occorre fare ricorso a complesse analisi per capire che quanto da Lei detto e da me condiviso, e quanto costituisce l’obiettivo del mio movimento “Alleanza Popolare” sono le strade maestre della tematica da Lei sollevata. “Alleanza Popolare” è un movimento che intende sollecitare la partecipazione del mondo del lavoro, delle professioni, dell’imprenditoria, della cultura alla vita politica, mondi che non intendono più essere rappresentati da apparati di partiti che sono esogeni alla vita sociale ed economica del Paese. Noi riteniamo che la spinta dal basso della società civile possa essere la soluzione. Penso all’associazionismo, al Terzo Settore, al variegato mondo del non profit e, in una parola, alla società civile di cui la politica non è più interprete fedele. E nella dialettica che Lei ha individuato e che noi riproponiamo con convinzione tra l’etica sociale cristiana e quella del socialismo democratico devono essere individuate da “Alleanza Popolare” le maggiori propensioni alla partecipazione. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 125 C - L’Europa unita ha prodotto anzitutto un elevato grado di competizione tra le Nazioni che ne fanno parte. Ciascuna offre di sé stessa il meglio che possiede in ogni campo delle collaborazioni e dei confronti. Quali sono a Suo avviso le peculiarità delle “offerte”, o meglio degli strumenti di cui dispone l’Italia per il sostegno della “nuova Civiltà europea” intesa come competizione positiva con il resto del mondo? E - L’Italia a mio modo di vedere ha due grandi peculiarità e specificità. La prima è la miriade di piccole e medie imprese che formano il tessuto connettivo del nostro Paese e che sono una caratteristica unica in ambito europeo. La forza vera della nostra economia è radicata nel reticolo delle migliaia di medie e piccole imprese, nelle centinaia di banche, penso alle popolari, a quelle del credito artigiano, alle peculiarità delle Casse di Risparmio sopravvissute, e questa specificità giova moltissimo, occorre riconoscerlo, al tessuto connettivo dell’economia europea, proprio per la capacità di produrre quel made in Italy che in prospettiva sarà il made in Europe che ne faranno il competitore principale con i grandi colossi economici mondiali come l’America e con i Paesi emergenti dell’Asia. Un’altra peculiarità italiana è il fatto che il nostro Paese è uno dei maggiori depositari del bello dell’Europa, con la miriade di musei, di monumenti ed opere d’arte che non ha molti paragoni e che ne fanno il luogo deputato per un turismo culturale che purtroppo alcune leggi dissennate, come l’abolizione del ministero del turismo, finiscono per frustrare. Queste sono le peculiarità del nostro Paese e questi sono i settori strategici che, a mio parere, andrebbero potenziati e su cui bisognerebbe puntare per favorire la crescita non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa, anche in rapporto alla competizione con gli altri sistemi economici. C - Nella Chiesa e nel mondo culturale laico liberale si è aperta una fase molto interessante del dibattito sul concetto di “laicità”. Il cardinale di Venezia Angelo Scola parla addirittura di una “nuova laicità” da ricercare assieme: “I credenti e i non credenti devono lavorare assieme per una società civile pluriforme” Praticamente la discussione aperta attualizza il mai risolto rapporto tra l’umanità e la religione che oggi diventa attualissimo nell’era post moderna della globalizzazione. Quali sviluppi vede e perora di questo fenomeno? E - È una domanda molto complessa, cui mi vedo costretto a rispondere con una semplificazione. Io sono un cattolico senza dubbi, che nel dialogo con i non cattolici ed i non credenti vede il limite di questa ricerca disperata del relativismo imperante, e del dialogo fine a se stesso sempre più auspicato anche da autorevoli commentatori. Il dialogo, per me, non può esistere a tutti i costi, e non può diventare uno slogan che finisce per neutralizzare lo spessore delle proprie convinzioni. L’edificare una società nel dialogo tra cattolici e laici è sicuramente auspicabile per uno sviluppo democratico del Paese specie di fronte alle grandi sfide che quotidia- 126 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 namente si pongono alla società. Ma comunque non si può negare che vi sia una separatezza di fondo tra i due mondi, che essi hanno radici, culture, aspettative e speranze diverse. Il mondo laico è un mondo che ha una concezione della libertà che nella sua estremizzazione porta anche a quei problemi di ingegneria genetica contro i quali il recente referendum si è espresso in modo chiaro. Il cattolico ha una concezione diversa, più spirituale, più attenta al divenire di una prospettiva universale ed escatologica. Estremizzando, non ritengo che il dialogo forzato come viene correntemente auspicato possa rappresentare l’unico indispensabile valore per la costruzione di una società moderna, migliore e progredita. Credo che la dialettica sia in sé positiva, purché non induca una delle parti a dover preliminarmente modificare le proprie convinzioni. Questo discorso vale a maggior ragione quando viene applicato al tanto strombazzato dialogo con altre civiltà e altre religioni. Esso è precorribile se le parti che siedono a questo ideale tavolo sono scevre da preconcette aggressive posizioni nei confronti dell’altro. Se una religione parte dal presupposto che il suo credo è universale ed indiscusso, che tutto ciò che la circonda nel mondo ed è diverso da essa è condannabile, evidentemente i presupposti del dialogo sono inesistenti. Ricercare il dialogo a tutti i costi, e lo dice uno come me che da tempo immemore continua a cercare il dialogo con tutti su diversi terreni tra il liberismo e la solidarietà, tra la fede religiosa e la pratica politica e, come ad esempio in tempi recenti, su quello della cultura, di popoli e nazioni differenti, che la prossima pubblicazione del volume sulle civiltà del Mediterraneo comprova, per maturare la trasformazione della società, con il rischio di dover perdere la propria identità è un obiettivo che non mi trova d’accordo. C - Il rapporto con l’Islam si tinge di innumerevoli “colori”. Ciò che però resta da definire è la parte più sostanziale di tale rapporto: si tratta di uno scontro di civiltà oppure di un confronto. Nell’uno o nell’altro caso, quali sono gli elementi positivi e quelli persistentemente negativi delle nuove frontiere che si sono aperte nella competizione culturale, politica e religiosa tra le diverse aree del mondo? E - Per poter dare una risposta ad una simile domanda che è tra le più importanti dei nostri tempi, occorre per prima cosa capire cosa è la legge coranica, la legge religione che governa gli stati islamici. È una risposta molto netta e semplice: tutto ciò che si pone fuori dell’Islam è sbagliato e va tendenzialmente distrutto; tutto ciò che sta a fondamento del suo credo è giusto e va osservato e fatto osservare. Non vi sono accenni all’amore, alla pietà, al perdono, in una parola a tutti i punti fondamentali della nostra fede. Evidentemente dobbiamo accettare il principio che, senza parlare di scontro di civiltà che mi appare un concetto troppo rozzo e semplicistico, ci sono preclusioni di fondo su concezioni esistenziali. Se la prospettiva di questo credo ha alla base il convincimento che il nostro modo di vivere Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 127 e di pensare deve essere cambiato, il dialogo si pone su basi difficili da sviluppare. Anche su questo punto, come sul precedente non ho personalmente molti dubbi. La Civiltà occidentale pur con tutti i suoi drammi, le grandi crisi, le guerre, i problemi sociali quali la disoccupazione ed il crescente divario tra povertà e ricchezza, è pur sempre una civiltà solare, una civiltà partecipativa che non esclude nessuno, in cui tutti possono convivere. Ma soprattutto ha avuto una lunga stagione di conflitti ideologici, sociali, politici e militari che hanno però consentito l’affermazione della democrazia. Non mi pare che le nazioni che fanno riferimento alla Fede Coranica come Principio costituzionale abbiano queste caratteristiche e questa storia. La teoria di un Islam moderato, come ha ben illustrato Panebianco nel suo recente editoriale sul «Corriere della Sera» del 7 agosto 2005, è una concezione erronea e superficiale. Dopo l’11 settembre, infatti, si è scoperto che la “moderata” Arabia Saudita, da sempre in teoria alleata all’Occidente è la nazione da cui partono i finanziamenti più robusti per Bin Laden. Si è scoperto, come lui dice, che la moderazione politico-diplomatica dei Governi in cui esiste il fondamentalismo religioso non impedisce a quel fondamentalismo di alimentare l’islamismo radicale. Sempre Panebianco ha evidenziato la nostra incapacità di proporre una politica in grado di fronteggiare la sfida islamica. Noi cerchiamo di impostare una azione di prevenzione contro gli attacchi terroristici, ma non abbiamo compreso che per combattere il terrorismo non basta la polizia, occorre neutralizzare la propaganda fondamentalista. Non possiamo consentire che nel nostro Paese proliferino le “madrase” (le scuole islamiche) e le moschee e nel consentire ciò accettare supinamente i veti posti acché le nostre chiese vengano edificate nei paesi arabi e l’insegnamento cattolico consentito. Pertanto, nel breve periodo sinceramente non vedo grandi potenzialità nel dialogo così come viene oggi concepito. Questo dialogo per avere un concreto avvio deve partire da una ferma condanna del terrorismo da parte dei paesi di religione islamica. A me pare che ad oggi, tranne qualche timida eccezione, questa condanna non sia così forte e manifesta neanche dopo New York, Madrid o Londra. Vedo invece la forza della civiltà occidentale, in cui coesistono tolleranza e pace pur nel conflitto politico ed economico, che con tutte le sue ombre, ha pur sempre generato grandi capolavori dell’arte, del bello e dell’ingegno, che deve essere a mio parere difesa con maggiore convinzione di quanto si faccia oggi in cui prevale la ricerca del compromesso a tutti i costi. C - La rivista «Civitas» che fu palestra di grandi pensatori come Meda, De Gasperi, Sturzo, può essere considerata uno strumento attuale per il progresso culturale dell’Italia e quindi strumento a disposizione dei pensieri attivi della cultura e della politica di oggi proiettata nel futuro? 128 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 E - Assolutamente sì. «Civitas» è una componente essenziale della storia del dibattito culturale, politico, religioso, economico del nostro Paese, ed è una fortuna che oggi sia stata rieditata, e sono certo che essa si confermerà terreno di incontro e confronto tra coloro che hanno concezioni anche contrapposte. Essa ha un radicamento storico, culturale e spirituale che ne fa un importante presidio di quei valori a cui molti di noi, ed io sicuramente, si ispirano. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 129 Politica interna a cura di Nicola Graziani La stagione politica aperta con il referendum sulla legge che regolamenta la procreazione assistita è stata dominata dal tema dei rapporti tra Stato e gerarchia ecclesiastica, tornato ad una nuova centralità per il concorrere di una serie di fattori che vanno dalla partecipazione in prima persona della Cei nella campagna per l’astensionismo, agli interventi del Capo dello Stato in materia, al rientro sulla scena politica di parte del Partito Radicale a fianco dello Sdi di Enrico Boselli. Intanto l’approssimarsi della fine della legislatura ha spinto la maggioranza ad un estremo tour de force volto a far approvare dal Parlamento una serie di riforme e di provvedimenti legislativi – alcuni previsti dal Patto con gli Italiani presentato da Silvio Berlusconi nella campagna elettorale del 2001, altri pensati e introdotti con il chiaro intento di incidere sull’esito delle prossime elezioni politiche. Il governo, in questo periodo, ha dovuto nuovamente fare i conti con le difficoltà dell’economia, sottolineate dall’avvicendamento a Via XX Settembre tra Domenico Siniscalco e Giulio Tremonti, e quelle della politica internazionale (la permanenza dei militari italiani su suolo iracheno; i rapporti con gli Usa dopo il rapimento a Milano di un imam egiziano; l’emergenza terrorismo dopo gli attentati di Londra; il peggioramento dei rapporti con l’Iran). Contemporaneamente è venuta a chiudersi una fase nei rapporti tra Palazzo Chigi ed il Quirinale, con Ciampi che è apparso sempre meno disposto a fare ricorso alla moral suasion per limare gli eccessi contenuti in alcune iniziative legislative della maggioranza, mentre i rapporti all’interno della Casa delle Libertà hanno registrato un profondo mutamento con l’abbandono della segreteria dell’Udc da parte di Marco Follini, il ritorno al partito di Pier Ferdinando Casini ed il rafforzamento dell’asse Fi-Lega. Le opposizioni hanno lanciato la sfida a Berlusconi celebrando le primarie, il cui successo in termini di partecipazione popolare ha rafforzato il ruolo di Romano Prodi, senza però che questo si traducesse in una maggiore omogeneità politica. Il programma su cui il centrosinistra promette di basare il ritorno al potere non è stato elaborato, e la maggior parte delle discussioni di questi mesi si sono incentrate sullo stanco e ripetitivo tema della forma politologica con cui l’alleanza, o alcuni componenti di essa, si presenteranno all’esame del corpo elettorale. 130 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 • Laicità dello Stato e rapporti con la Chiesa. L’impegno diretto della Chiesa alla campagna per l’astensionismo in occasione del referendum sulla procreazione assistita, campagna in occasione della quale gerarchie e parrocchie hanno partecipato con impegno maggiore rispetto agli stessi referendum su divorzio ed aborto, ha rappresentato anche la prima occasione in cui il nuovo Pontefice, Benedetto XVI, ha avuto modo di esprimersi sul tema della presenza cattolica nella società e nella politica italiana. A meno di una settimana dalla consultazione lo stesso Pontefice, parlando al convegno diocesano di Roma dedicato alla istituzione familiare, è intervenuto sottolineando la necessità di contrastare il relativismo dominante nella cultura contemporanea. L’obbligo è quello di tutelare la “intangibilità della vita umana dal concepimento al suo termine naturale”. Le unioni di fatto e quelle omosessuali, ha ribadito il Papa, “scacciano Dio” e portano ad un “avvilimento dell’amore umano”. Il risultato del referendum, andato deserto e quindi dichiarato nullo per la scarsissima affluenza alle urne (25,9%), ha segnato un indubbio successo del fronte cattolico, ma soprattutto ha dimostrato la stanchezza del corpo elettorale nei confronti di uno strumento costituzionalmente rilevante ormai rimasto vittima degli abusi che sono stati compiuti – soprattutto ad opera del Partito Radicale – nel corso degli anni. In particolare le vere sconfitte della giornata sono state la sinistra e la destra libertaria italiane, quel fronte radicaleggiante che si è dimostrato non più capace come in passato di gestire l’agenda del dibattito culturale nazionale e di mobilitare le masse attorno ad esso. Non è un caso che nei settori più pronti e più spregiudicati del laicismo nazionale sia emerso, nel corso del dibattito referendario, un nuovo fronte di “atei devoti” pronti a schierarsi con la gerarchia ecclesiastica la quale non ha mancato di offrire loro la sua sponda. In termini più puramente politici, il dibattito sulla consultazione ha portato ad un notevole ridimensionamento dei favori degli ambienti cattolici in direzione di Gianfranco Fini, schieratosi apertamente in favore di una parte dei quesiti (fino al punto di definire “altamente diseducativa” l’astensione), e dello stesso sostegno interno ad Alleanza Nazionale nei confronti del leader. Fini, a luglio, ha dovuto affrontare una vera e propria fronda dei colonnelli del partito. Il fronte dei cattolici impegnati in politica ha dovuto invece fare i conti con l’esplicito invito dei vertici della Cei ad astenersi dal voto. Invito divenuto particolarmente pressante quando la stessa Conferenza Episcopale è giunta a manifestare perplessità nei confronti di quei cattolici che avevano manifestato ugualmente l’intenzione di recarsi alle urne. Difficile dire quanti cattolici abbiano preso la propria decisine unicamente sulla base delle indicazioni della gerarchia, certo però queste hanno avuto un peso enorme: basti vedere i dati sull’affluenza. Se però una parte del mondo cattolico ha aderito pienamente ai comitati per l’astensione (è il caso del presidente del nuovo movimento Italia Popolare, Alberto Monticone), altri cattolici hanno espresso un diverso parere e sono andati ugualmente a votare. In particolare Romano Prodi, candidato del centrosinistra alla Presidenza del Consiglio, si è dichiarato “cattolico adulto” ed ha ostentato la sua intenzione di depositare la scheda nell’urna. All’indomani del fallimento della prova referendaria, il cardinale Camillo Ruini ha avuto modo di dirsi Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 131 “colpito dalla saggezza del popolo italiano”, di lasciare aperta la porta all’eventualità di apporre modifiche alla legge 40 (“Tutto può essere migliorato, ma non certo stravolto o radicalmente peggiorato”) e di rassicurare che sull’aborto la Chiesa “è contraria, ma non vogliamo modificare la normativa”. Parole che intendevano rispondere ai timori espressi dal segretario dei Ds, Piero Fassino, e già espresse dal ministro dei beni culturali Rocco Buttiglione. Già alla fine di giugno lo stesso Cardinal Ruini ha comunque ribadito il suo no alle coppie omosessuali, quello ai “patti di convivenza” e la non volontà di modificare la 194, nonostante la contrarietà della Chiesa ai “piccoli omicidi”. • Il Papa al Quirinale. In questo clima non certo di scontro, ma sicuramente di serrato confronto, si è svolta la visita ufficiale di Benedetto XVI al Quirinale. Carlo Azeglio Ciampi, di osservanza cattolica ma di cultura profondamente estranea all’esperienza cinquantennale dei cattolici democratici e popolari impegnati in politica, ha colto allora l’occasione per rivendicare “con orgoglio” la laicità dello Stato come “necessaria distinzione fra il credo religioso di ciascuno e la vita della comunità civile regolata dalle leggi della Repubblica”. La risposta del Papa è stata di riconoscimento della “legittimità” della laicità, ma se “sana”, vale a dire non avulsa da quell’etica che trova le sue radici nella religione e dall’eredità cristiana della cultura del Paese. La divisione tra la linea della gerarchia ecclesiastica e Prodi è emersa di nuovo a metà settembre in occasione di un messaggio inviato dal leader del centrosinistra ad un convegno dell’Arcigay, in cui Prodi ribadiva la linea non contraria ai Pacs contenuta nella piattaforma programmatica dell’Ulivo. Dura la reazione dell’Osservatore Romano, che l’ha accusato di voler lacerare l’istituzione familiare, della Cei ed in alcuni settori del mondo politico. Nelle fila delle opposizioni Clemente Mastella, impegnato tra l’altro in un braccio di ferro nell’ambito della coalizione per il no all’ingresso dei pannelliani, ha colto la palla al balzo per ribadire anche la sua contrarietà ai Pacs. All’interno della Cdl Marco Follini ha parlato di Prodi come di un leader “zapaterista”. Prodi ha risposto scrivendo a “Famiglia Cristiana” per definire quanto accaduto “semplici dispute terminologiche” e precisare di non volere omologare le coppie di fatto alle famiglie, ma nel frattempo si è andata acuendo la frattura tra i Ds e settori della Margherita, in particolare Francesco Rutelli, il quale ha fatto sostanzialmente propria la posizione espressa contemporaneamente dal Cardinal Ruini, sostanzialmente contrario ai Pacs, soprattutto nel caso di coppie omosessuali, mentre le coppie eterosessuali possono sperare in aperture nell’ambito del diritto privato. Fermo restando che “la Costituzione intende la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Un intervento, quello del Cardinal Ruini, definito “legittimo” da Piero Fassino, ma la cosa non ha impedito a Carlo Azeglio Ciampi appena 24 ore dopo di ricordare esaltando la Presa di Porta Pia in quanto fine del potere temporale dei Papi, parole universalmente interpretate come un altolà agli eccessi di certi interventismi. Quando Ciampi e Pier Ferdinando Casini commemorano a Montecitorio la visita resa da Giovanni Paolo II alla Camera dei Deputati il messaggio che Bene- 132 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 detto XVI invia contiene la rassicurazione che la Chiesa non è in cerca di privilegi, e che anzi rispetta la “legittima laicità” dello Stato. Al tempo stesso però rivendica il diritto a parlare “in favore della persona”, nel pieno rispetto del Concordato. Proprio sul Concordato, però, si sono appuntati nel frattempo gli strali della parte più laicista del centrosinistra, lo Sdi di Enrico Boselli ed i radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino. Le due componenti, dopo aver scelto la via della fusione a freddo nella componente detta della Rosa nel Pugno, hanno immediatamente attaccato gli accordi tra Stato e Chiesa, dichiarandoli superati. Una posizione che non ha trovato alcun consenso nelle restanti componenti delle opposizioni (lo stesso Bertinotti si espresso contro ogni modifica non solo del Concordato, ma anche dell’8 per mille), ma che ha agitato non poco le acque, da decenni sonnacchiose, tra le due sponde del Tevere. • La questione aborto. Su questo si è innescata infine una nuova polemica sull’aborto. A scatenarla la decisione di un ospedale di Torino di far sperimentare la “pillola del giorno dopo” Ru486, uno strumento abortivo da anni condannato dalla Chiesa e mai introdotto finora in Italia. La sperimentazione in Piemonte è stata inizialmente sospesa su decisione del ministro della Salute Francesco Storace (in questo frangente il presidente della Regione Piemonte, la diessina Mercedes Bresso, ha avuto modo di dichiarare intempestivamente: “sono laica, ma se fossi credente non mi farei cattolica, semmai calvinista”) e poi fatta riprendere, mentre la Ru486 veniva adottata anche in alcune strutture ospedaliere toscane. Contemporaneamente Benedetto XVI elogiava gli attivisti del Movimento per la Vita, mentre Storace si dichiarava disponibile a far entrare nei consultori veri e propri volontari antiabortisti. Dura reazione non solo da parte di settori del centrosinistra, ma della stessa maggioranza. Mentre l’Osservatore Romano denunciava il tradimento dello spirito della 194, il ministro delle Pari opportunità Stefania Prestigiacomo commentava: “Qui si vuole tornare ad una condizione medievale di trattamento della donna”. Un riferimento esplicito anche alla richiesta dell’Udc di avviare un’inchiesta parlamentare sull’applicazione di tutte le parti della 194, compresa quella sui consultori (in larga parte disattesa). In generale, l’impressione che si ricava è quella di una mancanza di mezzi politici adeguati ad affrontare una materia così delicata come i rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato laico. Non sfugge che, se il problema della completa applicazione della 194 è autentico e pesante, si arriva a parlarne a ridosso della prova elettorale. La cosa alimenta il dubbio che, più che a dare alla legislazione generale italiana una cornice di valori cristiani, si pensi a concentrarsi su temi etici e morali atti a smuovere con facilità quelli che una volta sono stati definiti i “voti del cielo”. Manca del tutto l’opera di matura mediazione da parte dell’ormai disperso laicato cattolico impegnato in politica, storicamente capace di inserire talune tematiche in un più generale contesto di costruzione di una società pluralista volta alla valorizzazione della persona umana. Nel rispetto anche del pluralismo e dei numeri. Colpisce anche il ritorno di vecchi atteggiamenti inutilmente laicisti di parte del mon- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 133 do politico, trasversale alla destra e alla sinistra, ben rappresentato da Boselli, Pannella, Prestigiacomo e Taradash, mentre l’atteggiamento di Storace, sicuramente sincero, appare in buona parte frutto della preoccupazione di recuperare ad Alleanza Nazionale una fetta fondamentale di elettorato che rischia di ritenersi in libera uscita dopo la presa di posizione di Fini sulla procreazione assistita. Gli esiti di questa fase saranno evidenti dopo le elezioni, soprattutto se la nuova maggioranza dovesse approvare una legge in qualche modo favorevole ai Pacs, e la Cei decidesse, come ha lasciato intendere in una intervista il Cardinal Sodano, di scendere nuovamente in campo, facendo promotrice questa volta non di una campagna per l’astensione dal voto, ma di una vera e propria iniziativa referendaria. • Riforme e altre questioni. Allo scadere della legislatura, la maggioranza è tornata a dar prova di una certa compattezza in Parlamento al fine di varare alcune riforme fondamentali a mantenerne il collante in vista dell’appuntamento elettorale. Così sono state definitivamente varate la devolution tanto cara alla Lega, la riforma dell’ordinamento giudiziario, la riforma del Tfr, la legge ex Cirielli, la proporzionale. In particolare, quest’ultima non era prevista da alcun patto di legislatura, e non sembrava essere nemmeno all’ordine del giorno dopo che l’aveva chiesta con forza ancora d’estate l’Udc di Marco Follini. Seguendo l’esempio non esaltante di Francois Mitterrand nel 1986, la Casa delle Libertà ha cambiato all’ultimo momento le regole del gioco per limitare i danni di una eventuale sconfitta elettorale, a prezzo di tornare, almeno nominalmente (i frutti della nuova legge matureranno solo nella stagione postelettorale) al vecchio sistema proporzionale. Lo stesso la cui fine ha aperto la strada a quella politica per leader e slogan che ha fatto la fortuna di gran parte dell’attuale classe dirigente italiana, a cominciare proprio da Silvio Berlusconi (senza dimenticare lo stesso Prodi). L’immediata conseguenza è stata il ritorno al partito di Pier Ferdinando Casini, aiutato in questo anche dalla fine della segreteria Follini, sostituito ad ottobre da Cesa, ed il lancio della candidatura a Palazzo Chigi dello stesso Casini, ma anche di Gianfranco Fini. Un “gioco a tre punte” destinato ad aiutare non si sa ancora esattamente chi. La portata della riforma non è ancora chiara, ma è significativo il fatto che Romano Prodi, generalmente restio ad annunciare progetti controriformistici, in questo casso abbia detto a chiare lettere che un suo governo cercherà di tornare immediatamente al maggioritario. Anche la devolution ha provocato l’immediata reazione delle opposizioni, che ora vedono nel referendum confermativo lo strumento per bloccare quella che viene definita una riforma destinata a frantumare il tessuto connettivo del paese. È utile notare che i referendum confermativi, al contrario di quelli abrogativi, non prevedono quorum, e a giovarsi di questa circostanza saranno con ogni probabilità i fautori del no alla ratifica: l’unica forza politica a desiderare sovra ogni altra cosa la devolution infatti è la Lega, per la quale la posta in gioco equivale grossomodo alla stessa ragion d’essere del partito. Forza Italia sembra avere l’atteggiamento di chi ha già pagato con l’approvazione parlamentare il prezzo pattuito per l’adesione degli uomini di Bossi alla Casa delle Libertà, mentre difficilmente Alleanza Nazio- 134 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 nale potrà mobilitare a fondo il proprio elettorato con la motivazione che parte del pacchetto delle riforme costituzionali riguarda un vecchio cavallo di battaglia di An, il rafforzamento dei poteri del premier. L’uscita di Domenico Fisichella dal partito è indice di questo profondo malessere. Viceversa il centrosinistra, se non del tutto contrario in certi suoi settori proprio al rafforzamento dei poteri del premier (in particolare in certi ambienti prodiani), è compatto nell’opposizione alla devolution bossiana, ed ha scelto di dar vita ai comitati “Salviamo la Costituzione” presieduti dal Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Da ultimo è significativo che proprio sulla devolution la Conferenza Episcopale Italiana abbia espresso perplessità similari a quelle dell’Unione, parlando in toni preoccupati della necessita’ “di contrastare con la massima attenzione la creazione di 20 servizi regionali diversi”. Nelle parole dei vescovi pare di poter cogliere la dimostrazione di quanto si diceva prima, e cioè che la politica attuale, in cui il ruolo dei cattolici laici è ridotto quasi all’irrilevanza, si limiti ad accontentare alcune esigenze della cultura cristiana, dando però all’intera legislazione nazionale un’impronta culturale estremamente lontana dai valori cattolici e dalla dottrina sociale della Chiesa. Questo avviene indipendentemente dall’essere al governo il centrodestra o il centrosinistra. Il ruolo dei cattolici nella società italiana, al momento, è limitato al gentilonismo dei “voti del cielo”. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 135 Politica internazionale a cura di Mario Giro Germania incerta; Francia in turbolenza • Entrambi i paesi al cuore dell’Unione Europea, la Francia e la Germania, stanno attraversando un periodo di turbolenza che rende improbabile un rapido rilancio del processo di integrazione. In Germania la sconfitta della SPD alle elezioni amministrative di aprile, ha costretto Gerarhdt Shroeder ad andare a elezioni anticipate in settembre. Questa scelta repentina del cancelliere ha scosso l’ambiente politico tedesco, abituato a procedure meno brusche. Si è trattato tuttavia di una decisione vincente perché alle elezioni, pur partendo con un ampio distacco e avendo perso tutte le locali e le amministrative degli anni precedenti, la SPD – condotta da un cancelliere che dà il meglio di sé in campagna elettorale – ha ritrovato slancio ed è giunta seconda per un soffio: 222 seggi a 226. La conseguenza è stata, dopo quasi due mesi di negoziato, la riedizione della Grosse Koalition, come nel 1966, condotta dalla prima donna cancelliere della storia tedesca: Angela Merkel. Chi si aspettava un rapido rilancio dell’economia attraverso profonde riforme o una ripresa dell’Europa condotta da una Germania nuova, è rimasto deluso: la coalizione tra SPD e CDU sarà la collaborazione prudente tra due partiti fino a ieri antagonisti e oggi costretti a collaborare. In altri paesi, come nella vicina Francia, tali forme di coabitazione non funzionano. Non è detto però che la Germania non riservi sorprese da questo punto di vista. In passato l’esperienza della coalizione diede buoni frutti, ma soprattutto é la biografia della nuova “cancelliera” – originaria dell’est e dalla personalità risoluta – che fa sperare in un nuovo protagonismo della Germania. L’Europa ne ha certamente un gran bisogno. • Dal novembre 2004, quando Nicolas Sarkozy diviene presidente dell’UMP, il partito creato da Jacques Chirac, la scena politica francese è dominata dalla sfida tra il vecchio Presidente della Repubblica e il giovane ambizioso ministro dell’Interno d’Oltralpe, accusato di essere troppo autonomo e di giocare a fare il solista. 136 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Tutta la carriera di Sarkozy è infatti la corsa di un outsider, un “maverick” come si direbbe negli Usa, un politico senza padrini né filiazioni. Un anno dopo, il duello tra i due non si è attenuato, anzi ha mietuto la sua prima vittima illustre nei panni dell’ex primo ministro Raffarin che ha dovuto rassegnare le dimissioni dopo la vittoria dei No al referendum del 29 maggio per la ratifica del trattato costituzionale europeo. Il primo ministro si è battuto per il Sì, assieme alla gran parte della classe politica francese, fatte salvo le ali estreme. Tuttavia la maggioranza ha scelto di opporsi, facendo subire a Chirac una sconfitta paragonabile a quella dello scioglimento dell’Assemblea nazionale nel ’97. I francesi hanno votato No soprattutto per cause interne: il cattivo andamento dell’economia, la sfiducia nelle riforme proposte dal governo. Ma certamente anche il dibattito sulla futura adesione della Turchia e la difficile assimilazione dei nuovi 10 membri hanno avuto il loro peso. Raffarin era stato scelto dal presidente dopo la sua rielezione, come uomo dal profilo moderato e per contrastare le ambizioni ad occupare palazzo Matignon di Sarkozy, che aveva dovuto accontentarsi del ministero dell’Interno. Da quel posto il dinamico politico gollista, un tempo alleato di Balladur nelle presidenziali del 95, ha costruito la sua immagine di uomo forte, affidabile nelle scelte per la sicurezza (uno dei temi della campagna presidenziale), pronto a dirigere la Francia. Per toglierlo da un posto considerato troppo mediatico, e metterlo in difficoltà secondo alcuni, Chirac aveva spostato Sarkozy al ministero dell’Economia e Finanze nel secondo governo Raffarin e dato place Beauvau al suo fidato segretario generale dell’Eliseo, Dominique de Villepin. Ma anche dalla nuova postazione il ministro aveva proseguito la sua opera autonoma di rafforzamento di un’immagine da “presidenziabile”. Dopo i risultati del referendum, Raffarin è stato il capro espiatorio predestinato, come accade al Primi ministri in Francia, chiamati anche i “fusibili”. A quel punto Sarkozy è tornato alla carica e al presidente non è rimasto che nominare primo ministro Villepin, il collaboratore di sempre. Il difetto di quest’ultimo è di non essere mai stato eletto, non essersi mai cimentato con una campagna elettorale e di apparire come il puro prodotto delle Hautes Ecoles che in Francia sfornano a getto continuo gli alti funzionari di Stato. In compenso Sarkozy è tornato all’Interno. Tra i due uomini il rapporto è molto difficile, talvolta le dichiarazioni vanno sopra le righe. Si tratta di una specie di coabitazione tra due anime dello stesso governo. Sarkozy, che controlla il partito, mira alle elezioni presidenziali del 2007 e ha imposto all’UMP di scegliere il candidato in fase congressuale, bloccando così ogni possibile intervento di Chirac. • A sinistra le cose non sono più chiare. Anche per il Partito socialista (PS) il referendum è stato un momento traumatico, già nel corso della campagna elettorale. Laurent Fabius, ex primo ministro di Mitterrand e uno dei capi socialisti storici, aveva spaccato il fronte schierandosi per il No, assieme ai trotzkisti e ai comunisti. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 137 Per un politico liberalsocialista come lui si è trattato soprattutto del tentativo di rientrare sulla scena politica, dopo alcuni anni di oscuramento, dovuto in parte a guai giudiziari. Anche se l’assemblea del PS aveva in precedenza stabilito la linea del sostegno al Si, Fabius si era desolidarizzato, auto-sospendendosi de facto dalla direzione del partito. La vittoria del No lo ha ricompensato dandogli un’improvvisa nuova popolarità e mettendo in imbarazzo il giovane leader del PS, François Hollande, succeduto alla testa della formazione dopo la famosa rinuncia di Lionel Jospin, la sera del primo turno delle presidenziali del 2002. La crisi socialista è tanto più paradossale se si pensa che alle ultime regionali del 2004 il PS aveva strappato 20 regioni su 22 alla destra. Sempre minacciato dall’estrema sinistra, che non cessa di attaccare socialisti alla stessa stregua dei gollisti e che presenterà certamente uno o più candidati alle prossime presidenziali, il PS sa di rischiare ora anche una frammentazione interna. Se Fabius decidesse di presentarsi, suscitando forse anche le ambizioni di qualcun altro, l’incubo dei socialisti è di rivivere l’esclusione dal secondo turno. Non altrimenti è da leggere l’invito rivolto a Romano Prodi al recente congresso PS per parlare delle primarie dell’Ulivo: la formula italiana potrebbe rappresentare per i socialisti francesi quella quadratura del cerchio necessaria a ricostruire un’unità a rischio. • Mentre la classe politica d’oltralpe si divide in un tipico esercizio di “politique politicienne”, le banlieue francesi sono state attraversate da un vento di rivolta. Per circa un mese migliaia di giovani, in maggioranza rappresentanti le seconde e terze generazioni degli immigrati arabi o africani, sono scese in piazza di notte incendiando automobili, distruggendo negozi, stazioni di servizio ecc. er scontrandosi con le forze dell’ordine, in un fenomeno violento senza precedenti per la sua estensione. Il ministro dell’Interno Sarkozy ha scelto questa occasione per lanciare una delle sue frasi che riecheggiano il linguaggio dell’estrema destra lepenista, un modo per mandare uin messaggio agli elettori di quella parte politica: ha chiamato i giovani “feccia”. Ma al di là delle esternazioni dei politici, va detto che molti intellettuali, come il filosofo Filkienkraut o l’accademica di Francia Carrère d’Encausse, hanno espresso giudizi molto duri sui giovani ribelli, accusandoli di non voler integrarsi, si essere il risultato del “comunitarismo” (il vivere in comunità separate, ciò che è contro lo spirito stesso della laicità repubblicana), di avere “usi e costumi troppo africani o arabi” ed altro. Si nota quindi una reale frattura di comunicazione tra i giovani figli di immigrati – quasi tutti con cittadinanza francese – e l’opinione pubblica. Molti francesi considerano l’integrazione fallita, dopo anni di retorica “repubblicana”, cioè il riferimento ai valori della repubblica davanti alla quale tutti sono uguali nello spirito della laicità dello stato. Va notato che il fallimento è stato causato piuttosto dalla non applicazione del modello repubblicano stesso. La frattura sociale è facilmente 138 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 riscontrabile dalla ghettizzazione di intere fasce di popolazione, tra le meno agiate. Le enormi cités, dove vivono ammassati solo immigrati o poveri, non corrispondono in nulla al modello integrativo alla francese. Il ghetto francese esiste ed è ben visibile nella struttura abitativa delle città. Nel 2005 si contavano oltre 700 quartieri “sensibili” in Francia. La cartina della loro dislocazione corrisponde alle zone di turbolenza di queste notti incendiarie. Non va dimenticato che non si tratta di un fenomeno nuovo: già negli anni Ottanta rivolte simili si sono avute nelle stesse aree, benché in misura meno generalizzata. In discussione in queste ore è proprio la politica della città, che in Francia è stata oggetto di molte riflessioni (e anche della creazione di un ministero apposito) ma non ha saputo dare risposte determinanti. Negli anni Ottanta le rivolte erano terminate quando gli emiri fondamentalisti erano riusciti a dirottare la rabbia giovanile verso la moschea, la reislamizzazione dal basso, l’indottrinamento. Abbiamo visto le conseguenze di tale manovra. Quale sarà lo sbocco che oggi sarà proposto ai giovani beurs di oggi? Medio Oriente e Nord Africa: primi mutamenti in uno scenario ingessato • A fronte dello stato comatoso della politica europea di relazione con il mondo arabo, dimostrata anche dal fallimento del Vertice Euromed di novembre, al contrario gli Usa – malgrado l’evidente difficoltà a pacificare l’Iraq – sembrano ottenere alcuni successi. La strategia americana del Grande Medio Oriente, incentrata sui rapporti bilaterali, la spinta alla democratizzazione e la mediazione nelle crisi, fa alcuni passi in avanti. Egitto In Egitto si sono svolte in autunno le elezioni presidenziali e legislative. Nel primo caso la vittoria annoiata di Mubarak non ha destato sorprese, anceh se si è assistito per la prima volta a un confronto tra candidati. Nel caso del voto per il parlamento invece, l’affermazione del partito dei Fratelli Musulmani che conquistano oltre 80 seggi, anticipa una tendenza che potrebbe essere ripresa da altri paesi arabo-musulmani. Il partito del presidente rimane maggioritario, complice un complesso sistema elettorale a vari turni, ma la novità rimane, soprattutto se si tiene conto della presenza dei Fratelli musulmani in molti altri paesi cosiddetti moderati, come la Giordania. Si capisce meglio così la violenta critica che i capi di al Qaeda da tempo rivolgono alla formazione fondamentalisti, proprio per aver scelto la via elettorale e il gioco democratico. Un successo di tale opzione è un grave rischio per coloro che hanno puntato tutto sulla violenza, sul terrorismo e sullo scontro di civiltà. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 139 Israele In Israele, il completamento in agosto del ritiro israeliano da Gaza, che molti osservatori consideravano improbabile, crea una nuova situazione politica. Da una parte l’Amministrazione Palestinese è messa per la prima volta di fronte alle proprie responsabilità. A Gaza dovrà mantenere l’ordine ed è costretta a dar prova di fermezza con Hamas che ha nella Striscia il suo punto di forza. Dall’altra il primo ministro Sharon, che non si è piegato alle critiche piovute da destra, è sempre più solo nel suo partito, il Likud. A fine anno la grande coalizione con i laburisti, che ha permesso di sostenere l’impatto degli attacchi, finisce su un binario morto. A novembre il partito laburista elegge a sorpresa un nuovo leader, Amir Peretz, sindacalista di origine ebreo-marocchina, scelto su un programma economico spiccatamente progressista. Il nuovo segretario parla di “Israele stato di tutte le religioni” e decide il ritiro dei ministri dal governo di coalizione. A Sharon non resta che convocare le elezioni per la primavera. Tuttavia il vecchio primo ministro non si arrende: stretto fra le critiche nel suo partito e la fine dell’alleanza con la sinistra, con una mossa improvvisa dichiara di lasciare il Likud per formare un nuovo partito centrista. Lo segue Shimon Peres che si è visto sfiduciato dal Labour. I primi sondaggi gli danno ragione: la nuova formazione è prima mentre il Likud affonderebbe perdendo molti consensi. Siamo forse alla vigilia di una vera svolta politica in Israele che non mancherà di influenzare i palestinesi. Abu Mazen infatti è in continua polemica con Hamas che non vuole abbandonare il controllo di Gaza. Alcuni scontri armati hanno portato alla luce la tensione latente tra l’organizzazione islamista e la polizia palestinese. Libano Nel vicino Libano il 2005 è stato l’anno del ribaltamento. L’assassinio, avvenuto in febbraio, di Rafik Hariri, ex primo ministro della ricostruzione post-bellica, ha provocato una fortissima ondata di indignazione contro la Siria, accusata dell’attentato. Enormi manifestazioni hanno attraversato le vie di Beirut e anche il funerale dell’uomo politico si è trasformato in una protesta di massa. Le pressioni internazionali su Damasco, in cui Francia e Usa si sono trovate fianco a fianco, sono state talmente forti da costringere al ritiro i circa 20.000 militari che stazionavano nel paese dagli anni Settanta. Nel giugno, per la prima volta dal 1972, i libanesi hanno potuto recarsi alle urne senza la tutela siriana. I risultati hanno premiato la formazione plurale diretta dal figlio di Hariri, Saad, una colazione di cristiani e musulmani che ha anche avuto l’appoggio degli Hezbollah sciiti del sud. Tutte le formazioni politiche hanno inserito nelle loro liste personalità di varie religioni e provenienza geografica: un primo passo per mettere fine alla rigida partizione etnico-religiosa che caratterizzava la politica libanese. Alcune donne hanno potuto essere elette e fanno parte del nuovo governo di coalizione, in cui ha accettato di en- 140 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 trare anche il partito Hezbollah. Il ritrovato pluralismo libanese, affrancato dalla tutela siriana, rappresenta un esempio unico di democrazia e di coabitazione tra diversi, un messaggio importante per un mondo arabo tentato dall’omologazione a causa della sfida estremista. Nord Africa Anche in Nord Africa si segnalano alcune novità, in controtendenza rispetto alla minaccia fondamentalista. Nell’Algeria spossata da più di dieci anni di guerra civile, la parziale riforma del codice della famiglia, con alcuni avanzamenti sull’affido dei figli alla madre in caso di separazione e l’obbligo di assicurare l’alloggio all’ex moglie, ma soprattutto l’approvazione a settembre per via referendaria di una Carta per la pace, che metta fine al conflitto intestino, segnano una svolta di rilievo. La politica della concordia civile del presidente Bouteflika segna così un altro passo in direzione dell’uscita dalla crisi. Rimangono tuttavia le polemiche sull’amnistia promessa ai terroristi e ai militari, in un paese che ha visto il numero delle vittime giungere a circa 200.000, con un milione di sfollati e almeno 18.000 scomparsi. Marocco In Marocco, il giovane sovrano Mohammed VI, dopo aver abolito il tutorato dell’uomo sulla donna e severamente ristretto le possibilità di ripudio e di poligamia, ha preso un’iniziativa coraggiosa sulla riconciliazione nazionale. A Rabat è stata istituita l’Istanza di Equità e Riconciliazione (sul modello sudafricano) che ha rimesso il suo rapporto al re il 30 novembre. In sedute pubbliche (ma senza far nomi) trasmesse dai media, le vittime delle violazioni dei diritti umani dal 1956 al 1999, o i loro parenti, hanno potuto denunciare le violenze subite. Ai congiunti degli scomparsi è stato concesso di inoltrare denuncia davanti all’Istanza. Così è venuta alla luce la storia segreta dei regni precedenti, sono stati identificati e chiusi numerosi luoghi di detenzione clandestini, riesumati molti corpi, indennizzate le vittime o i loro familiari. L’Istanza di arbitraggio, che si è occupata dei risarcimenti, ha versato oltre 120 milioni d dollari per circa 6000 casi. Si tratta della più grande operazione di questo tipo messa in atto in un paese arabo-islamico, un’occasione di trasparenza e di catarsi nazionale con l’obiettivo di riconciliare il Marocco con il suo passato. Malgrado il basso profilo appositamente tenuto dai componenti dell’Istanza (quasi tutti ex prigionieri politici o militanti dei diritti umani), tale esperienza è stata seguita con interesse dai media internazionali arabi ed è certamente destinata a fare scuola per divenire un modello imitabile. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 141 Il Polisario Dopo una lunga stasi, si riapre anche la possibilità di una soluzione dell’annosa questione Saharaoui. Il Polisario (Fronte per la liberazione dell’ex sahara spagnolo) ha recentemente ceduto alle pressioni americane e liberato gli ultimi 400 prigionieri di guerra marocchini. Si tratta di una storia dolorosa, risolta dall’impegno del senatore Lugar, presidente della commissione affari esteri del Senato, nel quadro della strategia americana per il riavvicinamento tra Algeria e Marocco, entrambi in ottime relazioni con Washington. Al momento del cessate il fuoco del 1991, vi erano oltre 2200 prigionieri marocchini nei campi desertici di Tindouf, una regione dell’Algeria che sostiene il Polisario. Quest’ultimo ne libera poche decine alla volta, nel corso di dieci anni. Dal canto suo, a Rabat la monarchia ha dimenticato i prigionieri del deserto, che diventano dei fantasmi. È Maometto VI a riaprire la ferita nel 2005, chiedendo la liberazione dei “dimenticati del deserto”. Finalmente l’Algeria, cedendo alle pressioni americane, ottiene dal Polisario il loro rilascio e il 18 agosto gli ultimi 400 tornano a casa. L’antica alleanza americana con il Marocco e le recenti relazioni stabilite con Algeri, spingono alla distensione tra i due paesi, in antagonismo fin dalla “guerra delle sabbie” dell’inizio anni Sessanta. Per gli Usa la stabilità dell’area nord africana è molto importante, soprattutto da quando è stato accertata la presenza di gruppi terroristici salafiti che agiscono nella zona saheliane a sud dei due paesi maghrebini. Il rapimento di turisti occidentali nel deserto e alcune azioni a sud di Marocco e Algeria, hanno da tempo messo in allarme numerosi servizi di intelligence. Pericolo di infiltrazioni terroristiche in Africa • L’“islam nero”, 250 milioni di fedeli, si è sempre distinto da quello arabo per le sue capacità di adattamento in seno a società etnicamente e religiosamente plurali. Il sincretismo e la mescolanza dei riti sono la regola nella maggioranza dei paesi africani. In Africa islam, cristianesimo e animismo si fronteggiano da avversari ma non da nemici, o almeno il conflitto è assorbito dal sistema clanico e nella vita quotidiana. I passaggi da una fede all’altra sono tollerati, le famiglie “miste” frequenti, provocando l’ira o la derisione dell’islam arabo. Tuttavia in alcuni paesi o regioni, le frizioni possono sfociare in conflitto. I due paesi africani dove il pericolo di contaminazione del terrorismo internazionale è oggi più forte sono la Nigeria e il Sudan. Le cronache riportano episodi legati ad al Qaeda in Africa Orientale, nella Somalia dei signori della guerra, in Eritrea, in Tanzania e Kenya a causa degli attentati alle ambasciate Usa, nell’isola arabofona di Zanzibar. • Tuttavia Nigeria e Sudan possiedono le caratteristiche necessarie per l’impiantarsi di una rete eversiva stabile. Entrambi i paesi sono ex colonie britanniche, han- 142 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 no conosciuto numerosi colpi di stato militari, adottato un quadro istituzionale federale per evitare le spinte secessioniste (Biafra per la Nigeria, Sud per il Sudan), sempre incarnate da leader cristiani. Gli studiosi hanno messo in luce legami antichi tra i due paesi, complice il passaggio obbligato attraverso Khartoum che i nigeriani dovevano compiere sul cammino verso la Mecca. Un importante flusso migratorio trasversale è sempre esistito e ancora oggi città sudanesi come Nyala, el Facher (capoluogo del Dafur) o Kassala hanno circa un 20% di popolazione di origine nigeriana. Gli scambi intra-islamici tra i due paesi sono avvenuti anche grazie alle confraternite musulmane, come quelle impiantate nel Darfur da missionari nigeriani. Come avviene in Nord Sudan, in Nigeria si applica la sharia in 12 stati sui 36 che conta la federazione. Una caratteristica comune ai due paesi è l’appoggio dato dalle autorità coloniali alle elite islamiche: nel nord Sudan e nord Nigeria sheik e emiri locali furono frequentemente posti a presiedere le corti di giustizia locali. In Sudan ciò ha permesso di contenere per un tempo il contagio indipendentista proveniente dall’Egitto. I rampolli dell’aristocrazia musulmana sudanese furono sconsigliati di proseguire gli studi superiori a Beirut o al Cairo, favorendo la nascita di scuole islamiche confraternali locali. Similmente in Nigeria i missionari cristiani furono intralciati e ostacolati dall’autorità britannica nella loro progressione verso nord. Così poco a poco si è venuto a creare in entrambi gli stati una doppia velocità, con un nord sottoposto alla legge islamica e un sud amministrato dalla legge del colonizzatore adattata alle tradizioni ancestrali. Il diritto musulmano in vigore nel Nord Sudan fu codificato nel 1915 e venne utilizzato per la redazione di quello del Nord Nigeria nel 1959. L’anno dopo, all’indipendenza, erano sudanesi ad occupare i posti chiave nelle corti islamiche del nord Nigeria. Dopo la decolonizzazione in entrambi i casi il doppio sistema giuridico è rimasto intatto, irrigidendosi in scontro confessionale. • Il tentativo è ancora oggi lo stesso: estendere la sharia a tutto il paese o almeno anche ai non-musulmani presenti nelle rispettive regioni del nord. La trentennale guerra con il Sud ha oggi finalmente avuto fine con la firma dell’Accordo di pace del 9 gennaio, e non è stata messa in discussione nemmeno dalla morte di John Garang, il leader cristiano del Sud, avvenuta per incidente di elicottero all’inizio di agosto. Ciononostante il lungo conflitto ha mutato il volto del paese: la popolazione cristiana della capitale Khartoum è passata da qualche decina di migliaia negli anni Settanta, a circa un milione oggi. Anche la crisi in Darfur ne è una diretta conseguenza, complicata nei mesi recenti dalla divisione in seno alla ribellione antigovernativa. Il passaggio della Nigeria alla democrazia nel corso degli anni Novanta e l’elezione di Obasanjo alla presidenza, un cristiano protestante, non ha modificato i termini della questione: il sistema federale permette agli stati del nord di applicare il codice islamico malgrado le proteste delle chiese. In Sudan anche l’estromissione al potere del National Islamic Front di Hassan el Turabi, il leader fon- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 143 damentalista che aveva ospitato Bin Laden negli anni Novanta, ha dato un forte impulso ai negoziati tra governo e SPLA. Tuttavia, anche secondo l’accordo, la sharia è iscritta come fonte di diritto e resta applicabile al nord. Attualmente in tutti e due gli stati, sotto la spinta della lotta al terrorismo e per mantenere i migliori rapporti possibili con gli Usa, prevale un’interpretazione “tollerante” della sharia: si denunciano gli eccessi dei sauditi che applicano il taglio della mano per i ladri, mentre “è meglio utilizzare la frusta”, prevista nell’80% delle pene. I sanguinosi scontri intra-comunitari di cui è costellata la cronaca nigeriana, anche se possono aver origine in questioni legate al controllo di mercati o risorse, sono aggravati dal contrasto sulla legge islamica. La crescita di movimenti radicali in entrambi i paesi ha messo in discussione lo statuto delle minoranze cristiane nelle regioni del nord, vittime primarie delle campagne contro l’alcolismo, la prostituzione o i cattivi costumi. La stessa controversia sull’applicazione della pena di morte alle adultere (le storie di Amina e di Safiya che tanto hanno fatto scalpore nelle cronache occidentali) è la conseguenza di tale situazione. Gravi sono anche le reazioni al fenomeno dei convertiti (che non diminuisce in Nigeria, né scompare in Sudan) o le accuse di blasfemia rivolte ai cristiani. Tale situazione ha come conseguenza di mettere in crisi la tenuta unitaria dei due stati. Gli estremisti islamici sono più interessati alla religione che all’unità nazionale e non vedono male una possibile partizione, sia in Nigeria che in Sudan. Paradossalmente si tratta della stessa posizione di molti non-musulmani secessionisti. È possibile che le reti terroristiche sostengano tale eventualità per procurarsi degli approdi sicuri in territori omogenei. Il contesto della lotta globale al terrorismo rende tale eventualità una minaccia, percepita come tale dalle cancellerie occidentali in particolare nel caso della Nigeria. 144 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Ricerche a cura di Andrea Bixio Individuo e Moltitudine di Fedele Cuculo (*) I nuclei tematici • Tra gli interessi più significativi della riflessione sociologico-giuridica e filosofico-politica contemporanea, con sempre maggior ricorrenza compare il riferimento alla categoria di moltitudine, quale rinnovato paradigma ermeneutico dei rapporti tra singolarità individuali, collettività sociali, dinamiche ed istituzioni di potere. Ne rappresentano rinnovata testimonianza le recenti giornate di studio organizzate dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna (17-19 novembre 2005), orientate appunto all’investigazione intorno ai profili di problematicità e suggestività del tema in discorso. In realtà, mai con tale intensità come nelle società del post-moderno si è percepito – soprattutto in certi ambienti scientifici del contesto continentale europeo – il bisogno di confrontarsi con gli esiti della globalizzazione economica, politica, culturale; questa direttrice di ricerca si è sviluppata problematizzando l’orizzonte contrattualistico-politico moderno, mediante la proposizione di modelli interpretativi teorici elaborati allo scopo di attingere ulteriori e più appaganti livelli di comprensione della complessità della realtà sociale. Più in particolare, le linee di analisi qui segnalate trovano svolgimento in corrispondenza – per un verso – con le più esplicite indicazioni di crisi degli schemi politici e giuridici della rappresentanza statual-nazionale (si pensi alla caduta degli ordinamenti di ispirazione sovietica, ai peculiari attivismi dei movimenti di opinione e di protesta, ma anche alle teorie e ai processi della cd. de-istituzionalizzazione) e – per l’altro – con la reticolarizzazione degli assetti sociali (di reciproca e più imme(*) Professore a contratto di Sociologia del Diritto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia - Università di Cassino. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 145 diata connessione) implicati dall’affermazione dei mercati globali. In un quadro siffatto, emerge con progressiva nettezza (attraverso il recupero dell’idea di moltitudine) il tentativo di definizione – originale ma non improvvisato – di una dimensione sociale di congiunzione delle aspirazioni di pertinenza dell’individuo (inteso nella sua accezione di irripetibile singolarità desiderante) con gli spazi di autodeterminazione della socialità collettiva. Nell’intendimento di una loro unitaria profilazione, va, dunque, rilevato come i percorsi ermeneutici tracciati dai teorici della moltitudine – seppur connotati dalla comune filiazione spinoziana – si distinguano, in termini sostantivi, per le rispettive sensibilità di ricostruzione ontologica della società ed in ragione delle rilevanti diversità di prospettiva ideologica. La moltitudine nella prospettiva politica • Tra i più significativi contributi orientati alla strutturazione di una teoria della moltitudine, denotano, senza dubbio, particolare meritevolezza di menzione alcuni pregevoli, recenti lavori ricostruttivi dovuti all’opera di Etienne Balibar (cfr. Etienne Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo, tr. it., Manifestolibri, Roma 2004; Id., Spinoza. Il transindividuale, tr. it., Ghibli, Milano 2002; Id., La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, tr. it., Mimesis Eterotopia, Milano 2001; Id., Citoyen Sujet. Réponse à la question de J.-L. Nancy: Qui vient après le sujet?, «Cahiers Confrontation», 20/1989). Balibar analizza suggestivamente i profili strutturali del complesso rapporto (insieme permanente e dinamico) intercorrente tra masse e passioni, in riferimento specifico alla duplicità vettoriale (vale a dire in senso oggettivo e soggettivo) della paura quale sentimento collettivo: “la crainte des masses” viene, dunque, delineandosi come “formulazione [intenzionalmente] ambivalente” del genitivo che l’espressione (la paura delle masse) contiene (cfr. Spinoza. Il transindividuale, cit., p. 14), incarnazione di pulsioni reciproche che le moltitudini, nel contempo, patiscono ed ispirano nella dialettica materiale del confronto con le istituzioni di potere. Il consapevole perdurare delle condizioni di fluctuatio animi delle masse, secondo la perenne oscillazione tra amore e odio nel loro direzionamento politico, sviluppa la trasposizione dell’idea spinoziana di obbedienza alle leggi come rappresentazione dell’“esaurimento [della coattività] dello Stato nel compimento del suo fine” (cfr. ivi, p. 15), nella direzione di una democrazia della moltitudine auspicabile ma disarmata. D’altra parte, nella prospettiva interpretativa di Balibar, la centralità ontologica della comunicazione intersoggettiva alimenta l’inestricabile composizione di individualità e moltitudine, che ridimensiona la stessa pensabilità della riduzione totalitaria delle masse in forma di disumanità costretta e dispersa: i fantasmi orwelliani della nostra epoca e i timori del controllo elettronico delle opinioni fanno i conti, 146 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 in questo senso, con la presenza politica della moltitudine e la sua inestinguibile coscienza di sé. All’idea cardinale sin qui illustrata della transindividualità quale essenza del legame collettivo si giustappone la valorizzazione negriana della moltitudine come dimensione di resistenza, mutamento politico e dispiegamento delle cupidità autorealizzative delle singolarità desideranti. Inscritto nell’orizzonte della critica neomarxista dei sistemi di biopotere, il pensiero di Antonio Negri (cfr. Michael Hardt-Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004 e Antonio Negri, Guide. Cinque lezioni su Impero e dintorni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003) articola una lettura antagonistica della moltitudine come momento espressivo di anti-individualismo politico (nella misura in cui postula il contrasto ai tentativi di atomizzazione della società politica nel confronto con le strutture globalizzate di potere economico). Trasfigurazione sociale di un’ontologia dell’immanenza (elaborata sul terreno di crisi del modello dello stato-nazione ed emancipata dai vincoli del circuito teorico cittadinanza-rappresentanza) e declinazione di movimenti collettivi, la categoria di moltitudine qui evocata rifugge la connotazione di compatta indistinzione tradizionalmente involgente l’idea di massa, il suo tratto selvaggio di folla idolatra, manipolabile e crudele (cfr. Paolo Cristofolini, Saeva multitudo, comunicazione al convegno bolognese del 17-19 novembre 2005 [per cui supra]), in esplicita e radicale autonomia rispetto agli spettri sociali sottesi ai concetti di proletariato e classe operaia. Nella reciproca implicazione di persona e moltitudine (quale dimensione etica di coalescenza delle singolarità) si sviluppa l’attitudine alla reticolarità, concepita come capacità di produzione di immaterialità e legame sociale. La focalizzazione negriana della costitutività della moltitudine – nella teleologia di forma aperta di una società senza stato – compendia processo immaginativo e generazione istituzionale, arrestandosi sul crinale di una incompiuta definizione (laddove si innestano le più ponderate mozioni di censura teorica): proprio a questo stadio di riflessione, infatti, si rivela (in tutta la sua consistenza concettuale) il nodo interrogativo della sensibile mancanza di prefigurazione degli assetti giuridico-politici suscettivi di sostituire sovranità e strutture statuali. In questo senso specifico, l’aspirazione al tratteggio delle condizioni di inveramento di una democrazia assoluta della moltitudine tradisce i segni della sua inconclusione. La moltitudine nella prospettiva esistenziale • Alla stregua di un diverso dispositivo ermeneutico (e valorizzando un peculiare angolo di prospettiva teorica di più schietta matrice spinoziana), Chantal Jaquet tematizza in forma originale la dimensione della corporalità degli individui Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 147 che compongono la moltitudine (cfr. Chantal Jaquet, Sub specie aeternitatis. Etude des concepts de temps, durée et éternité chez Spinoza [prefaxe d’Alexandre Matheron], Kime, Paris 1997 e Ea., Le corps, Presses Universitaires de France, Paris 2001). In tale cornice di riecheggio deleuziano (cfr. Gilles Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, tr. it., Guerini e Associati, Milano 1998), il tentativo di articolare una visione fisicalista delle relazioni tra personalità e corporeità trova espressione nella rappresentazione antiaristotelica di una speciale corrispondenza tra il livello della costituzione passionale dell’individuo (le attitudini del corpo ad agire e a patire, all’affezione attiva e passiva) e le sue capacità di conoscenza distinta, che permea di sé l’ordito dei rapporti interindividuali nella proiezione collettiva della moltitudine. Per converso, nella riflessione critica di Jean Luc Nancy (cfr. Jean Luc Nancy, La comunità inoperosa, tr. it., Cronopio, Napoli 2003; Id., La creazione del mondo o la mondializzazione, tr. it., Einaudi, Torino 2003; Id., Essere singolare plurale, tr. it., Einaudi, Torino 2001), l’opportunità del ricorso ad un’idea di “essere-in-comune” (che preceda lo stesso spazio della politica) si interseca – non certo per nominalismi di maniera – all’esplicitazione di perplessità investenti l’inadeguatezza categoriale del concetto di moltitudine, considerato nella sua accezione negriana: “[…] è necessario superare l’idea di popolo. Il popolo è sempre ispirato ad un’idea di naturalità, di realtà etnica, ma nello stesso tempo bisogna dire che «c’è» un popolo. Alla parola popolo si accompagna tutta la pesantezza della tradizione che si ispira al concetto di Gemeinschaft, di Volk. […] Non credo che la moltitudine sia la soluzione: è una prospettiva che non mi convince. Credo che ci sia bisogno di un concetto di unità che rimpiazzi quella fornita dal popolo. Quando si parla di moltitudine si parla di qualcosa che ha qualcosa a che fare con la singolarità. Mi sembra che Toni Negri intenda per moltitudine un insieme eterogeneo di uomini e donne che impone ai singoli una comunicazione costante ispirata alla creatività e all’erotismo. In questo modo per me è come se la moltitudine si trasformasse in una collettività amorosa che ha sempre bisogno di una forma e di una unità. Ho l’impressione che la creatività della moltitudine, in questa versione elaborata da Negri, riprenda qualcosa della creatività e della spontaneità dei situazionisti. È un concetto fragile perché la fiducia nella creatività e nella spontaneità della moltitudine si appoggia all’idea di un soggetto tradizionale.” (sequenze tratte dall’intervista pubblicata da «il manifesto» del 12 novembre 2005). Val senza dubbio la pena di considerare, conclusivamente, come la potenziale ontologizzazione del legame sociale postulato dal concetto di moltitudine rischi di condurre allo svuotamento del primato valoriale dell’individuo o ad una sua penetrante compromissione, mentre l’assolutizzazione sostanzialista della categoria di persona (nella sua connotazione di alterità singolare implicata dal superamento della prospettiva contrattualista) depriva di senso e comprime gli spazi delle istituzioni della consociazione politica. Per queste ragioni, il riconoscimento della costituzione passionale di individui e moltitudine non può ragionevolmente corrispondere all’ipostasi della rimozione 148 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 dell’idea di modernità come transizione dal dominio delle passioni alla dimensione del confronto e della selezione degli interessi. Così, le aporie definitorie della moltitudine e dell’invocata potenza del numero (quali concetti di teoria politica), nonché i problemi dell’unanimità come volontà comune delle masse (della loro decisionalità e delle condizioni materiali dell’obbedienza), se per un verso concorrono indubbiamente a delineare un quadro di irrisolte complessità, per un altro verso testimoniano l’ineludibilità del cimento teoretico sul tema della reticolarità delle dinamiche della socialità collettiva post-moderna; di quella dinamica, più in particolare che rinviene nella moltitudine una necessaria (seppur imperfetta) nominazione. Ne scaturisce la consapevolezza di dover muovere, ancora una volta, alla ricerca di una forma giuridica e politica autentica; aspirazione a cui a ben vedere non si può mai realmente rinunciare. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 149 Religioni e Civiltà a cura di Agostino Giovagnoli Una singolare mediazione di pace: La Pira in Vietnam • Quaranta anni fa, l’11 novembre 1965, il presidente nordvietnamita Ho Chi Minh ricevette ad Hanoi Giorgio La Pira. Pochi giorni dopo, questi raccontò così quell’incontro sorprendente: “Questo colloquio finale era stato preceduto, nei giorni precedenti, (8, 9, 10) da altri colloqui interlocutori, preparatori, avuti con i leaders politici del Vietnam (fronte della patria etc.): tutti questi ‘esami precedenti’ erano stati felicemente superati; ogni sospetto (sempre naturale in casi di tanto peso come il nostro) era stato vinto, la fiducia verso di noi era divenuta totale, e finalmente si poteva parlare francamente, a cuore libero con i massimi responsabili politici del Vietnam. Le conclusioni? Eccole in sintesi: – perché il negoziato di pace avvenga […] è necessario a) la cessazione […] di tutte le operazioni di guerra […] b) la dichiarazione secondo la quale gli accordi di Ginevra 1954 vengono assunti come base del negoziato […] La novità emersa dai nostri colloqui […] è questa: il governo di Hanoi è disposto ad iniziare il negoziato (O. Ci. Min ha detto: – sono disposto ad andare ovunque; ad incontrarmi con chiunque) senza prima esigere il ritiro effettivo delle truppe americane […] La difficoltà massima che si opponeva all’inizio dei negoziati era, appunto, costituita dal fatto che sino ad ora il Vietnam aveva richiesto, come atto preliminare ad ogni negoziato, l’effettivo ritiro di tutte le truppe […] il nostro colloquio si è svolto nel contesto di una situazione politica e storica così piena di complessità: perché non bisogna dimenticare che il Vietnam confina – e non solo geograficamente – con la Cina. Eppure nonostante questa vicinanza e le sue inevitabili conseguenze, l’apertura fatta verso di noi è stata davvero grande e davvero audace e impreveduta! ”. La mediazione italiana • Ebbe così inizio un tentativo di mediazione “italiana” per fermare la guerra in Vietnam, le cui premesse si radicano lontano nel tempo, nel momento del di- 150 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 stacco di La Pira e Fanfani, nel 1951, da Giuseppe Dossetti, con il quale aveva condiviso molte battaglie. Dossetti decise infatti allora di ritirarsi dalla lotta politica, giudicando irrealizzabili gli ideali che egli aveva cercato di seguire fino a quel momento, per i condizionamenti imposti dalla guerra fredda e per l’indisponibilità della Chiesa a sostenere il suo disegno. Secondo molte ricostruzioni, con il ritiro di Dossetti, si sarebbe esaurita la spinta ideale che aveva animato la Dc fino a quel momento e sarebbe iniziata per il partito una fase puramente pragmatica e di gestione del potere, grazie soprattutto al “tradimento” di Fanfani. Ma la permanenza di La Pira nella vita politica italiana dopo il ritiro di Dossetti indica che, tra i cattolici impegnati in politica, la spinta ideale non si esaurì con quel ritiro. La Pira, inoltre, ha parlato spesso della profonda amicizia che lo legava a Fanfani, indicando tra le tappe di ciò che egli chiamava un’“alleanza” nel senso biblico del termine proprio quanto avvenne nel 1951 e coinvolgendo nei suoi ricordi anche una terza importante figura, testimone e in qualche modo ispiratore del disegno storico e politico cui La Pira e Fanfani sono rimasti fedeli nei decenni successivi: Giovanni Battista Montini, allora Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, più tardi arcivescovo di Milano e infine papa con il nome di Paolo VI. Dall’incontro con Montini che avvenne il giorno dell’Epifania del 1951, scaturì, secondo La Pira un vasto disegno religioso, storico e politico che lo portò a scrivere una lettera a Stalin, a diventare sindaco di Firenze, ad organizzare i convegni sulla Pace e sulla civiltà, ad incontrare Chruscev e molto altro, fino al viaggio ad Hanoi del 1965. Il sindaco di Firenze è stato spesso accusato di ingenuità, di debolezza e o, addirittura, di complicità nei confronti dei comunisti, ma il suo disegno era chiaramente orientato in senso anticomunista. Le loro parole nei confronti dell’Occidente furono spesso severe, riguardo però soprattutto alle scelte compiute dagli occidentali sul modo di presentarsi al mondo, esaltando il mercato o la libertà individuale. La Pira, infatti, valorizzava l’Occidente sotto un profilo diverso e cioè come espressione della civiltà cristiana. Non era dunque l’Occidente in quanto tale che egli respingeva, ma un certo modo di interpretarne l’identità e le conseguenze che ne scaturivano nella politica internazionale, soprattutto in riferimento ai paesi emergenti dell’Asia e dell’Africa. Analogamente, La Pira criticava alcuni comportamenti americani nel mondo, contrapponendo però l’immagine positiva di un’altra America e alla richiesta non di abbandonare il “primato” americano bensì di interpretarlo in altro modo, svolgendo quella funzione di “pilotaggio” del mondo conforme alla missione che la storia assegnava agli Stati Uniti. Per La Pira, insomma, l’emergere di un inedito confronto culturale a livello planetario richiedeva all’Occidente di riproporre in modo radicalmente nuovo e convincente il suo ruolo di “guida”. Il suo era un “occidentalismo” che guardava il mondo non da Washington ma da Roma: egli non rifiutava un approccio occidentale ma lo subordinavano ad una superiore prospettiva universalistica e, alla luce di tale prospettiva, egli intuiva che prove di forza come la guerra in Vietnam erano profondamente controproducenti per conquistare alla causa occidentale il Terzo mondo. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 151 L’apertura di Hanoi • Una settimana dopo l’incontro di Hanoi, Fanfani – che si trovava a New York – venne informato della disponibilità vietnamita da un dettagliato resoconto di La Pira. Egli decise di agire subito nella vesta che egli rivestiva allora di Presidente dell’Assemblea delle Nazioni Unite ed incontrò l’ambasciatore americano all’ONU, Goldberg, attraverso cui inviò a Johnson una lettera con l’informazione della disponibilità nordvietnamita. Pochi giorni dopo, La Pira scriveva ad Ho Chi Minh: “Signor Presidente e caro amico, questa lettera vuole esprimerVi il ringraziamento profondo, cordiale per l’accoglienza – indimenticabile, piena di calore e di amicizia – che Primicerio ed io abbiamo ricevuto ad Hanoi da parte Vostra […] Noi vi portiamo, tutti voi, nel nostro cuore e noi preghiamo e agiamo ogni giorno – e possiamo dire a ciascuna ora del giorno – perché il temporale triste e doloroso che affligge ancora il popolo eroico del Vietnam possa finire e perché l’arcobaleno della pace possa apparire su tutta la Nazione vietnamita e, di conseguenza, sull’orizzonte di tutte le nazioni […] Noi siamo impegnati ad operare ai livelli più alti – spirituali, culturali, politici – del mondo; e noi abbiamo la sensazione che, malgrado le resistenze che si oppongono alla nostra azione, qualcosa sia in movimento, nelle sedi più alte e decisionali […] Grazie ancora, con tutto il mio cuore, e che la Vergine Maria ci aiuti”. Ma il Segretario di Stato americano, Dean Rusk lasciò passare diversi giorni prima di chiedere ufficialmente a Fanfani chiarimenti sulla proposta vietnamita, che il Presidente dell’Assemblea ONU si affrettò a comunicare ad Hanoi attraverso un canale riservato indicatogli da La Pira e di cui constatò immediatamente l’efficacia. Ma l’iniziativa di La Pira e di Fanfani fu inaspettatamente bruciata da un’improvvisa fuga di notizie e soprattutto dalle successive dichiarazioni ufficiali del Dipartimento di Stato, cui seguì la smentita di Hanoi della disponibilità attestata da La Pira (anche se la smentita non contraddiceva la testimonianza lapiriana). In sostanza, come scrisse parte della stampa americana, i falchi di Washington e quelli di Pechino si unirono per affondare l’iniziativa, mentre a Mosca si sperava invece in uno sviluppo positivo dell’iniziativa La Pira-Fanfani. Le reazioni in Italia In Italia, furono sollevati molti dubbi sull’iniziativa. Si disse che Ho Chi Minh non aveva manifestato alcuna autentica disponibilità nel suo incontro con La Pira e che quindi quest’ultimo si sarebbe inventato o avrebbe amplificato l’apertura nordvietnamita. Ma la disponibilità di Hanoi ad accontentarsi di una semplice dichiarazione americana di un ritiro delle truppe non fu attestata solo da La Pira: nello stesso periodo, i diplomatici occidentali ne ebbero notizia anche dai governi dell’Europa orientale. Fanfani, poi, fu accusato da una parte della stampa italiana di leggerezza per aver avallato un’iniziativa che gli americani non avrebbero mai 152 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 preso veramente sul serio e Malagodi definì la sua opera “ridicola per non dire grottesca”. Ma tali accuse sembrano smentite dall’attenzione dimostrata dagli americani, dalla loro richiesta di chiarimenti e persino dai tentativi di screditare la controparte, mettendone in luce le ambiguità, difendendosi contemporaneamente dalle accuse di una gestione affrettata della questione. A La Pira, inoltre, è stata attribuita la colpa della divulgazione della notizia, il che costituirebbe un’altra dimostrazione della sua ingenuità e della sua mancanza di serietà. Ma non è certo che la notizia sia stata rivelata – indirettamente – da La Pira e, in ogni caso, la complessa dinamica della vicebda mette in luce che l’amministrazione americana era infastidita dall’iniziativa e che contribuì ad una dettagliata diffusione di particolari sui contatti in corso, pur sapendo che ciò avrebbe provocato la reazione cinese e la conseguente smentita nordvietnamita. Insomma, anche se la fuga di notizie non fu provocata dal Dipartimento di Stato, il successivo comportamento del governo americano fu decisivo per “bruciare” l’iniziativa italiana: Washington non voleva aprire il dialogo con Hanoi. Il giorno dopo il fallimento dell’iniziativa, Paolo VI – costantemente informato da La Pira di tutta la vicenda – si affacciò a San Pietro per invocare la pace in Vietnam e il presidente Johnson dovette inviare in tutta fretta Goldberg a Roma per chiudere l’“incidente”. Com’è noto, la vicenda ebbe uno strascico tutto italiano. Il 20 dicembre 1965 La Pira concesse, in casa Fanfani, mentre questi era ancora a New York, un’intervista a Gianna Preda, giornalista de «Il Borghese». L’intervista mostrò un’immagine totalmente inattendibile di La Pira, secondo la quale il comunismo era già stato sconfitto, la Cina non rappresentava un serio pericolo, il governo americano non capiva che cosa stava succedendo nel mondo, Paolo VI era troppo esitante, Moro troppo debole, i socialisti poco convincenti e Pietro Ingrao degno di grande stima. In realtà, molte affermazioni attribuite a La Pira da Gianna Preda assumono un’altra luce se rapportate alla sua ampia visione storica e religiosa ed il motivo del suo filocomunismo, che ispira l’intervista, appare complessivamente infondato. Ma per «Il Borghese» il punto cruciale era soprattutto un altro e cioè l’ammirazione per De Gaulle cui La Pira avvicinava Fanfani, sempre nell’ottica del suo vasto disegno storico-religioso. Nel clima dell’epoca, l’accostamento divenne la dimostrazione che Fanfani sfruttava il suo ruolo di ministro degli Esteri per costruire una personale posizione di potere. L’intervista provocò le dimissioni di Fanfani. L’iniziativa italiana venne giudicata seria da «Le Monde». Oltre a fondarsi su informazioni attendibili, non assunse valenze antiamericane e si presentò come un modo per aiutare l’alleato in una situazione difficile. La Pira perseguì l’obiettivo della pace nella convinzione che la guerra del Vietnam, oltre che dolorosa per il popolo vietnamita, fosse anche pericolosa per il mondo intero e dannosa per gli stessi americani. La sua azione si svolse nella convinzione che l’Occidente dovesse sviluppare, valendosi della sua tradizione cristiana, un’iniziativa lungimirante ed efficace per conservare e sviluppare il suo ruolo nel mondo, estendendo la sua influenza anche nei paesi dell’Africa e dell’Asia e contrastando l’influenza comunista. Essa si Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 153 sviluppò, inoltre, nella consapevolezza che il sistema internazionale non poteva ignorare la presenza cinese e che la Cina doveva essere coinvolta per costruire un solido equilibrio di pace nel mondo. In questo senso, tale iniziativa si proiettava oltre il confronto bipolare, assumendo implicitamente quella prospettiva multipolare che la stessa diplomazia americana avrebbe esplicitamente assunto pochi anni più tardi. In questo modo, La Pira anticipò situazioni e problemi che oggi sono sotto gli occhi di tutti, come la complessa questione del rapporto fra l’Occidente e il resto del mondo, al di là del conflitto bipolare determinato dalla guerra fredda. 154 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Il “Corsivo” a cura di Giorgio Tupini C’è o non c’è? • Don Ferrante avrebbe un gran daffare. Armato dei suoi libri di manzoniana memoria, aveva sentenziato che tutto quel trambusto attorno alla peste era ridicolo perché la peste non c’era né poteva esserci, non essendo “né sostanza né accidente”. Ma di peste morì. Ora, bisognerebbe interpellarlo sulla questione morale tornata di nuovo alla ribalta in un temporale di agosto: c’è o non c’è? Rutelli, sfogliando la Margherita, dice di sì per la promiscuità tra politica e affari degli alleati. I Ds si offendono e respingono, Prodi come al solito media, il centrodestra monta a cavallo, ma Amato cala il sipario proclamando alla festa dell’Unità che si tratta di “una vergognosa invenzione”. D’accordo con Don Ferrante dice che non c’è. Porta male. Così, polverone dopo polverone, l’attenzione è distratta da problemi reali, tra i quali sta una questione morale più profonda di quella sollevata dalla scalata bancaria delle cooperative. Nel ritratto della politica di casa nostra qualche lineamento si è alterato. All’autocontrollo, alla riservatezza, insomma alla serietà di statisti come De Gasperi, Einaudi e altri fondatori della Repubblica si è sostituita la ricerca spasmodica della visibilità, della quotidiana “dichiarazione” facile e superflua, che consente la citazione altrettanto superflua dei media di pubblico e privato servizio. Sulle TV vanno in scena ormai le maschere e si intuisce, appena appaiono, quel che dirà Meneghino o Pantalone, Arlecchino o Gianduia, Pulcinella o Todaro Brontolòn. Ancora: gli atteggiamenti demagogici attraversano tutti gli schieramenti dimentichi che si governa anche con il “no” e non attenti a una certa reazione montante dei cittadini, che amerebbero più rispetto verso il proprio buon senso e il proprio portafogli (ricordiamo soltanto un capolavoro della demagogia domestica: la distruzione delle centrali elettriche nucleari, che fruttò voti ad alcuni e grosse perdite al Paese, che ora versa milioni di euro agli avveduti produttori francesi e svizzeri di energia nucleare!) Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 155 Ancora: se negli anni della ricostruzione democratica la politica era considerata da molti un servizio, ora si assiste ad un ingrossamento procace di emolumenti e appannaggi. Sembra che siano quasi duecentomila gli stipendi, a volte d’oro, che interessano i rappresentanti popolari, dai parlamentari europei e nazionali ai reggitori regionali, provinciali e comunali, senza dimenticare i finanziamenti ai partiti, ai giornali dei partiti, le auto blu, ecc. È inutile rispondere che “la politica ha i suoi costi” e trattare con fastidio chi avanza riserve. È un fatto che da noi i costi sono di gran lunga superiori a quelli europei e nordamericani, ingenerano la maliziosa interpretazione che certi decentramenti siano voluti anche per la relativa moltiplicazione dei pani e companatici e provocano insofferenze, disaffezioni, astensionismi, fughe verso gli estremismi contrapposti. Ora si promette di fare qualche ulteriore meritoria limatura con la finanziaria di Tremonti, ma come dimenticare che gli Stati Uniti, con una popolazione cinque volte superiore alla nostra, hanno una Camera con cento Senatori? Ma fermiamoci qui. Un corsivo non può essere troppo serioso. Non abbiamo scomodato infatti nessun alfiere della morale, né Aristotele né Tommaso, né Socrate né Agostino, né Kant né contemporanei come Mc Intyre o Willams o Scalfari (alla ricerca, con il suo Voltaire della “morale perduta”). Partiti dalla questione morale di agosto siamo arrivati pienamente a Esopo, dalla morale della favola che è il deterioramento della politica. Anche etico. Ruini e Porta Pia • Il rosso va bene se non è porpora. Sta diventando il tormentone di molti compagni di vecchio e nuovo conio. Si chiama “Ruini”, come dicono, tralasciando quel “cardinale”, che potrebbe complicare il dialogo con gli elettori cattolici. Il benedetto Cardinale, dopo aver lasciato il segno nei referendum sulla legge 40, ora potrebbe fare il bis con il Pacs promossi da Prodi, Ds, Verdi, Rifondatori comunisti, Arcigay e perfino da qualche compiacente esponente del centrodestra. Finimondo. Tutto il sommerso dell’anticlericarlismo ottocentesco si mobilita. Quelli votati al compito di intercettare il voto cattolico si sforzano di spiegare, interpretare, retrocedere, ma sono presi in contropiede dagli squadristi rossi di Siena, che vorrebbero tappare – democraticamente, si intende – la bocca al cardinale. Rutelli per la seconda volta prende in castagna gli alleati e ammonisce: “non è detto che una posizione che si dimostri prevalente nel centrosinistra sia effettivamente prevalente nel Paese, tanto più se il suo profilo, piuttosto che laico e pluralista, si manifesti fortemente come laicista”. Che strano, meglio di Scoppola, che fa la predica alla Chiesa invitandola, con Ruini, a essere più attenta ai “valori della pietà”. Giacché un corsivo è un corsivo – l’abbiamo già scritto sopra – e non può essere troppo serioso, non ci addentriamo oltre. Però due osservazioni vogliamo farle. La prima è che qualcuno deve ancora capire che vi sono valori morali, pre-politici, che molta gente ritiene più importanti delle polemichette elettorali in chiave 156 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 di vecchio fondamentalismo laicista. Perfino Antonio Gramsci osservava che il sentimento religioso cristiano-cattolico e il rapporto profondo con la Chiesa di Roma sono gli unici veri caratteri originali delle genti italiche. La seconda è che ai degasperiani non dell’ultim’ora irrita l’ipocrisia di chi, a destra o a sinistra, tira in ballo il vecchio Presidente a spoposito e per trarne indebito profitto. L’uomo che difese sempre la laicità dello Stato, che si oppose all’operazione Sturzo e a ogni invasione di campo, fu al tempo stesso difensore intransigente di tutte le libertà a cominciare da quella religiosa. Scriveva nel 1950: “Dio non abbandonerà l’Italia se resterà fedele alla sua missione di difendere la libertà della sua Chiesa e di difendere il patrimonio della sua civiltà”. Ma tant’è. Una volta le correnti risorgimentali venate di massoneria – da Mazzini a Garibaldi, da Crispi a Carducci – si pascevano della Questione Romana. Ora che la Questione è archiviata e Porta Pia è spalancata sulla Capitale, l’integralismo anticlericale cerca di ravvivarsi con il linguaggio di Podrecca. E così un radicale transnazionale, new entry dell’area centrosinistra, invita il Cardinale “a farsi una canna”. Meglio Peppone. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 157 Novità in libreria a cura di Valerio De Cesaris Mondo Mark Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Laterza, Roma-Bari 2005, 252 pp., € 18,00 Dopo la Storia e politica dell’Unione europea di Giuseppe Mammarella e Paolo Cacace, Laterza propone la Storia politica dell’integrazione europea di Mark Gilbert, che prende le mosse dal secondo dopoguerra. Si tratta di un’analisi operata da chi, formatosi in Inghilterra, non può non porre in rilievo il «rapporto spesso burrascoso della Gran Bretagna con i suoi partner europei». L’autore nota che «quasi tutta la storiografia dell’integrazione europea è scritta da esponenti del movimento europeo, cioè secondo la prospettiva di persone che attribuiscono un notevole valore etico-politico allo sviluppo delle istituzioni comunitarie». Gilbert, tentando un approccio più “imparziale”, sottolinea la compresenza di fattori morali e scelte pragmatiche nei vari passaggi della costruzione dell’Unione, in uno svolgimento dei fatti complesso e per certi versi imprevedibile. Al punto che «l’integrazione europea non è per nulla un processo lineare» o, come affermava Andrew Shonfield, è «un viaggio verso una destinazione sconosciuta». Mario Giro, Gli occhi di un bambino ebreo, Guerini, Milano 2005, 136 pp., € 12,50 «Al momento di fare fuoco, gli occhi di alcuni bambini ebrei si sono voltati verso di me e mi hanno fissato, con uno sguardo di purezza, d’innocenza. Sembrava non capissero. Improvvisamente, qualcosa nel più profondo del mio cuore, che non so ancora spiegarmi bene, mi ha fatto cambiare parere…». È Merzoug Hamel che parla, un terrorista islamico che racconta la sua storia, dal fondo di un carcere marocchino. È stato condannato a morte anche se non ha voluto uccidere. Il libro è significativo, è il racconto della vita di un giovane beur dell’emigrazione in Francia, in tutto simile a quelli che sono stati protagonisti delle cronache recenti. Merzoug incappa nelle reti della reislamizzazione dal basso e del terrorismo nei primi 158 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 anni Novanta. L’autore narra bene come “si crea un terrorista”: la parabola di un giovane sradicato che crede di ritrovare identità nel gruppo islamico fino a giungere con un mitra davanti alla sinagoga di Casablanca in Marocco. Si tratta degli attentati di metà anni ’90, i primi nel paese nordafricano che ne subirà in seguito altri, molto più micidiali, come quelli del 2003. La storia di Merzoug termina tuttavia in maniera inaspettata: all’ultimo istante egli si ravvede e decide di non uccidere. Il lavaggio del cervello che ha subito non ha cancellato del tutto la sua umanità. Non si è mai pentito di non aver sparato, anche se è chiuso in un carcere di massima sicurezza. La sua è una storia emblematica che lascia intravedere una luce di speranza nel nostro tempo dominato dalla paura del terrorismo. Howard Zinn, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano 2005, 510 pp., € 22,00 L’ormai classico studio di Zinn, edito per la prima volta nel 1980, è ora pubblicato anche in italiano. Lo storico americano, noto per le sue posizioni radicali e per il suo impegno pacifista, contesta le ricostruzioni “ufficiali” della storia statunitense, in cui viene sempre presentata una nazione compatta e convinta dei propri ideali. Zinn analizza invece le contraddizioni interne del paese, gli errori in politica estera, le forme di oppressione che ancora esistono nel più potente paese della terra. La sua è una storia dei “vinti”, delle minoranze. Vi è descritto il genocidio degli indios, la schiavitù, le discriminazioni razziali, la difficile emancipazione delle donne. Si può essere d’accordo o meno con la sua ricostruzione della storia americana, ma certamente essa ha il fascino di porre problemi a lungo rimossi e dalla storiografia e dalla coscienza nazionale. Il volume di Zinn restituisce la complessità di tanti fenomeni storici, nel paese che è forse il più plurale al mondo. Sébastien Fath, In God We Trust. Evangelici e fondamentalisti cristiani negli Stati Uniti, Lindau, Torino 2005, 272 pp., € 24,00 Il volume di Fath, storico francese esperto di questioni religiose statunitensi, è incentrato sul Sud degli Stati Uniti, la cosiddetta Bible Belt. L’intento dell’autore è di spiegare i tratti del messianismo americano, tante volte incompreso in Europa, ripercorrendone la storia. Ne emerge un’interessante interpretazione della «religione civile» americana, intrisa di riferimenti religiosi. Vi si legge anche la differenza tra Nord e Sud del paese, oggi attenuata rispetto al passato ma sempre considerevole. Le moltissime denominazioni cristiane degli Stati Uniti – quasi mille – hanno caratteri e orientamenti politici diversi tra loro, talvolta diametralmente opposti. La “democraticità” del sistema americano permette la sopravvivenza di ciascuna di esse e crea una sorta di competizione tra chiese, che rende il cristianesimo evangeli- Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 159 co molto dinamico. Le grandi questioni della storia americana, quali la schiavitù e la segregazione razziale, le guerre, persino le relazioni internazionali con altri Stati sono state sempre influenzate dal pensiero delle più grandi chiese americane, prima tra tutte la Southern Baptist Convention. Alberto Bobbio, Truccarsi a Sarajevo. Storia e storie di un assedio dimenticato, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2005, 118 pp., € 7,50 Il piccolo libro di Alberto Bobbio nasce dall’aver visto la guerra e dall’aver incontrato donne e uomini che della guerra sono stati vittime. Bobbio è stato a lungo inviato speciale di «Famiglia Cristiana» nei Balcani. Nei primi anni Novanta era a Sarajevo, dove ha vissuto i tragici momenti dell’assedio serbo alla città. L’opinione pubblica internazionale era allora concentrata su altri avvenimenti, primo tra tutti la guerra del Golfo. Eppure la dissoluzione della Jugoslavia segnava «la fine di un’epoca e anche di un mito, quello della “fratellanza e dell’unità”». Segnava, anche, il primo conflitto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Bobbio non ha scritto un libro di storia né un’interpretazione geopolitica degli avvenimenti, si è limitato a raccontare le storie di coloro che ha incontrato in Bosnia in quegli anni drammatici. «Chi dimentica un crimine ne diventa complice», diceva Voltaire. Il libro di Alberto Bobbio è importante perché aiuta a non dimenticare. Storia del cristianesimo Roberto Morozzo della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori, Milano 2005, 440 pp., € 20,00 La vicenda di Oscar Arnulfo Romero, vescovo martire, assassinato sull’altare il 24 marzo 1980, è densa di significato per la Chiesa del nostro tempo. La sua figura «resta controversa e carica di opposti significati: profeta e sovversivo, martire e rivoluzionario, uomo della Chiesa e uomo della politica, pastore d’anime e caudillo, fautore del dialogo e agitatore della piazza». A distanza di venticinque anni dalla sua morte, El Salvador celebra Romero con larghi onori. La Chiesa ha avviato un processo di beatificazione e la vox populi lo descrive già come un martire. Nel suo bel libro Morozzo della Rocca restituisce la complessità di un uomo profondamente radicato nella Chiesa cattolica, che matura un percorso di vicinanza ai poveri e di difesa dei deboli. Le sue posizioni divennero presto invise alle oligarchie salvadoregne, che controllavano il paese attraverso i militari. Agli insulti e alle minacce seguirono i fatti: il pomeriggio del 24 marzo 1980, mentre l’arcivescovo di San Salvador celebrava la messa, si udì uno sparo proveniente da uno degli accessi della chiesa. «Erano passati pochissimi secondi dalla fine dell’o- 160 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 melia. Romero cadde a fianco dell’altare». Morì poco dopo l’arrivo in ospedale, all’età di 62 anni. Nella storia della Chiesa, quella di Oscar Romero è una delle vicende più note di quel Novecento che Andrea Riccardi ha efficacemente definito «il secolo del martirio». Agostino Giovagnoli (a cura di), La Chiesa e le culture. Missioni cattoliche e «scontro di civiltà», Guerini, Milano 2005, 256 pp., € 20,50 La Chiesa, nella sua lunga storia, si è trovata a contatto con culture diverse, le ha valorizzate, ha vissuto con continuità lo «slancio universalistico» che la caratterizza. Il volume affronta dal punto di vista storico il decisivo nodo del rapporto con l’«altro», in un tempo in cui l’incontro tra culture diverse sembra, per molti, condurre inevitabilmente allo «scontro di civiltà». Dall’America Latina ai Balcani, dal Senegal e dall’Algeria alla Cina, la Chiesa è entrata in contatto e in dialogo con culture complesse pur mantenendo salda la propria identità. Dalla vecchia prospettiva dell’«adattamento» alle culture si è passati nel corso del Novecento all’idea dell’«inculturazione», nel tentativo di rendere accessibile a tutti la vita cristiana. La tentazione di “piegare” la Chiesa alle esigenze di una determinata civiltà, quella occidentale, è oggi pressante, ma la Chiesa non intende identificarsi esclusivamente con una cultura, né mostrarsi «relativisticamente indifferente verso tutte le culture». Andrea Tornielli, Matteo L. Napolitano, Pacelli, Roncalli e i battesimi della Shoah, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2005, 192 pp., € 11,50 Le questioni che riguardano l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla deportazione e allo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale continuano a suscitare un interesse vasto, per le profonde ferite lasciate da quegli anni e per la passione che anima il lavoro degli studiosi su questi temi. Il 28 dicembre 2004 Alberto Melloni sul «Corriere della Sera» ha pubblicato un documento che «è piombato come un macigno sul dibattito storiografico relativo a papa Pacelli». Vi si leggeva – secondo l’interpretazione di Melloni – l’intenzione di Pio XII di non restituire alle famiglie i bambini ebrei che erano stati ospitati durante la guerra negli istituti religiosi in Francia, e che erano stati battezzati. La questione ha suscitato un intenso confronto giornalistico, particolarmente sulle pagine del «Corriere della Sera» e di «Avvenire», e ha coinvolto numerosi storici ed editorialisti. Tornielli e Napolitano hanno approfondito la vicenda, giungendo a conclusioni diverse da quelle di Melloni: «Non ci sono stati battesimi di massa e gli ebrei salvati dalla Chiesa non sono stati costretti ad abbracciare la fede cattolica». Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 161 Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, 406 pp., € 35,00 Il volume di mons. Marchetto nasce come “contrappunto”, in opposizione all’interpretazione che del concilio ha dato l’Istituto per le scienze religiose di Bologna guidato da Giuseppe Alberigo. La monumentale Storia del concilio Vaticano II diretta da Alberigo e pubblicata in sei lingue dà – secondo Marchetto – un’idea distorta del Vaticano II, presentato come una cesura netta rispetto al passato e soprattutto come “spirito” nuovo, al di là del carattere più o meno di novità dei suoi documenti. Per gli storici dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna lo “spirito” del concilio, più importante dei testi prodotti, sarebbe incarnato da Giovanni XXIII, mentre Paolo VI avrebbe in qualche modo soffocato tale spirito negli anni seguenti. Questa interpretazione viene bollata come ideologica, così come quella per cui al concilio si ebbe uno scontro tra «Curia conservatrice» e «teologi progressisti». Per Marchetto il concilio non segna affatto «il nascere di una nuova Chiesa», ma si situa pienamente in continuità con i concili precedenti. Giuseppe Alberigo, Breve storia del concilio Vaticano II, il Mulino, Bologna 2005, 202 pp., € 10,50 Alberigo offre una sintesi del Vaticano II a partire dalle proprie esperienze personali, essendo egli stato testimone diretto dei lavori conciliari. L’idea di una “breve storia”, dopo i cinque volumi – e le quasi tremila pagine – della Storia del concilio Vaticano II, nasce dall’esigenza di produrre un’opera divulgativa, che non sia per soli specialisti. Il punto di vista di Alberigo è molto diverso da quello di Agostino Marchetto. Il cuore della sua interpretazione è il concilio stesso come evento: «La carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con la storia, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini hanno caratterizzato il Vaticano II. Pertanto appare più forte la priorità del fatto “concilio”, in quanto evento che ha raccolto un’assemblea deliberante di oltre duemila vescovi, anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratte e fredde norme, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso». Inoltre, egli insiste molto sul ruolo avuto al concilio da Giuseppe Dossetti. Le due diverse “letture” del Vaticano II – quella di Marchetto e quella di Alberigo – sono entrambe interessanti per chi voglia approfondire la storia del concilio. Simona Merlo, All’ombra delle cupole d’oro. La Chiesa di Kiev da Nicola II a Stalin (1905-1939), Guerini, Milano 2005, 444 pp., € 29,50 Il libro affronta una storia locale, quella della Chiesa di Kiev nel primo Novecento, ed è al tempo stesso una finestra sull’ortodossia slava. È la vicenda di una 162 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Chiesa che vive anni di risveglio dopo la rivoluzione del 1905 e che tenta un rinnovamento istituzionale, reso impossibile dalla successiva rivoluzione del 1917. Il cristianesimo subisce un processo di «estraniazione dal tessuto sociale» del paese, fino agli anni drammatici del «grande terrore» staliniano. Kiev in quegli anni è una città «russo-ucraina», secondo la definizione di Zen’kovskij, e le sorti della grande Russia sono inevitabilmente anche quelle della “piccola” Ucraina. Per l’ortodossia keviana, come per quella russa, si apre un periodo «di libertà e servitù insieme, di sofferenze e di speranze, infine di persecuzione e martirio». Simona Merlo utilizza una copiosa documentazione in ucraino e in russo e offre, con il suo libro, una ricostruzione importante per comprendere la storia delle Chiese ortodosse nei primi decenni del XX secolo. Antisemitismo Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo. Vol. 1: La crisi dell’Europa: le origini e il contesto, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, UTET, Torino 2005, XVII-1188 pp., € 45,00 La Shoah, un unicum nella storia mondiale, non smette di coinvolgere gli storici in dibattiti e interpretazioni. L’iniziativa di pubblicare una imponente Storia della Shoah, che raccolga gli interventi di oltre cinquanta tra i maggiori studiosi sull’argomento, è senza dubbio meritevole. Si tratta di un’opera che intende fare il punto sulla storiografia relativa all’Olocausto, collegando gli avvenimenti della seconda guerra mondiale ad una più generale crisi dell’Europa iniziata nell’Ottocento. Il primo volume affronta appunto la «crisi dell’Europa», dando risalto al contesto generale in cui si affermò l’antisemitismo nazista, alle premesse ideologiche di esso, agli antecedenti storici dell’antisemitismo. Il secondo volume si occuperà degli anni della distruzione degli ebrei; il terzo di «riflessioni, luoghi della memoria, risoluzioni»; il quarto di «eredità, rappresentazioni, identità»; il quinto volume sarà infine una raccolta di documenti. Tre DVD video (1. Il processo di Norimberga; 2. Il processo Eichmann; 3. Il Tribunale dei Giusti) e un CD-rom ipertestuale completeranno l’opera. Milena Santerini, Antisemitismo senza memoria. Insegnare la Shoah nelle società multiculturali, Carocci, Roma 2005, 220 pp., € 18,60 L’ostilità antiebraica è uno dei fenomeni di più lunga durata negli ultimi duemila anni, seppure in forme molto diverse tra loro. Innestandosi sul tradizionale antigiudaismo religioso, diffuso principalmente nell’Europa cristiana, l’antisemitismo moderno si è affermato nel XIX secolo con caratteri politici e razziali, fino alla Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 163 tragedia della Shoah. A seguito della costituzione dello Stato d’Israele i temi dell’antisemitismo europeo si sono diffusi nel mondo islamico, alimentando una contrapposizione violenta. Milena Santerini mette in guardia contro il pericolo di un “nuovo” antisemitismo nell’èra della globalizzazione, che recupera gli antichi stereotipi contro gli ebrei ma che si esprime in forme nuove e viene veicolato da più capillari e informali mezzi di comunicazione, come internet. L’autrice, docente di pedagogia, si interroga su come portare avanti un efficace progetto educativo che realizzi – a partire dalle scuole – «un confronto interculturale aperto e pluralistico che aiuti a superare gli stereotipi e l’intolleranza». Un libro rivolto in particolare a insegnanti ed educatori, ma che offre una riflessione estremamente interessante per tutti. Giorgio Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005, 510 pp., € 25,00 Giorgio Fabre dà un’interpretazione della parabola umana di Mussolini, dal socialismo alla presa del potere fino alla politica razziale, inedita nella storiografia italiana. In genere infatti Mussolini è presentato come un «razzista riluttante», che avrebbe deciso di promulgare le leggi razziali solo in virtù dell’avvicinamento alla Germania nazista. Il libro di Fabre, che ha suscitato le critiche degli storici defeliciani, sostiene che «anche prima del 1938 l’azione razzista e antisemita di Mussolini fu ampia e talvolta violenta, anche se per lo più segreta». A supporto delle proprie tesi Fabre porta molti documenti, alcuni molto interessanti. Il primo di essi è una lettera del 1929 indirizzata da Mussolini a Bonaldo Stringher, governatore della Banca d’Italia, in cui si chiedeva che Ugo Del Vecchio, Direttore della filiale di Genova della Banca d’Italia, fosse sollevato dal suo incarico. In tale lettera si sottolineava che Del Vecchio era «israelita». Dai documenti citati da Fabre risulta che Mussolini cambiò atteggiamento solo quando seppe dal prefetto di Genova che l’ultimogenito di Del Vecchio era stato battezzato. Questa e altre vicende documentate nel libro dimostrano che la tesi di Giorgio Fabre merita di essere presa in considerazione. Michele Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2005, 170 pp., € 8,50 Il libro è una sintesi della vicenda della Shoah e ha il pregio di essere fruibile per un pubblico vasto. È infatti destinato innanzitutto al mondo della scuola. L’autore si è a lungo occupato della storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, seguendo piste di ricerca che sono state battute da molti storici e che hanno prodotto un numero considerevole di pubblicazioni, soprattutto negli ultimi anni. Sarfatti si discosta dalle classiche interpretazioni di Renzo De Felice soprattutto per quel che ri- 164 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 guarda l’atteggiamento della Repubblica sociale italiana verso gli ebrei. Per De Felice infatti la costruzione di campi di concentramento in territorio italiano, a partire dal 1943, mostrerebbe l’intenzione dei fascisti di evitare la deportazione degli ebrei in Germania. Per Sarfatti, al contrario, il governo fascista-repubblicano collaborò con i nazisti per l’arresto e la deportazione degli ebrei. Amedeo Osti Guerrazzi, Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper, Roma 2005, 224 pp., € 15,00 Il mito degli “italiani brava gente” ha significato, in relazione alla deportazione e allo sterminio degli ebrei, la creazione di una coscienza assolutoria: le responsabilità della Shoah ricadrebbero unicamente sui tedeschi. Osti Guerrazzi ha studiato i processi ai collaborazionisti e ai delatori e racconta, con il suo Caino a Roma, una storia diversa: molti italiani ebbero un ruolo decisivo nella cattura di ebrei romani, poi consegnati ai nazisti perché fossero deportati e uccisi. In particolare, l’autore descrive le attività di alcuni gruppi, come la banda di Palazzo Braschi e la banda Koch, che fecero della persecuzione degli ebrei il perno della loro attività. Alcuni italiani denunciarono gli ebrei per motivi ideologici, ovvero per antisemitismo, altri, la maggior parte, semplicemente per appropriarsi dei loro beni. Molti ebrei persero la vita perché il progetto nazista di sterminio trovò, anche a Roma, non pochi complici. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 165 Fuori scaffale a cura di Amos Ciabattoni Achille Albonetti, L’Italia, la Politica Estera e l’Unità dell’Europa, Edizioni Lavoro, Roma 2005, 216 pp., € 12,50. L’Italia, la Politica Estera e l’Unità dell’Europa sono l’oggetto di un’accorata riflessione di Achille Albonetti apparsa assai di recente nelle nostre librerie. Essa assume un particolare significato e valore perché l’autore è uno di quegli “artigiani”, così come assai efficacemente li definisce Sergio Romano nella sua prefazione, che hanno partecipato ai primi lavori del “cantiere” dell’integrazione europea pur senza essere, nella stragrande maggioranza dei casi, uomini politici o di governo. Erano tecnocrati, grand commis, consiglieri e intellettuali ispirati tutti dalla visione dell’ Europa Unita e del superamento delle rivalità nazionali che tanto sangue erano costate fino a quel momento ai paesi europei. Con l’autorevolezza della sua appartenenza a questa nobile corporazione ideale l’autore illustra quella che gli appare come una grave crisi della politica non solo europeista, ma anche europea dell’Italia. Prima di affrontare le sfide del XXI secolo opera un’assai efficace “amarcord” sul cammino dell’Italia verso la democrazia e sui valori fondamentali che dovranno a suo avviso continuare ad ispirarne la politica: democrazia e mercato all’ interno e Europa e vincolo atlantico all’esterno. Valori di cui denuncia con veemenza le sofferenze, da cui sono afflitti nel nostro sistema politico, ed in particolare l’incapacità della nostra democrazia parlamentare e rappresentativa di realizzare il principio su cui pur dovrebbe fondarsi, “la meritocrazia o l’elezione dei migliori”. Un limite questo che si aggiunge all’altro insoluto problema della copertura dei costi della politica, con il rischio conseguente che le “democrazie [diventino] delle plutocrazie e oligarchie”. Questo anche per il cattivo funzionamento interno degli apparati politici quali i partiti, come anche i sindacati, i vari organi collegiali, operanti negli enti pubblici, etc. Valori di cui invoca comunque la tutela nonché l’ulteriore affermazione e sviluppo quale condizione irrinunciabile, per il raggiungimento dell’ unità politica e di difesa dell’Europa, traguardo vitale perché i paesi europei possano conservare i propri attributi di piena sovranità della nuova realtà internazionale. 166 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 In questa prospettiva vengono ribaditi i tre cardini della politica estera italiana: l’associazione con gli Stati Uniti nell’Alleanza Atlantica, l’unità europea e l’economia di mercato quale fondamento di ogni ulteriore progresso verso quell’unità così insistentemente e faticosamente perseguita. Un’unità che per rimanere vitale dovrà estendersi dalla dimensione economica a quella politica e militare anche per il valore strategico della risorsa: energia, essenziale sia ai fini della produzione che a quelli della sicurezza. Assai efficacemente Albonetti la definisce “strumento di progresso e anche di offesa e difesa”. Ma proprio l’importanza, che questa risorsa ha ormai prepotentemente assunto, pone l’esigenza di poter disporre di tutte le sue possibili fonti. Evoca il problema del nucleare di cui l’Europa Unita non potrà fare almeno non solo nelle sue utilizzazioni pacifiche, ma anche in quelle militari. Tanto più che anche nel Trattato di non proliferazione nucleare, proprio su iniziativa dell’ Italia (un’iniziativa aggiungiamo noi propiziata anche dall’ “artigiano” Albonetti) venne inserita la clausola europea, che prevedeva espressamente che la firma del TNP da parte dei paesi europei “non nucleari” non avrebbe costituito ostacolo alla disponibilità dell’arma nucleare da parte della futura Europa Unita. Un’Europa destinata ad evolvere in un polo continentale convenzionale, nucleare e spaziale, partendo dalla ”integrazione dei deterrenti nucleari di Francia e Gran Bretagna” e volta a porsi come fattore di stabilità e di progresso nel sistema internazionale e ad ovviare con il suo stesso esistere a quella “solitudine” degli Stati Uniti, quale unica superpotenza, fonte a sua volta del tanto discusso unilateralismo americano di questi giorni. Nell’operare questa acuta riflessione l’autore evoca con grande efficacia le lezioni dei due scomparsi maestri della nostra diplomazia, gli ambasciatori Roberto Gaja e Roberto Ducci, i quali assai acutamente avevano osservato come nessun apparato militare potesse ormai assumere un carattere realmente strategico, cioè porsi come competitivo a livello globale se non munito di capacità non solo nucleare, ma anche spaziale. Ducci era anzi arrivato a sostenere che gli Europei se non avessero raggiunto la capacità nucleare avrebbero avuto come unica alternativa quella di aspirare ad un nuovo editto di Caracalla, l’imperatore romano che estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Il raggiungimento di questo obiettivo è dunque essenziale per l’Europa e in particolare per l’Italia, che non deve smarrire il suo ruolo di promotore delle iniziative di spinta e progresso sul cammino dell’integrazione evitando di trovarsi esclusa de quelle consultazioni ristrette e da quelle iniziative diplomatiche promosse dai maggiori partners europei, quali i recenti incontri anglo franco tedeschi di questi ultimi mesi o il negoziato anch’esso tripartito sul nucleare iraniano. Il modo più efficace di contrastare la formazione di direttori europei come anche la nostra eventuale esclusione da essi è quello di essere sempre partecipi dei momenti di incontro e approfondimento come anche delle iniziative politiche e diplomatiche europee. Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 167 L’iniziativa più efficace e desiderabile sarebbe per l’autore quella che dovrebbero assumere i paesi fondatori ai fini di un rilancio del processo di integrazione mediante l’avvio fra di loro di una solidarietà di fatto sostanziata di impegni politici e di difesa più stretti, consistente in definitiva in un nuovo ricorso alla già sperimentata via funzionale all’integrazione. Una solidarietà aperta ad ulteriori adesioni, ma difficilmente estensibile a tutti i venticinque membri dell’Unione Europea, che in tale dimensione “rischia di trasformarsi in una zona di libero scambio, con rilevante significato economico, ma con insufficiente valore politico.” Questa critica serrata e disincantata di un europeista autentico partecipe della fase “eroica” della costruzione europea si pone come un monito assai utile per coloro che si cimentano oggi nel complesso “esercizio” della costruzione europea in un mondo in cui l’interesse nazionale è riproposto ad ogni piè sospinto come fondamentale criterio di azione politica in stridente contrasto con l’ispirazione dei padri fondatori delle prime comunità europee, la CECA, la CEE e l’EURATOM, tesi invece al superamento dell’interesse immediato dei loro rispettivi paesi nel rispetto del superiore interesse comune di tutti gli europei nel loro insieme. Antongiulio De’ Robertis 168 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Nomi citati Abramo, 16 Abu Mazen, 140 Agostino, 156 Alberigo G., 162 Albonetti A., 166, 167 Amato G., 155 Ambrosanio M.F., 21 Amina, 144 Andreatta B., 18 Aristotele, 156 Balibar E., 146 Bardi, 36 Barucci P., 8 Bazoli G., 19 Benedetto XVI, 131-133 Berlusconi S., 130, 134 Bertinotti F., 133 Bertozzi G.C., 44 Bin Laden O., 128, 144 Bixio A., 8 Bobbio A., 160 Bonino E., 133 Boselli E., 16, 130, 133, 134 Bouteflika, 141 Bresso M., 133 Buttiglione R., 132 Cacace P., 158 Caffè F., 101 Canterini M., Cantoni G., 8, 9 Carducci G., 157 Carli G., 36 Carrère d’Encausse, 138 Caselli F., 87, 89 Casini P.F., 130, 132, 134 Cattaruzza M., 163 Cesa, 134 Chirac J., 136, 137 Ciampi C.A., 130, 132 Cipolletta I., 8 Cirielli, 134 Colombo C., 15 Corbetta G., 86, 87 Crispi F., 157 Cristofolini P., 147 Cuculo F., 145 De Felice R., 164, 165 De Gasperi A., 16, 17, 128, 155 De Gaulle C., 153 De Mita C., 18 De Rosa G., 17 de Villepin D., 137 Del Vecchio U., 164 Deleuze G., 148 Dossetti G., 17, 151, 162 Ducci R., 167 Edoardo III, 36 Einaudi L., 36, 155 Emanuele E., 8, 121, Esopo, 156 Fabius L., 137, 138 Fabre G., 164 Fanfani A., 17, 151-153 Fassino P., 132 Fath S., 159 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 169 Ferrara F., 43 Filkienkraut, 138 Fini G., 131, 134 Fisichella D., 135 Flores M., 163 Follini M., 130, 132, 134 Forlani A., 18 Franco D., 39 Friedman M., 101 Gaja R., 167 Galbraith J.K., 101 Garang J., 143 Garibaldi G., 157 Gennaioli N., 87 Giarda P., 8, 9 Gilbert M., 158 Giovagnoli A., 161 Giovanni Paolo II, 83, 132 Giovanni XXIII, 162 Giro M., 158 Goldberg, 152, 153 Gramsci A., 157 Guarino G., 40, 43, 45, 61 Gui L., 17 Hamel M., 158 Hamilton A., 35 Hardt M., 147 Hariri R., 140 Hariri S., 140 Ho Chi Minh, 150, 152 Hobsbawm, 111, 112 Huntington, 47 Ingrao P., 153 Jaquet C., 147, 148 Jay, 35 Johnson L.B., 152, 153 Kant I., 156 Keynes, 123 La Pira G., 18, 150-154 Langrand-Dumonceau, 43 Leone XIII, 15 Levis Sullam S., 163 Lombardini S., 18 170 Madison, 35 Malagodi L., 18, 153 Mammarella G., 158 Marchetto A., 162 Marseguerra G., 8, 88, 91, Marx C., 16 Mastella C., 132 Mazzini G., 157 Mazzotta R., 18 Mc Intyre, 156 Meda F., 16, 128 Melloni A., 161 Merkel A., 136 Merlo S., 162, 163 Mill J.S., 96, 123 Mitterrand F., 134, 137 Mohammed VI, 141 Monticone A., 131 Montini G.B., 151 Moro A., 18, 153 Morozzo della Rocca R., 160 Murri R., 16 Mussolini B., 17, 164 Nancy J.L., 148 Napolitano M.L., 161 Negri A., 147 Negri T., 148 O’Connor J., 101, 102 Olivelli T., 17 Osti Guerrazzi A., 165 Pacelli E., 161 Panebianco A., 128 Pannella M., 133, 134 Paolo VI, 151, 153, 162 Parravicini G., 43 Pellizzari A., 17 Peres S., 140 Peretz A., 140 Peruzzi, 36 Piccoli F., 18 Pio XII, 161 Preda G., 153 Prestigiacomo S., 133, 134 Prodi R., 18, 130, 131, 132, 134, 138, 155, 156, Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Quadrio Curzio A., 94 Raffarin, 137, Riccardi A., 161 Ricci M., 114 Romano S., 166 Romero O.A., 160, 161 Ruini C., 131, 132, 156 Rusk D., 152 Rutelli F., 132, 156 Safiya, 144 Salvi C., 13 Sangiorgi G., 8 Saraceno P., 18 Sarcinelli M., 9 Sarfatti M., 164, 165 Sarkozy N., 136-138 Scalari E., 156 Scalfaro O.L., 135 Schumpeter, 49 Scialoja, 43 Scola A., 126 Sella, 43 Sharon A., 140 Shonfield A., 158 Siniscalco D., 130 Smith A., 49, 99, 100, 109 Socrate, 156 Sodano A., 134 Stalin Y., 151, 162 Storace F., 133, 134 Stringher B., 164 Sturzo L., 16, 128, 157 Tabacci B., 8 Taradash M., 134 Taviani P.E., 17 Tommaso d’Aquino, 156 Toniolo G., 15, 16, 19 Tornielli A., 161 Traverso E., 163 Tremonti G., 48, 130, 156 Vanoni E., 18 Villone M., 13 Voltaire, 156, 160 Waigel T., 53 Willams, 156 Zen’kovskij, 163 Zinn H., 159 Zurzolo A., 8 Civitas / Anno II - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 171 NUMERI PRECEDENTI ANNO I - N. 1/2004 EUROPA SENZA CONFINI Gabriele De Rosa - Achille Silvestrini - Franco Nobili - Luigi Giraldi - Giorgio Tupini Jean Dominique Durand - Roberto Morozzo della Rocca - Gorgio Bosco - Agostino Giovagnoli - Paola Pizzo - Marisa Ferrari Occhionero - Simona Andrini - Stefano Trinchese ANNO II N. 1/2005 LA DEMOCRAZIA MALATA Agostino Giovagnoli - Rudolf Lill - Jean Marie Mayeur - Pietro Scoppola - Carlo Mongardini - Savino Pezzotta - Andrea Bonaccorsi - Paolo Musso - Carlo Giunipero - Marco Impagliazzo - Ruggero Orfei - Giuseppe Merisi - Giovanni Pitruzzella - Leopoldo Elia Nicola Mancino N. 2/2005 LA LUNGA STAGIONE DELLA LIBERAZIONE Giulio Andreotti - Franco Nobili - Alfredo Canavero - Raoul Pupo - Corrado Belci Agostino Giovagnoli RELIGIONI, MULTICULTURALISMO, LAICITÀ Milena Santerini - Renè Remond - Paolo Branca - Vincenzo Cesareo - Carlo Cardia Richieste e informazioni a: Fax. 06.45471753 E-mail: [email protected] Finito di stampare nel mese di dicembre 2005 dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) Novità pp. 348 pp. 160 € 20,00 € 14,00 Rubbettino pp. 100 pp. 96 Tel. 0968/6664208 - 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